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The Man in the Amazon Studios

Stendardo Greater Nazi ReichAvete pensato a quanto sia difficile scrivere un’ucronia? E’ uno sbatti assurdo.
Non soltanto bisogna documentarsi molto bene sul periodo storico in cui avviene il what if, ma bisogna anche avere abbastanza immaginazione e comprensione della Storia da creare un mondo alternativo credibile: da quel singolo avvenimento, o serie di avvenimenti che sono andati diversamente, costruire una catena di cause ed effetti verosimili che portino il mondo al presente della narrazione. E dove va a finire, questa mole incredibile di documentazione e worldbuilding faticosamente messi insieme? Al 90% rimane nella testa dello scrittore, fondamenta invisibile della storia particolare che decide di raccontare, secondo il principio dell’iceberg di Hemingway.
Non sorprende quindi che ci siano così pochi romanzi ucronici in circolazione, nonostante la domanda non manchi. Né stupisce che gli scrittori, quando ne trovano una, cerchino spesso di minarla fino alla totale esaustione con trilogie, saghe e universi espansi. Turtledove ha scritto due saghe per un totale di otto romanzi per la sua ambientazione Worldwar (Ciclo dell’Invasione in italiano), in cui gli alieni attaccano il nostro pianeta in piena Seconda Guerra Mondiale e sparigliano le carte; e la bellezza di undici romanzi nel suo ciclo Southern Victory, in cui immagina una diversa risoluzione della Guerra di Secessione americana. Harry Harrison ha scritto due seguiti di West of Eden, la sua ucronia preistorica – da me recensita qui – in cui un ceppo di rettili intelligenti evolve indipendentemente dall’essere umano.

Anche Dick aveva più volte provato a scrivere un seguito di The Man in the High Castle, e continuare così la sua esplorazione di un mondo in cui Germania e Giappone si sono spartiti il mondo dopo aver vinto la Seconda Guerra Mondiale. Le idee non gli mancavano. The Ganymede Takeover, romanzo minore scritto a quattro mani con Ray Nelson, era nato come un sequel in cui l’impero giapponese lanciava un’offensiva di occupazione degli interi Stati Uniti come strategia preventiva anti-nazista. Un altro tentativo abortito, Ring of Fire, vedeva gli ufficiali nazisti aprire uno squarcio con una dimensione parallela (la nostra?) in cui il Reich era caduto ma esisteva l’atomica, e cercare di trafugare la preziosa tecnologia nel mondo del romanzo. Anche lo stranissimo romanzo VALIS era nato come seguito di High Castle: la divinità in questo caso non si metteva in contatto con un alter ego di Dick, ma con Hawthorne Abendsen – l’uomo nell’alto castello himself – per proteggerlo dai nazisti che venivano a prenderlo.
Per più di vent’anni dalla pubblicazione del romanzo originale, insomma, Dick ha tentato di tornare a quel mondo, farlo rivivere ed espanderlo. Magari farci scoprire come andava a finire. Ma Dick era anche un uomo dalla salute mentale altalenante, e la repulsione verso la mentalità nazista era troppo forte per più di brevi incursioni nella terribile ucronia che aveva creato. Morì senza mai regalarci un’immagine della New York sotto occupazione nazista, o la Berlino sotto il pugno di Bormann o Goebbels o Heydrich. Il grosso del romanzo originale, infatti, si svolge nella San Francisco colonizzata dai giapponesi e nello stato cuscinetto delle Montagne Rocciose dove Abendsen si nasconde; tutto quello che sappiamo dello strano mondo là fuori, lo ricostruiamo attraverso i dialoghi e i monologhi interiori dei protagonisti (e già Dick abusa dell’infodump, ansioso di farci sapere cosa i suoi nazisti abbiano combinato nel Mediterraneo, piuttosto che in Africa, o i giapponesi in Sudamerica!). Potete quindi immaginare quanto fossi gasato quando, a Gennaio 2015, è arrivata la notizia che Amazon Studios si stava impegnando a sviluppare una serie tv ispirata al romanzo.

Nazi Times Square

La vista di una gigantesca svastica che occhieggia dai maxischermi di Times Square è qualcosa di impagabile. Dal primo episodio della serie tv.

Amazon Studios è una creatura interessante. Nato nel 2010 da una costola del gigante della distribuzione digitale, è una casa di produzione di film e serie tv originali che vengono poi distribuite in streaming su canali proprietari sul modello di Netflix. Come Netflix, le stagioni dei serial vengono girate e poi pubblicate in blocco; ma a differenza di Netflix, il modo in cui queste serie vengono selezionate e prodotte coinvolge gli utenti molto più di quello a cui siamo abituati. In specifici momenti dell’anno, vengono pubblicati gli episodi pilota di differenti soggetti, ed è in base ai feedback degli spettatori, con il loro numero di visualizzazioni, le valutazioni positive, le recensioni, che viene deciso quali portare avanti e quali cancellare. Inutile dire che The Man in the High Castle è stato il pilota che ha ricevuto più consensi di tutta la stagione.
L’ambientazione di The Man in the High Castle sembrava quasi implorare che qualcuno la prendesse per espanderla. C’è un sacco di spazio libero per creare nuove storie, approfondire personaggi ed eventi, e insomma arricchire quel mondo poco più che abbozzato da Dick. E con al comando Frank Spotnitz, uno dei più importanti registi e autori di X-Files, e Ridley Scott come produttore esecutivo, i numeri per fare qualcosa di interessante c’erano tutti. Il pilot è uscito su Amazon Prime il 15 Gennaio 2015; un mese dopo, la serie era stata selezionata per la produzione di una stagione da 10 episodi. La stagione completa è uscita il 20 Novembre ed è già stato opzionato il rinnovo per una seconda.
Ora, conoscete bene la mia insofferenza verso le opere incompiute e come in genere mi tenga alla larga da qualsiasi serie finché non è stata – o sta per essere – scritta la parola fine. Ma anch’io ho le mie debolezze – e per The Man in the High Castle ho fatto un’eccezione. Dopo aver recensito il romanzo, vediamo quindi cosa ne penso della serie tv.

The Man  in the High Castle
The Man in the High Castle (tv series)Autore: Frank Spotnitz
Produttore esecutivo: Ridley Scott, Frank Spotnitz
Genere: Ucronia / Thriller / Politico

Stagioni: 1  (ongoing)
Episodi: 10

Paese: U.S.
Anno: 2015

Da quando è nata, Juliana Crain vive con la testa bassa. Le sue giornate trascorrono tutte uguali tra gli allenamenti al dojo, dove pratica aikido con i giapponesi, e le serate col suo malinconico ragazzo Frank, saldatore che nasconde le proprie origini ebraiche. Ma la sua vita a San Francisco cambia per sempre il giorno in cui riappare Trudy, la sua sorella scomparsa, e le affida con fare misterioso una pellicola dal titolo enigmatico: The Grasshopper Lies Heavy. Poco dopo la Kempeitai, la polizia militare giapponese, la uccide a sangue freddo. L’orrore di Juliana si mischia alla sorpresa nel momento in cui, rifugiatasi a casa, mette la pellicola nel proiettore e si trova di fronte le immagini in bianco e nero di un cinegiornale estremamente realistico, che mostrano Berlino abbattuta, gli americani vincere la Seconda Guerra Mondiale e tornare a casa vittoriosi. Trudy era in realtà membro di una segreta Resistenza alle forze di occupazione, con il compito di consegnare la pellicola al misterioso leader rivoluzionario chiamato l’Uomo nell’Alto Castello.
E mentre Juliana, di nascosto da tutti, decide di prendere il posto della sorella e imbarcarsi per Canon City, l’anonima città della Zona Neutrale dove si dice che viva l’Uomo nell’Alto Castello, nella New York occupata dal Reich un giovane di nome Joe Blake entra in contatto con la locale cellula della Resistenza. Anche a lui viene affidata una pellicola e il compito di entrare di nascosto nella Zona Neutrale, ma il ragazzo fa appena in tempo a fuggire prima che un blitz nazista sgomini la cellula. Ora Juliana e Joe sono due uomini in fuga, due traditori invischiati in un gioco più grande di loro. Ma in gioco c’è molto di più degli equilibri politici del loro mondo.

Spotnitz e gli altri creatori della serie avevano a disposizione più modi per sviluppare il materiale originale. Potevano replicare in modo fedele la trama del romanzo (soluzione pigra), oppure esplorare nuovi territori del mondo immaginato da Dick, con nuove situazioni e nuovi personaggi, momenti storici differenti (soluzione più coraggiosa e affascinante). Gli autori hanno optato per una sana via di mezzo: re-immaginare la trama originale, prendendosi la libertà di espanderla e modificarla a piacimento. Il risultato è un thriller ucronico a tratti molto vicino e a tratti molto lontano da The Man in the High Castle.
Trattandosi di una produzione ad alto budget, Spotniz dà alla serie un taglio molto diverso rispetto all’opera originale. Il libro di Dick, lo abbiamo visto, è fondamentalmente un mainstream che mostra le vite parallele di tanti piccoli personaggi in un mondo più grande di loro – con il rischio di annoiare o perdere per strada i lettori. La serie tv mette invece al centro la lotta della Resistenza americana contro gli occupanti, e prende quindi la forma più convenzionale di un thriller politico orientato all’azione. Si ottiene, così, il doppio risultato di dare ritmo e una direzione alla storia – due elementi che il romanzo di Dick non aveva, o aveva in modo carente – e di inserirla in un archetipo ben riconoscibile dallo spettatore, quello dei ribelli in lotta contro la dittatura.

Il trailer ufficiale di The Man in the High Castle

I protagonisti dell’opera originale ritornano più o meno tutti, anche se in una versione ‘ingentilita’ e meno ambigua. Juliana – una dei due protagonisti veri e propri della serie – è, come nel romanzo di Dick, una donna forte, testarda e votatata all’azione, e come nel romanzo si mette alla ricerca dell’uomo nell’alto castello. Ma nell’opera originale aveva anche tutta una serie di caratteristiche che la rendevano più complessa e meno amabile: era egocentrica, priva di empatia, dall’intelligenza quasi animalesca nel suo curarsi solamente del presente e degli impulsi del momento. Era una donna che senza volerlo faceva soffrire le persone che la circondavano, e aveva lasciato Frank perché non riusciva più ad amarlo. Ma una simile figura femminile si alienerebbe le simpatie del pubblico; ed ecco quindi che la nuova Juliana è una donna di nobili ideali che si preoccupa degli altri. Lei e Frank stanno ancora insieme e, pur con i loro alti e bassi, sono una coppia innamorata.
Joe Blake, l’altro protagonista, è la rilettura in chiave americana di un personaggio minore del romanzo, il camionista italiano e fascista Joe Cinnadella. Il conflitto centrale di questo personaggio – lealtà al Partito o lealtà alla donna amata? – è molto affascinante, e mette in gioco concetti potenti come quelli di fedeltà, onore, obbedienza, patriottismo. Tuttavia si è voluto fare anche di Blake un personaggio facile da inquadrare, e si capisce subito che in fondo è il classico ragazzone dall’animo nobile e gli ideali un po’ confusi. Frank Frink – col suo carattere malinconico e riflessivo – e l’ambasciatore Nobusuke Tagomi – con le sue maniere posate e il suo spiritualismo – sono forse i personaggi che rimangono più aderenti al romanzo originale. Ma la scelta “facile” della serie si vede soprattutto nell’assenza tra i personaggi principali del più sfaccettato e ambiguo dei protagonisti del libro di Dick, l’antiquario Robert Childan, con la sua ammirazione per i nazisti e il suo rapporto di morboso amore-odio verso i dominatori giapponesi. Childan c’è nella serie di Spotnitz, ma relegato a un ruolo minore e trasformato in “macchietta” di commerciante furbetto.

Considerato però che si vuole raggiungere un pubblico vasto, e che i personaggi devono fare da punto di ancoraggio dello spettatore per esplorare un complicato mondo distopico, creare dei protagonisti stereotipici non è di per sé sbagliato. Il focus è altrove: sulla società, sulla politica, sull’azione.
Problema: stai comunque raccontando la storia di (prevalentemente) piccoli individui senza potere politico. Fin dagli anni ’40 del secolo scorso, Brave New World e 1984 ci hanno insegnato che i protagonisti delle distopie non solo perdono sempre, ma non hanno mai avuto neanche una chance. Anche il romanzo di Dick, nonostante tutto, si inseriva in questo filone: gli “uomini comuni” al centro del libro non possono e non cambieranno la storia. Come fai quindi a dare agency ai tuoi protagonisti? Ed è qui che arriva la botta di genio di Spotnitz, che prende un’idea dell’opera originale – il romanzo-nel-romanzo The Grasshopper Lies Heavy – e la trasforma in qualcosa di nuovo, una serie di pellicole di footage in bianco e nero che sembrano mostrare squarci di un mondo che non è il nostro.
La trovata ottiene due risultati. In primo luogo, una pellicola funziona molto meglio di un libro all’interno di una serie tv; la vediamo anche noi assieme alla protagonista, e ci emozioniamo con lei, mentre se avessero mostrato un romanzo sarebbe stato molto più complicato far arrivare allo spettatore cosa c’era dentro e perché fosse importante (oltre che essere estremamente lame). In secondo luogo, i film diventano un eccellente McGuffin per motivare le azioni dei personaggi e farli muovere in giro per l’universo narrativo. Non sappiamo esattamente a cosa servano o perché siano così importanti, ma il solo fatto che Hitler li cerchi disperatamente e che ci siano stuoli di cattivi sulle loro tracce è motivo sufficiente per farli apparire importanti e giustificare tutte le azioni dei protagonisti. Quello che fanno i nostri eroi, benché apparentemente insensato, di colpo diventa qualcosa capace di cambiare il mondo.

The Grasshopper Lies Heavy

La pellicola che può cambiare il mondo. Anche tu, comune cittadino, sentiti importante!

Ma c’è un limite a quanto puoi mandare in giro i tuoi personaggi all’inseguimento di un misterioso McGuffin, prima che la cosa diventi ridicola. E purtroppo Spotnitz e i suoi sgherri questo limite lo superano abbondantemente. Sullo sfondo di un worldbuilding dannatamente interessante, ciò a cui assistiamo per dieci puntate è fondamentalmente una serie di burattini impazziti che si inseguono e si sfuggono e vanno in giro un casino e alla fine non combinano niente. La caccia all’oggetto diventa più importante dell’affresco ucronico di giapponesi e nazisti al potere.
Il tutto non privo di una serie di idee del tutto illogiche. Quello che nel romanzo di Dick era uno stato cuscinetto di medie dimensioni tra i territori occupati da giapponesi e nazisti – gli Stati Uniti delle Montagne Rocciose – una nazione debole e innocua ma funzionante, nel film diventa una terra di nessuno, senza governo, senza legge, e lasciata in mano a signorotti della guerra e giustizieri nazistoidi che fanno quello che vogliono – un affresco improbabile che sembra preso di peso da un brutto western. Assistiamo increduli a questo cacciatore di ebrei fuori di testa che impicca la gente nella pubblica piazza e fa il bello e il cattivo tempo, e non si capisce bene perché gli abitanti del posto non si organizzino per linciarlo (e per darsi un autogoverno, già che ci sono). Suppongo perché sì, perché fa nazisti cattivi. Né mancano altri momenti di follia messi giusto per fare conflitto e mandare avanti la trama, come il trattamento disumano oltre ogni regola che la polizia giapponese riserva alla famiglia ebrea di Frank (che fa angst!) o il ghiribizzo di quest’ultimo di assassinare il principe giapponese in visita (che fa dramah!).

Ed è un peccato, perché a livello visivo The Man in the High Castle è una gioia per gli occhi. Vedere le svastiche che penzolano dalle villette a schiera della periferia newyorkese, gli ideogrammi al neon nei quartieri fumosi di San Francisco, ufficiali giapponesi che fanno seppuku in una piazza riparata per fare ammenda del loro fallimento, quiz televisivi con gerarchi delle SS come concorrenti, salette nascoste nelle ambasciate dove decine di agenti dei servizi segreti se ne stanno chini su apparecchi radio a decodificare intercettazioni radiofoniche del nemico. Certe scene fanno venire i brividi, come i tesi incontri fra dignitari giapponesi e nazisti negli edifici governativi, con le bandiere dei due membri dell’Asse fianco a fianco mentre i diplomatici si studiano a vicenda. Il contrasto tra la cerimoniosità studiata dei giapponesi e il pragmatismo scientifico teutonico è reso benissimo.
Né mancano trovate ben riuscite e miglioramenti rispetto all’opera originale. La conoscenza che oggi abbiamo del Giappone e della sua cultura fa sì che i giapponesi ritratti nella serie tv siano molto più credibili di quelli di Dick, che con il loro misticismo e la loro pacatezza finivano col diventare macchiette di sé stessi. L’imminente visita del principe ereditario dell’impero giapponese a San Francisco crea nelle prime puntate un punto di ancoraggio importante per lo spettatore, dando maggiore concretezza allo scorrere del tempo e un obiettivo verso cui molti dei personaggi – Tagomi su tutti – tendono. E proprio di punti di ancoraggio nel tempo era carente il romanzo originale. Ancora: John Smith, l’alto gerarca nazista al comando delle SS di New York, nonché creazione originale di Spotnitz, è il più articolato e coerente tra i personaggi principali della serie tv, e le scene che lo coinvolgono sono tra le migliori. Il contrasto tra le sue azioni spietate e i suoi principi morali crudeli da una parte, e la sua convinzione di stare facendo la cosa giusta, per il bene della sua famiglia e dei suoi figli, ci fanno provare contemporaneamente attrazione e repulsione nei suoi confronti. Attraverso di lui possiamo assistere da un punto di vista interno al lato umano dei nazisti. E il fatto che Smith sia un americano, uno yankee nato e cresciuto nell’America libera degli anni ’30, prima della guerra e dell’occupazione straniera, un uomo quindi che ha scelto di preferire il nazismo alla sua cultura nativa, lo rende ancora più terribile.

