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Indiegames: Hatoful Boyfriend

Hatoful BoyfriendSviluppatore: Hato Moa, Jeff Tanton (remake)
Casa di sviluppo: Pigeonation Inc., Mediatonic (remake)
Genere: Visual novel / Dating-sim
Genere Narrativo: Slice of Life / Slipstream / Distopia / Mystery
Motore: Famous Writer, Unity (remake)
Piattaforme:
Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2011, 2014 (remake)

The most splendid and greatest academy of the pigeon, by the pigeon and for the pigeon.

Supponiamo che, in seguito a misteriosi esperimenti, gli uccelli siano divenuti intelligenti. Supponiamo che, grazie all’attività di uccelli attivisti, i pennuti abbiano acquisito pari diritti degli esseri umani, entrando a far parte della nostra società. Supponiamo ancora che voi, una normalissima ragazza giapponese, siate riusciti a farvi ammettere alla celebre St. Pigeonation, la più prestigiosa scuola superiore per uccelli, diventando a tutti gli effetti la prima studentessa umana dell’istituto. E mettiamo caso che, per bizzarro che possa sembrare, il vostro piccolo cuore puro di fanciulla palpiti al solo pensare a quei piumaggi delicati, a quelle zampette aggraziate e a quei becchi ricurvi… be’, complimenti, significa che siete i protagonisti di Hatoful Boyfriend, il primo simulatore di appuntamenti tra esseri umani e volatili!1

I simulatori di appuntamenti, lo sanno anche i sassi, sono un genere videoludico profondamente amato dai giapponesi. Ogni anno centinaia di nuovi titoli invadono il mercato nipponico, ad opera tanto di grandi case quanto di piccoli sviluppatori indipendenti, e coi tagli più diversi: dalle avventure romantiche a quelle più esplicitamente sporcaccione, da storie più leggere ed escapiste (trova e conquista la ragazza dei tuoi sogni!) a storie più serie e drammatiche. La struttura di base è nella maggior parte dei casi la stessa: il protagonista è uno studente delle superiori – poco importa che sia una normale scuola giapponese, un’accademia militare per piloti di robottoni, o la scuola di magia di un mondo fantasy – che tra una lezione e l’altra avrà l’opportunità di conoscere tutta una serie di partner dell’altro sesso. Una serie di biforcazioni nella trama gli permetteranno di scegliere su quale partner concentrare i propri sforzi di seduzione; a conquista avvenuta, il gioco finisce.

Con un framework così radicato e riconoscibile, è inevitabile che i dating-sim diventino la base per infinite variazioni e sperimentazioni. Sono giochi molto semplici da sviluppare, consistendo in genere di riquadri testuali su sfondi statici (la parte più delicata nello sviluppo di giochi simili è l’art design con cui sono realizzate le figure dei personaggi), per cui anche chi è a digiuno di programmazione può cimentarsi e svilupparne uno. Il che è esattamente quanto è accaduto nel nostro caso.
La prima incarnazione di Hatoful Boyfriend nasce nel 2011 dalle mani di una mangaka soprannominatasi Hato Moa. È uno stupido giochetto in Flash fatto in mezza giornata come scherzo per il Pesce d’Aprile; i personaggi, invece che essere disegnati, consistevano di foto ritagliate e incollate alla bell’e meglio di uccelli realmente fotografati dall’autrice in un parco di Kobe. Ma l’idea di base è talmente assurda che la community impazzisce, e invoca un gioco vero. Vengono accontentati: nel corso dell’anno, Hato Moa rilavora al progetto e pubblica il prodotto completo a fine ottobre. Il pubblico impazzisce di nuovo. A febbraio 2012 esce la prima edizione in inglese, e Hatoful Boyfriend varca ufficialmente i confini nazionali.

Hatoful Boyfriend - Torimi Cafè

Preparatevi a ridefinire il vostro concetto di sexy.

Non è un dato banale. Da una parte, la comunità indie giapponese è abbastanza isolata e sono pochi i giochi indipendenti che escono dai circuiti nazionali. Dall’altra i dating-sim, pieni come sono di reference alla cultura e alla vita quotidiana giapponesi (oltre che essere soffusi di un’aria di sfigataggine particolarmente intensa tra noi occidentali), non hanno molto mercato all’estero. Quelli che si conquistano una localizzazione inglese, risaltano per qualche caratteristica particolare o perché fanno crossover con altri generi più popolari. È il caso ad esempio di quei GDR che integrano componenti da dating-sim, come nella celebre serie di Persona della Atlus: di giorno siamo normali studenti e cerchiamo di farci degli amici, di notte andiamo a combattere demoni.
Non Hatoful Boyfriend, che per struttura è una semplicissima visual novel scolastica, solo con piccioni e colombe al posto degli esseri umani. Per la precisione è un otome, un sottogenere tradizionalmente orientato a un pubblico femminile eterosessuale: la protagonista è una ragazza – non è possibile decidere il sesso – e tutti i possibili partner sono maschi (non che la cosa si noti più di tanto, essendo degli uccelli…).

Nel frattempo – siamo arrivati al 2014 – il gioco è diventato un fenomeno di culto per gli psicopatici di mezzo mondo. Se ne accorge la Devolver Digital – distributori, tra l’altro, degli Hotline Miami – e insieme a Hato Moa lavora a nuova edizione internazionale rimasterizzata. È questa l’edizione che è stata pubblicata su Steam, e quella a cui più facilmente avrete l’opportunità di giocare.2

Cos’ha fatto, insomma, questo Hatoful Boyfriend, per meritarsi un tale successo? Ha semplicemente preso un’idea demenziale e l’ha schiaffata su un template consolidato, facendo un gioco che è tutta superficie? Merita allora la critica che viene mossa di continuo alla Bizarro Fiction, ossia di essere del banale weird for the sake of weirdness? Amo l’assurdo – credo sia ormai ampiamente assodato – e non potevo quindi esimermi dal verificarlo di persona. Come lunedì scorso abbiamo inaugurato l’anno con la demenzialità di Alieni coprofagi dallo spazio profondo, così oggi proseguiamo con una nuova opera di sensibilità Bizarro. Ecco cos’ho scoperto.

Hatoful Boyfriend - Maid Cafe

Un gioco che ti stupra prima gli occhi e poi il cervello.

Uno sguardo approfondito
Dopo i primi minuti di gioco Hatoful Boyfriend conferma la sensazione iniziale di essere, nonostante il successo, una grezzata di livelli cosmici – almeno per chi, come me, non mangia visual novel romantiche a colazione. Il gioco comincia con il primo giorno di scuola della nostra piccola protagonista al secondo anno di liceo: qui vengono introdotti tutti i personaggi principali, ossia gli uccelli tra cui dovremo scegliere la nostra liaison sentimentale. Le tipologie di partner prendono a piene mani dagli stereotipi degli anime: abbiamo l’amico d’infanzia, lo sportivo, il ragazzino introverso, il compagno di classe ricco e arrogante, il playboy, il professore pasticcione, e via dicendo.
L’interazione è davvero minima. Ogni tanto, a partire dal secondo giorno di gioco, avremo la possibilità di fare delle scelte che ci avvicineranno all’uno o all’altro partner – ad esempio a quale club iscriverci, con chi parlare durante la gita scolastica, chi invitare al festival… – ma si tratta di un numero molto limitato di bivi. Al di fuori di queste opzioni offerte dal gioco non abbiamo alcuna possibilità di intervento nella storia, il che rafforza l’idea di una storia su binari. Esistono anche tre parametri da potenziare tra cui scegliere – saggezza, robustezza e carisma – ma dopo qualche partita appare chiaro che la loro utilità è molto limitata (servono soltanto a migliorare l’affinità con un numero estremamente ridotto di personaggi). Il livello di sfida è minimo, perché una volta deciso su quale partner concentrare le energie e il tempo, le risposte giuste sono estremamente intuitive.

Il gioco si scandisce in tre parti, corrispondenti ad altrettanti quadrimestri dell’anno scolastico giapponese. Il primo – quello primaverile-estivo – è quello in cui ci vengono introdotti i vari personaggi e dobbiamo decidere su quale puntare, escludendo progressivamente gli altri (semplicemente trascurandoli). Nel secondo, che comincia al termine della pausa estiva, abbiamo ormai deciso il nostro partner e si tratta di conquistarlo trascorrendo del tempo con lui. Nella terza fase raccogliamo ciò che abbiamo seminato, si arriva alla proposta d’amore e si sblocca il finale: il gioco si conclude nel momento in cui conquistiamo l’uccello prescelto. E qui incontriamo un nuovo problema – la conclusione e lo scorrere dei titoli di coda del gioco arriva in modo così brusco e inaspettato, rafforzando l’idea di stare giocando a un’opera poco rifinita. Non si arriva nemmeno alla fine ufficiale dell’anno scolastico!
Se dalla struttura di gioco passiamo agli aspetti più tecnici, la situazione non migliora. Le animazioni sono quasi assenti. Le musiche sono anonimi pezzi di repertorio (nel senso che sembrano prese da una library a casaccio) e nella maggior parte dei casi sembrano dei midi dell’era Super Nintendo. Pare che in questo Hatoful Boyfriend non si discosti di molto dalla maggior parte delle visual novel – almeno da quelle artigianali – ma bisogna ammettere che, messo di fronte ad altri giochi narrativi del circuito indie (da The Stanley Parable a Gone Home) il paragone appare davvero impietoso.

Hatoful Boyfriend - Tanabata

Il tipo di scelte che ti aspetteresti da un simulatore di appuntamenti. Se ve lo state chiedendo, sì: anche questa scelta influisce sul finale.

È quindi notevole che, nonostante quest’aria grezza, così poco rifinita, e queste meccaniche semplici fino alla stupidità, la storia e il mondo di gioco catturino così tanto. Prima di rendermene conto, avevo giocato per due ore di fila e sbloccato i finali di due personaggi diversi.
Una prima ragione di interesse è proprio nei personaggi. Aldilà di alcune route pensate esplicitamente for comedy – come quella di Okosan, colomba atleta ossessionata dalla ricerca del budino perfetto – i possibili partner di Hatoful Boyfriend rivelano, sotto la superficie dello stereotipo, personalità complesse e problemi seri. Intrecciando relazioni con ciascuno di loro toccheremo temi che spaziano dalla depressione e il suicidio, al conflitto tra doveri di famiglia e ambizioni personali, alla difficoltà di lasciare andare la persona amata, passando per gli ostacoli di una relazione sentimentale tra un essere umano e un uccello (e non oso immagine gli ostacoli a livello sessuale, che il gioco saggiamente non tocca neanche…). Al contrario di quello che ci si aspetterebbe da un dating-sim, inoltre, non tutte le route si concludono con l’avvio di una relazione nel senso convenzionale del termine, anche sbloccando il finale migliore; semplicemente, ci dice il gioco, alcune persone non sono fatte per stare insieme a quel modo, anche se si vogliono bene. Il che è insolitamente maturo per un genere di giochi escapista come questo.

