I Consigli del Lunedì #44: The Forever War

The Forever WarAutore: Joe Haldeman
Titolo italiano: Guerra eterna
Genere: Science Fiction / Military SF / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1975
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 260 ca.

Difficoltà in inglese: **

La vita di William Mandella, e di altri novantanove giovani come lui, cambia per sempre il giorno in cui una navicella spaziale, mandata a colonizzare un pianeta lontano, viene abbattuta da un vascello di origine aliena. Nulla di sa di chi siano i colpevoli o perché l’hanno fatto – si sa soltanto che bisogna distruggerli senza pietà, prima che siano loro a fare lo stesso. L’organo militare dell’UNEF prende il controllo del programma di colonizzazione, e i cento giovani più brillanti del pianeta sono costretti ad arruolarsi per istituire un corpo di combattenti spaziali d’élite. La Terra è appena entrata in guerra.
Mandella, dottorando in fisica poco più che ventenne, ha vinto un biglietto di sola andata per Charon, pianetucolo ai margini del Sistema Solare, dove sarà addestrato per diventare una macchina da guerra e imparare a pilotare la sua tuta spaziale. Questa è solo la prima tappa di un viaggio che lo porterà verso regioni sconosciute della galassia, a combattere contro un nemico incomprensibile. Il suo obiettivo? Riuscire a sopravvivere per tutti e quattro anni di leva forzata, e tornare a casa intero. Non sa ancora quello che lo aspetta – la guerra eterna è appena cominciata.

Cosa succederebbe se l’umanità scoprisse il sistema per il viaggio interstellare, ma il suo sogno di colonizzazione della galassia venisse istantaneamente spezzato da un nemico incomprensibile e intenzionato a distruggerci? Questa è la premessa da cui parte Joe Haldeman nel suo romanzo d’esordio nella fantascienza. The Forever War è un’opera estremamente ambiziosa, che vuole coniugare una speculazione su come realisticamente si potrebbe combattere una guerra interstellare, con il racconto delle dinamiche della vita sotto le armi.
The Forever War, che nel mondo anglosassone è diventato un classico (tanto che la Gollancz lo scelse per inaugurare gli SF Masterworks) si inserisce nella scia della seria fantascienza militare inaugurata da Starship Troopers. Il romanzo di Haldeman si articola in tre parti – “Soldato Mandella”, “Tenente Mandella”, “Maggiore Mandella” – che raccontano altrettante tappe nella carriera militare del suo riluttante protagonista, e altrettante fasi della guerra. Ma l’approccio di Haldeman è antitetico a quello di Heinlein; e invece che mostrarci un’utopia militaristica dai solidi principi morali, ci getta in un’atmosfera cinica e amara, e nei panni di un uomo che questa guerra proprio non la vuole fare. Vale la pena, quindi, dopo il Consiglio dedicato questa primavera ad Heinlein, ascoltare anche la campana di The Forever War.

Un brano per restare in tema: l’Overture dalla colonna sonora “non ufficiale” del film Silent Running ad opera dei 65daysofstatic.

Uno sguardo approfondito
Con The Forever War, Haldeman si è scelto un soggetto parecchio difficile. Fin dall’inizio si trova a dover spiegare al lettore un sacco di cose: a che punto è arrivata la tecnologia spaziale umana, come funziona il viaggio interstellare, come è stata impostata la guerra ai Taurani (come è stato ribattezzato il nemico), gli effetti della relatività a velocità vicine a quella della luce. Bisogna però ammettere che Haldeman sceglie uno dei modi peggiori per riempire questo vuoto di spiegazioni: col raccontato, i riassuntoni, gli infodump.
The Forever War è scritto in prima persona dal punto di vista di William Mandella, e il suo timbro rende quantomeno più plausibile (e accettabile) il fatto che l’autore spenda tanto tempo, fin dalle prime pagine, nello spiegarci il suo worldbuilding. Pur non essendo un narratore istrionico come le prime persone dei romanzi di Heinlein o di Mellick, Mandella fa il suo dovere: è un tipo cinico e sarcastico, che odia cordialmente l’esercito e tutto ciò che gli è ordinato di fare, e la sua voce è riconoscibile per tutto il romanzo. “There really wasn’t any sense in having us train in the cold. Typical army half-logic”, ci racconta il narratore all’inizio del secondo capitolo.