The Man in the High Castle series Map

La divisione politica degli U.S. nella serie tv. Confrontatela con quella del romanzo.

Cos’è andato storto, allora? Perché tutto questo potenziale, questi buoni spunti di worldbuilding non si concretizzano in un grande racconto? E’ solo un’ipotesi, ma The Man in the High Castle sembra costruito come venivano realizzate la maggior parte delle serie tv fino agli anni 2000, fino a prima della cosiddetta golden age dei serial: un’architettura che privilegiava il voler stupire e costruire dei climax a ogni episodio, a spese della coerenza interna e della realizzazione di veri archi narrativi. Con l’obiettivo strategico di fare quante più stagioni possibili.
Il risultato, quindi, è che emergono singole scene – o anche interi episodi – straordinari o singoli personaggi interessanti, ma questi elementi rimangono isolati; sono belli di per sé ma non si aggregano in un qualcosa che abbia significato o valore. Protagonisti che in un episodio si comportano in un modo, l’episodio dopo si comportano in un altro che lo contraddice; obiettivi che vengono raggiunti in una puntata vengono vanificati in quella successiva; personaggi fuggono da San Francisco verso le Montagne Rocciose per poi tornare a San Francisco qualche episodio dopo senza aver concluso nulla, eventi che sembrano importantissimi la puntata prima escono dai radar quella dopo. Lo spettatore non riesce più a distinguere cosa sia realmente importante per la storia e cosa sia invece filler, e la verità è che probabilmente a un certo punto non lo sanno più neanche gli sceneggiatori. “Dove vogliono andare a parare?” si chiede, ma non vogliono andare a parare da nessuna parte – vogliono solo farti saltare sulla sedia una volta di più.

Mentre le serie tv evolvono e diventano strumenti narrativi più complessi, o perché raccontano grandi archi dove ogni stagione è come un atto di una storia più grande – Breaking Bad, House of Cards – o addirittura arrivando al formato antologico, in cui ogni stagione è una storia autoconclusiva costruita interamente a tavolino – American Horror Story, True Detective, Fargo – è come se The Man in the High Castle fosse rimasto indietro. E’ vero, poter vedere l’ucronia che Dick ci aveva solo lasciato immagine è suggestivo, e la serie tv riesce effettivamente a espandere quel mondo, mostrandoci la New York nazista piuttosto che il castello di Kransberg tramutato in residenza permanente del Fuhrer – ma non è abbastanza, senza una solida trama dietro.
Forse le stagioni successive correggeranno il tiro e daranno una direzione a questo magma narrativo. Per ora, The Man in the High Castle è una serie tv senza infamia e senza lode, con un potenziale straordinario che sta sottosfruttando terribilmente.

Nazisti e giapponesi

Cose belle.

Dove si trova
A differenza di Netflix, sbarcato in Italia lo scorso autunno, i servizi di Amazon Studios non sono ancora disponibili nel nostro Paese. Che io sappia, dunque, non ci sono metodi del tutto legali per vedere The Man in the High Castle. Ma Torrentz è vostro amico; se non avete problemi a leggere in inglese, questo file contenente tutta la prima stagione hardsubbed in inglese è fatto molto bene:

The.Man.in.the.High.Castle.Season.1.Complete.720p.WEBRip.EN-SUB.x264-[MULVAcoded]

Tabella riassuntiva

L’ucronia giappo-nazista finalmente espansa! Una trama che non va da nessuna parte
Scenografie suggestive e fotografia stupenda Personaggi che cambiano obiettivi di puntata in puntata
Il personaggio di John Smith e i conflitti che lo riguardano L’ucronia si trasforma in un thriller generico di ‘caccia al McGuffin’

I Consigli del Lunedì #46: The Man in the High Castle

The Man in the High CastleAutore: Philip K. Dick
Titolo italiano: La svastica sul sole
Genere: Ucronia / Slice of life
Tipo: Romanzo

Anno: 1962
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 240 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Quando gli Alleati hanno perso la Seconda Guerra Mondiale, Germania e Giappone si sono spartiti il mondo. Gli Stati Uniti, costretti alla resa alla fine del ’46, sono stati spaccati in due: la parte orientale è entrata a far parte del Grande Reich, mentre la costa ovest è diventata colonia giapponese, col nome di Stati Pacifici d’America. In mezzo, a fare da cuscinetto tra le due superpotenze, gli Stati delle Montagne Rocciose, un fazzoletto di terra perlopiù desertica, ultimo residuo dell’indipendenza americana. Ora, dopo quindici anni di pace, la situazione mondiale sta tornando tesa: Martin Bormann, Cancelliere del Reich dopo l’uscita di scena di Hitler, sta per morire, e la lotta tra gli alti gerarchi per la successione si preannuncia tremenda. E nella loro ambizione sfrenata, i nazisti potrebbero trascinare il mondo in una nuova guerra per il controllo del pianeta.
Ci troviamo nel 1961, nella San Francisco occupata dai giapponesi. Robert Childan, antiquario di prestigio, cerca di conquistare l’ammirazione della dirigenza giapponese vendendo loro i più rari cimeli dell’America libera. Nobusuke Tagomi, diplomatico giapponese di stanza a San Francisco, si prepara a un incontro della massima importanza con Mr. Baynes, industriale svedese – ma un criptico messaggio da Tokyo lascia intendere che quest’uomo nasconde qualcosa, forse è finanche una spia del Reich. Frank Frink, ebreo in incognito sfuggito ai nazisti, si guadagna da vivere fabbricando falsi oggetti d’antiquariato, ma sogna di creare qualcosa di bello con le proprie mani. Juliana, la sua ex moglie, l’ha abbandonato per vivere una nuova vita nei liberi stati delle Montagne Rocciose, ma la sua vita cambierà il giorno che incontrerà Joe Cinnadella, fascista italiano dal passato torbido. Su tutti loro aleggia l’ombra di La cavalletta non si alzerà più (The Grasshopper Lies Heavy), romanzo proibito in cui si narra una storia stranissima, una storia alternativa in cui i nazisti e i giapponesi hanno perso la guerra. Del suo autore, il misterioso Nathanael Abendsen, si sa soltanto che vive trincerato in cima a un alto castello circondato di filo spinato, col terrore che i nazisti vengano a metterlo a tacere…

“In che mondo vivremmo, se le forze dell’Asse avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale?” è la domanda posta da questo classico dell’ucronia, il primo dei romanzi di Philip K. Dick ad essere candidato a dei premi e l’unico che gli varrà un Hugo. Ma a differenza della maggior parte delle storie alternative sulla WWII – come Fatherland di Robert Harris – The Man in the High Castle non è un thriller né un romanzo d’azione; è invece un romanzo corale slice-of-life, interessato a mostrare la vita di persone comuni in questo mondo che sarebbe potuto essere. Nel corso del romanzo, seguiremo le vicende intrecciate di cinque personaggi – un fabbro ebreo, un antiquario piccolo-borghese, un diplomatico giapponese, un misterioso industriale svedese venuto dal Reich e una donna irrequieta – tra San Francisco e gli stati delle Montagne Rocciose. Una trama politica esiste, ma è come se si svolgesse ai margini del romanzo e della vita dei nostri protagonisti.
È forse proprio questo approccio mainstream e questa struttura atipica per la narrativa di genere, ad aver assicurato la fama duratura di The Man in the High Castle rispetto ad altri romanzi sullo stesso argomento. Essendo così famoso, ho esitato a lungo – come sapete – prima di decidermi a dedicargli un Consiglio. Ma a fine novembre Amazon Studios ha lanciato sul suo canale una serie omonima, ispirata all’ambientazione di Dick, e il romanzo è tornato alla ribalta. Vale la pena di fare un bilancio per un libro che, celebre finché si vuole, in Italia non è poi così letto. La prossima volta parleremo della serie tv di Amazon.


“In the Mood” della Glenn Miller Orchestra, tormentone swing degli anni della guerra. In un’America che culturalmente si è fermata ai ’40, il pezzo sembra quantomai appropriato.

Uno sguardo approfondito
The Man in the High Castle ha la struttura del romanzo corale in terza persona, con un ampio numero di personaggi-pov che si succedono di paragrafo in paragrafo. Dick scrive in terza persona, con telecamera che oscilla da sopra la spalla del personaggio a dentro la sua testa; passiamo quindi da momenti in cui vediamo il personaggio muoversi come in un film, distaccati da lui, ad altri in cui siamo immersi nel suo tono di voce, e tutto quello che vediamo è filtrato dai suoi pensieri. E qui ci imbattiamo nel primo talento di Dick, ossia la sua capacità di passare da un timbro all’altro a seconda del personaggio: la testa piena di pregiudizi razziali di Childan, i periodi brevi e la flemma di Tagomi, il modo di pensare disordinato, amorale e quasi ferino di Juliana. Riconosciamo le loro voci. Né si rischia di fare confusione su chi sia il pov in ogni momento, dato che il punto di vista cambia solamente al cambio di paragrafo.
Certo, a volte si ha l’impressione che Dick utilizzi i suoi personaggi come delle marionette, dei veicoli per raccontarci la sua ambientazione. Questa sensazione la si avverte soprattutto nei primi capitoli, quando ancora non conosciamo il mondo del romanzo e l’autore sente il bisogno di spiegarcelo. Così, ad esempio, Frank Frink disteso sul suo letto riflette sulla sua difficile condizione – ebreo che è fuggito da New York e si è fatto cambiare il cognome per passare inosservato – e parte un lungo infodump sulla spartizione politica del mondo e le atrocità dei nazisti. Un dialogo, una cosa vista per strada: tutto diventa un pretesto per una digressione – mal camuffata da monologo interiore – su questo o quell’aspetto della società. E sembra a volte che i personaggi di questo mondo non discutano d’altro che di nazisti, della guerra, di come sarebbe potuta andare se. Pure in un mondo così fortemente plasmato dal cattivo esito della Seconda Guerra Mondiale, come quello di The Man in the High Castle, suona un po’ inverosimile che i suoi abitanti non parlino quasi d’altro che di politica e guerra.

Quando invece Dick riesce a mettere la sua ambientazione al servizio dei suoi personaggi, allora il romanzo brilla veramente. Ogni protagonista ha la sua storia, il suo punto di vista sul mondo, i suoi conflitti (interiori ed esteriori). Prendiamo per esempio Mr. Tagomi: in qualità di diplomatico della Trade Mission a San Francisco, il suo ruolo è di mediare tra la madrepatria, gli occupati americani e la Germania nazista, con cui i giapponesi sono in pace. Ma Tagomi è turbato. La consapevolezza del male perpetrato dai nazisti, e che lui – nella sua funzione di mediatore – deve non solo tollerare, ma assecondare e finanche avallare le loro azioni, distrugge il suo baricentro morale. Nel corso del romanzo Tagomi dovrà fare i conti con sé stesso, col suo conflitto tra il bisogno di giustizia e la coscienza del male, e sarà costretto a prendere delle decisioni che decideranno da che parte sta.
Ma non ci sono vie d’uscita pulite. In un mondo dove i nazisti hanno vinto, dove o sei dalla loro parte o sei morto, è come se ogni cosa fosse stata contaminata. Non esiste una divisione manichea tra i buoni e i cattivi; tutti i personaggi del romanzo di Dick hanno commesso qualcosa di più o meno riprovevole, tutti vivono questa ambiguità morale, e così come c’è l’americano antisemita e collaborazionista, così c’è il nazista disilluso e stanco del proprio regime. Consideriamo Robert Childan: americano vittima dell’occupazione giapponese, abituato fin da giovane a sentirsi “inferiore”, ha trovato però una possibilità di riscatto (sia economico che di prestigio personale) vendendo reperti della storia americana proprio a coloro che lo opprimono. Childan vive il conflitto tra il bisogno di essere accettato fra i suoi “superiori”, di elevarsi, e la consapevolezza che per farlo deve svendere sé stesso e la storia del suo paese. E proprio quando cominciamo a sviluppare empatia nei suoi confronti, scopriamo – abbastanza presto nel libro, in verità – che Childan stima i nazisti, stima quello che hanno fatto ad africani, slavi ed ebrei, condivide la loro teoria delle razze e spera in cuor suo che gli ariani spazzino via tutti i musi gialli dalla faccia della terra. Sì: proviamo empatia per un antisemita. Questa è la potenza della scrittura di Dick.

The Man in the High Castle Worldmap

La mappa politica del mondo nell’universo alternativo di The Man in the High Castle (cliccare per ingrandire).

Ogni protagonista, dunque, ha la sua storia e i suoi conflitti da superare. Ma come tutti i romanzi dalla struttura corale, anche The Man in the High Castle ha un problema: se da un lato si guadagna in prospettiva – la possibilità di vedere il mondo del libro da tante paia d’occhi diversi – dall’altro si rischia di perdere in immersione, in immedesimazione nei personaggi della storia. Il problema è ancora più accentuato in questo caso, essendoci la bellezza di cinque personaggi-pov principali, più due pov usa-e-getta dedicati a personaggi minori. Il continuo passare da un personaggio all’altro, e quindi da una storia all’altra, crea facilmente confusione, soprattutto all’inizio del romanzo quando non abbiamo ancora familiarizzato con l’ambientazione.
Ma anche quando, proseguendo nella lettura, ci si affeziona ai vari protagonisti e non si fa più fatica a seguire la trama, rimane la sensazione di stare leggendo tante storie separate. Le vite dei cinque personaggi si intrecciano, le loro vicende rimandano l’una all’altra, chiariscono aspetti l’una dell’altra, le loro azioni plasmeranno i destini degli altri, e ciascuno vivrà il proprio arco di trasformazione; ma le loro storie rimangono fondamentalmente distinte.  Una trama collettiva vera e propria non c’è – solo tante direttrici parallele. E’ quindi inevitabile provare, nel corso della lettura, un senso di smarrimento: dove sta andando a parare il romanzo? Dove porta tutto questo saltare da una vicenda individuale all’altra? Cosicché, anche se ci immergiamo nei personaggi e nei loro conflitti, rimane in noi un certo distacco rispetto alla vicenda.

A mantenere alta in parte l’attenzione del lettore, al di sopra delle vicende individuali, ci sono due misteri centrali: quale sia il vero obiettivo dell’incontro d’affari tra Tagomi e Mr. Baynes, nel quale il governo a Tokyo sembra riporre grandissima attenzione, e perché il misterioso e recluso Abendsen abbia scritto un romanzo in cui l’Asse ha perso la Seconda Guerra Mondiale – un libro che circola di mano in mano nonostante sia ufficialmente proibito sia negli Stati sotto il controllo giapponese sia nel Reich, e che appassiona e sconvolge, dall’ebreo Frink al nazista al fascista Cinnadella (che ne sembra ossessionato). Che cosa sa realmente Abendsen? Faccenda resa ancora più inquietante dal fatto che la storia che racconta Abendsen è comunque diversa da quella del nostro mondo: in The Grasshopper Lies Heavy, l’America ha sì vinto, ma ora si spartisce il mondo con l’Impero Britannico e non con l’Unione Sovietica. Un’ucronia nell’ucronia.
Questi misteri troveranno risposta entro la fine del libro. Ma se quest’aura di suspence lavora a favore della curiosità del lettore e lo incalza ad andare avanti, a remare contro ci pensa il ritmo. The Man in the High Castle è un romanzo lento. I momenti d’azione sono quasi assenti, le scene statiche sono numerose, e la maggior parte dei protagonisti-pov della storia sono individui che prediligono la riflessione all’azione. Soprattutto, sono individui “piccoli”: possono fare la loro parte, e risolvere problemi più o meno grandi, ma il destino ultimo del popolo americano e del mondo non sono nelle loro mani. Come in 1984 e in ogni distopia che si rispetti, non si arriverà alla fine del romanzo con il Fuhrer gloriosamente deposto e gli equilibri politici irreversibilmente cambiati. Se questo tipo di storia scoccia, sarebbe meglio stare alla larga dal libro di Dick.