Questo dato, di per sé, eleva Hatoful Boyfriend al di sopra del simulatore di appuntamenti medio – un genere, er, non particolarmente celebre per la sua qualità narrativa – ma dirà poco a un consumatore abituale di libri e film di buona qualità. È facile risaltare nel tuo pratino, se i tuoi dirimpettai sono dei mongoloidi. Per i non appassionati di visual novel giapponesi, il vero fascino del gioco sta piuttosto nella cura e nella strana presentazione del suo worldbuilding. In un certo senso, infatti, Hatoful Boyfriend è la negazione stessa dell’infodump. Veniamo scaraventati in questo mondo di strana convivenza tra specie diversi, unici esseri umani ammessi in una scuola di uccelli intelligenti, senza alcuna spiegazione di come ci siamo riusciti.
Il background del mondo di gioco ci viene mostrato gradualmente sullo sfondo del gioco di appuntamenti, mediante allusioni e immagini ben scelte. Uno dei primi giorni di gioco, ad esempio, vediamo la nostra protagonista che si sveglia a casa sua: una caverna spoglia in aperta campagna. Lei stessa parla di sé come di una “cacciatrice-raccoglitrice”, in antitesi ai suoi compagni uccelli. Una parte della città appare in rovina, come se ci fosse stata una guerra. Alcuni eventi nella scuola ci fanno scoprire, ancora, che gli uccelli non sono sempre stati intelligenti ma lo sono diventati in tempi relativamente recenti (il che lascia immaginare che il mondo di gioco sia in effetti il nostro mondo, in un futuro prossimo). Sappiamo che gli esseri umani esistono ancora e intrattengono rapporti con gli uccelli, ma nel corso del gioco non ne incontriamo mai un altro. Le relazioni tra le due specie appaiono pacifiche, almeno all’interno della scuola, ma i nostri compagni non cesseranno mai di rimarcare in un modo o nell’altro che noi e loro non apparteniamo alla stessa razza. La situazione che si viene creando è insieme assurda, esilarante e inquietante.

Hatoful Boyfriend - Punkgeon

La vita non è sempre rose e fiori alla scuola di St. Pigeonation.

E qui entra in gioco la meccanica narrativa peculiare di Hatoful Boyfriend: lo scoprire, poco alla volta, cosa c’è sotto la superficie del mondo di gioco, cosa è stato nascosto al giocatore. Ogni volta che si completa il finale di un personaggio, nel menu principale si sbloccano dei documenti segreti che lasciano capire che nella scuola non tutto è come sembra. Nuove opzioni e route nella storia principale si aprono mano a mano che i personaggi più semplici vengono completati (è interessante notare, ad esempio, che nelle primissime partite non si può scegliere di prestare servizio nell’infermeria della scuola). Quello che era un semplice simulatore di appuntamenti assume le tinte di un mystery investigativo. E solo quando tutte le route di specifici personaggi chiave sono state completate, sbloccheremo un’ulteriore storyline completamente diversa dalle altre, dalle tinte molto più macabre, e che promette di rivelare tutti i segreti di questo mondo futuro in mano agli uccelli…
È questa struttura a matrioska del mondo di gioco, dove sotto uno strato narrativo ce n’è sempre un altro più profondo, a spingere l’ignaro giocatore a ricominciare ancora e ancora l’anno scolastico a St. Pigeonation. E scoprire, in questo modo, che anche le idee più assurde e le trovate apparentemente più gratuite – dalla stupidità imbarazzante di Okosan alle allucinazioni da JRPG di Anghel, passando per le improbabili dicerie che circolano sull’infermeria della scuola – sono in realtà collegate e hanno senso anche aldilà della gag passeggera. Certo: il worldbuilding di Hatoful Boyfriend non è perfetto, ma non si può non apprezzare la volontà dell’autrice di far quadrare tutti i conti.

Il prezzo da pagare per scoprire quanto è profonda la tana del bianconiglio è la ripetitività dell’esperienza, perché ovviamente il grosso del gioco, scandito nei suoi periodi dell’anno, rimane uguale – fatta salva la storia specifica del partner che avremo deciso di sedurre volta per volta. Per nostra fortuna, bisogna dire che il ritmo del gioco è sempre abbastanza alto, una partita dal primo giorno di scuola al finale dura generalmente meno di un’ora, e le partite sono intrise di quell’umorismo ritardato tipico giapponese che tanto ci piace. Il solo vedere le foto male appiccicate degli uccelli che sporgono dalle finestre di testo e ci fanno proposte sentimentali con assoluta serietà è abbastanza demenziale da risollevarci il morale anche nelle giornate peggiori.
Hatoful Boyfriend
è un’opera assurda dalla testa ai piedi, che ti cattura con la sua stupidità e poi ti tiene avvinghiato con lo strano worldbuilding e il bisogno di svelare i suoi misteri. Come Alieni coprofagi è pensato per solleticare gli amanti della Bizarro Fiction, anche se ovviamente toccando corde diverse.  Non è un capolavoro, soprattutto sul piano tecnico, ma una piccola gemma narrativa che vale la pena provare – magari quando siamo scazzati col mondo e non vogliamo fare niente di più complicato.

Hatoful Boyfriend - Blaster

…ahem.


(1) Nonostante il gioco reiteri più e più volte, anche nei nomi del luogo, la parola ‘piccione’ (‘Hato’ in giapponese significa propio piccione), la scuola e il mondo di gioco in generale ospitano diverse specie di pennuti. Non solo piccioni dunque, ma anche colombe, pettirossi, parrocchetti, all’insegna dell’amore libero e interspecie.Torna su


(2) È sempre sull’edizione di Steam che è stata scritta questa mia recensione. Da allora, è stata distribuita su PS4 e XboxOne una nuova versione del gioco ulteriormente espansa (ad esempio, con un nuovo partner). Preciso da subito che non ho provato questa  nuova versione.Torna su

Paranoia Agent

Paranoia AgentRegista: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Satoshi Kon / Seishi Mikanami
Titolo originale: 妄想代理人 (Mōsō Dairinin)
Genere: Horror / Crime / Slipstream

N° Episodi: 13
Anno: 2004

La disegnatrice Tsukiko Sagi è una piccola star. Da quando ha creato il personaggio di Maromi, un cagnetto rosa super-deformed, lo studio per cui lavora ha raggiunto una fama inimmaginabile. Tutti amano Maromi, grandi e piccini; ci sono gadget di Maromi, zaini di Maromi, serie animate di Maromi. Ma ora, dopo anni di successo ininterrotto dovuto a un unico personaggio, lo studio ha chiesto a Tsukiko di inventare una nuova mascotte. E lei è terrorizzata. Quella notte, mentre rincasa da sola, sente che qualcuno la pedina – l’ultima cosa che vede, mentre le luci dei lampioni si spengono, e prima di essere tramortita, è un ragazzino su pattini a rotelle dorati, con una visiera a coprirgli il volto, un largo sorriso e una mazza da baseball. Si risveglierà in ospedale.
L’aggressione a Tsukiko sembrerebbe un caso isolato, se non fosse che, la notte dopo, un giornalista scandalistico che si era interessato al suo caso viene a sua volta malmenato dal piccolo aggressore sorridente. E poi ci sono una terza, una quarta, una quinta vittima. Ikari e Maniwa, i due investigatori assegnati al caso, si troveranno ben presto invischiati in un gioco più grande di loro, mentre gli attacchi del misterioso ragazzino con la mazza da baseball si fanno di notte in notte più violenti; e la città di Tokyo cade nell’ossessione e nella paranoia.

Quando si parla di lungometraggi d’animazione giapponese, il primo nome che mi viene in mente non è quello di Miyazaki, ma quello di Satoshi Kon. Nella sua breve carriera (è morto di tumore a quarantasette anni, manco fossimo nell’Ottocento…) ha porodotto una piccola serie di perle weird; storie che paiono un incrocio tra Philip K. Dick e una sessione psicanalitica degenerata nell’horror, storie in cui l’allucinazione e il sovrannaturale si inseriscono a poco a poco nel tessuto della realtà e non sai mai dove finisca uno e cominci l’altro. Una sola volta si è cimentato con una serie anime, e ne è uscito questo Paranoia Agent. Che, dopo un paio di episodi, si capisce subito non essere un anime dalla struttura classica, ma una roba sperimentale che gronda auteur da tutti i pori – nel bene e nel male.
Paranoia Agent è una storia corale e dalla struttura a episodi. Pur avendo una continuity interna e un numero limitato di personaggi ricorrenti – l’illustratrice Tsukiko, la prima vittima, e i due investigatori Ikari e Maniwa – ogni puntata è un racconto autoconclusivo, centrata su uno o più personaggi che si trovano a fronteggiare Shounen Bat (lett. “Il ragazzo con la mazza da baseball”). Ogni episodio è un’indagine psicologica, in cui siamo introdotti alla vita e ai problemi nascosti del suo protagonista, fino al climax dell’incontro/scontro con l’aggressore. Al tempo stesso, ogni puntata porta anche avanti la trama principale, aggiungendo un tassello all’indagine di Ikari e Maniwa – mano a mano, ciascuno di questi episodi di violenza permetterà ai due investigatori di arrivare più vicini all’aggressore misterioso e alla risoluzione del caso. Forse.

Opening di Paranoia Agent. Creepy as hell.

Uno sguardo approfondito
Molte delle storie raccontate in Paranoia Agent sono estremamente affascinanti. Il secondo episodio, per esempio, è dedicato alla storia di un ragazzino, Yuuichi, bello e popolare, abituato ad essere sempre il primo della classe e ad avere la stima di tutti, che si trova ad avere la sfiga di assomigliare tantissimo (nell’aspetto e nell’abbigliamento) a Shonen Bat. Di colpo, compagni di classe e vicini di casa cominciano a pensare che potrebbe essere lui l’aggressore – la sua popolarità crolla in un attimo, comincia a essere bulleggiato e tenuto a distanza, e non ha idea di come fermare tutto questo.
Il terzo episodio è dedicato invece alla tutrice di Yuuichi, che dietro una facciata di ordine e perbenismo nasconde uno sdoppiamento di personalità. E poi, ancora: un poliziotto che di notte fa affari con la yakuza, una donna afflitta fin dall’infanzia da una malattia che la costringe a casa, un gruppo di due uomini e una ragazzina uniti dalla determinazione a suicidarsi insieme. Completano il quadro due strani figuri: un vecchietto che vive in un ospizio, e che passa tutto il suo tempo in uno stato di catatonia, a disegnare con un gesso un’equazione in cui parrebbe celarsi il pattern delle aggressioni di Shonen Bat; e un’altra vecchietta, una silenziosa senzatetto che potrebbe essere l’unico testimone oculare della prima aggressione.

L’analisi psicologica e l’interplay fra i personaggi è di certo l’elemento più importante di Paranoia Agent. Fortunatamente, tutti i personaggi sono ben caratterizzati, a partire dai protagonisti. L’illustratice Tsukiko sembra essere progettata per stare sul cazzo allo spettatore, pur essendo la vittima: debole e riservata, risponde a monosillabi, non sa interagire con gli altri, non collabora con chi vorrebbe aiutarla, sembra essere completamente concentrata su sé stessa, al punto dell’alienazione. Maniwa e Ikari sono un’ottima coppia: il primo è l’investigatore giovane, il rookie, amante delle speculazioni metafisiche, pronto a intraprendere approcci non ortodossi alle indagini e incline al sovrannaturale; il secondo un poliziotto navigato, vicino alla pensione, che crede nel buon senso, nei casi “normali” con moventi “normali” e colpevoli “normali”, e che rimpiange i bei tempi andati in cui tutto era più semplice. Il modo in cui evolve il rapporto tra questo triangolo di personaggi nel corso delle puntate è affascinante.
Più in generale, nell’opera di Satoshi Kon c’è un’onestà nel trattare argomenti difficili, e in cui scadere nella retorica è un attimo – l’ipocrisia, l’esclusione sociale, la frustrazione, lo stress lavorativo, il pettegolezzo, la vergogna, la rimozione collettiva – che non si incontra spesso negli anime. Tanto nelle serie leggere (come gli shonen) quanto in quelle drammatiche, c’è spesso una tendenza alla stilizzazione, al cliché, all’esagerazione grottesca (sì, Madoka Magica, ce l’ho anche con te). Paranoia Agent sta invece in quell’olimpo rarefatto di anime, come Evangelion (la serie originale, non il Rebuild), in cui le reazioni delle persone paiono realistiche e credibili, anche quando impazziscono.