La voce di Mandella, però, non allevia la pesantezza del raccontato e dell’approccio di Haldeman alle spiegazioni. Poco dopo, sempre nel secondo capitolo, ecco come esordisce la spiegazione sui collapsar jump, il principio fisico che permette i viaggi interstellari:

Twelve years before, when I was ten years old, they had discovered the collapsar jump. Just fling an object at a collapsar with sufficient speed, and out it pops in some other part of the galaxy. It didn’t take long to figure out the formula that predicted where it would come out: it travels along the same “line” (actually an Einsteinian geodesic) it would have followed if the collapsar hadn’t been in the way – until it reaches another collapsar field, whereupon it reappears, repelled with the same speed at which it approached the original collapsar. Travel time between the two collapsars – exactly zero.

Se un infodump di queste dimensioni è digeribile, e tutto sommato “informa” il lettore in modo abbastanza efficiente, il dilatarsi di questo stile narrativo per la maggior parte del romanzo trasforma spesso la lettura in un pantano. Il raccontato in Haldeman si affaccia infatti non solo nei flashback o nelle digressioni di background, ma anche in molte scene nel presente narrativo – come le descrizioni dei tempi morti durante i viaggi interstellari da una destinazione all’altra – o anche in vere e proprie scene d’azione – come le descrizioni di alcune fasi di una battaglia campale. Questo non può che creare un filtro tra il lettore e la storia, rendendolo meno coinvolto nel destino dei personaggi. Nonostante la mole di idee affascinanti, a livello emotivo capita spesso di sentirsi poco presi da quel che succede.
E il problema si estende anche alla caratterizzazione dei personaggi. Aldilà del protagonista, tutte le altre persone che incontriamo nel corso del romanzo sono poco più che nomi volanti con qualche tratto caratteristico appiccicato addosso – il soldato Rogers, il sergente di ferro Cortez, il gelido capitano Stott, e più avanti il luogotenente Charlie o l’autoritaria Hilleboe; la stessa Marygay, di cui il protagonista si innamora. Si fa fatica ad affezionarsi a loro o anche solo a dare loro una fisionomia, per cui il fatto che poi nelle battaglie muoiano a decine e centinaia ci lascia sempre abbastanza indifferenti.

Kerbal Space Program Personaggi

La vera identità dei Taurani?

La distanza tra noi e la storia è anche una conseguenza della natura episodica del romanzo. Nel solco di Starship Troopers, anche The Forever War ci racconta le tante tappe nella vita di soldato di Mandella, così da costituire tante piccole storie separate: il campo d’addestramento nel Missouri, poi l’addestramento all’uso della tuta spaziale sul pianeta Charon, la costruzione della base a Stargate – il punto di partenza di tutte le campagne terrestri – e poi le varie battaglie, e i lunghi mesi di viaggio da un punto all’altro.
Ogni episodio permette a Haldeman di toccare questo o quell’argomento, dalla spiegazione del funzionamento delle camere di accelerazione ai modi per mantenere la disciplina a bordo di una piccola nave spaziale; dalla costruzione di un avamposto militare su un pianetoide ostile, a una digressione sugli effetti della dilatazione relativistica del tempo, al modo più efficace per punire un soldato rissoso che rischia di mettere in pericolo l’equipaggio.
Questo approccio era probabilmente l’unico per raccontare una storia così complessa, e che copre un arco temporale così vasto. Preso di per sé non solo non mi dispiace, ma non può neanche essere oggettivamente chiamato “difetto”. Nondimeno, in combinazione con la prosa poco mostrata e molto distante di Haldeman, contribuisce a rendere la lettura lenta.