Povero Goebbels

The Man in the High Castle è piuttosto un affresco, la messa in scena di un worldbuilding attraverso le vicissitudini di chi ci vive dentro, a tutti i livelli: dalla quotidianità delle persone che non contano nulla (Frank Frink, Juliana), a quello della borghesia (Childan e il suo rapporto con la dirigenza giapponese), a quello della politica (Tagomi, Baynes). Come sarebbe oggi il mondo, e in particolar modo l’America, se nazisti e giapponesi avessero vinto la guerra? E in questo, bisogna ammetterlo, Dick ci spalanca davanti un tripudio di sense of wonder.
Alcune sono piccole trovate, come il fatto che il Mediterraneo – ora completamente controllato dalla Germania – sia stato prosciugato per farne campi coltivati, o che i nazisti, con la loro ossessione per le imprese titaniche, abbiamo spedito navicelle con equipaggio su Venere e Marte mentre ancora la televisione non è entrata nelle case della gente comune (e siamo negli anni ’60!). La lotta per il potere tra i gerarchi nazisti, tra un erudito affabulatore come Goebbels e una iena come Heydrich, rimane altrettanto sullo sfondo del romanzo – attraverso i discorsi dei personaggi e i proclami alla radio – ma si porta sempre dietro un’aura di inquietudine e un fascino sinistro.
Altre sono cose grosse, che determinano il modo di agire e di pensare dei protagonisti. I giapponesi di Dick, intrisi di misticismo e di rispetto per le antiche tradizioni, si sono portati oltremare l’I Ching, l’antichissimo almanacco divinatorio cinese che permette, attraverso la disposizione casuale di bastoncini di legno, di porre delle domande sul proprio futuro. Tutti in The Man in the High Castle, dai giapponesi agli americani occupati – e con la sola eccezione dei pragmatici nazisti – si affidano all’oracolo nei momenti difficili, lanciando i legnetti e interpretandone i misteriosi esagrammi. Tutti cercano di equilibrare lo yin e lo yang nella propria vita, e di ristabilire l’equilibrio del tao.

Il worldbuilding di Dick è anche uno splendido esempio di cosa significa immaginare le conseguenze delle idee che si introducono. Come accade spesso nella storia umana, gli occupanti giapponesi,  dall’iniziale razzismo verso l’uomo occidentale, hanno sviluppato nel tempo un senso di colpa per aver distrutto la cultura americana, e una fascinazione verso la sua storia e i suoi reperti. E’ nato in questo modo un gigantesco mercato di collezionisti di americana, dalle Colt utilizzate nella guerra di secessione ai poster di arruolamento della Prima Guerra Mondiale, passando per gli orologi di Topolino. Ma accanto al mercato dei cimeli autentici, si è sviluppata un’immensa industria di falsi, come la Wyndam-Matson Corp. per cui lavora lo stesso Frank Frink. E parallelamente, quest’ossessione per le antichità – quelle autentiche e quelle contraffatte – sembra aver soffocato la possibilità di un’arte americana nuova, perché chi mai vorrebbe comprarla, a chi mai potrebbe interessare, quando ci sono in circolazione così tanti francobolli dell’Esposizione Universale di Chicago? Ma che cosa succederebbe al mercato del collezionismo, se i funzionari giapponesi scoprissero che molti dei pezzi che hanno acquistato a peso d’oro sono dei falsi? Questa catena di cause ed effetto lega i destini dei personaggi di Childan, Frink e Tagomi.
Altri aspetti del worldbuilding, purtroppo, tradiscono l’età del romanzo. Se il ritratto dei nazisti rimane generalmente credibile, e attraversa tutto lo spettro umano – dai più fanatici e psicotici, come l’artista Lotze, ai più meschini e opportunisti, come il console Hugo Reiss – i giapponesi sono tutti caratterizzati da una certa aura mistico-filosofica che rispecchia i pregiudizi degli anni ’60, ma oggi appare un po’ ridicola. Il solo fatto che si affidino a tutti i livelli a un testo cinese come l’I Ching, soprattutto alla luce del nazionalismo giapponese del periodo bellico e del disprezzo verso i vicini popoli asiatici, è molto poco credibile.

I Ching yarrow stalks

Bastoncini dell’I Ching. Questi affari si utilizzano per ottenere un esagramma in risposta a una domanda fatta all’oracolo. Non chiedetemi come diamine funzioni ‘sta cacata.

The Man in the High Castle è una strana creatura, che rischia di lasciare freddi e spaesati a inizio lettura, ma che, a chi va avanti, regala una valanga di idee affascinanti e di spiragli sugli abissi dell’animo umano. Il problema del male, il dilemma etico del collaborazionismo, il rapporto tra il vero e il falso, il dubbio su quale sia la realtà vera, nonché il vecchio sano what if politico: tutti questi temi sono approfonditi da Dick in poco più di 200 pagine. Il tutto condito da persone vere che si comportano in modo vero e vivono problemi veri.
Sarebbe potuto essere migliore? Certo che sì. Se Dick fosse riuscito a costruire una chiara trama centrale, che facesse da hook per il lettore e da nodo di collegamento tra le varie storie individuali, certo sarebbe stato più facile seguire il romanzo e capire la direzione della storia. Se avesse limitato il numero di pov, almeno eliminando quelli usa-e-getta, la lettura sarebbe stata meno dispersiva. Certo, è interessante entrare per poche pagine nella visione del mondo di un collaborazionista meschino come Wyndam-Matson o di un nazista come il console Reiss, ma forse c’erano modi più eleganti per raccontare anche quel ‘lato’ della vicenda.
The Man in the High Castle è lontano dalla perfezione. Ma è anche straordinario, e unico nel suo genere – uno strano slice-of-life filosofico di storia alternativa.

Dove si trova
Come quasi tutti i libri di Philip K. Dick, anche questo è un molto facile da trovare. Potete scaricare il romanzo in lingua originale su Library Genesis (ePub, pdf) o su BookFI, il nuovo dominio del fu Bookfinder (ePub, lit, mobi, pdf). Sempre su BookFI si può trovare l’edizione italiana La svastica sul sole.

Churchill vs Hitler

Qualche estratto
Per i due estratti di oggi, ho scelto due momenti particolarmente esemplificativi dell’approccio di Dick, delle sue scene statiche e meditative, delle sue fisse esistenziali e filosofiche. Il primo mostra Frink mentre interroga l’I Ching su una questione della massima importanza: come deve fare per riavere il suo lavoro da Wyndam-Matson? Il secondo, Baynes mentre chiacchiera amabilmente con un tedesco fanatico e riflette su quali siano i tratti della mentalità nazista.

1.
Seated on his bed, a cup of lukewarm tea beside him, Frink got down his copy of the I Ching. From their leather tube he took the forty-nine yarrow stalks. He considered, until he had his thoughts properly controlled and his questions worked out.
Aloud he said, “How should I approach Wyndam-Matson in order to come to decent terms with him?” He wrote the question down on the tablet, then began whipping the yarrow stalks from hand to hand until he had the first line, the beginning. An eight. Half the sixty-four hexagrams eliminated already. He divided the stalks and obtained the second line. Soon, being so expert, he had all six lines; the hexagram lay before him, and he did not need to identify it by the chart. He could recognize it as Hexagram Fifteen. Ch’ien. Modesty. Ah. The low will be raised up, the high brought down, powerful families humbled; he did not have to refer to the text—he knew it by heart. A good omen. The oracle was giving him favorable council.
And yet he was a bit disappointed. There was something fatuous about Hexagram Fifteen. Too goody-goody. Naturally he should be modest. Perhaps there was an idea in it, however. After all, he had no power over old W-M. He could not compel him to take him back. All he could do was adopt the point of view of Hexagram Fifteen; this was that sort of moment, when one had to petition, to hope, to await with faith. Heaven in its time would raise him up to his old job or perhaps even to something better.
He had no lines to read, no nines or sixes; it was static. So he was through. It did not move into a second hexagram.
A new question, then. Setting himself, he said aloud, “Will I ever see Juliana again?” […]
Busily he maneuvered the yarrow stalks, his eyes fixed on the tallies. How many times he had asked about Juliana, one question or another? Here came the hexagram, brought forth by the passive chance workings of the vegetable stalks. Random, and yet rooted in the moment in which he lived, in which his life was bound up with all other lives and particles in the universe. The necessary hexagram picturing in its pattern of broken and unbroken lines the situation. He, Juliana, the factory on Gough Street, the Trade Missions that ruled, the exploration of the planets, the billion chemical heaps in Africa that were now not even corpses, the aspirations of the thousands around him in the shanty warrens of San Francisco, the mad creatures in Berlin with their calm faces and manic plans—all connected in this moment of casting the yarrow stalks to select the exact wisdom appropriate in a book begun in the thirtieth century B.C. A book created by the sages of China over a period of five thousand years, winnowed, perfected, that superb cosmology—and science—codified before Europe had even learned to do long division.
The hexagram. His heart dropped. Forty-four. Kou. Coming to Meet. Its sobering judgment. The maiden is powerful. One should not marry such a maiden. Again he had gotten it in connection with Juliana.
Oy vey, he thought, settling back. So she was wrong for me; I know that. I didn’t ask that. Why does the oracle have to remind me? A bad fate for me, to have met her and been in love—be in love—with her.

Seduto sul letto, con una tazza di tè tiepido, Frink tirò fuori la sua copia dell’I Ching. Estrasse i quarantanove steli di millefoglie dalla custodia di pelle e si concentrò finché non si sentì in grado di controllare adeguatamente i propri pensie­ri e non ebbe elaborato le domande.
Disse ad alta voce: «Come devo rivolgermi a Wyndham-Matson in modo da raggiungere con lui un accordo soddisfa­cente?» Scrisse la domanda sul blocco di carta, poi cominciò a muovere gli steli di millefoglie da una mano all’altra finché non ottenne la prima linea, l’inizio. Un otto. Questo già elimi­nava la metà dei sessantaquattro esagrammi. Divise gli steli e ottenne la seconda linea. Ben presto, esperto com’era, ebbe tutte e sei le linee; l’esagramma era davanti a lui e non ebbe bisogno di consultare il libro. Era in grado di riconoscerlo come l’Esagramma Quindici. Ch’ien. La Modestia. Ah. Colo­ro che sono in basso verranno elevati, coloro che sono in alto abbassati, le famiglie potenti umiliate; non fu necessario consultare il testo… lo conosceva a memoria. Un buon auspicio. L’oracolo gli stava fornendo un responso favorevole.
Eppure provò una certa delusione. C’era qualcosa di fatuo nell’Esagramma Quindici. Troppo prevedibile. Doveva per forza essere modesto. Ma forse c’era un’idea, dietro tutto ciò. In fin dei conti lui non aveva alcun potere sul vecchio W-M. Non poteva imporgli di riassumerlo. Tutto ciò che poteva fare era adottare il punto di vista dell’Esagramma Quindici; era quel momento particolare in cui ci si doveva limitare a far domande, sperare e aspettare fiduciosi. Al momento giusto il cielo lo avrebbe risollevato al suo vecchio lavoro o forse an­che a qualcosa di meglio.
Non c’erano linee da leggere, nessun nove e nessun sei. Era un esagramma statico. Perciò aveva finito. Non poteva diventare un secondo esagramma.
Ma allora, ecco una nuova domanda. Si preparò e disse a voce alta: «Rivedrò Juliana?»
[…] Maneggiò laboriosamente gli steli di millefoglie, con gli occhi fissi sul punteggio. Quante volte aveva fatto domande su Juliana, in un modo o nell’altro? Ecco l’esagramma, for­mato dal passivo movimento casuale dei bastoncini. Casuale, eppure radicato nel momento in cui lui viveva, in cui la sua vita era legata a tante altre vite e particelle dell’universo. Il necessario esagramma che tratteggiava, nel suo schema di li­nee intere e spezzate, la situazione. Lui, Juliana, la fabbrica di Gough Street, le Missioni Commerciali che dettavano leg­ge, l’esplorazione dei pianeti, i miliardi di mucchietti di resi­dui chimici, in Africa, che non erano nemmeno più cadaveri, le aspirazioni di migliaia di persone intorno a lui, nelle squal­lide conigliere di San Francisco, le creature folli di Berlino con i loro volti impassibili e i progetti maniacali… tutto colle­gato in quel momento nel quale si gettavano gli steli di mille­foglie per selezionare la saggezza appropriata in un libro ini­ziato nel trentesimo secolo prima di Cristo. Un libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia – e quella scienza – superba, codificata prima ancora che l’Europa avesse impa­rato a fare le divisioni.
L’esagramma. Il suo cuore ebbe un sussulto. Quarantaquattro. Kou. Il Farsi incontro. Il suo giudizio raggelante. La ragazza è potente. Non bisogna sposare una ragazza del ge­nere. Era venuto fuori di nuovo, in relazione a Juliana.
Vabbé, pensò, rilassandosi. Dunque era la donna sba­gliata per me; lo so. Non è questo che ho chiesto. Perché l’oracolo me lo deve ricordare? Un brutto destino, il mio, quello di averla incontrata e di essermi innamorato – di essere ancora innamorato – di lei.

2.
“I hope we will see one another later on in San Francisco,” Lotze said as the rocket touched the ground. “I will be at loose ends without a countryman to talk to.”
“I’m not a countryman of yours,” Baynes said.
“Oh, yes; that’s so. But racially, you’re quite close. For all intents and purposes the same.” Lotze began to stir around in his seat, getting ready to unfasten the elaborate belts.
Am I racially kin to this man? Baynes wondered. So closely so that for all intents and purposes it is the same? Then it is in me, too, the psychotic streak. A psychotic world we live in. The madmen are in power. How long have we known this? Faced this? And—how many of us do know it? Not Lotze. Perhaps if you know you are insane then you are not insane. Or you are becoming sane, finally. Waking up. I suppose only a few are aware of all this. Isolated persons here and there. But the broad masses… what do they think? All these hundreds of thousands in this city, here. Do they imagine that they live in a sane world? Or do they guess, glimpse, the truth… ?
But, he thought, what does it mean, insane? A legal definition. What do I mean? I feel it, see it, but what is it?
He thought, It is something they do, something they are. It is—their unconsciousness. Their lack of knowledge about others. Their not being aware of what they do to others, the destruction they have caused and are causing. No, he thought. That isn’t it, I don’t know; I sense it, intuit it. But—they are purposely cruel … is that it? No. God, he thought. I can’t find it, make it clear. Do they ignore parts of reality? Yes. But it is more. It is their plans. Yes, their plans. The conquering of the planets. Something frenzied and demented, as was their conquering of Africa, and before that, Europe and Asia.
Their view; it is cosmic. Not of a man here, a child there, but air abstraction: race, land. Volk. Land. Blut. Ehre. Not of honorable men but of Ehre itself, honor; the abstract is real, the actual is invisible to them. Die Güte, but not good men, this good man. It is their sense of space and time. They see through the here, the now, into the vast black deep beyond, the unchanging. And that is fatal to life. Because eventually there will be no life; there was once only the dust particles in space, the hot hydrogen gases, nothing more, and it will come again. This is an interval, ein Augenblick. The cosmic process is hurrying on, crushing life back into the granite and methane; the wheel turns for all life. It is all temporary. And they—these madmen—respond to the granite, the dust, the longing of the inanimate; they want to aid Natur.
And, he thought, I know why. They want to be the agents, not the victims, of history. They identify with God’s power and believe they are godlike. That is their basic madness. They are overcome by some archetype; their egos have expanded psychotically so that they cannot tell where they begin and the godhead leaves off. It is not hubris, not pride; it is inflation of the ego to its ultimate confusion between him who worships and that which is worshiped. Man has not eaten God; God has eaten man.

«Spero che ci rincontreremo, a San Francisco,» disse Lot­ze mentre il razzo toccava il suolo. «Mi sentirò sperduto, sen­za un connazionale con cui parlare.»
«Io non sono un suo connazionale,» disse Baynes.
«Oh, sì, è vero. Ma dal punto di vista razziale siamo mol­to vicini. E anche sotto il profilo delle intenzioni e degli obiet­tivi.» Lotze cominciò a muoversi sul sedile, preparandosi a slacciare la complicata cintura di sicurezza.
Sono simile a quest’uomo, dal punto di vista razziale? si domandò Baynes. Simile a tal punto da avere le stesse inten­zioni e gli stessi obiettivi? Allora c’è anche in me quella vena psicotica. È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I paz­zi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E… quanti di noi lo sanno? Non Lotze. Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è paz­zo. Oppure può dire di essere guarito, finalmente. Si risve­glia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse… che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intravedono, intuiscono in qualche modo la verità?
Ma, pensò, che cosa significa la parola pazzo? È una de­finizione legale. E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che cos’è?
È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno anco­ra causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento, lo intuisco, ma… sono volutamente crudeli… è quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c’è di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista dei pianeti. Qualco­sa di frenetico e di folle, così come lo è stata la loro conqui­sta dell’Africa, e prima ancora dell’Europa e dell’Asia,
La loro visione; è cosmica. Non un uomo qua, un bambi­no là, ma un’astrazione: la razza, la terra. Volk. Land. Blut. Ehre [Popolo. Terra. Sangue. Onore]. Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma l’Ehre stesso; per loro l’astratto è reale, e il reale è invisibile. Die Gute [Il bene], ma non gli uomini buoni, non quest’uomo buono. È il loro senso dello spazio e del tempo. Essi vedono attraverso il “qui” e “ora”, nell’enorme e nero abisso che c’è al di là, nell’immutabile. E questo è fatale alla vita. Perché alla fine non ci sarà più vita; una volta c’erano soltanto le particelle di polvere nello spazio, gli ardenti gas di idrogeno, e niente più, e così tornerà a essere. Questo è un intervallo, ein Augenblic [Un attimo]. Il processo cosmico procede a grandi passi, fran­tumando la vita e riducendola di nuovo a granito e metano; la ruota gira sempre, per tutta la vita. È tutto temporaneo. E loro – questi pazzi – rispondono al granito, alla polvere, al desiderio dell’inanimato; essi vogliono aiutare la Natur.
E io, pensò, so perché. Vogliono essere gli agenti, non le vittime, della storia. Si identificano con la potenza di Dio e credono di essere simili a dèi. Questa è la loro pazzia di fon­do. Sono sopraffatti da qualche archetipo; il loro ego si è di­latato psicoticamente a tal punto che non sanno più dire dove essi cominciano e dove finisce la divinità. Non è hybris, non è orgoglio; è l’ego gonfiato a dismisura, fino all’estre­mo… la confusione tra colui che adora e colui che è adorato. L’uomo non ha divorato Dio; Dio ha divorato l’uomo.