Paranoia Agent - Ottavo episodio

I protagonisti dell’ottavo episodio. In questo anime non ci sono persone normali.

Certo, molti potrebbero essere infastiditi dalla struttura frammentaria dell’anime e dall’assenza di un protagonista riconoscibile che faccia da catalizzatore della storia. Gli episodi centrali della serie, in particolare, raccontano storie che inizialmente appaiono del tutto scollegate dalla trama principale (solo verso la fine si colgono i collegamenti), e l’assenza di qualsiasi personaggio già incontrato precedentemente disturba (“ma questo cosa c’entra? Cosa sto guardando?”). Alla fin fine, questi episodi non mi sono dispiaciuti e penso arricchiscano l’universo di Paranoia Agent 1 – ma qualche collegamento in più con la trama principale non avrebbe fatto schifo.
Cosa più importante: nonostante il carattere episodico, il senso di unità e progressione della trama è sempre molto forte. Di puntata in puntata, non solo le vite dei tre protagonisti, ma l’intera Tokyo subirà dei cambiamenti irreversibili – e alla fine della serie si avrà l’impressione di essere in un luogo molto diverso rispetto a quello da cui si è partiti. Lo stesso Shonen Bat muterà profondamente in proporzione all’aumento della sua popolarità, facendosi più violento di aggressione in aggressione, fino ad arrivare all’omicidio e alle stragi. Sino al climax delle ultime tre puntate, in cui la serie abbandona la struttura autoconclusiva per imbastire uno showdown tra protagonisti e antagonista.

Qualche rammarico c’è. I personaggi secondari, una volta conclusa la puntata a loro dedicata, scompaiono quasi del tutto dalla storia, mentre sarebbe stato interessante vedere cosa ne è delle loro vite dopo il climax dell’incontro con Shonen Bat – chi rimane soffocato dai propri problemi, chi riemerge, e come? Prendiamo il caso di Yuiichi: cosa ne sarà di lui quando, nella seconda metà della serie, sarà evidente al di là di ogni dubbio che non può essere lui Shonen Bat? Concedendosi qualche episodio in più invece dei soli tredici che dura, Satoshi Kon avrebbe potuto riannodare tutti i fili del suo universo narrativo e portare l’intero cast fino alla fine della storia; purtroppo non sapremo mai cosa ne è di molti di loro.
Quanto al finale, è il tipico Satoshi Kon goes wild che gli amanti del regista avranno ben presente dagli altri suoi film – un degenero completo in una serie di avvenimenti uno più folle dell’altro, in cui non si capisce più cosa è reale e cosa non lo è, cosa è allucinazione e cosa è puro e semplice sovrannaturale. Nonostante qualche riserva sulla risoluzione del mistero dietro Shonen Bat 2, il finale mi è piaciuto – dirò solo che ho guardato gli ultimi tre episodi uno dietro l’altro, come in trance.

Paranoia Agent Maromi

Il cane Maromi. E’ pure più inquietante di Shounen Bat.

Paranoia Agent è un capolavoro. Se non vi farete intimidire dalla struttura sperimentale e dall’apparente assenza di un arco narrativo tradizionale, scoprirete una storia capace di regalarvi tensione, personaggi immersivi e appassionanti e diversi momenti creepy, immersi in una visione lucida della realtà e dei rapporti umani. L’assenza di gore e di scene veramente violente – qualche momento sanguinolento c’è, ma è poca cosa – rende inoltre la visione accessibile a tutti.
Di tutte le opere che ho presentato nel corso di questo mese e che ancora presenterò, Paranoia Agent è anche l’unica che si presti davvero a un’interpretazione metaforica. Alla fin fine, Satoshi Kon crea un grande affresco sociale; la sua storia vuole parlarci del disagio dell’uomo moderno (in particolare giapponese, ma non solo), e dare forma alle sue ansie e paure. La sua è la tipica opera di cui si dice che “fa pensare”. Ma no, non mettete mano alla pistola – perché Kon lo fa nel modo giusto, mostrandoci una serie di casi concreti e andando dal particolare al generale, e soprattutto confezionando una storia che ha comunque perfettamente senso, e ritmo, e tensione di per sé. Paranoia Agent è quel tipo di opera che, se avete un minimo di sensibilità, a fine visione non vi lascerà completamente uguali a com’eravate prima di vederla.

Chi devo ringraziare?
La prima persona a segnalarmi questo anime fu nientemeno che Gamberetta, intorno al 2010 o 2011, quando ancora il blog Gamberi Fantasy era un poco attivo. Mi segnai il titolo ma lo misi da parte.
L’ho riscoperto invece quest’anno, quando, stimolato da un mio amico, sono andato a recuperarmi tutte le opere di Satoshi Kon. E, che dire – Gamberetta aveva ragione.

La sigla di chiusura di Paranoia Agent

Tabella riassuntiva

Una serie atipica che coniuga tensione sovrannaturale e indagine sociale. La natura episodica potrebbe disturbare qualcuno.
Ottima caratterizzazione psicologica dei personaggi.  Le storyline dei personaggi secondari vengono abbandonate.
Adatto anche a chi si spaventa facilmente.
Shonen Bat è un personaggio geniale.


(1) SPOILERS AHEAD.
In particolare mi sto riferendo agli episodi otto, nove e dieci, dedicati rispettivamente al club dei tre suicidi, alle vicine di casa pettegole, e allo studio d’animazione incaricato di girare l’anime di Maromi. Oltre a raccontare le storie individuali di questi personaggi, questi episodi muovono la trama principale mostrando la graduale trasformazione di Shonen Bat.
Siamo infatti arrivati a un punto in cui – subito dopo l’omicidio del copycat Kozuka in maniera chiaramente sovrannaturale – Shonen Bat è diventato talmente potente da non aver più bisogno di un legame diretto tra le varie vittime per poter colpire. Non è più indispensabile che i personaggi degli episodi precedenti compaiano, e infatti non compaiono. Assistiamo, invece, all’ingigantirsi del mito dietro Shonen Bat, e di conseguenza alla sua trasformazione da ‘semplice’ serial killer a leggenda metropolitana, fino a divinità mitologica in grado di essere ovunque in qualsiasi momento e prendere qualunque forma voglia.Torna su


(2) Again, SPOILERS AHEAD.
Scopriamo il passato di Tsukiko e della morte del vero cagnolino Maromi negli ultimi due episodi. Nel penultimo, la faccenda viene spiegata a Maniwa per accenni, ma lasciandola aperta a più interpretazioni. Io, ovviamente, ci avevo messo la mia – e la trovo più figa di come poi si scopre essere andata realmente.
Io mi ero convinto che ad ammazzare Maromi fosse stata Tsukiko stessa, in un raptus. Dato il suo carattere introverso e passivo-aggressivo, non era così impensabile. Dopodiché, non potendo accettare ciò che aveva fatto, aveva rimosso la propria responsabilità nel gesto trasferendo la colpa su una figura immaginaria, quella del ragazzino con la mazza da baseball. In questo modo, aveva “esternalizzato” la propria parte malvagia, che aveva finito per prendere vita propria. Il ritratto di questa ragazzina, omicida e folle, mi piaceva molto.
Alla fine invece, non so se per mancanza di coraggio o perché era la sua idea fin dall’inizio, Satoshi Kon opta per il cliché del pirata della strada: Tsukiko ha la responsabilità di aver lasciato inavvertitamente finire il cane sotto la macchina, ma non è direttamente colpevole della sua morte. La cosa mi ha un po’ deluso.Torna su

Indiegames: To the Moon

To the MoonSviluppatore: Kan Gao
Casa di sviluppo: Freebird Games
Genere: Interactive Fiction, RPG
Genere Narrativo: Slipstream / Science Fiction / Slice of Life

Motore: RPG Maker XP
Piattaforme: Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2011

In un futuro non distante dal nostro, l’uomo ha inventato una macchina per entrare nei ricordi degli individui e alterarli, creando nuove memorie. La dottoressa Eva Rosalene e il dottor Neil Watts sono due agenti della Sigmund Corp., una società specializzata nel realizzare gli ultimi desideri di uomini in punto di morte. Il loro compito? Visitare i pazienti quando sono agli sgoccioli, farsi comunicare il loro desiderio, ed entrare nella loro mente per manipolare i loro ricordi e ricreare la loro vita sul presupposto che quel desiderio si sia realizzato. E strappare loro, così, un ultimo sorriso.
Ma questo caso è il più difficile della loro carriera. L’ultimo desiderio di Johnny Wyles, misterioso vecchio che abita in una villetta su una scogliera a ridosso di un faro, è di andare sulla Luna. Solo che non sa il perché. Eva e Neil dovranno viaggiare a ritroso nei ricordi di Johnny per scoprire come sia nato il suo desiderio e “piantare” nell’animo del suo io infantile l’impulso di diventare astronauta e andare sulla Luna. Ma è una lotta contro il tempo, perché il cuore di Johnny sta per cedere. Riusciranno i nostri eroi a realizzare il suo ultimo desiderio?

Quando leggi un romanzo di Heinlein ti senti così macho, ma così macho, che poi hai bisogno di disintossicarti. Per liberare il mio organismo da questo eccesso di testosterone, sento l’impellente bisogno di buttarmi su storie intimiste e romantiche. E visto che il Consiglio del Lunedì era dedicato alla storia di una società di uomini costretta a vivere sulla Luna e a non potersene più andare, perché non parlare, ora, della storia di un uomo che non è mai stato sulla Luna ma vorrebbe disperatamente andarci?
Come già The Stanley Parable, di cui abbiamo parlato questo inverno, anche To the Moon è un esempio di “walking simulator”, o “interactive fiction”: un gioco in cui si gioca poco, ma che fondamentalmente è un veicolo per raccontare una storia. Al comando dei due agenti Eva e Neil (che il giocatore impersona alternativamente), procederemo dall’inizio alla fine della storia con una limitata possibilità di interazione con l’ambiente e una ancor più limitata influenza sullo sviluppo della trama: più che giocatori siamo spettatori, con la differenza che dovremo muovere fisicamente il nostro avatar e risolvere alcuni enigmi e mini-giochi per andare avanti nella storia.
Ora: si può discutere all’infinito se esperienze come queste – o, ancora di più, come Stanley Parable o Gone Home – siano o meno categorizzabili come “videogiochi”; tuttavia, posto che venga dichiarato a chiare lettere e fin da subito all’acquirente di che tipo di gioco si tratta, è un genere assolutamente legittimo. Io, che macino abitualmente romanzi e film, sono del tutto in grado di godermi un gioco che ha valore esclusivamente dal punto di vista narrativo. Purché la storia sia bella e ben raccontata.

Trailer di To the Moon

Per farsi un’idea di cosa sia To the Moon, il paragone più immediato è col film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, il capolavoro di Michel Gondry (regista) e Charlie Kaufman (sceneggiatore) sbarcato in Italia col pietoso titolo “Se mi lasci ti cancello”. Anche qui, l’elemento fantascientifico – la macchina che fa entrare nei ricordi delle persone – ha il solo scopo di esplorare tematiche soft, ossia i rapporti tra le persone, l’inconscio, l’amore, la ricerca della felicità. Non si tarda a scoprire che al centro di To the Moon c’è una storia d’amore: proprio indagando la relazione tra Johnny e la sua amata, andando a ritroso dalla vecchiaia alla sua infanzia, i due protagonisti dovranno scoprire il mistero che aleggia sulla vita di Johnny e trovare così il modo di instillargli nell’inconscio il desiderio di andare sulla Luna.
Questo spiega anche perché, pur avendo sentito parlare di questo gioco da più di un anno, ho aspettato così a lungo prima di decidermi a provarlo. Non sono tipo da storia romantica, i film sentimentali mi fanno sbadigliare. Molte cose di questo gioco inoltre – dal tema della storia al tono del trailer (i cavalli ommioddio i cavalli!) – sembravano gridare “melodramma cheesy“. Se infine mi sono deciso a provarlo, è per una ragione completamente diversa: il fatto che fosse stato realizzato con RPG Maker.