Dove The Forever War brilla davvero, è nella descrizione della vita militare. Si capisce al volo che Haldeman sotto le armi c’è stato davvero, e in un’esperienza che gli ha lasciato il dente avvelenato – fu infatti la guerra del Vietnam, a cui partecipò come combat engineer.1 Addestramenti meccanici e spesso inutili, comandanti codardi, la retorica sul gruzzolo che stanno accumulando servendo la patria (ma di cui certo non potranno godere se moriranno prima della fine dei quattro anni di leva obbligatoria), strane idiosincrasie – come la sostituzione del classico saluto militare con un “fuck you sir!” che dovrebbe sollevare gli animi dei soldati, ma che alla fin fine non fa che esacerbarli ancora di più – sono tanti piccoli dettagli che formano un quadro credibile e (nonostante la prosa) immersivo.
Non possiamo che sposare il risentimento e la paura di Mandella prima di una battaglia, nella consapevolezza che stanno andando al macello e che pochissimi potranno tornare a casa a godersi gli stipendi accumulati. A differenza del classico di Heinlein, insomma, Haldeman ci mostra un esercito meno eroico e  più ‘umano’, molto più realistico nel suo cinismo, nella sua fallibilità, nella stupidità di molte sue scelte.

Griffin military

 

Ma, al tempo stesso, evita di cadere nell’estremo opposto di un esercito “idiota e cattivo” perché sì. Facendo compiere al suo protagonista tutto l’arco della carriera militare – da soldato semplice ad alto ufficiale – nel corso del romanzo il lettore sente entrambe le campane, quella di chi è costretto a eseguire gli ordini e quella di chi è costretto a darli.
Attraverso gli occhi del Mandella ufficiale, capiremo anche la necessità di certe procedure in sé stupide, e l’importanza di mantenere la disciplina, la gerarchia e i suoi strani rituali, per quanto spesso sembrino stupidi e perversi. La guerra è una cosa orribile, è vero, e spesso chi sta in cima alla catena di comando appare come uno stronzo insensibile che tratta i soldati come degli expendables; ma al tempo stesso, sembra dirci Haldeman, in una guerra in cui non capisci il tuo nemico, l’unico modo di procedere è alla cieca, per trial and error, tentando di portare a casa qualche risultato nel modo più efficiente possibile.

La stessa ricerca di verosimiglianza la ritroviamo nell’immaginare come potrebbe funzionare una guerra tra due civiltà spaziali. Anche se non è rigoroso come un Clarke o un Anderson, l’approccio di The Forever War è quello dell’Hard SF. Le collapsar, i corpi celesti inventati da Haldeman che piegano lo spazio-tempo e connettono due punti lontani della galassia, funzionano alla fin fine come i classici wormhole e sono il punto meno elegante del worldbuilding del romanzo; ma il sistema di propulsione delle navicelle umane – il Bussard ramjet – e gli effetti di dilatazione temporale del viaggiare a velocità vicine a quelle della luce sono uguali a quelli che troviamo in Tau Zero di Poul Anderson.
Haldeman sfata tanti miti da sovraesposizione a Star Wars, dall’assurdità dei dogfight spaziali all’abilità dei piloti umani. In The Forever War, il 90% delle battaglie è gestito dai computer, per l’ottimo motivo che un essere umano non potrà mai eguagliarne la rapidità di calcolo; gli scontri si svolgono a milioni di chilometri di distanza, e le battaglie campali sono rare e ben distanziate da mesi e mesi di semplice viaggio da un corpo celeste all’altro.2 Un esempio eccellente dell’approccio razionale di Haldeman alle battaglie è la descrizione (non priva di un simpatico umorismo nero) dei cannoni laser posti a difesa delle basi planetarie:

On top was a swivel-mounted gigawatt laser. The operator—you couldn’t call him a “gunner”—sat in a chair holding deadman switches in both hands. The laser wouldn’t fire as long as he was holding one of those switches. If he let go, it would automatically aim for any moving aerial object and fire at will. Primary detection and aiming was by means of a kilometer-high antenna mounted beside the bunker.
It was the only arrangement that could really be expected to work, with the horizon so close and human reflexes so slow. You couldn’t have the thing fully automatic, because in theory, friendly ships might also approach.
The aiming computer could choose among up to twelve targets appearing simultaneously (firing at the largest ones first). And it would get all twelve in the space of half a second.
The installation was partly protected from enemy fire by an efficient ablative layer that covered everything except the human operator. But then, they were dead-man switches. One man above guarding eighty inside. The army’s good at that kind of arithmetic.