Tabella riassuntiva

Un affascinante affresco su un mondo in cui l’Asse ha trionfato. Una storia frammentata senza una vera trama unificante.
Protagonisti affascinanti che maturano affrontando i loro problemi personali.  Il ritmo lento e i balzi da una storia all’altra distaccano dai protagonisti.
Sense of wonder fantastorico a palate! Infodump e monologhi interiori gestiti in modo poco elegante.
Insolito approccio slice-of-life al genere ucronico.

Gli Italiani #08: Caligo

CaligoAutore: Alessandro Scalzo (Angra)
Genere: Science Fiction / Ucronia / Steampunk
Tipo: Romanzo

Anno: 2014
Pagine: 210 ca.
Editore: Vaporteppa

Barbara Ann Axelrod, giovane rampolla dell’aristocrazia europea, nonché figlia del primo uomo a mettere piede su Marte, sta tornando a Genova per la prima volta dopo tre anni. Tutto, nella Repubblica di Zena, sembra rimasto come l’aveva lasciato: i fumi che appestano la città bassa, il collegio di suore che le dà vitto e alloggio, lo zio Watson che si prende cura di lei. Nulla di più sbagliato.
C’è un assassino a piede libero in città, un tizio soprannominato il Cannibale che va in giro a mangiare la faccia di giovani ragazze. Gruppi insurrezionalisti si danno convegno la notte inneggiando alla rivolta e al ritorno del Vero Re. I livelli di onde Z nell’aria continuano a salire. E come se non bastasse, da un po’ di tempo Barbara Ann è perseguitata da una brutta emicrania e dalle allucinazioni – attacchi così forti che nemmeno i Massaggi Medico-igienici per Signorine riescono a darle un duraturo sollievo! Che abbia a che fare con l’ossessione che assalì suo padre di ritorno da Marte, e che lo spinse a girare i quattro angoli del pianeta fino a che non scomparve in un tragico incidente? Barbara Ann ancora non lo sa, ma stanno per succedere delle cose, a Zena, che sconvolgeranno la sua vita – e non solo la sua – per sempre.

Ho comprato Caligo il giorno stesso che è uscito. Tre i motivi. E’ il primo romanzo italiano inedito pubblicato da Vaporteppa, quindi un banco di prova importante per valutare la qualità della neonata collana del Duca. E’ la seconda opera di Alessandro Scalzo (aka Angra), di cui avevo letto e recensito un paio di anni fa il bel Marstenheim: ero quindi curioso di vedere se fosse migliorato. Infine, è un raro esempio di romanzo steampunk italiano, sponsorizzato tra l’altro da uno – il Duca medesimo – che ne sa a palate.
Caligo è un’ucronia ambientata in un 1912 in cui l’Italia non è mai diventata una nazione unita. Gran parte del Nord Italia è ancora una provincia dell’Austria, il Piemonte è rimasto un piccolo regno e la Gran Bretagna, prima potenza europea, ha fatto della Repubblica di Zena (Genova in dialetto genovese) un suo protettorato. Si viaggia in aeronave, gli eserciti europei hanno in dotazione mech da combattimento e l’uomo ha già posato i piedi sul suolo marziano. Il romanzo si sviluppa come una storia d’investigazione strutturata in giornate – ogni giornata è un capitolo – in cui a poco a poco Barbara Ann porterà alla luce cosa c’è di marcio sotto la patina (già marcia) della città di Zena. Intrighi internazionali, sovrannaturale, copie di contrabbando di Superomo – non manca niente. Finalmente anche noi italiani abbiamo un romanzo steampunk degno di questo nome?1

Steampunk goggles cat

Ecco: di questi ne abbiamo avuti pure troppi.

Uno sguardo approfondito
Da un’opera brandizzata Duchino, ci si aspetta prima di tutto che ponga molta cura nello stile; che sia scorrevole, immersivo e vivido – e Caligo non delude. La storia è narrata in prima persona al tempo presente dal pov di Barbara Ann. Il romanzo si sviluppa nell’arco di una settimana in cui, attraverso gli occhi della bella italo-britannica, scorrazziamo in giro per la città di Zena (e non solo) e scopriamo a poco a poco lo strano 1912 steampunk immaginato da Angra. La densa coltre di smog che appesta la città bassa, e che obbliga la gente a spostarsi con una maschera antigas addosso; le brutte isole galleggianti al largo della costa genovese, dove si ergono i grigi casermoni dei condomini dei proletari che non possono permettersi una casa sulla terraferma, e che Barbara vede dall’alto dell’aeronave mentre si appresta ad atterrare; le piccole pasticcerie artigianali dai nomi tradizionali, dove comprare un sacchettino di sfogliatelle alla crema al whisky: tutti questi dettagli concreti arrivano al lettore attraverso le peregrinazioni di Barbara Ann e compongono pezzo per pezzo il puzzle che è l’ambientazione di Caligo.
Oltre a essere immersivo e ridurre al minimo i filtri tra noi e la storia, l’uso della prima persona ha un altro importante vantaggio: la gestione degli infodump. Come ho già ricordato altre volte, un’ambientazione ucronica è problematica da gestire, perché bisogna dare al lettore molte informazioni solo perché riesca a orientarsi, ma al tempo stesso bisogna resistere alla tentazione di spiattellare nozioni con un brutto raccontato. Ma usando la prima persona, si può far passare un piccolo infodump come un ricordo o una riflessione della protagonista, risvegliato da un avvenimento presente. Barbara Ann torna al collegio delle orsoline dopo tanti anni, e ricorda la sua infanzia e gli insegnamenti delle suore; rilegge uno stralcio dei diari di suo padre, e ripensa alla sua vita e alle sue ossessioni, permettendo anche a noi di imparare qualcosa del colonnello Axelrod. Altri elementi dell’ambientazione non sono mai spiegati, ma si capiscono dal contesto, come le misteriose Onde Z che piagano la Repubblica di Zena e i suoi abitanti: niente “As you know, Bob” e niente “Le onde Z sono…”; semplicemente, vediamo cosa succede alla gente quando i livelli di onde Z nell’aria diventano troppo alti. Perché le uniche informazioni che servono al lettore sono quelle che fanno accadere le cose, sono quelle che impattano direttamente sulla trama.

Da ultimo, è bello essere nella testa di quella matta di Barbara Ann. Inizialmente ero un po’ preoccupato: la protagonista di Caligo pareva un concentrato di fanservice ambulante. Minorenne, bellissima, tette enormi, bisessuale, trombate come merce di scambio, devota seguace della scuola del Dr. Herzog e dei suoi massaggi medico-igienici per signorine per bene: divertente, per carità, e a tratti squisitamente retard, ma pareva uscito dalla mente di un ciccionerd che non vede una figa dall’anno in cui è uscito Pong. E invece Barbara Ann è un ottimo protagonista.
Innanzitutto, è un’eroina forte e attiva. Nel corso di tutto il romanzo, la maggior parte delle sue azioni sono frutto di decisioni personali, di una propria agenda; Angra evita l’espediente pigro – comune soprattutto tra scrittori alle prime armi – di fare del proprio protagonista un semplice esecutore delle decisioni di qualcun altro (sia esso un mentore, maestro, amico, superiore, e via dicendo). Campionessa di scherma fin da piccola, Barbara Ann non è una ragazza normale che d’improvviso si scopre guerriera – fin dalle prime pagine è stabilito che è una tipa superatletica e incline all’azione.

Fanservice

Nonostante la sua vacuità di facciata, inoltre, Barbara Ann è un personaggio complesso. Apparentemente progressista (si fa uomini e donne, studia matematica, da grande vorrebbe fare la pilota di mech), è pur sempre il frutto del suo rango sociale e della sua educazione: condivide le opinioni sulla superiorità razziale dei bianchi propria della sua epoca, rimane inorridita di fronte a un gendarme che la tratta come una plebea qualsiasi, e non può fare a meno di guardare dall’alto in basso un operaio che vive nella merda. Ipocrita nel midollo – come la classe sociale da cui proviene – vive il sesso con nonchalance ma non si concede orgasmi perché non è per bene. Insomma, in lei troviamo tutte le ambiguità e contraddizioni della gente reale.
Nell’analizzare la protagonista, tra l’altro, ci imbattiamo in un altro interessante corollario dello show don’t tell. Benché la narrazione sia in prima persona, noi abbiamo accesso solamente ai pensieri più superficiali del personaggio pov: quello che percepisce e fa qui ed ora, ed eventuali ricordi o associazioni di idee che qui ed ora le risveglia. Il personaggio non sta a psicanalizzarsi per il nostro beneficio (come non lo fanno le persone reali, a meno di averne una naturale inclinazione), né l’autore si mette a spiegarci il personaggio. Sta a noi capire le sue motivazioni profonde, in base a ciò che dice, fa, e pensa superficialmente; in base al non detto e alle contraddizioni tra pensiero e azione. Ad alcuni Barbara Ann è risultata un protagonista piatto e poco caratterizzato, ma è perché sono stati disattenti: in realtà è un personaggio molto affascinante, ed è indubbio merito di Angra essere riuscito a renderla tale senza spiattellarci in faccia il suo subconscio.
A fronte di tutto questo, le scene di pornaccio di serie c – che non mancano – il tripudio di tettone, ditalini, numeri di Superomo e monster cockz ci stanno e alla grande. E sono un piacevole diversivo rispetto alle investigazioni e agli scontri che costituiscono il cuore del romanzo.

Certo: aver scelto una protagonista altolocata e dalla vita facile come Barbara Ann ha anche i suoi problemi. Per gran parte del romanzo il livello di conflitto percepito e la tensione rimangono bassi, e questo perché non sentiamo che la vita della protagonista sia davvero in pericolo, o che lei stia rischiando davvero grosso. Quando Barbara Ann all’inizio del romanzo si mette sulle tracce del Cannibale, esponendosi così al rischio di farsi mangiare la faccia, è lei che prende questa decisione – e per nessuna motivazione più impellente del mettersi in gioco e dimostrare agli altri di che pasta è fatta. Si ha sempre l’impressione che in qualsiasi momento potrebbe “uscire dal gioco”, tornare nella sua stanza e non le sarebbe torto un capello. Siamo lontani anni luce dal senso di angoscia che si prova, per esempio, con Jason Taverner di Flow My Tears, diventato una non-persona e braccato dalla polizia internazionale; o con i bambini di Ship Breakers, che morirebbero di stenti se smettessero di scavare pezzi di rame dai rottami delle navi spiaggiate; o nel conflitto tra umani e yilané in West of Eden, dove la posta in gioco è l’estinzione di una delle due razze. In Caligo, la posta si alza veramente solamente verso la metà del romanzo; e solo negli ultimi capitoli si fa strada quella sana sensazione di ineluttabilità che ti spinge a divorare le pagine successive per sapere se la tua eroina ce la farà o meno.
Senza questo senso di urgenza, i primi capitoli mantengono un ritmo molto lento ed è facile posare il libro. Nelle prime giornate, Barbara Ann vive una serie di episodi perlopiù slegati tra loro (l’indagine sul Cannibale, l’investigazione dei moti insurrezionalisti, l’appuntamento con la bella hostess elvetica, l’esame del cervello alla clinica austriaca). Il lettore, che sa di stare leggendo un romanzo, fa un atto di fede e si aspetta che prima o poi tutti i tasselli formino un unico mosaico e che nessun episodio sia inutile; ma appunto, è una riflessione meta-narrativa. E a trasmettere questa sensazione di lentezza contribuiscono alcuni dialoghi legnosi – soprattutto quelli con lo zio Watson – che si trascinano senza energia per un sacco di pagine e passano in modo poco naturale da un argomento all’altro in stile lista della spesa. A volte, a leggere questi scambi, mi immaginavo l’autore che spuntava voci da una checklist mentale: “Ok, devono parlare di questo, questo, e questo… fatto, fatto, fatto…”. La funzione di questi dialoghi è informativa, ma il modo meccanico in cui le informazioni vengono trasmesse e la quasi totale assenza di conflitto li rendono poco scorrevoli.

All the fucks I give

Alcuni dialoghi suscitano questa reazione.

Ma sono difetti passeggeri, e si dimenticano in fretta se ci si sofferma a godere l’ambientazione costruita da Angra. Dagli elementi più corposi (la proliferazione di condomini galleggianti per poveracci come conseguenza della conformazione di Genova, stretta tra il mare e le montagne) ai dettagli più piccoli (la pubblicità dell’eroina San Pellegrino!), tutto testimonia di una grande cura. Le trovate bizzarre abbondano, ma non sono mai gratuite – risultano sempre giustificate e coerenti col contesto. E nel descrivere molti macchinari, dai mech in dotazione all’esercito agli scafandri, l’autore mostra una precisione e una padronanza della terminologia davvero buona – del resto Angra è ingegnere – e al contempo mi convince che io (che una formazione scientifica degna di questo nome non ce l’ho) non potrei mai scrivere steampunk.
Insomma, in Caligo non ci sono forse quelli che Gamberetta chiamava gli WOW maiuscoli, quel sense of wonder cosmico che ti fa vedere la realtà sotto una nuova prospettiva; ma tutta una costellazione di piccoli “wow” fantascientifici. Io stesso, che in genere rimango abbastanza freddino di fronte alle scene di esperimenti scientifici all’opera, sono rimasto deliziato dalla descrizione della macchina che realizza riproduzioni in caramello del cervello del paziente. Dallo scafandro protettivo indossato dalla dottoressa agli elettrodi all’uso stesso del caramello per fare il calco, tutta la scena è geniale e trasuda sense of wonder.
Nessuna menzione particolare, invece, per i personaggi secondari. Il punto di vista saldamente ancorato su Barbara Ann impedisce di approfondirli più di tanto, e la maggior parte di essi non si distacca dal loro ruolo funzionale e dallo stereotipo. Rimane in testa qualche personaggio più variopinto, come Armando, fotografo di nudi e rivoluzionario, dai baffi a manubrio e il membro equino; o Gallo, classico teppista di strada senza prospettive su cui però Angra ha innestato una bella storyline.

Mi viene spontaneo paragonare Caligo a un’altra grande opera steampunk incontrata sulle pagine di Tapirullanza: The Difference Engine di Gibson e Sterling. Anche dietro quel romanzo c’era un lavoro di documentazione enorme e una cura quasi maniacale nei dettagli. Ma laddove The Difference Engine era pretenzioso, pesante, prolisso, il romanzo di Angra è scanzonato, ironico, plot-driven. Sa quando deve essere drammatico e cupo, e quando non prendersi troppo sul serio e infilare un aneddoto sulle suore. E una volta che ingrana, il ritmo diventa frenetico – ho divorato le ultime ottanta pagine una dietro l’altra. La protagonista, anche, evolve nel corso della storia ed esce trasformata dall’avventura: ragazza viziata e un po’ naif (nel suo modo sveglio e paraculo di esserlo) all’inizio del libro, ne passerà talmente tante che alla fine della storia la troveremo diversa.
Quanto al finale, devo ammetterlo, mi ha lasciato un certo senso di insoddisfazione. Benché l’arco narrativo del romanzo si chiuda e tutte le domande principali trovino risposta, diversi interrogativi minori (sul destino di personaggi secondari, sul futuro di Zena and so on) rimangono aperti; soprattutto, è un finale che non allenta – non del tutto – la tensione accumulata nelle sequenze finali, e che ti lascia che ne vorresti ancora. Tutto sembra preludere, insomma, a un secondo romanzo che continui le avventure della nostra eroina (non vi sarà sfuggita la dicitura “La prima avventura di Barbara Ann” sotto al titolo), magari da maggiorenne e vaccinata. Angra si trova tra le mani un’ambientazione con un potenziale enorme e ancora largamente inespresso, quindi non penso proprio che si lascerà sfuggire l’occasione.

Baffi a manubrio

Baffi a manubrio. So sexy…

Insomma, spero di poter leggere in futuro un secondo romanzo ambientato nel mondi di Caligo. Nel frattempo, posso dire che l’esperimento è pienamente riuscito, e che ci troviamo tra le mani un ottimo romanzo ucronico. Posso dire tranquillamente che, tra le opere recensite fino adesso in questa rubrica – che si chiamava “Gli Autopubblicati” e ora si chiama “Gli Italiani” – è senza dubbio la migliore. Non che ci fossero molti dubbi: come si può non adorare un romanzo con scritte frasi di questo tenore?

Il Signor Armando mi stantuffa con la foga di un ciclista in fuga, di un rematore olimpionico a poche lunghezze dal traguardo e dalla medaglia d’oro.

Vaporteppa non poteva cominciare la sua pubblicazione di inediti italiani meglio di così.

Dove si trova?
A questa pagina del sito di Vaporteppa troverete la scheda del libro. Potete comprare l’ePub del romanzo su Ultima Books; altrimenti, se siete possessori di kindle, rivolgetevi ad Amazon per il mobi. Il prezzo è un onesto 4,99 Euro.