Una digressione su RPG Maker
RPG Maker è un programma estremamente user-friendly per realizzare giochi di ruolo1 con la grafica bidimensionale di un Final Fantasy o di uno Zelda dell’epoca SNES. Per saper usare RPG Maker non bisogna essere dei programmatori, anzi – il punto di forza del programma è sempre stato il fatto di essere orientato proprio ad adolescenti incapaci, pieni di sogni dopo anni passati davanti ai titoli Square ma senza voglia di imparare sul serio l’arte della programmazione. L’iterazione di maggior successo – con cui anche questo To the Moon è stato realizzato – è RPG Maker XP, che non solo ha una grafica nettamente superiore a quella dei classici per SNES (è pure più bello di Chrono Trigger, che già è una gioia per gli occhi nel panorama dei giochi di ruolo in 2D), ma ha implementato un editor, l’RGSS (Ruby Game Scripting System), del linguaggio di programmazione Ruby. Questo significava che un utente un attimo più scafato, pur senza essere un grande programmatore, può utilizzare l’RGSS per customizzare il proprio gioco ben oltre le possibilità del programma base, e realizzare feature molto complesse.
Io stesso mi ero baloccato parecchio con questo programma intorno ai 15-16 anni, quando pensavo che un videogioco di ruolo fosse un veicolo più adatto della scrittura per dare forma alle mie fantasie. Quegli anni della mia vita sono un monumento al FAIL, una raccolta di progetti ambiziosissimi lasciati a metà, saghe da 300-400 ore di gioco che – a guardarle con il giusto distacco – erano morte ancora prima di cominciare. E in effetti, questo  è sempre stato il destino della maggior parte dei giochi di chi si cimentava nell’impresa. Le sezioni delle release sui siti e i forum dedicati a RPG Maker sono degli enormi cimiteri di elefanti, pieni di demo, promesse stupende, e autori scomparsi nel nulla.

Cimitero degli elefanti

Riproduzione attendibile di una normale comunità di utilizzatori di RPG Maker.

Incappare in un gioco finito in quelle community è sempre stato un piacere raro. Quasi invariabilmente si trattava di titoli brevi, tra le 3 e le 10 ore totali, sviluppati da persone più realiste e pratiche di noialtri. Questo To the Moon non fa eccezione: con le sue 5 orette circa, si può completare in un pomeriggio o un paio di sere. Ancora più raro, tuttavia, è sempre stato incappare in un gioco non solo completo, ma anche ben fatto. Come per altre comunità di sviluppatori indie, anche i progetti di RPG Maker erano di norma portati avanti da una persona sola, che quindi doveva riunire in sé le capacità dell’autore di narrativa (ideare una buona storia, sceneggiarla, costruire l’ambientazione…) e del programmatore (benché di basso livello, si trattava di un lavoro che richiedeva tempo e anche una certa dose di creatività per fare cose più complesse). Anche in questo, To the Moon non fa eccezione, essendo creazione del solo Kan Gao – l’unico aiuto esterno che ha avuto è stato nella composizione di alcuni pezzi della colonna sonora.
Tutto ciò ha fatto sì che volessi scoprire come potesse essere venuto un gioco realizzato su RPG Maker che aveva ottenuto tutto quel successo e risonanza nella comunità indie. Ero persino disposto a sorbirmi una storia d’amore.

Uno sguardo approfondito
Immagino che il primo problema che si sia posto Kan Gao, mentre si metteva a scrivere la sceneggiatura, fosse: “ok, ho tra le mani un melodrammone, pieno di gente sul letto di morte, lacrime, baci e abbracci. Come faccio a rappresentarla senza nauseare a morte chiunque la vedrà?” E ha implementato un paio di rimedi efficaci.
Il primo, la scelta di utilizzare come protagonisti due scienziati che fanno il proprio lavoro. La storia di To the Moon è la storia di Johnny Wyles, ma noi la viviamo attraverso il punto di vista di Eva e Neil. In questo modo, benché la vicenda sia drammatica e coinvolgente, non veniamo avviluppati nella melassa o nell’autocommiserazione che sarebbero inevitabili adottando il pov di Wyles. I due scienziati naturalmente non rimarranno gelidi di fronte alle peripezie del loro paziente, ma il loro sguardo più distaccato e professionale è senza dubbio un antidoto al cheesy.

To the Moon Screenshot romantico

Panchina, altalena, ruscello, scogliera di notte col suono del mare, faro. Di cliché romantico ne abbiamo dimenticato nessuno?

A ciò si aggiunge che i due protagonisti sono personaggi piacevoli. Neil è il tipo brillante e un po’ cinico che tende sempre a sdrammatizzare e buttarla in caciara, mentre Eva fa la tipa algida e rassegnata, costretta a sopportare con imbarazzo il suo collega pagliaccio; insieme fanno una bella coppia e si prestano a una serie di siparietti. Certo, a volte questi sketch tendono a scadere un po’ nel ripetitivo e nel gratuito (specialmente alcune uscite di Neil), ma nel complesso sono ben gestite, fanno sorridere e danno un po’ più di ritmo a una trama che altrimenti sarebbe troppo drammatica e monocroma.
Alla fine, benché il focus narrativo non sia su di loro, Eva e Neil emergono come personaggi sufficientemente complessi, non delle semplici marionette per far progredire la storia di Johnny. Ognuno ha le proprie motivazioni per aver scelto questo mestiere, e una propria visione del proprio lavoro. E, verso la fine del gioco, saranno anche in grado di sorprendere con le loro scelte.

La narrazione oscilla tra il mystery – nella parte di investigazione, in cui i due scienziati cercano di dipanare i misteri attorno alla vita del paziente e si imbattono in una serie di particolari inquietanti – e il dramma d’amore – mano a mano che i dettagli della sua vita vengono alla luce. La storia della vita di Johnny mi ha sorpreso piacevolmente. Il personaggio di Rivers, l’amata di Johnny, è una figura sgradevole e difficile da prendere in simpatia, ma è costruita per essere così – suppongo che la capacità di affezionarsi o meno a lei dipenda in primo luogo da che tipo di persona siamo noi (per esempio: potrebbe piacere ai fan di Rei Ayanami, if you know what I mean).
La loro relazione non è una cosa banale alla Twilight; è sufficientemente complessa, e realistica, nel suo alternare momenti di intimità e momenti di scazzo. Dietro gli atteggiamenti dei due amanti ci sono motivazioni credibili e personalità consistenti. Certo, non mancano momenti veramente cheesy, né trovate cliché2. C’è anche quello che sembra essere un buco di trama abbastanza importante3. Ma tutto sommato mi aspettavo peggio.

To the Moon screenshot

Alcuni episodi della vita di Johnny sono piuttosto inquietanti.

Il problema principale, nell’immedesimazione nei personaggi e nei loro drammi, è il fatto di non poterli guardare in faccia. Come in tutti i videogiochi in 2D con presa dall’alto, tutti i personaggi sono dei piccoli sprite con la stessa personalità di Super Mario in Super Mario World. Da decenni, gli sviluppatori hanno risolto il problema in uno di due modi: inserendo dei quadrati con i close-up dei volti dei personaggi nelle finestre di dialogo, o disegnando i personaggi a mezzobusto sopra le medesime finestre. Così facendo si può avere a buon mercato un’immagine ravvicinata per ogni personaggio, e un set di espressioni da usare nelle diverse situazioni. Uno stratagemma così semplice può avvicinare molto l’audience ai personaggi del gioco.
Kan Gao non fa niente di tutto ciò; le finestre di dialogo di To the Moon sono vuote come nei vecchi Final Fantasy. La ragione non mi è ben chiara. Certo, disegnare i vari personaggi e un ventaglio di espressioni per ciascuno di essi non è semplice; e, nel caso in cui Gao non sapesse disegnare, avrebbe dovuto reclutare una terza persona. Tuttavia, non sarebbe stato un lavoro così logorante, considerando l’esiguo numero di personaggi della storia. E poi, i vantaggi sono così di gran lunga superiori agli svantaggi – soprattutto per una storia così centrata sulle emozioni come questa – che ne sarebbe comunque valsa la pena.

Altrettanto discutibili sono gli sporadici elementi di gioco presenti in To the Moon. Forse per giustificare l’appellativo di “videogioco”, Kan Gao lo ha tappezzato di mini-giochi. Ogni volta che si entra in una scena della vita di Johnny, per passare a quella successiva bisogna rintracciare una serie di ricordi, che facciano da ponte tra una memoria all’altra. Questo concetto, che narrativamente ha anche un suo senso, si traduce in una “caccia al tesoro” in giro per la mappa, a recuperare oggetti (foto, ombrelli, peluche, e così via) che fungono da ricordo. Una volta raggiunto il numero necessario, per aprire il portale verso la nuova memoria parte il secondo minigioco: un puzzle-game in cui bisogna ricomporre una figura a partire dai suoi tasselli.
Spero che a descriverli per iscritto suonino altrettanto idioti che a giocarli, perché è proprio questa la sensazione che danno. Il primo, in particolare, può diventare snervante: ricordo, ad esempio, una volta in cui non riuscivo a trovare l’ultimo ricordo e alla fine, per disperazione, mi sono messo a cliccare tutti i cazzo di oggetti che trovavo nella mappa. Quando un mini-gioco, invece che essere un momento di divertimento, diventa un peso, qualcosa che ostacola la fruizione della storia invece di un elemento che la rafforza, you’re doing it wrong ed è il caso di toglierlo. Più in generale, il problema in To the Moon è che le fasi di gioco sono completamente scollate da quelle narrative – una fonte di distrazione, l’ostacolo tra un pezzo di trama e quello successivo. Voglio godermi la storia e invece devo ricomporre uno stupido puzzle col disegno di un vaso di fiori.

To the Moon screensaver

What the fuck is this shit.

Io avrei fatto così!
Ci sarebbero due soluzioni a questo problema. Quella più semplice e onesta, semplicemente, sarebbe di eliminare tutti i mini-giochi, e lasciare solo la trama. Come per The Stanley Parable e Gone Home, abbandonare anche le ultime velleità di videogioco tradizionale, e limitarsi a raccontare una storia in cui il giocatore deve muovere il personaggio dall’evento X all’evento Y. Esiste un pubblico per giochi del genere, quindi non vedo il problema.
La mia soluzione preferita, ovviamente, è quella più complicata. E prevede, in sostanza, un completo ripensamento del gioco. Pensateci un attimo: partendo dalle sue premesse narrative, cos’è in fondo To the Moon? Una storia d’investigazione. Una lotta contro il tempo per scoprire il segreto nella vita di un vecchio e riuscire a realizzare il suo ultimo desiderio prima che muoia. Ergo: avrei realizzato un vero e proprio gioco investigativo con un tempo limite e finale multiplo.