Space Dogfight

Ecco: queste cose no.

Nonostante tutto ciò, e malgrado la prosa distanziante, Haldeman è in grado di costruire nel corso del romanzo una manciata di battaglie campali realmente appassionanti. L’ultima battaglia alla fine del libro, in particolare, è carica di tensione e rimane fino all’ultimo di esito incerto. L’ho letta d’un fiato.
Tutto The Forever War è un susseguirsi di alti e bassi, di scene straordinarie e momenti noiosotti o proprio mal scritti. La parte ambientata sulla Terra, per esempio, è narrata in modo chiaramente sbrigativo – specialmente nel finale, che ha tutto il sapore di un deus ex machina messo a bella posta per costringere il protagonista a tornare nello spazio – come se l’autore avesse fretta di tornare a raccontare la vita militare.

Nel complesso, The Forever War è un libro straordinario e abbastanza unico nel suo genere, nonostante una pletora di difetti grandi e piccoli gli impediscano di essere un vero capolavoro. Soprattutto, del romanzo di Haldeman colpisce l’ambizione e vastità di propositi – il voler raccontare in neanche trecento pagine cinquecento anni di storia, di guerra, di evoluzione tecnologica. Tanti temi vengono abbozzati, alcuni in maniera più riuscita e altri meno – dal controllo delle nascite, al sesso, all’economia di guerra, alla difficoltà di comunicazione tra specie diverse e alle conseguenze che questo genere.
Il finale arriva in modo brusco e ci lascia in bocca un sapore amaro – ma alla fin fine, è l’unico finale credibile per un romanzo come questo (a meno di farlo finire in medias res, senza una risoluzione), e mi piace. Entro la fine del romanzo avremo tutte le risposte: scopriremo chi sono i Taurani, come e perché sia scoppiata la guerra, cosa vogliano da noi. E tutto ha perfettamente senso – benché sia un senso molto grottesco.
In definitiva, The Forever War è uno di quei libri che colpisce moltissimo sul piano intellettuale, meno su quello emotivo, ma che in generale non si chiude con indifferenza. La mia raccomandazione? Cominciatelo, e vedete se riuscite a digerire la prosa. Se superate le prime dieci o venti pagine, avrete una buona idea di come sarà – coi suoi alti e bassi – tutto il resto del romanzo. Secondo me ne vale la pena.

Su Haldeman
In seguito alla bella esperienza di The Forever War, ho letto altri tre romanzi di Haldeman. Nessuno di questi eguaglia il suo esordio nella fantascienza, ma sono comunque una lettura interessante:
All My Sins RememberedAll My Sins Remembered (Al servizio del TB II), il migliore dei tre, è in realtà una raccolta di tre novellas collegate da una cornice. Il libro racconta la vita e la carriera di Otto McGavin, agente segreto con la capacità, tramite ipnosi, di ‘diventare’ altre persone (assumendo i loro ricordi e la loro personalità) e potersi così infiltrare in qualsiasi ambiente. In tre tappe che raccontano altrettanti casi che è chiamato a risolvere, vedremo la discesa di McGavin da pacifista convinto ad assassino a sangue freddo e la sua graduale perdita di identità. L’opera – che vuole essere un quadro amaro sulla crudeltà dei governi e le brutture della guerra – colpisce allo stomaco, ma è troppo frammentata e scritta non particolarmente bene.
The Hemingway HoaxThe Hemingway Hoax (Il paradosso Hemingway) è una strana novella sui viaggi nel tempo e le dimensioni parallele. Partendo dal famoso aneddoto del primo manoscritto di Hemingway – un romanzo completo che la moglie gli perse per sbaglio prima della consegna all’editore e non fu mai più ritrovato – Haldeman immagina la storia dell’incontro tra John Baird, studioso di Hemingway, e il falsario Castlemaine, e la loro decisione di forgiare un falso manoscritto per farci su bei soldi. Ma l’impresa prenderà una piega inaspettata, e Baird si troverà a fronteggiare un’entità sovrannaturale e la trasformazione della struttura stessa dell’universo. L’idea iniziale è interessante, ma lo svolgimento diventa gradualmente più contorto, e tutto l’elemento sovrannaturale suona un po’ stonato: ce ne vuole per convincerci che la virilità di Hemingway può determinare il destino dell’universo! Curioso ma troppo pasticciato.
Forever PeaceForever Peace (Pace eterna), seguito concettuale di The Forever War, è un romanzo militare aggiornato al mondo della guerra di quarta generazione (4GW) e delle nanotecnologie. Julian Class è un pilota di soldierboy, guerrieri artificiali comandati a distanza tramite connessioni neurali, chiamato a combattere coi suoi compagni l’infinita guerra contro gli Ngumi, una rarefatta organizzazione terroristica sudamericana. Sullo sfondo, un piano disperato per terminare per sempre tutte le guerre. Il romanzo presenta tutti gli elementi classici di Haldeman – sfiducia verso i governi, brutalità della guerra, stupidità della burocrazia civile e militare – ma ha due problemi: una pesante asimmetria nella trama (la prima metà del libro è slice of life cupo, la seconda diventa un thrillerone un po’ ingenuo), e una struttura narrativa demente (vengono alternati paragrafi in prima persona col pov di Julian e paragrafi in terza con narratore onnisciente). Poteva essere un capolavoro, invece è così così.