E già che parliamo di Vaporteppa…
La notizia dell’ultima ora è che proprio oggi Vaporteppa ha pubblicato una nuova opera a pagamento. La rivelazione è fonte di grande giubilo per questo blog, perché il libro in questione altro non è che la traduzione in italiano di War Slut di Carlton Mellick III, decano della Bizarro Fiction. Potete leggere l’annuncio qui su Vaporteppa, oppure andare immediatamente a comprare la vostra copia di Puttana da Guerra su Amazon o Ultima Books.
War Slut non è che la prima di tre opere che saranno portate in Italia da Vaporteppa nelle settimane a venire. Gli altri due titoli che potremo vedere in futuro nella nostra lingua sono The Morbidly Obese Ninja e The Haunted Vagina.

Puttana da Guerra

La copertina dell’edizione italiana di War Slut.

Qualche estratto
Dato che la protagonista è una parte così importante del romanzo, ho scelto due brani che ne mettessero in luce alcune delle caratteristiche più interessanti. Il primo mostra il suo primo ‘incontro’ con gli insurrezionalisti di Zena e le loro idee complottiste; il secondo, una scena di sesso.

1.
Davanti alla sala scommesse di Via Fratelli Bufera, due gendarmi di quartiere scherzano con uno storpio. Uno lo tiene per il naso, l’altro gli batte il manganello sulla gobba. Il primo gendarme lascia andare il malcapitato, e indica all’altro qualcosa avanti lungo la strada.
Un ragazzo in salopette blu e camicia grigia sta spennellando colla su un manifestino, appiccicato a fianco della vetrina della Pasticceria Sorelle Berardengo. Il secondo gendarme porta il fischietto alla valvola di sfiato della maschera antismog e fischia. Il ragazzo si volta di scatto, li vede. Getta via il pennello e un rotolo di manifestini e si dà alla fuga, nel vicolo a sinistra.
I gendarmi si lanciano all’inseguimento, sfollagente alla mano, spariscono anche loro nel vicolo. Il ragazzo schizza fuori di nuovo, e loro dietro. Corre dalla mia parte. È magro, con un ciuffo di capelli neri che spunta da sotto il cappello floscio. Sfrecciandomi accanto mi getta un’occhiata, sgrana i suoi occhi azzurri come se avesse appena avuto un’apparizione mistica. Lo seguo allontanarsi con lo sguardo.
I due gendarmi ne hanno avuto abbastanza di inciampare nei pastrani. Il primo si mette a strappare il manifestino dal muro, l’altro raccoglie quelli caduti. Li raggiungo, cerco di sbirciare. Quello intento a staccare il manifestino si volta, e mi agita il manganello davanti al naso.
«Via, via, non c’è niente da vedere! Circolare!»
Minacciarmi con il manganello, a me! Razza di carogna infame, ai tempi del mio bisnonno il Duca Pallavicini ti avrebbero bastonato a morte per quest’affronto, e lasciato a crepare con la testa infilata in una latrina, ché a ficcarti la punta del fioretto nel cuore sarebbe stato farti troppo onore!
Per sbollire la rabbia mi infilo nella pasticceria delle Sorelle Berardengo. Il profumo zuccheroso dei babà al rum e delle tortine all’arancia mi calma un po’. Ma domani presenterò senz’altro un esposto al Viceré britannico, ché questi sbirri italiani delle colonie non dovrebbero esser mandati di ronda senza un vero bianco a comandarli, o perlomeno non dovrebbero aver giurisdizione sui cittadini britannici, che diamine.
Esco con un sacchetto di sfogliatelle alla crema al whisky, sapendo già che poi mi pentirò scoprendo che la circonferenza del petto mi è aumentata di un altro pollice, ché da un po’ di tempo a questa parte sembra che tutto ciò che mangio vada a finire solo lì e basta.
Un manifestino è finito tra il cassone dell’immondizia e il bordo del marciapiede. Faccio un rapido controllo, i gendarmi non sono più in vista. Con discrezione mi chino e lo raccolgo, e lo nascondo nella borsetta. Mi allontano un po’ prima di ritirarlo fuori.

Svegliati Zena, apri gli occhi…
*** NESSUN UOMO È MAI ***
** STATO SU MARTE! **
Rigetta le sue menzogne in faccia
all’invasore britannico!
Boicotta l’Expo 1912!
È il Vero Re che te lo chiede!

Ohibò, questa poi è proprio bella. E mio padre allora, che fu il primo uomo a posare il piede sulle sabbie marziane nel 1894, un anno prima che io nascessi?

Oh ma non vedete che l’uomo non è mai stato sulla Luna Marte? SVEGLIAAA!

2.
Col grembiule tirato su a scoprirgli la pancia tonda, che trema come gelatina, il Signor Luciano mugola accompagnato dai gemiti del nastro trasportatore. Lo cavalco quasi nuda, con indosso solo le mie calze alla parigina, lui mi accarezza le cosce appena più su della calza. Il nastro ci trascina lungo le guide per tutto il perimetro della fabbrica, lui steso supino e io sopra a cavalcioni. Un paio di varianti nel percorso vanno a formare due grandi otto sbilenchi.
Ho la pelle d’oca, e il petto imperlato di sudore nonostante l’aria gelida che soffia dai bocchettoni refrigeranti. Gli scossoni del nastro mi fanno ballonzolare i seni. I miei capezzoli guardano in avanti, un po’ verso l’alto, tondi e duri come caramelle. Il Signor Luciano solleva le mani callose unte di grasso, mi afferra le mammelle e me le strizza forte.
Il nastro scorre fra le postazioni di lavorazione del tonno sott’olio come il trenino della Piccola Fabbrica degli Orrori al Luna Park. Ganci, pinze, ugelli, bracci meccanici, seghe a nastro. Tutto è immobile, ma gli sbuffi di vapore che ci investono al passaggio fanno capire che le macchine sono solo addormentate. Mi preoccupa l’idea che uno dei bracci articolati si rianimi all’improvviso e mi infili un uncino in un occhio. Il ronzio elettrico dei generatori vibra nel capannone di lamiera come uno sciame di calabroni impazziti, il motore a vapore principale copre i miei ansiti e i versi da tricheco del Signor Luciano, che sta aggrappato al nastro di gomma e ha gli occhi girati all’insù.
Il Signor Luciano non somiglia per niente a Padre Mizzi, che era giovane e bello come un Apollo e ci faceva stare nude inginocchiate sui ceci durante il sacramento della confessione, perché, diceva, “la nostra anima deve essere nuda dinnanzi al Signore”. Però, anche se è vecchio e grasso e peloso, il Signor Luciano ha un pene che è quasi due volte quello di Padre Mizzi. Dopo un quarto d’ora che lo cavalco devo pensare a qualcosa per distrarmi, altrimenti rischio di godere, e sai che figuraccia da sgualdrina?

Tabella riassuntiva

Ottima protagonista: tettona ma al contempo eroica e complessa. Inizio lento e dalla natura troppo ‘episodica’.
Ambientazione steampunk diversa dal solito e piena di trovate Nella prima parte del libro Barbara Ann non sembra davvero in pericolo.
Pov immersivo e prosa ‘mostrata’.
Rigore scientifico ovunque possibile.


(1) Ci sarebbe, a dire il vero, anche Assault Fairies di Gamberetta, di cui era stata autopubblicata la prima parte già nel lontano 2011. Ma ad oggi, Assault Fairies è – ahimé – ancora incompiuto. Spero che Gamebretta riesca prima o poi a finirlo perché era veramente figo.Torna su

I Consigli del Lunedì #40: West of Eden

West of EdenAutore: Harry Harrison
Titolo italiano: L’era degli Yilanè
Genere: Science-Fantasy / Ucronia
Tipo: Romanzo

Anno: 1984
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 490 ca.

Difficoltà in inglese: ***

What was to come would be a clash such as this world had never seen.
A savage battle between two races who were united in only one thing; their absolute hatred of one for the other.

Da grande, Kerrick sarà un vero cacciatore come suo papà Amahast. Insieme agli altri cacciatori della tribù di cui Amahast è a capo, il piccolo Kerrick è sceso alle coste meridionali, dove fa caldo, per fare scorta di cibo per l’inverno. Finché un giorno sulla costa non approdano delle strane creature, con l’aspetto di rettili ma che camminano come uomini, a bordo di un’orribile nave senziente. Sono gli Yilané. E sono venuti a prendersi questa terra.
Per millenni gli Yilané hanno dominato incontrastati nel Vecchio Mondo, trincerati nelle loro gigantesche città bioingegnerizzate. Ma ora le cose stanno cambiando: è in arrivo una nuova Glaciazione, e la morsa del gelo rende inospitali le loro terre. L’ambiziosa Vainté è stata incaricata dalla signora di Inegban di viaggiare verso climi più caldi, nel Nuovo Mondo, e lì preparare una nuova città che possa accogliere gli Yilané del Vecchio quando il freddo sarà diventato intollerabile. Ma gli uomini non sono pronti a cedere la propria casa a quegli esseri repellenti venuti dal mare. Nel Nuovo Mondo sta per scatenarsi una guerra come questo pianeta non ne ha mai viste.

Quando ero piccolo anche a me, come a tutti quelli della mia generazione, piacevano da matti i dinosauri. Alle elementari inventavo e scrivevo storie su dinosauri umanoidi e intelligenti. Crescendo grazie al cielo ho smesso, ma in compenso non ho mai smesso di trovare affascinante la domanda: cosa sarebbe successo se i dinosauri non si fossero mai estinti, e se anzi avessero avuto a disposizione trecento milioni di anni di tempo per evolvere? I mammiferi superiori sarebbero mai nati, e ci sarebbe l’uomo? E se sì, come convivrebbero queste due specie intelligenti? West of Eden è una possibile risposta a queste domande.
Harry Harrison immagina un mondo alternativo in cui l’estinzione di massa al termine del Cretaceo non è mai avvenuta, e quindi i rettili, e non i mammiferi, hanno ereditato la Terra. Nel corso di centinaia di migliaia di anni, gli Yilané hanno costruito una civiltà avanzatissima da una sponda all’altra del continente eurasiatico, mentre una forma di essere umano ha visto la luce nelle Americhe. L’Oceano Atlantico ha tenuto le due specie divise per tutto questo tempo e ignare le une delle altre. Ora, per la prima volta, le due specie stanno per entrare in contatto – West of Eden racconta quello che succede dopo. Il romanzo ha conosciuto anche un breve momento di celebrità in Italia negli anni ’90, col nome “L’era degli Yilané” – molti trentenni di mia conoscenza lo venerano come un libro di culto – ma oggi sta cadendo nel dimenticatoio. E’ dunque mio preciso dovere riportare questa piccola perla alla vostra attenzione.

Raptor Jesus

E’ andata così. Circa.

Uno sguardo approfondito
West of Eden è la storia di uno ‘scontro di civiltà’. E per raccontare al meglio questo scontro, Harrison fa una scelta interessante: prende come protagonisti un essere umano e una Yilané, alternando le vicende dell’uno e dell’altra, e quindi i punti di vista dell’una e dell’altra specie. Da una parte il piccolo Kerrick, che viene catturato dagli Yilané all’inizio del romanzo e condotto nella loro nuova colonia come prigioniero e oggetto di studio; dall’altro Vainté, la governatrice in carica della nuova colonia, con sulle spalle il compito di far crescere la città e sterminare la potenziale minaccia degli umani nativi.
Il risultato, è un’ambientazione e un’atmosfera che hanno pochi eguali nella narrativa fantastica. Sulle fondamenta di un romanzo ‘preistorico’, con protagoniste piccole tribù nomadi che si muovono tra giungle e pianure, sul tipo della saga Earth’s Children di Jean Auel o di The Inheritors di Golding, si innesta il mondo tecnologico degli Yilané, con tutte le sue storie di ambizione, gerarchia sociale, lotte politiche intestine, manipolazioni di DNA. Storie di caccia da una parte, discussioni di urbanistica dall’altra. E a questo si aggiunge il sapore tutto particolare dell’inversione: nel mondo di Harrison, noi uomini siamo la civiltà arretrata, i nativi americani di turno; la specie avanzata sono le lucertole.

Parlando di Kerrick e Vainté ho detto semplicemente “protagonisti” e non “personaggi pov”, ahimè, per una ragione: a Harrison sembra sfuggire completamente – e non solo qui, ma in tutti i suoi romanzo – il concetto di ‘punto di vista’. In West of Eden, la telecamera vive di vita propria e si sposta di luogo in luogo, di testa in testa ogni poche pagine. Il principio è: chiunque sia nel raggio visivo o mentale dell’attuale pov, potrebbe diventare in qualsiasi momento il nuovo pov. Abbiamo quindi le tipiche scene da mal di mare in cui si fa fatica a capire chi stia pensando o vedendo cosa perché la telecamera passa da un personaggio all’altro senza fissarsi a lungo su nessuno.
Abbondano naturalmente i pov usa-e-getta, usati per poche scene o anche una sola volta, in contesti in cui i normali punti di vista di tre o quattro personaggi chiave sarebbero stati sufficienti. Certe scelte sono particolarmente esilaranti nella loro inutilità, come il pov che a un certo punto va per poche righe su una tigre dai denti a sciabola (!), giusto il tempo di far guardare alla suddetta tigre un altro personaggio (umano) e poi passare la telecamera al personaggio suddetto. O ancora, nella seconda metà del libro, all’inizio di un capitolo, viene introdotto il pov di un ragazzino della tribù, con tutto il suo vissuto di sogni, paure, aspirazioni personali, solo per fargli fare una piccola scoperta che porta avanti la trama. Il ragazzino, inutile dirlo, non apparirà più nelle restanti centocinquanta pagine di romanzo.

Tigre dai denti a sciabol

“Mi sembra… mi sembra di vedere… un personaggio-pov!”

Non ci sono dubbi che a tenere la telecamera in mano per tutto il libro sia il Narratore Onnisciente. A volte la sua presenza si fa addirittura (e inutilmente) esplicita, con commenti su cose di cui il pov del momento non potrebbe mai rendersi conto. Ecco per esempio un passaggio con protagonista Kerrick: “If he had been of an introspective turn of mind, he might have compared the movement of the Yilané in their city to that of the ants in their own cities beneath the ground”. Ma nel caso non fossimo del tutto convinti che questo non è il pov di Kerrick, poco oltre l’autore ci tiene a toglierci ogni dubbio: “Not an exact analogy, but a close one that he never even considered”. Grazie, Harry, di questa preziosa precisazione.
La conseguenza di questa gestione criminale del pov è la solita che ormai conosciamo bene: il distacco del lettore. Entrare negli occhi e nella testa di tutti questi personaggi è come non entrare nella testa di nessuno, e infatti leggendo West of Eden sembra di essere un uccello che guarda dall’alto quello che succede, senza farsi coinvolgere. Le emozioni e i pensieri dei personaggi ci vengono continuamente raccontati, anche se quando vuole Harrison sa farli gesticolare in modo efficace. I dialoghi indiretti abbondano, così come i riassuntini di giorni e mesi di avvenimenti. Anche momenti cruciali come le battaglie campali tra le due specie finiscono per essere raccontate succintamente e senza interesse, come in questo passaggio di troisiana mestizia:

The slaughter was terrible, far worse than that of the day before. The hunters fired and fired and screamed with joy as they did. The Yilanè above them were brought down, the corpses of their towering mounts falling and slithering into the deadly chaos below.
[…] Twice more they ambushed the murgu. Twice more trapped them, killed them, disarmed them. And fled. The sun was dropping towards the horizon then as they stumbled up the trail.

Ma questo è il modo in cui Flaubert descriveva le battaglie campali nel suo Salammbò. Da allora alla pubblicazione di West of Eden sono passati quasi centocinquant’anni: non è concepibile che non ci sia stato un progresso.

Dinosauri che minimizzano

Consoliamoci con un’altra presa per il culo dei dinosauri.

Il distacco del lettore è una delle cose peggiori che possa accadere in un romanzo. Il lettore si sente meno coinvolto, si annoia e si distrae più facilmente, e può finire col ritenere la lettura del libro una perdita di tempo. E se questo è già un problema in un romanzo ambientato ai giorni nostri, figurarsi in un setting esotico come quello di West of Eden, in cui il lettore deve spendere più energie (a livello di immaginazione, sforzo intellettuale, emotivo) per immergersi.
Se sto raccontando la storia di Mario, neolaureato in lettere che studia per il concorso pubblico da insegnante, posso anche scrivere alla cazzo di cane, e ugualmente il lettore non farà fatica a mettersi nei suoi panni, e a gioire e soffrire con lui (circa). Ma nel romanzo di Harrison non c’è niente di familiare. Da una parte abbiamo i Tanu che, pur essendo innegabilmente esseri umani, sono però cacciatori-raccoglitori preistorici, con cui non condividiamo molto né come habitat, né come cultura, né come sogni. Dall’altra, abbiamo creature completamente aliene, rettili umanoidi con un modo di pensare, parlare e vivere che non ha molto a che vedere col nostro. Solo una gestione impeccabile del punto di vista e del mostrato potrebbe riuscire a farci percepire come *nostri* i sogni e le paure di queste due specie. Harrison non si pone neanche il problema, e il risultato è che si rimane abbastanza freddi anche quando vediamo i poveri umani massacrati a dozzine.