Al giocatore spetterebbe il compito di mettere insieme gli indizi trovati nei ricordi di Johnny e risolvere il mistero. Se non riuscisse a farlo in tempo, si otterrebbe il bad ending della morte del vecchio senza che il suo desiderio venga realizzato. O si potrebbe scoprire il suo segreto, ma non riuscire a farlo andare sulla Luna. E ancora, cosa anche più interessante, ci potrebbero essere più modi per realizzare il suo desiderio. In questo modo, si avrebbe finalmente un sistema di gioco completamente integrato nella trama, e che incentiva a giocare e sperimentare. La brevità del gioco, inoltre, aumenterebbe la replay value e spingerebbe anche il giocatore che si è beccato il bad ending a riprovare.
Una volta sbloccata una nuova memoria, il giocatore dovrebbe poter tornare ogni volta che vuole a quella e a tutte le precedenti – così da recuperare indizi eventualmente persi o rivivere certe scene per reinterpretarle alla luce di nuove informazioni. L’orologio interno che stabilisce quanto tempo manchi alla morte di Johnny non dovrebbe essere un vero e proprio timer – non vogliamo che il giocatore sia costretto a muoversi di fretta e non riesca più a godersi la storia – ma potrebbe dipendere, per esempio, dagli spostamenti tra i ricordi. Ogni spostamento, muove l’orologio di un’unità verso la morte. In questo modo il giocatore dovrebbe imparare a gestire con oculatezza i propri spostamenti, ma una volta arrivato in un ricordo potrebbe con calma esaminare la scena e riflettere sul da farsi.
Se sentissimo, in questo modo, che la vita di Johnny non è semplicemente un elemento della trama ma dipende veramente dalle nostre azioni, ed è veramente appesa a un filo, forse ci sentiremmo più responsabili. E sentiremmo la sua tragedia più vicina a noi.

To the Moon Screenshot

Kan Gao realizza delle scene che onestamente non credevo possibili su RPG Maker.

In conclusione
Le storie d’amore cariche di pathos, lo ribadisco, non fanno per me; e posso confermare, come sospettavo, che questo To the Moon non è indirizzato alle persone come me. E’ quindi interessante che, nonostante tutto ciò, io abbia divorato il gioco. A parte i primi quaranta minuti, mi sono passato tutto il gioco in una sola seduta – perché volevo sapere come andava a finire. To the Moon ha ritmo. Nonostante i mini-giochi stupidi, e nonostante alcune scene discutibili, non si avverte mai un momento di stanca. E la scena finale, devo ammetterlo, è stupenda; la dimostrazione della saggezza di quel vecchio adagio dei manuali di narrativa, “arrive late and leave early”.
Non è un gioco che consiglierei a tutti. Gli amanti della fantascienza rimarrebbero delusi, come anche chi si aspettasse un secondo Eternal Sunshine (quel film è parecchie spanne sopra l’opera di Kan Gao). Ma per gli amanti dei drammi psicologici, dello slice of life, e naturalmente delle storie d’amore, be’, To the Moon è un bel prodottino. Provatelo. Se siete indecisi, aspettate i prossimi saldi di Steam. L’ultima cosa che posso dirvi per convincerci è che: no, il “voglio andare sulla Luna” non è una forbita metafora. Parla proprio della Luna. E di andarci. Con uno shuttle. Della NASA.

Kan Gao ha annunciato da tempo di essere al lavoro su un secondo episodio, che vedrà i dottori Eve e Neil alle prese con un nuovo caso (spoiler: nessuno dei due muore). Prima di allora, però, dovrebbe uscire un episodio più breve – chiamato Bird Story che fungerebbe un prequel al secondo capitolo vero e proprio di To the Moon. Questo capitolo intermedio ruoterà attorno a “un bambino e un uccellino con un’ala spezzata”, e se possibile sembra ancora meno nelle mie corde del precedente. Bird Story non ha ancora una data di uscita ufficiale; se la storia dei programmatori di RPG Maker mi ha insegnato qualcosa, è facile che prima di allora Kan Gao sia scappato in Kirghizistan e abbia aperto un allevamento di cavalli (sembrano piacergli così tanto).
Quanto a me, la carrellata di articoli dedicati alla Luna e all’esplorazione spaziale non è ancora terminata. Ne riparleremo lunedì prossimo.

To the Moon Screenshot Horses

Figa i cavalli.


(1) Dico “giochi di ruolo” per semplificare. In realtà, benché RPG Maker sia impostato principalmente per realizzare gdr, un utente un po’ scafato può piegare il programma per realizzare (con fatica) altri tipi di gioco, dallo sparatutto al platform.Torna su


(2) Su tutte, il trauma infantile che sconvolge la vita di Johnny. L’incidente stradale che ti ammazza il fratellino è una delle trovate più abusate nella storia della narrativa drammatica. E il fatto che si passi un’ora di gioco buona a cercare di scoprire di cosa si tratti rende la delusione solo più cocente, quando finalmente il mistero è risolto.Torna su


(3) Il fulcro della relazione tra Johnny e Rivers è che lui si è dimenticato del loro primo incontro quand’erano piccoli, e lei non gliel’ha mai perdonato. Questa sua dimenticanza, a sua volta, è causata dal fatto che per dimenticare il trauma della perdita del fratello è stato imbottito di psicofarmaci.
Ora, per far nascere in Johnny il desiderio di andare sulla Luna, Eva rimuove dai suoi ricordi il secondo incontro con Rivers, al liceo; in questo modo, lui continuerà inconsciamente a “inseguirla” sulla Luna. Tuttavia Eva fa anche una seconda cosa, ossia cancella la morte del fratello. Ma questo fa crollare tutto il castello di carte.
Se suo fratello non muore, Johnny non comincerà mai a prendere psicofarmaci. Non perderà mai la memoria, ergo tornerà nel ‘posto magico’ con Rivers l’anno dopo. Il secondo incontro al liceo non avverrà mai, semplicemente perché i due non smetteranno di vedersi. Ma allora Johnny, non avendo smarrito Rivers, non proverà mai la tentazione di andare sulla Luna. Se risparmi il fratello, altre cose potranno cambiare, ma non è chiaro che direzioni prenderà il rapporto tra i due; Johnny potrebbe ritrovarsi di nuovo infelice alla fine della sua vita.

Datemi del cinico, ma io avrei preferito semplicemente che Eva rimuovesse Rivers dalla vita di Johnny (cambiando solo l’episodio del liceo). Lui sarebbe stato molto più felice. Forse sarebbe andato sulla Luna. Forse no. Ma non avrebbe vissuto una vita inutile accanto a una donna come Rivers.Torna su

I Consigli del Lunedì #37: Flow My Tears, the Policeman Said

Flow My Tears, the Policeman SaidAutore: Philip K. Dick
Titolo italiano: Scorrete lacrime, disse il poliziotto
Genere: Slipstream / Distopia / Psicologico
Tipo: Romanzo

Anno: 1974
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 230 ca.

Difficoltà in inglese: **

Flow, my tears, fall from your springs!
Exiled for ever, let me mourn;
Where night’s black bird her sad infamy sings,
There let me live forlorn.

Tutti i martedì sera, tra le otto e le nove, trenta milioni di spettatori accendono la TV per guardare il Jason Taverner Show. Taverner, cantante pop, bellissimo quarantenne, nonché un Sei – un essere umano creato in laboratorio e geneticamente modificato per essere più affascinante, più psicologicamente stabile e più sano del normale – ha tutto ciò che si potrebbe desiderare dalla vita. Finché una delle sue amanti, in preda a una crisi di nervi, non tenta di ucciderlo con un parassita alieno. L’ambulanza, la corsa in ospedale: sembra che Taverner sopravviverà. Senonché, al suo risveglio, Taverner non si trova in una corsia d’ospedale; è nella stanza vuota di un albergo fatiscente, addosso non ha più neanche un documento, e la gente – anche i suoi più stretti collaboratori e la sua amante, la gelida cantante Heather Hart – non si ricorda più di lui.
Taverner è diventato una non-persona. E questo è un bel problema, in un’America che in seguito a una nuova guerra civile si è trasformata in uno stato totalitario, retto dalla polizia e dalla guardia nazionale, e dove ogni cittadino è schedato all’interno di un network esteso in tutto il mondo. In questo mondo, ad ogni svolta puoi trovarti davanti a un checkpoint randomico della polizia, e chi non è in regola rischia un viaggio di sola andata nei campi di lavoro sulla Luna. Taverner dovrà riuscire a sopravvivere e a scoprire cosa gli è successo, sperando di non attirare mai l’attenzione dello Stato; il suo destino è nelle mani di Felix Buckman, cinico Generale di Polizia che sogna un mondo di ordine e giustizia universali, e della sua androgina, bisessuale, tossicomane sorella Alys. La caccia è aperta.

“Flow, My Tears” è un’aria per liuto del compositore tardo-rinascimentale John Dowland. Il pezzo, che non sarebbe stato strano ascoltare alla corte della regina Elisabetta, parla del bisogno di nascondersi nei recessi più bui del pianeta in seguito a una grande sventura, per sfuggire alla vergogna, al disprezzo, alla consapevolezza della propria miseria. Allo stesso modo, il romanzo di Dick mette al centro l’inspiegabile caduta di una celebrità, e della lotta che dovrà condurre, in un mondo ostile e disumano, per non fare una fine orribile – o almeno, per trovare un po’ d’amore.
Flow My Tears, the Policeman Said ha vinto a mani basse il sondaggio che avevo lanciato un mese e mezzo fa, su quale romanzo di Dick avrei dovuto recensire fra una rosa di tre titoli. Ammetto che ero scettico all’idea di dedicare un articolo al romanzo, e non fosse stato per le vostre richieste non l’avrei fatto. Per tanti motivi: perché è una storia molto più vicina al mainstream che non al fantastico; perché è un romanzo che polarizza molto i lettori, anche tra i fan di Dick, che o lo amano o lo odiano; perché è un romanzo a cui sono molto legato, e quindi temevo di non poter essere obiettivo o che, rileggendolo a distanza di anni (e per la prima volta in lingua originale), ne sarei rimasto deluso. Be’, mi avete fatto cambiare idea. E quindi eccovi il Consiglio.


“Flow My Tears” di John Dowland, in un’interpretazione di Andreas Scholl. Come mi piace la erre dura dell’inglese classico!

Uno sguardo approfondito
Il primo capitolo è brutto. In uno spazio così piccolo, Dick riesce a compiere quasi tutti gli errori possibili: ci sono gli infodump debolmente mascherati da pensieri del protagonista, che senza un motivo valido si mette a ricapitolare le caratteristiche del mondo in cui vive a tutto beneficio del lettore; ci sono – ancora peggio – gli As you know, Bob, come l’agente di Taverner che declama alla sua stellina: “Do you realize what power you have?” per poi lanciarsi in una serie di precisazioni circa quanto potere egli abbia; ci sono le valanghe di aggettivi e avverbi. In generale, i personaggi di Dick mostrano una certa fretta di mettere a nudo fin da subito il loro animo e il loro carattere, anche se i dialoghi ne risultano forzati e innaturali. Insomma, se dovessimo giudicare il romanzo dal primo capitolo – come sarebbe legittimo fare – non resterebbe che scuotere la testa e riporlo sullo scaffale. Se invece teniamo duro, dal secondo capitolo le cose cominciano a cambiare.
Non che diventi mai un capolavoro di prosa. Dick non si è mai preoccupato troppo di curare il suo stile, e Flow My Tears non è nemmeno dei meglio scritti. Le sue descrizioni sono quasi sempre ai minimi termini, molto raccontate, e infatti a fine lettura dell’ambientazione del romanzo ci si ricorda ben poco. Ecco ad esempio come viene descritto lo studio clandestino della falsaria Kathy:

“It was small. But he saw a number of what appeared to be complex and highly specialized machines. On the far side a workbench. Tools by the hundreds, all neatly mounted in place on the walls of the room. Below the workbench large cartons, probably containing a variety of papers. And a small generator-driven printing press.”

Più nebuloso di così si muore. Per non parlare della costruzione criminale di certe frasi, come le combo letali punto + avverbio: “Sucking in his breath he shuddered. Violently.”