Dove si trova?
Nel mondo anglosassone The Forever War è molto famoso, ergo trovarlo è estremamente facile, sia su Library Genesis che su Bookfinder (che sembra essersi definitivamente ribattezzato Bookfi). Per l’edizione italiana, cercate “Guerra eterna” sul caro vecchio Emule o su Torrentz.

Qualche estratto
Per questo articolo ho scelto due brani il più possibile antitetici: il primo è un puro infodump, ed espande il didascalico estratto che avevo già messo nel corpo dell’articolo sul collapsar jump; il secondo invece mostra una scena d’azione, ossia un’esercitazione di combattimento del corpo di Mandella al boot camp sul pianeta Charon.

1.
Twelve years before, when I was ten years old, they had discovered the collapsar jump. Just fling an object at a collapsar with sufficient speed, and out it pops in some other part of the galaxy. It didn’t take long to figure out the formula that predicted where it would come out: it travels along the same “line” (actually an Einsteinian geodesic) it would have followed if the collapsar hadn’t been in the way – until it reaches another collapsar field, whereupon it reappears, repelled with the same speed at which it approached the original collapsar. Travel time between the two collapsars – exactly zero.
It made a lot of work for mathematical physicists, who had to redefine simultaneity, then tear down general relativity and build it back up again. And it made the politicians very happy, because now they could send a shipload of colonists to Fomalhaut for less than it had once cost to put a brace of men on the moon. There were a lot of people the politicians would love to see on Fomalhaut, implementing a glorious adventure rather than stirring up trouble at home.
The ships were always accompanied by an automated probe that followed a couple of million miles behind. We knew about the portal planets, little bits of flotsam that whirled around the collapsars; the purpose of the drone was to come back and tell us in the event that a ship had smacked into a portal planet at .999 of the speed of light.
That particular catastrophe never happened, but one day a drone limped back alone. Its data were analyzed, and it turned out that the colonists? ship had been pursued by another vessel and destroyed. This happened near Aldebaran, in the constellation Taurus, but since “Aldebaranian” is a little hard to handle, they named the enemy “Tauran.”
Colonizing vessels thenceforth went out protected by an armed guard. Often the armed guard went out alone, and finally the Colonization Group got shortened to UNEF, United Nations Exploratory Force. Emphasis on the “force.”
Then some bright lad in the General Assembly decided that we ought to field an army of footsoldiers to guard the portal planets of the nearer collapsars. This led to the Elite Conscription Act of 1996 and the most elitely conscripted army in the history of warfare.
So here we were, fifty men and fifty women, with IQs over 150 and bodies of unusual health and strength, slogging elitely through the mud and slush of central Missouri, reflecting on the usefulness of our skill in building bridges on worlds where the only fluid is an occasional standing pool of liquid helium.