Il che è un peccato, perché nei personaggi principali di West of Eden c’era molto potenziale. Prendiamo Vainté, la leader degli Yilané coloni. Vainté è caratterizzata da una grande intelligenza, un’ambizione sfrenata e un odio viscerale per tutto ciò che si frappone fra lei e i suoi obiettivi. Da una parte, Vainté sta costruendo la città di Alpe’Asak per il bene della sua gente, per dare il suo contributo al futuro degli Yilané; ma dall’altro, odia il pensiero che un giorno, quando tutti gli abitanti del Vecchio Mondo si saranno spostati nel Nuovo, la governatrice della lontana Inegban la spodesterà e prenderà il posto di comando che le spetta. Per tutto il romanzo, Vainté lavorerà per perseguire il suo doppio obiettivo: far prosperare la città – e quindi ricevere i plausi di Inegban – ma preparare il terreno per non perdere il posto quando il trasferimento sarà effettivo. Al tempo stesso, Vainté prova un disprezzo sconfinato per i disgustosi “ustuzou” – così gli Yilané chiamano i mammiferi – ma una certa ambivalenza e un senso di protezione verso Kerrick, l’umano che ha imparato i costumi e il modo di fare della sua gente. Tutti questi livelli di conflitto (interiore, verso la sua gente, verso gli umani) fanno di Vainté un personaggio assai complesso e interessante.
Anche in Kerrick c’è grande potenziale. E’ l’umano che viene allevato dai rettili; che a mano a mano che impara il linguaggio e la mentalità degli Yilané, perde il ricordo della sua vita da Tanu. Il dramma di Kerrick è quello di non avere più un’identità, non sapere più che cos’è, e quindi non avere più un posto nel mondo. E poi ci sono i personaggi secondari, come Stallan, la spietata comandante dei cacciatori Yilané, che ha giurato alla sua gente che non si fermerà fino a che non avrà estirpato fino all’ultimo essere umano dalla faccia della terra; o Enge, sorella di nidiata di Vainté e Yilané ribelle, che con alcuni compagni ha fondato una religione della non violenza ed è per questo caduta in disgrazia. Tutti questi personaggi, per fortuna, sono sufficientemente interessanti da sopperire alla povertà della prosa di Harrison.

Rettiliani

Giusto giusto… quella dei rettili intelligenti che governano il mondo è solo un’ucronia, no? No?

Ma la cosa più bella di West of Eden è certamente l’ambientazione. Con gli Yilané, Harrison è riuscito a creare una razza davvero aliena. Gli Yilané, per cominciare, non sanno mentire. Il loro linguaggio non è semplicemente un movimento delle corde vocali: ogni parola è fatta anche di movimenti (della testa, delle braccia, del collo) e del tingersi di alcune parti del corpo di certi colori, cosicché ogni conversazione è una danza. Parlare significa esprimere a voce alta ciò che si sta pensando in quel momento, cosicché non si può dire una bugia; l’unico modo che gli Yilané conoscono per celare i propri pensieri, è stare perfettamente immobile e guardare fisso. Se si muovessero, i loro movimenti tradirebbero i loro pensieri e il loro stato d’animo. In conseguenza di ciò, quella degli Yilané è una società estremamente conformista e conservatrice; i cambiamenti sono visti con fastidio e scetticismo; il bene della società prevale sempre su quello del singolo.
Ancora: a causa di questa natura ‘collettivista’, il singolo Yilané non può vivere al di fuori della società. Chi, per un crimine o una mancanza, viene esiliato dalla città, viene stroncato da infarto per lo shock o muore d’inedia pochi giorni dopo. Ancora: poiché nella loro specie sono i maschi a covare le uova, quella Yilané è una società femminista. Solo le femmine della specie godono di pieni diritti, possono muoversi liberamente per la città e rivestire posizioni di comando; gli uomini, creature grasse e torpide, vengono tenuti chiusi in degli harem per proteggerli dai pericoli esterni. Ancora: gli Yilané hanno sviluppato un’avanzatissima tecnologia della manipolazione genetica, ma non usano il fuoco. Di conseguenza, tutti i loro congegni (dall’architettura delle città ai mezzi di trasporto alle armi) sono creature vive e manipolate per servire a uno scopo, mentre non sono capaci di lavorare i metalli. Questo fa sì che la loro tecnologia sia un misto di avanzatissimo – la loro civiltà non conosce malattie perché le hanno debellate tutte a suon di eugenetica – e obsoleto – i loro eserciti ricordano quelli della nostra prima età moderna.

Altrettanto affascinante e ben riuscito è il modo in cui Harrison fa interagire tra loro le due specie – che poi sarebbe il perno del romanzo. Da un lato, Harrison evita di cadere nella morale buonista del “siamo tutti fratelli, perché non possiamo appianare le nostre divergenze e trovare un ragionevole compromesso”, a cui tanti scrittori – anche rispettatissimi, come la LeGuin – hanno ceduto. Dall’altro, adottando il punto di vista di entrambe le specie, non finiamo neanche nell’infantile sciovinismo alla Heinlein, stile: “questi bastardi stanno minacciando i nostri diritti costituzionali! Prendiamoli a calci nel culo fino all’estinzione, hell yeah!!”. Harrison lo pone, invece, quasi come un problema scientifico: come possono due specie del tutto ignare l’una dell’altra che si incontrano all’improvviso, e che non riconoscono l’altro come proprio simile ma come una bestia mostruosa, a trovare un’intesa? A provare gli uni per gli altri qualcosa di diverso da diffidenza, disgusto, odio, desiderio di distruzione totale?
Risposta: non possono. Le due specie sono troppo, troppo diverse per capirsi, o anche solo avviare una trattativa. Gli Yilané, abituati a essere l’unica specie intelligente, si trovano davanti questi primitivi impellicciati che vanno a caccia e grugniscono: pensano di avere davanti degli animali, e gli animali si cacciano, non ci si discute. All’inizio, la reciproca ostilità è data dalla repulsione istintuale per quell’altro che è al tempo stesso simile e diverso: si muovono come noi ma non sono come noi (qualcosa di molto simile, mi sembra, al concetto di uncanny valley della robotica). Nel tempo, questa ostilità assume connotati più razionali: le due specie combattono per lo stesso obiettivo, il possesso di quelle terre di cui entrambi hanno bisogno per sopravvivere. Sono costretti dalle circostanze a combattere.

Uncanny Valley

Diagramma della uncanny valley. Chissà dove si potrebbe collocare uno Yilané.

Se l’approccio di Harrison mi piace tanto, è anche perché sposa le mie convinzioni di determinista alla Jared Diamond. Gli uomini (e le lucertole umanoidi, in questo caso!) possiedono certamente il libero arbitrio, ma le loro possibilità di movimento sono determinate dall’ambiente in cui vivono. Nel romanzo di Harrison, il motore della storia è la Glaciazione che sta arrivando, e che costringerà le due specie a spostarsi e a convergere nello stesso posto.1
Ad un certo punto della storia, attraverso il punto di vista di un cacciatore Tanu, sentiamo sulla nostra pelle la sua disperazione nel realizzare che non c’è più scampo: a nord li attende il gelo perenne e la morte di fame; a ovest non c’è spazio, perché è tutto occupato dalle altre tribù umane, che si spartiscono i territori di caccia; a sud non si può, perché nel mondo di Harrison in cui i dinosauri non si sono mai estinti, le calde fasce equatoriali sono il territorio dei grandi rettili; e a est sono arrivati gli Yilané. Quanti popoli della storia reale – penso per esempio all’età delle Grandi Migrazioni in Europa, alla fine dell’antichità – devono aver provato queste stesse sensazioni, quando infine si decisero a scendere e premere alle mura dell’Impero Romano pur sapendo i rischi a cui andavano incontro?

Il romanzo si sviluppa dunque secondo le tappe di questo conflitto, dal primo contatto, alle prime schermaglie, fino alla guerra totale. In un romanzo così corposo – quasi cinquecento pagine – è un bene che ci sia questo elemento costante a dare direzione alla storia; permette all’autore di non divagare troppo, e al contempo rassicura il lettore che si sta andando a parare da qualche parte. Unito allo spazio ‘claustrofobico’ del romanzo – quel tocco di terra per cui Tanu e Yilané se le danno di santa ragione – dà un centro di gravità alla storia.
Peccato che, anche come architetto di trame, Harrison lasci molto a desiderare. Proprio nell’ultima parte del romanzo, il romanzo divaga dal tema del conflitto tra le due specie, introduce nuovi elementi e nuove sottotrame, parte un po’ per la tangente. Poi torna in carreggiata, ma un po’ della magia iniziale è persa. Il finale appare brusco e improvvisato, e ben poco appagante dopo tutto l’investimento emotivo sui personaggi principali e le cinquecento pagine di build-up. E quindi si chiude il libro con la sensazione di aver letto una storia geniale, sì, ma un po’ incompiuta.

Turok

Se non altro, West of Eden è scientificamente più credibile di Turok.

West of Eden è uno degli esempi più compiuti di commistione tra il fantasy e la fantascienza. La civiltà e la tecnologia degli Yilané sono una pura fantasia senza fondamento, ma Harrison cerca di renderli il più plausibili e attinenti possibili alle leggi fisiche come le conosciamo. Soprattutto, la mentalità che pervade il romanzo, nel descrivere le dinamiche dei gruppi e nel tratteggiare le caratteristiche ambientali di questo mondo, è scientifica e fattuale.
Ucronia, speculazione più fantastica che scientifica, storia di “contatto”, romanzo di guerra, excursus antropologico: West of Eden è tutto questo. Certo, a causa della prosa mongoloide di Harrison solletica la testa più che il cuore; e viene a volte da pensare: “Cristo, non potevano fargli fare il layout generale della trama e dei personaggi e poi commissionare la stesura a un altro più capace?”. Ma rimane comunque un grande romanzo, per l’incredibile ambizione e per l’immaginazione folle. Consigliato? Se avete sufficiente tempo libero, sì. Leggetevi i primi due capitoli, e decidete da voi se siete abbastanza presi da andare avanti.

Dove si trova?
In lingua originale, West of Eden si può scaricare senza problemi sia su BookFinder che su Library Genesis; in entrambi i casi è disponibile solo il formato pdf. Per la versione italiana, cercate “L’era degli Yilané” su Emule.

Su Harry Harrison
Anche negli Stati Uniti, Harrison è sempre stato considerato uno scrittore di serie B, un autore da “addetti ai lavori”. Conosciuto quand’era in vita soprattutto per le sue opere di fantascienza umoristica – la serie di The Stainless Steel Rat, il romanzo breve The Technicolor Time Machine – oggi viene ricordato per le sue poche opere ‘serie’. Oltre a West of Eden, ho letto altri due dei suoi romanzi:
Make Room! Make Room! Make Room! Make Room! (Largo! Largo!) è la risposta alla domanda: “cosa succederebbe se la popolazione mondiale crescesse in modo talmente incontrollato da far crollare la società così come la conosciamo?”. In una New York in cui la gente vive in miseria ammucchiata sulle strade e nelle palazzine diroccate, si intrecciano le vite di tre persone normali: un poliziotto, una ex prostituta e un ragazzino che ha ammazzato la persona sbagliata. Pur azzoppato dall’uso del narratore onnisciente e da problemi strutturali, è un romanzo che ti rapisce. Senti sulla pelle tutta la merda che quotidianamente viene schiaffata addosso ai personaggi. Un piccolo capolavoro su cui scriverò prima o poi un Consiglio; ma la lettura è sconsigliata quando si è depressi.
A Transatlantic Tunnel, Hurrah!A Transatlantic Tunnel, Hurrah! (noto anche con il titolo di Tunnel Through the Deeps) è un romanzo proto-steampunk ambientato in un mondo in cui gli Stati Uniti hanno perso la Guerra d’Indipendenza e l’Impero Britannico governa sulle due sponde dell’Atlantico. L’umanità si appresta a costruire l’opera più grande di tutti i tempi: un tunnel ferroviario sotterraneo che passa sotto l’oceano da un capo all’altro, collegando Londra e New York; ma l’ingegnere Augustine Washington, a capo del progetto, dovrà vedersela con infiniti problemi tecnici, un rivale invidioso,misteriosi sabotatori e una melodrammatica storia d’amore. Il romanzo è una sorta di Hard SF steampunk, tutta incentrata sul funzionamento della tecnologia di questo strano mondo e sul problem solving della costruzione del tunnel; personaggi e trama sono piatti come carta velina, e poco più che una scusa per imbastire speculazioni tecniche. Un libro per super-nerd col pallino per lo steampunk (un decennio prima che il genere nascesse!).
Spinto dal successo del libro originale, Harrison ha scritto anche due seguiti di West of Eden: Winter in Eden e Return to Eden. Come sapete però non sono un amante dei sequel; e ciò che il mondo di Eden aveva da dire, l’ha già detto nel primo romanzo. Non penso valga la pena di leggere i seguiti.

Qualche estratto
Dato che il romanzo è enorme, ho scelto la bellezza di tre estratti. Consiglio a tutti di leggere almeno il primo: cronologicamente è quello più avanti di tutti, ma sintetizza bene il tema centrale del romanzo. Il cacciatore Ulfadan, al confine tra la foresta e la terra dei “murgu” (i lucertoloni giganteschi che infestano le pianure tropicali), riflette sul destino dei Tanu, chiusi da tutti i lati da pericoli troppo grandi e condannati all’estinzione se non faranno qualcosa.
Il secondo brano, tratto dal primo capitolo, mostra il primo incontro tra Tanu e Yilané, ed è uno dei momenti più felici e “mostrati” della prosa di Harrison. All’opposto, il terzo brano – preso dal secondo capitolo – è un esempio di Harrison al suo peggio: telecamera neutra che mostra una serie di strane creature al servizio degli Yilané. Di per sé la scena – che è la prima esibizione della tecnologia genetica yilané del romanzo – sarebbe molto affascinante, ma è parecchio confusionaria dato che Harrison non la aggancia ad alcun personaggio-pov.

1.
But the sammad must eat. Yet the food they searched and hunted for was growing scarcer and scarcer. The world was changing and Ulfadan did not know why. The alladjex told them that ever since Ermanpadar had shaped Tanu from the mud of the river bed the world had been the same. In the winter they went to the mountains where the snow lay deep and the deer were easy to kill. When the snow melted in the spring they followed the fast streams down to the river, and sometimes to the sea, where fish leaped in the water and good things grew in the earth. Never too far south though, for only murgu and death waited there. But the mountains and the dark northern forests had always provided everything that they had needed.
This was no longer true. With the mountains now wrapped in endless winter, the herds of deer depleted, the snow in the forests lying late into the spring, their timeless sources of food were no more. They were eating now, there were fish enough in the river at this season. They had been joined at their river camp by sammad Kellimans; this happened every year. It was a time to meet and talk, for the young men to find women. There was little of this now for although there was enough fish to eat there was not enough to preserve for the winter. And without this supply of food very few of them would see the spring.
There was no way out of the trap. To the west and east other sammads waited, as hungry as his and Kellimans’. Murgu to the south, ice to the north – and they were trapped between them. No way out. Ulfadan’s head was bursting with this problem that had no solution. In agony he wailed aloud like a trapped animal, then turned and made his way back to the sammad.

2.
They became aware that someone was standing under a nearby tree, also looking out over the bay. Another hunter perhaps. Amahast had opened his mouth to call out when the figure stepped forward into the sunlight. The words froze in his throat; every muscle in his body locked hard.
No hunter, no man, not this. Man-shaped but repellently different in every way.
The creature was hairless and naked, with a colored crest that ran across the top of its head and down its spine. It was bright in the sunlight, obscenely marked with a skin that was scaled and multicolored.
A marag. Smaller than the giants in the jungle, but a marag nevertheless. Like all of its kind it was motionless at rest, as though carved from stone. Then it turned its head to one side, a series of small jerking motions, until they could see its round and expressionless eye, the massive out-thrust jaw. They stood, as motionless as murgu themselves, gripping their spears tightly, unseen, for the creature had not turned far enough to notice their silent forms among the trees.
Amahast waited until its gaze went back to the ocean before he moved. Gliding forward without a sound, raising his spear. He had reached the edge of the trees before the beast heard him or sensed his approach. It snapped its head about, stared directly into his face.
The hunter plunged the stone head of his spear into one lidless eye, through the eye and deep into the brain behind. It shuddered once, a spasm that shook its entire body, then fell heavily. Dead before it hit the ground. Amahast had the spear pulled free even before that, had spun about and raked his gaze across the slope and the beach beyond. There were no more of the creatures nearby.
Kerrick joined his father, standing beside him in silence as they looked down upon the corpse.
It was a crude and disgusting parody of human form. Red blood was still seeping from the socket of the destroyed eye, while the other stared blankly up at them, its pupil a black, vertical slit. There was no nose; just flapped openings where a nose should have been. Its massive jaw had dropped open in the agony of sudden death to reveal white rows of sharp and pointed teeth.
“What is it?” Kerrick asked, almost choking on the words.
“I don’t know. A marag of some kind. A small one, I have never seen its like before.”
“It stood, it walked, like it was human, Tanu. A marag, father, but it has hands like ours.”
“Not like ours. Count. One, two, three fingers and a thumb. No, it has only two fingers —and two thumbs.”
Amahast’s lips were drawn back from his teeth as he stared down at the thing. Its legs were short and bowed, the feet flat, the toes claw-tipped. It had a stumpy tail. Now it lay curled in death, one arm beneath its body.