Eppure. Eppure a partire dal secondo capitolo tutta questa trascuratezza comincia a pesare di meno, scivola in secondo piano, e il lettore viene pian piano trascinato nel dramma personale del protagonista. All’inizio del secondo capitolo, Taverner si sveglia in una polverosa stanza d’albergo senza più un documento addosso, e comincia la sua odissea. Dick è molto bravo nel farci percepire l’ansia dei suoi protagonisti, la sensazione di essere precipitati in qualcosa che non si capisce e di non essere nemmeno più sicuri di essere nel mondo reale. I monologhi interiori del protagonista, nel loro oscillare costante tra un tentativo di razionalizzare l’esperienza e le crisi isteriche in cui si manda tutto affanculo, sono credibili e immersive.
Allo stesso modo il mondo in cui Taverner si muove, benché mostrato in modo approssimativo, è convincente e aggiunge ansia all’ansia. Taverner ha paura di essere scambiato per uno studente fuggitivo: negli Stati Uniti del futuro i campus universitari sono cintati di filo spinato perché gli studenti all’interno sono dei dissidenti del regime, e la polizia cerca di prenderli per fame. La burocrazia del nuovo regime è sconfinata, e quando Taverner sarà interrogato in una centrale avvertiremo sulla nostra pelle il suo terrore mentre documento falso dopo documento falso, deposizione dopo deposizione, tutto viene analizzato e rianalizzato e visto sotto luci diverse in cerca del più piccolo neo. Il tutto può ben essere riassunto in una frase di Taverner, che da sola dà l’idea di tutta l’atmosfera del romanzo: “Once they notice you, Jason realized, they never completely close the file. You can never get back your anonymity. It is vital not to be noticed in the first place. But I have been.”

Macchinari

Macchinari complessi e molto specializzati. Non necessariamente quelli dello studio di Kathy.

Ma dove Dick dà il meglio di sé, è nei dialoghi. I suoi dialoghi sono affascinanti per due ragioni. La prima, è che ci infila sempre più livelli di conflitto contemporanei. Non sono mai dialoghi semplicemente informativi – eccettuati quelli del brutto primo capitolo – e se da una parte danno al lettore una serie di informazioni utili (sull’ambientazione, sulla psicologia del personaggio che parla, eccetera), al contempo sono una lotta tra i due interlocutori per la prevalenza. Può essere la lotta tra Taverner e un ufficiale di polizia che lo sta interrogando: il primo vuole scamparla senza tradirsi, l’altro vuole incastrarlo. O può essere che Taverner stia cercando di accattivarsi la falsaria nella speranza di farsi fabbricare documenti falsi, mentre quella non è disposta ad aiutarlo senza qualcosa in cambio. Ognuno tira acqua al suo mulino. A un secondo livello, il personaggio-pov vive dei conflitti interiori: ad esempio Taverner, mentre gioca con freddezza la sua partita dialettica per avere ciò che vuole, deve tenere a bada la sua natura arrogante di ex-privilegiato che vorrebbe dare in escandescenza e mandare affanculo l’interlocutore.
E a volte il dialogo si fa anche più surreale. C’è un momento in cui uno dei personaggi comincia a fare al protagonista rivelazioni cruciali su quello che gli è successo. La faccenda è interessante proprio perché promette rivelazioni, ma potenzialmente noiosa perché è un dialogo strettamente informativo. Sfortunatamente, Taverner in quel momento è pieno di droga fino agli occhi; deve lottare per riuscire a concentrarsi, ed è terrorizzato all’idea che la sua gamba destra si allunghi fino alla luna. Il dialogo diventa obliquo: i due personaggi parlano ma non si ascoltano, ciascuno cerca di interagire con l’altro ma in realtà sono entrambi catturati dai loro problemi personali. Il lettore guadagna comunque l’informazione, ma in un contesto molto più interessante. E molto surreale.

Il secondo motivo per cui i suoi dialoghi sono affascinanti è che, pur senza essere realistici fino alla noia, suonano così verosimili. I personaggi dicono una cosa e poi ne fanno un’altra. Sostengono un’opinione, ma poi ci ripensano. Giocano molti giochi, nel senso di Eric Berne: conversazioni ritualizzate il cui fine nascosto è diverso da quello manifesto, e a volte addirittura antitetico.1 Molti si risentono della schizofrenia dei personaggi di Dick, dicendo che sono incoerenti e quindi mal scritti. Non è così. I suoi personaggi, a guardare la loro psicologia, sono coerenti – semplicemente, sono irresoluti. Oscillano tra due propositi, spesso contraddittori, e spesso finiscono per fare una cosa e poi l’esatto contrario – per poi odiarsi per questo. Taverner vorrebbe rimanere sempre freddo e agire con il cervello, ma il suo orgoglio e la sua insicurezza lo fanno sbroccare e distruggere in un attimo castelli di carte costruiti in ore di lavoro; Buckman vorrebbe non dover fare del male agli altri, ma finisce per farlo per fini superiori, e questo lo logora e gli procura sensi di colpa. Sono personaggi ambigui, complessi, pieni di dubbi, e questa complessità si manifesta proprio nel fatto di non avere un comportamento granitico.
E’ un bene che Dick sia così bravo nei dialoghi, perché di fatto tutto il romanzo è una lunga serie di dialoghi con poca azione intorno. In questo, la struttura di Flow My Tears ricorda un po’ quella del filosofico Holy Fire di Sterling – ne ho parlato giusto qualche mese fa – solo che qui i pericoli sono reali invece che teorici e lontani, e si parla di persone e di relazioni piuttosto che dei massimi sistemi. Attraverso questi dialoghi, Dick disegna una galleria di personaggi affascinanti: Kathy, la falsaria con la faccia da bambina e una psicosi che la sta mangiando da dentro, che usa l’amore come un legaccio per stritolare a sé i suoi uomini e impedire loro di abbandonarla; Heather Hart, la bellissima amante di Taverner, che pur facendo la popstar odia il genere umano ed è felice solo quando è completamente sola; Ruth Rae, la donna tutta sesso invecchiata precocemente; Mary Anne Dominic, l’artista vasaia un po’ sovrappeso, che vorrebbe solo essere lasciata in pace a coltivare la sua arte; Alys Buckman, che si è bruciata chirurgicamente i centri nervosi dell’empatia e vive per consumare tutto ciò che ama; e così via.

Games People Play

Conoscere i giochi a cui la gente gioca può rendere la nostra vita quotidiana molto più efficiente.

Si potrebbe obiettare che, a giudicare dalle mie parole, in questo romanzo c’è ben poco di fantascientifico. Be’, è vero. L’ambientazione ha alcuni elementi weird molto carini, che però sono di contorno – su tutte, l’idea che l’odio razziale sia culminato nella decisione di sterilizzare tutti i neri, con la conseguenza che al tempo della storia ne sono rimasti pochissimi, e sono diventati oggetti di ammirazione, sono riempiti di soldi e trattati come i Panda del WWF. Ci sono anche altri elementi classici della fantascienza dickiana, come i precog, le macchine volanti e le droghe sintetiche dagli effetti assurdi, ma rimangono ai margini. L’America totalitaria del romanzo è inquietante ma molto ‘normale’: se facessimo finta che fosse stato scritto da un dissidente politico nel Blocco Sovietico degli anni ’50, potremmo quasi credere che si tratti di un regime realmente esistito. Di fatto, Flow My Tears è più vicino al mainstream che non alla fantascienza propriamente detta.
Particolare è anche la struttura del romanzo. All’inizio tutto ci fa pensare che Taverner sia il protagonista e l’unico personaggio-pov. Superati i primi capitoli, però, entra in scena Felix Buckman come nuovo personaggio-pov; e anche se i due protagonisti si passano la palla per il resto del romanzo, il baricentro della storia si sposta sempre più verso quest’ultimo. Scelta che approvo: allargando l’orizzonte della storia a Buckman, cominciamo a vedere lo stesso mondo che perseguitava Taverner da un nuovo punto di vista che altrimenti ci sarebbe stato negato. Una volta, in un momento poetico, avevo paragonato questo romanzo con Il processo di Kafka – anche qui l’atmosfera è dominata da un’autorità ottusa e pervasiva, con la differenza che oltre al punto di vista della vittima abbiamo anche quello di chi tiene in mano la scure.

E nonostante la carenza di azione, il ritmo è rapidissimo. Il botta e risposta continuo tra i personaggi, la sensazione di qualcosa di terribile costantemente alle calcagna, incollano alla pagina. La prima volta che lo lessi, lo divorai in un giorno. Oggi non ho modo di leggere dalla mattina alla sera senza mai fermarmi, ma l’ho comunque riletto in tre giorni. E nonostante le iniziali resistenze, l’ho trovato ancora fantastico – anche se oggi sono pronto a riconoscere che, come quasi sempre con Dick, avrebbe potuto essere scritto mille volte meglio.
Obiettivamente posso dire che ci sono molti romanzi migliori, e se lo metto ai primi posti della mia classifica è soprattutto perché ci sono legato in modo personale. Aldilà della trascuratezza dello stile, si porta dietro anche qualche difetto di contenuto. Per esempio, a volte – e soprattutto all’inizio – è difficile identificarsi in Taverner: è così bello, così intelligente, così affascinante, così dotato di autocontrollo, che è quasi un Gary Stu. A differenza di un Gary Stu, viene davvero messo alla prova, soffre sul serio (non si limita a dire che soffre come un Edward qualunque) e la prende davvero in quel posto dagli altri un sacco di volte. Tuttavia, il suo retaggio di ‘Sei’, di essere geneticamente superiore, lo allontana troppo dal lettore. Il problema non è il fatto che fosse una celebrità, quello è un elemento integrante della storia ed è importante – ma non poteva essere una persona nata normale che ce l’aveva fatta con le sue forze? Come il Bel-Ami di Maupassant o il Rastignac di Balzac, uno che era arrivato al vertice della società per talento e calcolo invece che per predestinazione naturale? Quanto sarebbe stato più interessante? E, trovandosi improvvisamente rigettato nell’anonimato e nella miseria, in quali modi più affascinanti avrebbe reagito?

Sorrounded by Police

I regimi totalitari ti fanno sentire al centro dell’attenzione.

Ma è oggettivamente un buon romanzo. E la scena finale (quella alla pompa di benzina) mi ha lasciato di ghiaccio adesso come allora, anche se sapevo già che ci sarebbe stata. Per contro, l’Epilogo che chiude il libro è bruttino e il romanzo ci avrebbe guadagnato senza la sua esistenza.
Insomma, di cosa parla questo Flow My Tears? Diciamo che parla dell’amore tra le persone. E se volessi riassumerlo in poche righe, mi affiderei a queste parole dette a un certo punto da Taverner:

“Then why is love so good? […] You love someone and they leave. They come home one day and start packing their things and you say, ‘What’s happening?’ and they say, ‘I got a better offer someplace else,’ and there they go, out of your life forever, and after that until you’re dead you’re carrying around this huge hunk of love with no one to give it to. And if you do find someone to give it to, the same thing happens all over. Or you call them up on the phone one day and say, ‘This is Jason,’ and they say, ‘Who?’ and then you know you’ve had it. They don’t know who the hell you are. So I guess they never did know; you never had them in the first place.”

Dove si trova?
Come tutti i romanzi di Dick, anche Flow My Tears è facile da trovare online. Potete scaricarlo in lingua originale su BookFinder (pdf o epub) oppure su Library Genesis (pdf o epub); per l’edizione italiana potete serenamente affidarvi a Emule o simili, o potete comprare l’edizione Fanucci in libreria, se non è andata fuori stampa.

Qualche estratto
Il primo brano ci mostra Taverner nel momento in cui scopre di essere diventato una non-persona, ed è bello vedere un Sei come lui in preda alla madre delle crisi di nervi; il secondo mostra invece un dialogo con Kathy, la falsaria, e mi sembra un bell’esempio tanto della bravura di Dick coi dialoghi quanto della sua capacità di dar corpo a personaggi vividi.