Dodici anni prima, quando io avevo dieci anni, avevano scoperto il balzo tra le collapsar. Lancia un oggetto contro una collapsar a velocità sufficiente, e l’oggetto ti schizza fuori in qualche altra parte della galassia. Non c’era voluto molto tempo per calcolare la formula che prediceva dove sarebbe uscito: l’oggetto viaggia lungo la stessa “linea” (che in realtà è una linea geodetica einsteiniana) che avrebbe seguito se non ci fosse stata di mezzo la collapsar, fino a quando non arriva a un altro campo di collapsar, e allora ricompare, respinto con la stessa velocità con cui si era avvicinato al primo campo. Tempo impiegato nel viaggio tra le due collapsar… esattamente zero.
Questo aveva comportato un sacco di lavoro per i fisici matematici, che erano stati costretti a ridefinire la simultaneità, e poi a fare a pezzettini la relatività generale e a ricostruirla daccapo. E aveva reso felici gli uomini politici, perché adesso potevano spedire a Fomalhaut un’astronave carica di coloni, spendendo meno di quanto costasse una volta spedire un gruppetto di uomini sulla Luna. C’era una quantità di gente che gli uomini politici preferivano vedere su Fomalhaut, a realizzare una gloriosa avventura, anziché a fomentare guai in patria.
Le astronavi erano sempre accompagnate da una sonda automatizzata che le seguiva a una distanza di qualche milione di chilometri. Sapevamo tutto dei pianeti portale, pezzettini di detriti cosmici che turbinavano intorno alle collapsar: la funzione della sonda consisteva nel ritornare indietro a informarci, nel caso che un’astronave fosse andata a sbattere contro un pianeta portale a 0,999 della velocità della luce.
Una catastrofe di questo genere non era mai capitata, ma un brutto giorno una sonda era ritornata indietro da sola, zoppicando. I dati erano stati analizzati, ed era saltato fuori che l’astronave dei coloni era stata inseguita da un altro veicolo spaziale ed era stata distrutta. Il fattaccio era successo dalle parti di Aldebaran, nella costellazione del Toro, latino Taurus, ma poiché “Aldebaraniani” era un po’ lungo da pronunciare, i nemici erano stati battezzati “Taurani”.
A partire da quella volta, le astronavi dei coloni si erano messe in viaggio protette da una scorta armata. Spesso la scorta annata si metteva in viaggio da sola, e alla fine il Gruppo Colonizzazione venne abbreviato in FENU, Forza Esplorativa delle Nazioni Unite. Con l’accento su Forza.
Poi qualche genio dell’Assemblea Generale aveva deciso che bisognava piazzare un’armata di fanti e fare la guardia ai pianeti portale delle collapsar più vicine. E questo portò alla Legge per la Coscrizione Elitaria del 1996, e alla creazione dell’esercito più elitario in tutta la storia della guerra.
E perciò adesso noi eravamo lì, cinquanta uomini e cinquanta donne, con quoziente d’intelligenza superiore a 150, e fisico dotato di salute e di forza fuori del comune, a trascinarci elitariamente nel fango e nella neve impoltigliata del Missouri centrale, a meditare sull’utilità della nostra bravura nel costruire ponti su mondi dove l’unico fluido che si può trovare è qualche pozzanghera stazionaria di elio liquido.

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L’esplorazione spaziale può essere pericolosa…