3.
The enteesenat cut through the waves with rhythmic motions of their great, paddle-like flippers. One of them raised its head from the ocean, water streaming higher and higher on its long neck, turning and looking backward. Only when it caught sight of the great form low in the water behind them did it drop beneath the surface once again.
There was a school of squid ahead—the other enteesenat was clicking with loud excitement, Now the massive lengths of their tails thrashed and they tore through the water, gigantic and unstoppable, their mouths gaping wide. Into the midst of the school.
Spurting out jets of water the squid fled in all directions. Most would escape behind the clouds of black dye they expelled, but many of them were snapped up by the plate- ridged jaws, caught and swallowed whole. This continued until the sea was empty again, the survivors scattered and distant. Sated, the great creatures turned about and paddled slowly back the way they had come.
Ahead of them an even larger form moved through the ocean, water surging across its back and bubbling about the great dorsal fin of the uruketo. As they neared it the enteesenat dived and turned to match its steady motion through the sea, swimming beside it close to the length of its armored beak. It must have seen them, one eye moved slowly, following their course, the blackness of the pupil framed by its bony ring. Recognition slowly penetrated the creature’s dim brain and the beak began to open, then gaped wide.
One after another they swam to the wide open mouth and pushed their heads into the cave-like opening. Once in position they regurgitated the recently caught squid. Only when their stomachs were empty did they pull back and spin about with a sideways movement of their flippers. Behind them the jaws closed as slowly as they had opened and the massive bulk of the uruketo moved steadily on its way.
Although most of the creature’s massive body was below the surface, the uruketo’s dorsal fin projected above its back, rising up above the waves. The flattened top was dried and leathery, spotted with white excrement where sea birds had perched, scarred as well where they had torn the tough hide with their sharp bills. One of these birds was dropping down towards the top of the fin now, hanging from its great white wings, webbed feet extended. It squawked suddenly, flapping as it moved off, startled by the long gash that had appeared in the top of the fin. This gap widened, then extended the length of the entire fin, a great opening in the living flesh that widened further still and emitted a puff of stale air.
The opening gaped, wider and wider, until there was more than enough room for the Yilanè to emerge. It was the second officer, in charge of this watch.

Tabella riassuntiva

Immagina cosa sarebbe successo se i rettili avessero ereditato la terra! Ignora le più basilari regole di gestione del pov.
Gli Yilané sono creature realmente aliene. Difficoltà a immergersi nei personaggi e nei loro drammi.           .
Interazione drammatica e realistica tra le due specie. Si ammoscia nell’ultima parte.
Protagonisti complessi e conflittuali.


(1) Sarebbe ragionevole pensare che è assurdo che una civiltà avanzata come quella Yilané non abbia ancora colonizzato i quattro angoli del globo. Anch’io, all’inizio, la credevo un’ingenuità dell’autore. In realtà, Harrison l’ha pensata bene.
Primo: gli Yilané, in quanto animali a sangue freddo, soffrono il gelo ancor più che gli uomini. Di conseguenza, non si sono mai avventurati ai poli del pianeta, né, sembra, nelle aree più settentrionali delle fasce temperate. Ed è proprio qui che vivono gli esseri umani. In un mondo in cui i grandi rettili non si sono mai estinti, infatti, pare che la maggior parte dei mammiferi abbia trovato la propria nicchia ecologica negli unici luoghi non raggiungibili dai rettili.
Secondo: per costituzione – sia biologica che culturale – gli Yilané sono, come già avevo accennato, ostili al cambiamento. Non hanno la stessa spinta di curiosità degli esseri umani (se non in singoli individui isolati), e il loro bisogno fisico di stare in armonia con la comunità fa sì che non ci siano molte spinte verso l’esterno. Di conseguenza, gli Yilané sono stati perfettamente felici di vivere chiusi nelle proprie super-città al calduccio senza alcun desiderio di uscire a esplorare il resto del pianeta, finché non sono stati costretti da necessità contingenti – la Glaciazione, appunto.Torna su

I Consigli del Lunedì #33: The Years of Rice and Salt

The Years of Rice and SaltAutore: Kim Stanley Robinson
Titolo italiano: Gli anni del riso e del sale
Genere: Ucronia / Fantasy / Literary Fiction
Tipo: Romanzo

Anno: 2002
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 660 ca.

Difficoltà in inglese: **

A brave life, fought against the odds? Go back as a dog! A dogged life, persisting despite all? Go back as a mule, go back as a worm! That’s the way things work.

Tamerlano è vecchio e malato, ma ha posato i suoi occhi a ovest, verso l’Europa. Accampato a nord del Mar Nero, ha mandato in avanscoperta i suoi luogotenenti Bold e Psin con alcuni uomini, con l’ordine di non tornare prima di una settimana. Ma quando varcano i Carpazi, i due si trovano davanti uno spettacolo spaventoso: l’Europa è morta. Città deserte, scheletri nelle strade e nelle cattedrali, un silenzio assoluto; la peste si è portata via tutti i Cristiani. E adesso anche loro sono contagiati. E quanto Tamerlano dà l’ordine di ucciderli e bruciare tutte le loro cose, Bold è costretto a fuggire nell’unico luogo dove non sarà inseguito – in quel che rimane dell’Europa.
Ma gli altri continenti sono stati risparmiati dalla Peste Nera; e ora che gli europei non esistono più, il destino del mondo è nelle loro mani. Intrappolato nell’infinito ciclo delle reincarnazioni, alla disperata ricerca degli altri membri del suo jati e di un senso nell’esistenza, Bold assisterà vita dopo vita al futuro di questo mondo – all’espansione oceanica dell’Impero Cinese, al ripopolamento del Mediterraneo da parte degli stati musulmani del Nordafrica, alla nascita della scienza moderna, alle conquiste e alle guerre del futuro. Ma ogni volta, al termine della sua vita, Bold è ricondotto nel bardo, l’aldilà buddista, dove gli dèi giudicano la condotta di ogni uomo prima di indirizzarlo verso la sua nuova incarnazione. E il giudizio è sempre negativo…

The Years of Rice and Salt è un’opera mastodontica e descriverla non è facile. Si potrebbe dire innanzitutto che è un’ucronia, che parte da questa domanda: come sarebbe cambiata la Storia, se la grande peste del 1348 avesse spazzato via il 99% della popolazione europea e non solo un terzo? Partendo dal 1405, l’anno della morte di Tamerlano, il romanzo ci racconta attraverso dieci epoche successive  questa storia alternativa in cui gli Europei spariscono dal grande gioco della conquista del mondo. Ciascuna ha i propri personaggi ed è ambientata in un luogo e in una civiltà differente tra quelle rimaste a spartirsi il globo: l’Impero Cinese, l’India, i khanati dell’Asia centrale, i principati islamici dell’Ovest, il Nuovo Mondo.
Il filo conduttore delle varie storie è rappresentato da un manipolo di personaggi, identificati dalle stesse iniziali, che ad ogni epoca si reincarnano e tornano nel mondo. Appartengono alla stessa famiglia karmica – lo jati – e le loro vite sono destinate a intrecciarsi in ogni incarnazione. Ma chi approcciasse il libro di Robinson aspettandosi semplicemente un’ucronia potrebbe rimanere deluso, perché The Years of Rice and Salt è anche filosofia romanzata con un pesante tocco literary. Qual’è il senso della storia, come si può portare la giustizia nel mondo, si può creare un mondo migliore, come si può essere felici? Queste domande sono il nucleo del romanzo; domande a cui i membri dello jati tenteranno di rispondere, vita dopo vita, nella speranza che migliorando il mondo miglioreranno anche il loro karma.

Black Plague

Ehm…

Uno sguardo approfondito
Lo svantaggio proprio di romanzi con un arco narrativo di secoli è quello che, cambiando di continuo personaggi, setting e sottotrame, è più difficile affezionarsi ai protagonisti, e ad ogni nuovo episodio bisogna ricominciare da capo il processo di immersione. Robinson trova una soluzione efficace con l’idea delle reincarnazioni: l’eterno ritorno degli stessi personaggi, con le stesse iniziali e gli stessi tratti caratteriali di base, danno al lettore un elemento di immediata familiarità al lettore, qualcosa a cui aggrapparsi fin dalle prime righe di ogni nuova “epoca” del romanzo.
I personaggi identificati dalla B sono sempre dei sognatori, dal carattere mite e in armonia con il mondo; quelli identificati dalla K sono aggressivi, anarchici, dei leader nati; quelli identificati dalla I sono delle menti geniali, scienziati, medici, teologi; quelli identificati dalla S degli individui capricciosi e maligni; e così via. Diventa anche un gioco: scoprire ad ogni nuova fase narrativa chi sono B e K (uomo o donna? Ricchi o poveri? Cinesi, indiani o musulmani, o cosa? Eccetera), come faranno a incontrarsi, che tipo di rapporto costruiranno, se riusciranno a migliorare finalmente il loro destino.

Peccato che poi Robinson rovini tutto con la sua prosa raccontata e distante. Descrivere lo stile del romanzo non è facile, perché non rimane sempre uguale ma cambia a seconda dell’epoca in cui è ambientato. Ad esempio, la voce narrante della prima parte è un generico “noi”, e tutti i capitoli finiscono con frasi tipo questa: “We do not know which way Psin went, or what happened to him; but as for Bold, you can find out in the next chapter”, oppure: “We are as shocked as you are by this development, and don’t know what happened next, but no doubt the next chapter will tell us.” Alcune parti, come la prima o la sesta, frammischiano alla narrazione brani di poesia che fanno da commento all’azione. Una delle ultime parti del romanzo presenta periodi lunghi e spesso contorti, e una buona dose di surrealismo, nello stile di una certa tradizione modernista del primo Novecento.
In generale, si può dire che lo stile diventi più immersivo e mostrato mano a mano che dalle epoche passate ci si avvicina a quella contemporanea. O almeno, questo forse nelle intenzioni teoriche dell’autore – perché in realtà, aldilà di tutte queste variazioni, c’è una tendenza costante nella prosa di tutto il romanzo: l’abuso allucinante di raccontato. Il narratore di Robinson è un onnisciente che vede tutto da grande distanza; all’occorrenza si avvicina ai suoi personaggi e ci mostra delle scene che li coinvolgono, ma è anche in grado di andare avanti per cinque o dieci o più pagine consecutive a raccontare mesi o anni di storia di una persona o di un intero popolo. Interi capitoli possono essere anche dei puri raccontati con la telecamera molto distaccata dall’azione e dai protagonisti, magari nella forma di rapidi (e anestetici) riassunti di anni e anni di vita.

Firanja

WHAT THE FUCK?

Un sacco di queste pagine sono puramente dedicate al worldbuilding. Avete presente quegli scrittori di fantasy che si perdono, innamorati della loro ambientazione, a descriverci le catene montuose che torreggiano a nord e la ragnatela di fiumi che si allarga a est, nonché le complicate trame politiche che si intessono a ovest? Robinson ha il vantaggio di parlarci del mondo reale e di mostrarci un’evoluzione plausibile della Storia, ma in più occasioni la noia regna sovrana e viene da chiedersi quanto più bello sarebbe stato se tutto questo background ci fosse stato presentato attraverso i pov dei suoi abitanti. Alla fin fine interessa poco cosa abbiamo fatto le tribù afghane in un momento cruciale, o come un piccolo stato del sud dell’India possa riuscire ad acquisire l’egemonia sul subcontinente, se non abbiamo delle storie umane individuali su cui catalizzare la nostra attenzione le nostre emozioni. Alcune parti sembrano scritte di fretta, altre completamente inutili; in particolare i primi capitoli della seconda parte, The Haj in the Heart, potevano essere tranquillamente eliminati (o almeno, riscritti completamente), e metteranno a dura prova più di un lettore.
C’è anche una certa incongruenza nella gestione del punto di vista. Se da un lato troviamo una distinzione netta tra narratore e protagonisti di ogni arco narrativo, dall’altro la percezione di quello che accade è fortemente filtrata dalla loro cultura. Il mondo di Bold il mongolo è un universo che brulica di spiriti e di divinità; in più occasioni gli sembra di vedere gli asura, o dragoni che nuotano nell’acqua, e quando osserva qualcuno morire, vede lo spirito abbandonare il suo corpo. Tempeste e cataclismi sono il chiaro segnale di intervento divino. Sezioni successive del romanzo, invece, mostrano un approccio progressivamente più razionalista, e anche il bardo cambia aspetto e senso a seconda dell’epoca. Il che è molto carino; ma allora non si capisce perché Robinson non abbia utilizzato una narrazione più ancorata ai personaggi-pov.

La qualità dei personaggi è variabile. Alcune parti dedicano molto spazio ai rispettivi protagonisti: nella prima, il rapporto misto di fiducia e incomprensione tra il fuggiasco e pacato Bold e lo spietato negretto Kyu, che dopo essere stato evirato su ordine del grand’ammiraglio Zheng He per farne un eunuco giura eterna vendetta contro l’Impero Cinese; nella quarta, l’empatia tra l’alchimista Khalid e l’ottico Iwang, tra le fucine di Samarcanda, nella comune ricerca della verità che li porterà a scoprire le leggi della caduta dei gravi e molto altro ancora; nella nona, il desiderio di emancipazione della giovane Budur, che fugge dall’harem familiare per studiare in una grande città universitaria ed entra nell’orbita della fervente femminista Kirana. Altre parti pongono invece i personaggi in secondo piano, e li usano chiaramente come scusa per mostrare l’ambientazione. Le prime sono sicuramente le sezioni del libro più riuscite e piacevoli da leggere; ma anche in queste non ci si deve aspettare una grande evoluzione dei personaggi o una vera tridimensionalità. Anzi, il fatto che i tratti psicologici essenziali dei protagonisti rimangano immutati attraverso le epoche è una delle pietre angolari del romanzo – ciò che muta ed evolve è la Storia attorno a loro.
Insomma, è molto chiaro che questo libro è orientato a un certo tipo di lettori, quelli che amano la storia e vedere come e perché le civiltà umane si trasformino nel corso dei secoli. In questo senso The Years of Rice and Salt regala veri orgasmi concettuali, mostrando un interplay tra le potenze mondiali completamente diverso da quello che c’è stato nella nostra realtà ma che appare comunque credibile. Questa grande varietà di archi narrativi permette inoltre a Robinson di scrivere tante storie diverse: c’è la storia d’avventura esotica, con il valoroso capitano che scopre il Nuovo Mondo ma deve tornare per raccontarlo; la storia di ricerca spirituale, con protagonista un sufi che viaggia per il mondo alla ricerca del suo posto ideale; e poi la storia della nascita del metodo scientifico, dominata da invenzioni e intuizioni geniali, e il romanzo di guerra in trincea, pervaso di pessimismo e rassegnazione, e il romanzo di formazione studentesco, e così via.

Allah-u-snackbar

E se il mondo fosse dominato da loro?

Si vede che Robinson ha studiato per anni le cose di cui parla; ed è davvero impressionante vedere la mole di roba su cui si è documentato, dato che nel corso del romanzo si passa con nonchalance dalle scuole buddiste tibetane alla storia dinastica cinese, dal sufismo sotto l’Impero Mogol alle scoperte seicentesce sull’ottica e la meccanica, dal Corano e gli hadit al linguaggio di alcune tribù dei laghi dei nativi americani.
Forse troppo – in effetti, Robinson tanto sembra preparato sulla storia e sulle culture del passato, quanto impreparato sui principi dell’economia e della politica moderna. Mi sembra che emerga, soprattutto nelle ultime parti del romanzo, una certa ingenuità, una certa visione idealistica della Storia, come se i rapporti tra le nazioni e le forme di governo dipendessero dagli ideali, dalla cultura, dalle passioni (di espansione e dominio, piuttosto che di solidarietà, o di sete di conoscenza). La storia di Robinson è largamente fatta da politici, diplomatici, filosofi e scienziati; mentre vengono lasciate parecchio in ombra (se non per occasionali riferimenti raccontati) le industrie, le banche, le multinazionali, insomma tutte quelle forze che muovono i soldi nella società moderna.
Sicché non ho potuto fare a meno di leggere le ultime parti del libro con sopracciglia progressivamente inarcate. Robinson non commette veri e propri errori di buonismo, e in effetti il mondo che si presenta alla fine del romanzo ha una sua plausibilità e si sarebbe davvero potuto realizzare – ma sembra che l’autore adduca tutte le ragioni sbagliate.

A questo errore nella visione della Storia, che è oggettivo (anche se se ne potrebbe discutere), si aggiunge un piccolo fastidio personale. In The Years of Rice and Salt c’è una forte tensione morale; il filo conduttore dell’opera è il tentativo dei membri dello jati protagonista di migliorare il mondo in cui vivono, per poter in questo modo migliorare la loro stessa esistenza e il loro karma. Dalla prima all’ultima epoca, la loro è una lotta costante (e più o meno consapevole, a seconda dei momenti) per diventare padroni delle loro vite e non schiavi, per smettere di soffrire vita dopo vita portare finalmente un po’ di giustizia in un mondo che sembra non averne.
In teoria questa sarebbe una figata di filo conduttore, ma in realtà riduce di molto la varietà delle situazioni del romanzo: si tratta quasi sempre di persone che vogliono fare del bene, che ricercano la strada giusta, l’illuminazione, eccetera. Il contesto cambia, ma il nocciolo della faccenda è spesso lo stesso. E le possibilità di conflitto e di ambiguità morale sono ridotte drasticamente. L’ultima parte del romanzo, in particolare, nel suo tentativo di tirare le somme è banale, noiosotta e priva di tensione o anche solo azione. Peccato – perché altre sezioni del romanzo sono davvero spettacolari.