1.
Fortunately he had change. He dropped a one-dollar gold piece into the slot, dialed Al Bliss’s number.
“Bliss Talent Agency,” Al’s voice came presently.
“Listen,” Jason said. “I don’t know where I am. In the name of Christ come and get me; get me out of here; get me someplace else. You understand, Al? Do you?”
Silence from the phone. And then in a distant, detached voice Al Bliss said, “Who am I talking to?”
He snarled his answer.
“I don’t know you, Mr. Jason Taverner,” Al Bliss said, again in his most neutral, uninvolved voice. “Are you sure you have the right number? Who did you want to talk to?”
“To you, Al. Al Bliss, my agent. What happened in the hospital? How’d I get out of there into here? Don’t you know?” His panic ebbed as he forced control on himself; he made his words come out reasonably. “Can you get hold of Heather for me?”
“Miss Hart?” Al said, and chuckled. And did not answer.
“You,” Jason said savagely, “are through as my agent. Period. No matter what the situation is. You are out.”
In his ear Al Bliss chuckled again and then, with a click, the line became dead. Al Bliss had hung up.
I’ll kill the son of a bitch, Jason said to himself. I’ll tear that fat balding little bastard into inch-square pieces.
What was he trying to do to me? I don’t understand. What all of a sudden does he have against me? What the hell did I do to him, for chrissakes? He’s been my friend and agent nineteen years. And nothing like this has ever happened before.
I’ll try Bill Wolfer, he decided. He’s always in his office or on call; I’ll be able to get hold of him and find out what this is all about. He dropped a second gold dollar into the phone’s slot and, from memory, once more dialed.
“Wolfer and Blaine, Attorneys-at-law,” a female receptionist’s voice sounded in his ear.
“Let me talk to Bill,” Jason said. “This is Jason Taverner. You know who I am.”
The receptionist said, “Mr. Wolfer is in court today. Would you care to speak to Mr. Blaine instead, or shall I have Mr. Wolfer call you back when he returns to the office later on this afternoon?”
“Do you know who I am?” Jason said. “Do you know who Jason Taverner is? Do you watch TV?” His voice almost got away from him at that point; he heard it break and rise. With great effort he regained control over it, but he could not stop his hands from shaking; his whole body, in fact, shook.
“I’m sorry, Mr. Taverner,” the receptionist said. “I really can’t talk for Mr. Wolfer or—”
“Do you watch TV?” he said.
“Yes.”
“And you haven’t heard of me? The Jason Taverner Show, at nine on Tuesday nights?”
“I’m sorry, Mr. Taverner. You really must talk directly to Mr. Wolfer. Give me the number of the phone you’re calling from and I’ll see to it that he calls you back sometime today.”
He hung up.
I’m insane, he thought.

Per fortuna aveva qualche moneta. Infilò un pezzo d’oro da un dollaro nella fessura e fece il numero di Al Bliss.
— Agenzia artistica Bliss — gli rispose la voce di Al.
— Senti — disse Jason, — non so dove mi trovo. Per amor di Dio, vieni a prendermi. Tirami fuori di qui. Hai capito, Al?
Silenzio. Poi, in tono remoto, distaccato, Al Bliss chiese: — Con chi parlo?
Lui ringhiò la risposta.
— Non la conosco, signor Jason Taverner — disse Al Bliss, ancora con la sua voce più neutra. — È sicuro di avere fatto il numero giusto? Con chi voleva parlare?
— Con te. Al. Al Bliss, il mio agente. Cose successo all’ospedale? Come ho fatto a finire qui? Non lo sai? — La marea del panico salì, e Jason lottò per imporsi l’autocontrollo. Costrinse le proprie parole ad assumere un tono pacato. — Puoi metterti in contatto con Heather per me?
— La signorina Hart? — disse Al, e ridacchiò.
— Tu — disse Jason, furibondo — hai finito di essere il mio agente. Punto. Qualunque sia la situazione. Sei fuori.
Al Bliss ridacchiò un’altra volta, e poi, con un clic, la comunicazione si interruppe. Al Bliss aveva riappeso.
“Ucciderò quel figlio di puttana” si disse Jason. “Ridurrò in pezzettini minuscoli quel bastardo di un grassone calvo.
“Cosa sta cercando di farmi? Non capisco. Cos’ha contro di me, cosi, all’improvviso? Che diavolo gli ho fatto, Cristo santo? È mio amico e mio agente da diciannove anni. E una cosa del genere non è mai successa.
“Proverò con Bill Wolfer” decise. “È sempre in ufficio o comunque reperibile. Riuscirò a raggiungerlo e scoprirò cosa accidente ci sia sotto.” Infilò una seconda moneta da un dollaro nella fessura e, a memoria, compose un altro numero.
— Studio legale Wolfer & Blaine — gli risuonò all’orecchio la voce di un’impiegata.
— Passami Bill — disse Jason. — Sono Jason Taverner. Hai capito bene chi.
L’impiegata disse: — Oggi il signor Wolfer è in aula. Preferisce parlare col signor Blaine, oppure devo farla richiamare dal signor Wolfer quando rientrerà in ufficio, nel pomeriggio?
— Ma sai chi sono? — chiese Jason. — Sai chi è Jason Taverner? Guardi la tivù? — A quel punto perse quasi il controllo della propria voce; la sentì spezzarsi e salire a un livello acuto. Se ne riappropriò con uno sforzo enorme, ma non riuscì a fermare il tremito delle mani. In realtà, tutto il suo corpo stava tremando.
— Mi spiace, signor Taverner — disse l’impiegata. — Proprio non posso parlare a nome del signor Wolfer o…
— Guardi la tivù?
— Sì.
— E non hai mai sentito parlare di me? Del Jason Taverner Show, alle nove di sera del martedì?
— Mi spiace, signor Taverner. Lei deve conferire direttamente col signor Wolfer. Mi lasci il suo numero di telefono e la farò richiamare in giornata.
Jason riappese.
“Sono impazzito” pensò.

Gas station

Pompe di benzina. Non necessariamente quelle alla fine del romanzo

 

2.
Kathy said, “You’re more magnetic than Jack. He’s magnetic, but you’re so much, much more. Maybe after meeting you I couldn’t really love him again. Or do you think a person can love two people equally, but in different ways? My therapy group says no, that I have to choose. They say that’s one of the basic aspects of life. See, this has come up before; I’ve met several men more magnetic than Jack…but none of them as magnetic as you. Now I really don’t know what to do. It’s very difficult to decide such things because there’s no one you can talk to: no one understands. You have to go through it alone, and sometimes you choose wrong. Like, what if I choose you over Jack and then he comes back and I don’t give a shit about him; what then? How is he going to feel? That’s important, but it’s also important how I feel. If I like you or someone like you better than him, then I have to act it out, as our therapy group puts it. Did you know I was in a psychiatric hospital for eight weeks? Morningside Mental Hygiene Relations in Atherton. My folks paid for it. It cost a fortune because for some reason we weren’t eligible for community or federal aid. Anyhow, I learned a lot about myself and I made a whole lot of friends, there. Most of the people I truly know I met at Morningside. Of course, when I originally met them back then I had the delusion that they were famous people like Mickey Quinn and Arlene Howe. You know—celebrities. Like you.”
He said, “I know both Quinn and Howe, and you haven’t missed anything.”
Scrutinizing him, she said, “Maybe you’re not a celebrity; maybe I’ve reverted back to my delusional period. They said I probably would, sometime. Sooner or later. Maybe it’s later now.”
“That,” he pointed out, “would make me a hallucination of yours. Try harder; I don’t feel completely real.”
She laughed. But her mood remained somber. “Wouldn’t that be strange if I made you up, like you just said? That if I fully recovered you’d disappear?”
“I wouldn’t disappear. But I’d cease to be a celebrity.”
“You already have.” She raised her head, confronted him steadily. “Maybe that’s it. Why you’re a celebrity that no one’s ever heard of. I made you up, you’re a product of my delusional mind, and now I’m becoming sane again.”
[…] Her tone became firm and crisp. “The only thing that got me back to sanity was that I loved Jack more than Mickey Quinn. See, I thought this boy named David was really Mickey Quinn, and it was a big secret that Mickey Quinn had lost his mind and he had gone to this mental hospital to get himself back in shape, and no one was supposed to know about it because it would ruin his image. So he pretended his name was David. But I knew. Or rather, I thought I knew. And Dr. Scott said I had to chose between Jack and David, or Jack and Mickey Quinn, which I thought it was. And I chose Jack. So I came out of it. Maybe”—she wavered, her chin trembling—“maybe now you can see why I have to believe Jack is more important than anything or anybody, or a lot of anybodys, else. See?”
He saw. He nodded.
“Even men like you,” Kathy said, “who’re more magnetic than him, even you can’t take me away from Jack.”

— Sei più magnetico di Jack. È magnetico anche lui, ma tu lo sei molto di più. Magari, dopo avere conosciuto te, non riuscirò più ad amarlo sul serio. O tu pensi che si possano amare due persone con la stessa intensità ma in modi diversi? Il conduttore del mio gruppo di terapia dice di no. Dice che devo scegliere. Dice che è uno degli aspetti basilari della vita. Il fatto è che è già successo. Ho incontrato diversi uomini più magnetici di Jack… Però nessuno quanto te. Adesso non so proprio cosa fare. È molto difficile decidere su cose simili perché non ne puoi parlare con nessuno. Nessuno capisce. Bisogna cavarsela da soli, e a volte si fanno le scelte sbagliate. Per esempio, come se io scegliessi te al posto di Jack e poi lui tornasse e a me non fregasse più niente di lui: cosa succederebbe? Cosa proverebbe lui? È importante, ma è importante anche quello che provo io. Se tu, o qualcun altro come te, mi piace più di lui, devo dare via libera a quel che sento, questo almeno secondo il mio gruppo di terapia. Lo sapevi che sono stata in un ospedale psichiatrico per otto settimane? Il Morningside Mental Hygiene Relations di Atherton. Me l’hanno pagato i miei. È costato una fortuna, perché non avevano diritto alle sovvenzioni federali. Comunque, là ho imparato tante cose su di me e mi sono fatta un sacco di amici. La maggior parte della gente che conosco davvero l’ho incontrata al Morningside. Certo, quando li ho visti per la prima volta ero convinta che fossero gente famosa, come Mickey Quinn e Arlene Howe. Insomma, celebrità. Come te.
Lui disse: — Conosco sia Quinn che la Howe. Non ti sei persa niente.
Kathy lo scrutò. — Forse non sei una celebrità. Forse sono regredita al mio periodo delle illusioni. Hanno detto che probabilmente mi sarebbe successo, prima o poi. Ora è capitato.
— Il che — fece notare Jason — mi renderebbe una tua allucinazione. Sforzati di più. Non mi sento del tutto reale.
Lei rise. Ma il suo umore restò piuttosto cupo. — Non sarebbe strano se ti avessi inventato io, come hai appena detto? Se guarissi del tutto, tu scompariresti.
— Non scomparirei. Però smetterei di essere una celebrità.
— Hai già smesso di esserlo. — Kathy alzò la testa e lo fissò senza timori. — Ecco perché, forse. Ecco perché sei una celebrità che nessuno ha mai sentito nominare. Ti ho creato io. Sei un prodotto della mia mente in preda alle illusioni, e adesso sto recuperando la sanità mentale.
[…] Il tono di Kathy diventò deciso, fermo. — L’unica cosa che mi abbia riportata alla normalità è stato il fatto di amare Jack più di Mickey Quinn. Io pensavo che quel ragazzo, quel David, fosse Mickey Quinn, e che fosse un gran segreto che Mickey Quinn fosse uscito di testa e si fosse fatto ricoverare in quell’ospedale per rimettersi in forma, e nessuno doveva saperne niente perché avrebbe rovinato la sua immagine. Così lui faceva finta di chiamarsi David. Però io sapevo. O piuttosto, credevo di sapere. E il dottor Scott ha detto che dovevo scegliere tra Jack e David, o Jack e Mickey Quinn, qualunque cosa pensassi. E ho scelto Jack. Così ne sono uscita. Magari… — Ebbe un attimo di instabilità sulle gambe. Le tremò il mento. — Magari adesso riesci a capire perché devo credere che Jack sia più importante di tutto e di tutti, o comunque di tanta altra gente. Lo capisci?
Jason capiva. Annuì.
— Anche di uomini come te — disse Kathy. — Uomini che sono più magnetici di lui. Nemmeno voi potete strapparmi da Jack.