2.
“Fire team A—move out!” The twelve of us advanced in a ragged line toward the simulated bunker. It was about a kilometer away, across a carefully prepared obstacle course. We could move pretty fast, since all of the ice had been cleared from the field, but even with ten days’ experience we weren’t ready to do more than an easy jog.
I carried a grenade launcher loaded with tenth-microton practice grenades. Everybody had their laser-fingers set at a point oh eight dee one, not much more than a flashlight. This was a simulated attack—the bunker and its robot defender cost too much to use once and be thrown away.
“Team B, follow. Team leaders, take over.”
We approached a clump of boulders at about the halfway mark, and Potter, my team leader, said, “Stop and cover.” We clustered behind the rocks and waited for Team B.
Barely visible in their blackened suits, the dozen men and women whispered by us. As soon as they were clear, they jogged left, out of our line of sight.
“Fire!” Red circles of light danced a half-klick downrange, where the bunker was just visible. Five hundred meters was the limit for these practice grenades; but I might luck out, so I lined the launcher up on the image of the bunker, held it at a forty-five degree angle and popped off a salvo of three.
Return fire from the bunker started before my grenades even landed. Its automatic lasers were no more powerful than the ones we were using, but a direct hit would deactivate your image converter, leaving you blind. It was setting down a random field of fire, not even coming close to the boulders we were hiding behind.
Three magnesium-bright flashes blinked simultaneously about thirty meters short of the bunker. “Mandella! I thought you were supposed to be good with that thing.”
“Damn it, Potter—it only throws half a klick. Once we get closer, I’ll lay ’em right on top, every time.”
“Sure you will.”
I didn’t say anything. She wouldn’t be team leader forever.

— Squadra A… muoversi! — E noi dodici avanzammo in una fila irregolare verso il bunker simulato. Era a circa un chilometro di distanza, in fondo a un percorso a ostacoli accuratamente preparato. Potevamo muoverci in fretta, poiché quasi tutto il ghiaccio era stato rimosso dal campo, ma nonostante i dieci giorni di esperienza non ce la sentivamo di andare a un’andatura più svelta di un trotto tranquillo.
Io portavo un lanciagranate carico con bombe da esercitazione di un decimo di microton. Tutti avevamo le dita laser regolate a zero virgola zero otto, dispersione uno: poco più di una lampada tascabile. Era un attacco simulato… il bunker e il suo difensore robot costavano troppo perché si potesse pensare di adoperarli una volta e poi buttarli via.
— Squadra B, seguiteli. Comandanti di squadra, prendete il comando.
Ci avvicinammo a un gruppo di macigni che si trovavano circa a metà strada, e la Potter, il mio comandante di squadra, disse: — Fermatevi e mettetevi al coperto. — Ci raccogliemmo dietro le rocce e aspettammo la Squadra B.
A malapena visibili negli scafandri anneriti, i dodici, uomini e donne, ci passarono accanto con un fruscio. Non appena furono lì al sicuro, si avviarono verso sinistra, fuori della nostra visuale.
— Fuoco! — Cerchi rossi di luce danzarono più avanti, dove il bunker era appena visibile. La portata massima di quelle granate da esercitazione era cinquecento metri; ma io speravo di avere fortuna, perciò puntai il lanciagranate sull’immagine del bunker, lo tenni inclinato a un angolo di quarantacinque gradi e feci partire una salva di tre colpi.
Il bunker rispose al fuoco prima ancora che le mie granate arrivassero a terra. I suoi laser automatici non erano più potenti di quelli che adoperavamo noi, ma un colpo diretto avrebbe disattivato il trasformatore d’immagini, lasciandoci ciechi. Il bunker stava sparando a casaccio, senza neppure avvicinarsi ai macigni dietro i quali stavamo nascosti.
Tre lampi fulgidissimi, come magnesio, ammiccarono simultaneamente a trenta metri dal bunker. — Mandella! Credevo che tu sapessi maneggiare quel coso!
— Accidenti, Potter… arriva a mezzo chilometro soltanto. Quando saremo più vicini, lo colpirò giusto sul tetto, tutte le volte.
— Sicuro. — Io non replicai. Non sarebbe stata in eterno al comando della squadra.

Tabella riassuntiva

Una rappresentazione lucida di una guerra interstellare. Uso sistematico del raccontato e dell’infodump.
La vita militare raccontata da chi l’ha vissuta realmente.  Personaggi piatti a cui è difficile affezionarsi.
Alcune battaglie regalano veri momenti di tensione. La struttura episodica rallenta il ritmo di lettura.
Sense of wonder a manetta.