Buddha cat

L’aspirazione finale dei protagonisti del romanzo.

Mi viene naturale confrontare questo romanzo con gli altri due romanzi sulla Storia e l’evoluzione della società di cui ho parlato nel blog, Last and First Men di Stapledon e A Canticle for Leibowitz di Miller. Tutti e tre sono romanzi che parlano dell’umanità, e tutti e tre sono romanzi con una forte carica morale. The Years of Rice and Salt è sicuramente meglio del primo: benché meno ambizioso nelle premesse (un migliaio d’anni di storia alternativa invece che due miliardi di anni di storia futura), è più creativo e vario nelle situazioni, e appassiona di più, perché filtra almeno in parte la sua ‘grande storia’ attraverso scene, personaggi e vicende individuali. A mio avviso rimane però nettamente inferiore al secondo: è scritto peggio – soprattutto per la mole estrema di raccontato – i suoi personaggi sono meno ambigui e meno vividi rispetto a quelli di Miller.
The Years of Rice and Salt è un romanzo grandioso, fitto di sense of wonder ucronico e unico nel suo genere. Non ho mai letto un’alternative history così vasta, sia spazialmente che temporalmente. Dico solo che avrebbe potuto essere strutturata e scritta molto meglio, e allora sarebbe forse diventato il mio libro preferito in assoluto. Rimane una lettura che ricorderò per sempre, e che è degna di entrare a giusto titolo nella mia Top 20. Gli appassionati di Storia gli diano almeno una chance.

Dove si trova?
The Years of Rice and Salt si trova in lingua originale sia su BookFinder che su Library Genesis (ma in questo caso bisogna digitare “Years of Rice and Salt”, senza l’articolo). In italiano non mi risulta sia mai stato tradotto.

Chi devo ringraziare?
Ho sentito parlare per la prima volta di Stanley Robinson da Giovanni, assiduo commentatore del blog, che diversi anni fa mi piantò davanti agli occhi Red Mars (il primo capitolo della famosa Mars Trilogy, che non ho ancora letto). All’epoca non degnai il libro di più di uno sguardo, ma quando da qualche parte su questo stesso blog si è citato di nuovo Robinson la scena mi si è riaffacciata alla memoria. Da lì mi sono informato sull’autore e mi sono imbattuto in The Years of Rice and Salt: è stato amore a prima vista.
E naturalmente devo ringraziare la dolce Siò, che ancora una volta mi ha fatto da beta-tester leggendo il libro prima di me…

Bardo

No, non quel bardo. L’altro.

Qualche estratto
Considerata la mole e l’estrema varietà di situazioni di questo romanzo, ho scelto – non odiatemi – la bellezza di quattro estratti (d’altronde mica siete costretti a leggerli). Non sono inseriti in ordine cronologico ma piuttosto “tematico”.
I primi due sono esempi del mostrato di Stanley Robinson e di pov abbastanza vicino al protagonista della scena: il primo estratto viene da una delle scene iniziali del libro e mostra l’avanguardia timuride che penetra nell’Europa desertificata dalla peste; il secondo, molto più avanti, mostra i tentativi dell’alchimista-scienziato kazako Khalid mentre tenta di compiacere il Khan suo signore con le più recenti scoperte belliche. La differenza stilistica dei due brani dà anche un’idea del graduale cambiamento che c’è nella prosa di Robinson man mano che si avanza di epoca.
Il terzo estratto, ancora più avanti nella storia, è un tipico esempio di pessimo raccontato di Robinson, con un secolo circa di storia politica del subcontinente indiano riassunto in pochi paragrafi e messo in bocca al Kerala di Travancore. L’ultimo estratto, infine, mostra l’anima più fantasy e literary dell’opera: è una delle scene di “chiusura sezione” ambientate nel mondo dell’aldilà, il bardo.

1.
They came to an empty bridge and crossed it, hooves thwocking the planks. Now they came upon some wooden buildings with thatched roofs. But no fires, no lantern light. They moved on. More buildings appeared through the trees, but still no people. The dark land was empty.
Psin urged them on, and more buildings stood on each side of the widening road. They followed a turn out of the hills onto a plain, and before them lay a black silent city. No lights, no voices; only the wind, rubbing branches together over sheeting surfaces of the big black flowing river. The city was empty.
Of course we are reborn many times. We fill our bodies like air in bubbles, and when the bubbles pop we puff away into the bardo, wandering until we are blown into some new life, somewhere back in the world. This knowledge had often been a comfort to Bold as he stumbled exhausted over battlefields in the aftermath, the ground littered with broken bodies like empty coats.
But it was different to come on a town where there had been no battle, and find everyone there already dead. Long dead; bodies dried; in the dusk and moonlight they could see the gleam of exposed bones, scattered by wolves and crows. Bold repeated the Heart Sutra to himself. “Form is emptiness, emptiness form. Gone, gone, gone beyond, gone altogether beyond. O, what an Awakening! All hail!”
[…]
They came into a paved central square near the river, and stopped before the great stone building. It was huge. Many of the local people had come to it to die. Their lamasery, no doubt, but roofless, open to the sky—unfinished business. As if these people had only come to religion in their last days; but too late; the place was a boneyard. Gone, gone, gone beyond, gone altogether beyond. Nothing moved, and it occurred to Bold that the pass in the mountains they had ridden through had perhaps been the wrong one, the one to that other west which is the land of the dead. For an instant he remembered something, a brief glimpse of another life—a town much smaller than this one, a village wiped out by some great rush over their heads, sending them all to the bardo together. Hours in a room, waiting for death; this was why he so often felt he recognized the people he met. Their existences were a shared fate.
“Plague,” Psin said. “Let’s get out of here.”
His eyes glinted as he looked at Bold, his face was hard; he looked like one of the stone officers in the imperial tombs.
Bold shuddered. “I wonder why they didn’t leave,” he said.
“Maybe there was nowhere to go.”

2.
“Now see, we have determined that at the distances a gun can cast a ball, it cannot shoot straight. The balls are tumbling through the air, and they can spin off in any direction, and they do.”
“Surely air cannot offer any significant resistance to iron,” Nadir said, sweeping a hand in illustration.
“Only a little resistance, it is true, but consider that the ball passes through more than two li of air. Think of air as a kind of thinned water. It certainly has an effect. We can see this better with light wooden balls of the same size, thrown by hand so you can still see their movement. We will throw into the wind, and you can see how the balls dart this way and that.”
Bahram and Paxtakor palmed the light wooden balls off, and they veered into the wind like bats.
“But this is absurd!” the Khan said. “Cannonballs are much heavier, they cut through the wind like knives through butter!”
Khalid nodded. “Very true, great Khan. We only use these wooden balls to exaggerate an effect that must act on any object, be it heavy as lead.”
“Or gold,” Sayyed Abdul Aziz joked.
“Or gold. In that case the cannonballs veer only slightly, but over the great distances they are cast, it becomes significant. And so one can never say exactly what the balls will hit.”
“This must ever be true,” Nadir said.
Khalid waved his stump, oblivious for the moment of how it looked. “We can reduce the effect quite a great deal. See how the wooden balls fly if they are cast with a spin to them.”
Bahram and Paxtakor threw the balsam balls with a final pull of the fingertips to impart a spin to them. Though some of these balls curved in flight, they went farther and faster than the palmed balls had. Bahram hit an archery target with five throws in a row, which pleased him greatly.
“The spin stabilizes their flight through the wind,” Khalid explained. “They are still pushed by the wind, of course. That cannot be avoided. But they no longer dart unexpectedly when they are caught on the face by a wind. It is the same effect you get by fletching arrows to spin.”
“So you propose to fletch cannonballs?” the Khan inquired with a guffaw.
“Not exactly, your Highness, but yes, in effect. To try to get the same kind of spin. We have tried two different methods to achieve this. One is to cut grooves into the balls. But this means the balls fly much less far. Another is to cut the grooves into the inside of the gun barrel, making a long spiral down the barrel, only a turn or a bit less down the whole barrel’s length. This makes the balls leave the gun with a spin.”
Khalid had his men drag out a smaller cannon. A ball was fired from it, and the ball tracked down by the helpers standing by, then marked with a red flag. It was farther away than the bigger gun’s ball, though not by much.
” It is not distance so much as accuracy that would be improved,” Khalid explained. “The balls would always fly straight. We are working up tables that would enable one to choose the gunpowder by type and weight, and weigh the balls, and thus, with the same cannons, of course, always send the balls precisely where one wanted to.”
“Interesting,” Nadir said.
Sayyed Abdul Aziz Khan called Nadir to his side. “We’re going back to the palace,” said, and led his retinue to the horses.
“But not that interesting,” Nadir said to Khalid. “Try again.”

The Scientific Method

La scoperta del metodo scientifico.

3.
Later, over tea scented with delicate perfumes, the Kerala sat in repose and spoke with Ismail. He heard all Ismail could tell him of Sultan Selim the Third, and then he told Ismail the history of Travancore, his eyes never leaving Ismail’s face.
“Our struggle to throw off the yoke of the Mughals began long ago with Shivaji, who called himself Lord of the Universe, and invented modern warfare. Shivaji used every method possible to free India. Once he called the aid of a giant Deccan lizard to help him climb the cliffs guarding the Fortress of the Lion. Another time he was surrounded by the Bijapuri army, commanded by the great Mughal general Afzal Khan, and after a siege Shivaji offered to surrender to Afzal Khan in person, and appeared before that man clad only in a cloth shirt, that nevertheless concealed a scorpion tail dagger; and the fingers of his hidden left hand were sheathed in razor-edged tiger claws. When he embraced Afzal Khan he slashed him to death before all, and on that signal his army set on the Mughals and defeated them.
“After that Alamgir attacked in earnest, and spent the last quarter century of his life reconquering the Deccan, at a cost of a hundred thousand lives per year. By the time he subdued the Deccan his empire was hollowed. Meanwhile there were other revolts against the Mughals to the northwest, among Sikhs, Afghans and the Safavid empire’s eastern subjects, as well as Rajputs, Bengalis, Tamils and so forth, all over India. They all had some success, and the Mughals, who had overtaxed for years, suffered a revolt of their own zamindars, and a general breakdown of their finances. Once Marathas and Rajputs and Sikhs were successfully established, they all instituted tax systems of their own, you see, and the Mughals got no more money from them, even if they still swore allegiance to Delhi.
“So things went poorly for the Mughals, especially here in the south. But even though the Marathas and Rajputs were both Hindu, they spoke different languages, and hardly knew each other, so they developed as rivals, and this lengthened the Mughals’ hold on mother India. In these end days the Nazim became premier to a khan completely lost to his harem and hookah, and this Nazim went south to form the principality that inspired our development of Travancore on a similar system.
“Then Nadir Shah crossed the Indus at the same ford used by Alexander the Great, and sacked Delhi, slaughtering thirty thousand and taking home a billion rupees of gold and jewels, and the Peacock Throne. With that the Mughals were finished.
“Marathas have been expanding their territory ever since, all the way into Bengal. But the Afghans freed themselves from the Safavids, and surged east all the way to Delhi, which they sacked also. When they withdrew the Sikhs were given control of the Punjab, for a tax of one-fifth of the harvests. After that the Pathans sacked Delhi yet once more, rampaging for an entire month in a city become nightmare. The last emperor with a Mughal title was blinded by a minor Afghan chieftain.
“After that a Marathan cavalry of thirty thousand marched on Delhi, picking up two hundred thousand Rajput volunteers as they moved north, and on the fateful field of Panipat, where India’s fate has so often been decided, they met an army of Afghan and ex-Mughal troops, in full jihad against the Hindus. The Muslims had the support of the local populace, and the great general Shah Abdali at their head, and in the battle a hundred thousand Marathas died, and thirty thousand were captured for ransom. But afterwards the Afghan soldiers tired of Delhi, and forced their khan to return to Kabul.
“The Marathas, however, were likewise broken. The Nazim’s successors secured the south, and the Sikhs took the Punjab, and the Bengalese Bengal and Assam. Down here we found the Sikhs to be our best allies. Their final guru declared their sacred writings to be the embodiment of the guru from that point on, and after that they prospered greatly, creating in effect a mighty wall between us and Islam. And the Sikhs taught us as well. They are a kind of mix of Hindu and Muslim, unusual in Indian history, and instructive. So they prospered, and learning from them, coordinating our efforts with them, we have prospered too.
“Then in my grandfather’s time a number of refugees from the Chinese conquest of Japan arrived in this region, Buddhists drawn to Lanka, the heart of Buddhism. Samurai, monks and sailors, very good sailors—they had sailed the great eastern ocean that they call the Dahai, in fact they sailed to us both by heading cast and by heading west.”
“Around the world?”
“Around. And they taught our shipbuilders much, and the Buddhist monasteries here were already centres of metalworking and mechanics, and ceramics. The local mathematicians brought calculation to full flower for use in navigation, gunnery and mechanics. All came together here in the great shipyards, and in our merchant and naval fleets were soon greater even than China’s. Which is a good thing, as the Chinese empire subdues more and more of the world—Korea, Japan, Mongolia, Turkestan, Annam and Siam, the islands in the Malay chain—the region we used to called Greater India, in fact. So we need our ships to protect us from that power. By sea we are safe, and down here, below the gnarled wildlands of the Deccan, we are not easily conquered by land. And Islam seems to have had its day in India, if not the whole of the west.”

4.
He blinked, or slept, and then he was in a vast court of judgment. The dais of the judge was on a broad deck, a plateau in a sea of clouds. The judge was a huge black-faced deity, sitting potbellied on the dais. Its hair was fire, burning wildly on its head. Behind it a black man held a pagoda roof that might have come straight out of the palace in Beijing. Above the roof floated a little seated Buddha, radiating calm. To his left and right were peaceful deities, standing with gifts in their arms; but these were all a great distance away, and not for him. The righteous dead were climbing long flying roads up to these gods. On the deck surrounding the dais, less fortunate dead were being hacked to pieces by demons, demons as black as the Lord of Death, but smaller and more agile. Below the deck more demons were torturing yet more souls. It was a busy scene and Kyu was annoyed. This is my judgment, and it’s like a morning abattoir! How am I supposed to concentrate?
A creature like a monkey approached him and raised a hand: “Judgment,” it said in a deep voice.
Bold’s prayer sounded in his mind, and Kyu realized that Bold and this monkey were related somehow. “Remember, whatever you suffer now is the result of your own karma,” Bold was saying. “It’s yours and no one else’s. Pray for mercy. A little white god and a little black demon will appear, and count out the white and black pebbles of your good and evil deeds.”
Indeed it was so. The white imp was pale as an egg, the black imp like onyx; and they were hoeing great piles of white and black stones into heaps, which to Kyu’s surprise appeared about equal in size. He could not remember doing any good deeds.
“You will be frightened, awed, terrified.”
I will not! These prayers were for a different kind of dead, for people like Bold.
“You will attempt to tell lies, saying I have not committed any evil deed.”
I will not say any such ridiculous thing.
Then the Lord of Death, up on its throne, suddenly took notice of Kyu, and despite himself Kyu flinched.
“Bring the mirror of karma,” the god said, grinning horribly. Its eyes were burning coals.
“Don’t be frightened,” Bold’s voice said inside him. “Don’t tell any lies, don’t be terrified, don’t fear the Lord of Death. The body you’re in now is only a mental body. You can’t die in the bardo, even if they hack you to pieces.”
Thanks, Kyu thought uneasily. That is such a comfort.
“Now comes the moment of judgment. Hold fast, think good thoughts; remember, all these events are your own hallucinations, and what life comes next depends on your thoughts now. In a single moment of time a great difference is created. Don’t be distracted when the six lights appear. Regard them all with compassion. Face the Lord of Death without fear.”
The black god held a mirror up with such practised accuracy that Kyu saw in the glass his own face, dark as the god’s. He saw that the face is the naked soul itself, always, and that his was as dark and dire as the Lord of Death’s. This was the moment of truth! And he had to concentrate on it, as Bold kept reminding him. And yet all the while the whole antic festival shouted and shrieked and clanged around him, every possible punishment or reward given out at once, and he couldn’t help it, he was annoyed.
[…] The white Arab face in the black forehead laughed and squeaked, “Condemned!” and the huge black face of the Lord of Death roared, “Condemned to hell!” It threw a rope around Kyu’s neck and dragged him off the dais. It cut off Kyu’s head, tore out his heart, pulled out his entrails, drank his blood, gnawed his bones; yet Kyu did not die. Body hacked to pieces, yet it revived. And it all began again. Intense pain throughout. Tortured by reality. Life is a thing of extreme reality; death also.
Ideas are planted in the mind of the child like seeds, and may grow to dominate the life completely.
The plea: I have done no evil.

Tabella riassuntiva

Mille anni di storia alternativa! Narratore onnisciente e “raccontato” a chili.
Grandissima varietà di storie, ambientazioni, culture. Ritmo altalenante e alcune parti inutili.
Un unico filo conduttore lungo tutti gli archi narrativi. Visione della Storia idealista e un po’ ingenua.
Alcuni personaggi sono molto affascinanti.