(1) E’ in questo, secondo me, che sta la grande differenza d’approccio tra Heinlein e Haldeman. Il primo partecipò – come ufficiale di Marina – alla Seconda Guerra Mondiale, una guerra “giusta” nella misura in cui era una reazione alle aggressioni di Germania e Giappone; e non andò mai personalmente al fronte. Haldeman invece ci andò, al fronte, e contro la propria volontà; e in una guerra di occupazione che non fu mai molto ben giustificata.
Heinlein, insomma, ebbe l’impressione di stare facendo la cosa giusta; Haldeman, di essere trascinato in una cosa orribile con cui non avrebbe voluto avere nulla a che fare. Di qui l’ottimismo dell’uno e il pessimismo dell’altro in merito alla vita militare.
E’ bene comunque ricordare che la supposta rivalità tra i due autori, di cui a volte si sente parlare, non ci fu mai. Haldeman non scrisse The Forever War “contro” Starship Troopers, anzi parlò spesso della sua ammirazione per Heinlein. E viceversa, pare che quando The Forever War vinse il Nebula, Heinlein gli scrisse per congratularsi.Torna su


(2) Certo, non mancano trovate più discutibili. La visione di Haldeman di come sarebbe un esercito aperto alle donne – con l’incoraggiamento del sesso tra camerati al punto dal fare cuccette matrimoniale e indire ogni notte un’assegnazione randomizzata delle suddette cuccette, così da permettere a tutti di accoppiarsi con tutti – fa molto anni ’70, ma oggi che abbiamo veramente quote femminili negli eserciti suona un po’ buffo.Torna su

9 risposte a “I Consigli del Lunedì #44: The Forever War

  1. E’ passata letteralmente una vita da quando lo lessi. Però ricordo una cosa (e wikipedia me l’ha confermata), ovvero che quando ritorna sulla terra la trova piena di froci.

  2. Confermo x°°D
    E non solo: più si va avanti nella storia, più il loro numero aumenta!

  3. Me lo segno, ma non fra le priorità.

  4. Lo lessi in parallelo a Starship Trooper (ci ho fatto anche una doppia recensione), ricordo mi piacque più di ST sia come stile che come temi.

    Uno dei punti che ancora mi ricordo è quando stanno per incrociare un’astronave Tauriana dopo un viaggio a velocità della luce e l’idea è la seguente: se quella nave viene dal passato la culiamo se viene dal futuro ci cula lei.

    Il finale mi ha fatto cadere le braccia però.

  5. Confermo Zwei, si passa da un fotti fotti misto a un trenino militare 😀

  6. @Nicholas:

    Uno dei punti che ancora mi ricordo è quando stanno per incrociare un’astronave Tauriana dopo un viaggio a velocità della luce e l’idea è la seguente: se quella nave viene dal passato la culiamo se viene dal futuro ci cula lei.

    Sono d’accordo: una gran parte del romanzo è basata sugli effetti della relatività sulle persone coinvolte nella guerra, e dove Haldeman eccelle è proprio nell’immaginare la logica assurda di un conflitto che si dilata attraverso secoli e secoli.
    Altro che l’alienazione dei soldati che tornavano dal Vietnam!

    Il finale mi ha fatto cadere le braccia però.

    Il finale arriva in modo un po’ goffo, ma se ci pensi o lo faceva finire così, o in un modo nichilista (es. con la morte del personaggio che alla fine non scopre nulla sulle ragioni della guerra) che probabilmente sarebbe piaciuto anche meno.
    Certo, poteva lavorare sulla “presentazione” del finale, ma abbiamo già detto molto sulla qualità della prosa haldemaniana…

    • Non so a me è sembrata un po’ una forzatura per dire “guerra brutta e cattiva” ma più che altro il finale che mi ha fatto cadere le braccia è quello “personale” di Mandella 😉

  7. Consiglio seguito! Non ho molti termini di paragone, ma mi è piaciuto di più di Starship Troopers.
    Devo dire che mi ha coinvolta molto nonostante la prosa, a un certo punto mi si sono inumiditi gli occhi, e considerando che quando è successo ero in un vagone superaffollato in metro all’ora di punta, si può dire che ce n’è voluta di bravura per coinvolgermi.
    Però sì, il finale è un po’ stupido, soprattutto quello personale di Mandella.

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