Tabella riassuntiva

Un uomo solo alla ricerca della propria esistenza in un mondo distopico! Prosa approssimativa con avverbi a cascata.
Dialoghi affascinanti e pieni di conflitto. Dick mostra poco e racconta molto.
Dick ha una capacità unica di tracciare ritratti psicologici. Protagonista in odore di Gary Stu.
L’atmosfera totalitaria è opprimente al punto giusto. Poco fantastico e poca scienza per alcuni palati.


(1) Non so se Dick conoscesse le teorie di Berne, ma non è affatto necessario per mettere in scena dei giochi. Potrebbe averne compreso le regole in modo intuitivo, come molti di noi fanno, semplicemente avendo a che fare con altre persone per tutta la vita.
A questo proposito, mi piacerebbe riprendere il discorso sui giochi mentali di Berne in un articolo futuro. E’ un argomento molto interessante di per sé, e può esserlo ancora di più per uno scrittore.Torna su

I Consigli del Lunedì #30: Time and Again

Time and AgainAutore: Jack Finney
Titolo italiano: Indietro nel tempo
Genere: Slipstream / Fantasy / Slice of Life
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 400 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Da grande Si Morley voleva fare l’artista. Invece è finito a lavorare come grafico pubblicitario e a trascinarsi giorno dopo giorno in una vita che non lo soddisfa. La New York degli anni ’60 lo deprime, e ogni volta che può evade nel passato, guardando vecchie foto color seppia o perdendosi nei cimeli dell’America dell’Ottocento. E’ così che ha conosciuto la sua attuale ragazza, Kate, proprietaria di un negozio di antiquariato. Così, quando un bel giorno Rube Prien, maggiore dell’esercito, compare alla porta del suo ufficio offrendogli di abbandonare la sua vecchia vita per partecipare a un progetto governativo supersegreto, Si non riesce a dire di no.
Il Dr. Danziger e il suo staff hanno scoperto un modo per viaggiare nel tempo. Non sono necessari complicati macchinari o l’energia di una stella. Ogni momento storico passato e futuro è simultaneamente presente attorno a noi, solo che non lo vediamo, ancorati come siamo al presente da tutti gli oggetti e le sensazioni che ci circondano; ma se si potesse convincere intimamente qualcuno di essere in un dato momento del passato, egli andrebbe davvero nel passato. Poche persone al mondo hanno capacità creative e di autosuggestione tali da poter compiere questo viaggio – e Si è una di loro. La sua destinazione? La New York del 1882.
Riuscirà Si Morley a viaggiare nel passato e a svelare il mistero che aleggia attorno agli antenati di Kate, o si tratta solo di un’illusione indotta dall’ipnosi? E cosa sceglierà, quando si troverà a dover decidere tra il presente e il passato?

Dopo un mese dall’ultimo post e ben due dall’ultimo Consiglio, torniamo con un nuovo romanzo sui viaggi nel tempo. Time and Again è un romanzo molto diverso da The End of Eternity, e non solo per l’impostazione Fantasy piuttosto che fantascientifica; mentre l’interesse di Asimov è quello di esplorare la logica del viaggio nel tempo, quello di Finney è la ricostruzione storica. Com’era la New York della fine dell’Ottocento, quando l’edificio più alto di Manhattan era ancora la cattedrale di St. Patrick, il Ponte di Brooklyn non era ancora stato completato e a nord di Central Park cominciavano le casette coloniali e i campi coltivati? Com’era la vita quotidiana in una New York in cui ci si spostava in carrozza, le donne perbene arrivavano illibate al matrimonio e il telefono era un lusso per i più ricchi? E come dev’essere, per un newyorkese moderno, ritrovarsi in quegli anni, per certi versi simili e per altri così diversi?
La passione di Finney per la ricostruzione è tale che spesso questo Time and Again sembra una commistione tra un romanzo e un documentario. Il libro è corredato di foto d’epoca, illustrazioni e ritagli di giornale, che fanno da contrappunto al testo scritto nel tentativo di immergere il lettore in quel periodo lontano – ne mostro qualcuna nel corso dell’articolo. Combinazione estremamente curiosa, che fa di Time and Again il candidato eccellente per il ritorno dei Consigli del Lunedì!

New York nel 1882

Uno sguardo approfondito
Per spiegare meglio cosa intendo quando parlo di “romanzo d’atmosfera”, voglio soffermarmi prima di tutto su come funziona il viaggio nel tempo in Time and Again. Il viaggio nel tempo è uno stato psicologico: si è così intimamente convinti di essere in un’altra epoca che ci si va davvero. Ma perché questo accada, l’ipnosi da sola non basta. E’ necessario liberarsi di qualsiasi oggetto, pensiero, sensazione che ci ancori al presente. I sotterranei della sede del progetto sono divisi in set che ricostruiscono fin nei minimi dettagli momenti del passato: uno scorcio di Denver agli inizi del Novecento, un campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale in Francia, la piazza di fronte a Notre Dame nella Parigi del ‘400, e così via.
Per viaggiare nell’Ottocento, Si Morley dovrà andare a vivere in un palazzo newyorkese d’epoca, il Dakota, lasciato nelle condizioni in cui era allora. Non solo: dovrà vestirsi come si usava nel 1880, lasciarsi crescere baffi e barba, mangiare quel che si mangiava all’epoca, leggere fedeli riproduzioni dei giornali d’epoca, eccetera. Viaggiare nel tempo significa scivolare giorno dopo giorno sempre più “nella parte”, eliminando dalla coscienza ogni elemento di disturbo – il clacson di un’automobile in strada, i motori di un aereo che ti passa sopra – e sentendosi sempre di più parte del passato. Il lettore viaggia a ritroso come il protagonista.

Il romanzo è scritto in prima persona col pov di Si. Tra tutti gli scrittori che mi sia mai capitato di leggere, Finney è uno di quelli che – a mio avviso – meglio realizzano ciò che Gamberetta chiamava “stile trasparente”, ossia uno stile che ti fa dimenticare che stai leggendo una stupida storia. Autori come Swanwick e Vandermeer sicuramente hanno un senso migliore della “scena” e sono più immaginifici, tuttavia il loro modo pomposo di scrivere ci ricorda costantemente che ci troviamo davanti a una pagina scritta. Mellick è più bravo di Finney, ma le sue voci narranti sopra le righe e l’atmosfera grottesca delle sue storie rende molto difficile una vera sospensione dell’incredulità. Leggendo Time and Again, invece, ho provato il raro piacere di immergermi completamente nell’atmosfera della storia, dimenticando per un po’ che fosse una finzione.
Il protagonista sembra fatto apposta per permettere a chiunque di identificarcisi, telecamera in prima persona dietro cui possiamo mettere noi stessi. Si Morley è una persona qualunque, l’archetipo del lettore occidentale di media cultura: ragionevole, riflessivo, insoddisfatto della propria vita, alla ricerca dell’amore. Il suo tratto distintivo, la nostalgia per un’epoca che non ha mai vissuto, a volte sfiora l’ossessione – chi sarebbe disposto a chiudersi per settimane in una casa autoconvincendosi di essere un gentiluomo dell’Ottocento? A parte il Duca, intendo – ma il tono della voce narrante suona sempre pieno di buonsenso. Un altro scrittore, per esempio un Dick, avrebbe forse sottolineato gli aspetti borderline di Morley e fatto di Time and Again un romanzo sull’alienazione; Finney invece fa di Morley un veicolo per il lettore, qualcosa di molto simile ai protagonisti muti di alcuni gdr giapponesi.

“Ehi, Protagonista, sei pronto a spaccare un po’ di culi demoniaci?” “…” “Mi piace il tuo stile!”

Intendiamoci, lo stile di Finney è lontano dalla perfezione. Molto spesso, quando ritiene una scena poco interessante, si abbandona al raccontato e ai riassuntoni sbrigativi invece che trovare una soluzione più elegante. Passaggi lunghi anche alcune pagine sono scritte più o meno così: “Parlammo di questo e quello, e poi andai da quell’altro e dicemmo queste altre cose, quindi tornai a casa e feci questo e quello e quell’altro. Per alcuni giorni feci così e così, poi una mattina feci cosà”. Proprio verso la fine del romanzo, alcune scene chiave sono raccontate in questo modo, il che mi ha parecchio irritato.
In compenso, quando vuole mostrare fa un gran lavoro. Ciò è vero soprattutto per le scene ambientate nella New York ottocentesca: Finney spende pagine e pagine a descrivere il baccano delle carrozze sul selciato delle strade, le case coloniali della periferia e le palazzine ingombre di insegne di legno del centro, le differenze tra la Quinta Avenue del 1882 e quella del 1970. Le uniche volte in cui le descrizioni sono parche, è quando l’autore piazza una foto o un’illustrazione – che nella finzione narrativa sono opera del protagonista. La gente è descritta in ogni dettaglio, dall’acconciatura alla forma e al materiale dei bottoni sul soprabito; ogni capo d’abbigliamento è chiamato col suo nome1. Il mostrato sfuma nel raccontato quando si tratta di descrivere gesti e atteggiamenti dei personaggi, ma nelle scene importanti – e in particolar modo in quelle d’azione – ogni movimento è descritto con precisione e vividezza.

Soprattutto, dalla prosa di Finney traspare l’amore per la materia trattata. L’autore si è documentato per anni sulla New York degli anni ’80 dell’Ottocento, e questo traspare nella precisione con cui racconta usi e costumi dell’epoca – dall’abitudine dei newyorkesi di andare a mezzogiorno di fronte alla torre della Western Union Telegraph Company per sincronizzare i loro orologi da taschino, ai giochi di società con cui si intrattengono alla sera i pensionanti della locanda di Gramercy Park. In molti momenti del romanzo, Si diventa spettatore passivo della quotidianità della New York ottocentesca, e il libro diventa un vero e proprio slice of life – quasi un documentario. La maniacalità di Finney è arrivata al punto da cercare di sincronizzare le situazioni del romanzo con eventi realmente avvenuti – e documentati nei giornali – tra il Gennaio e il Febbraio del 1882. Lascio a storici esperti dell’epoca l’ultima parola sull’attendibilità della ricostruzione; da lettore abbastanza ignorante del periodo storico, posso solo dire che non mi sono sentito preso in giro.
Discorso diverso per quello che chiamo “effetto nostalgia”, ossia la tendenza (giustamente presa in giro da Woody Allen in Midnight in Paris) a immaginare che le epoche passate fossero più felici della nostra. Su questo terreno Finney si muove in modo ambiguo. Da una parte, il suo protagonista deve ammettere che le condizioni sociali e mediche dell’epoca erano molto peggiori delle nostre; che la polizia agiva in modo molto più arbitrario, e la corruzione era più capillare e più difficile da stanare; che la New York moderna tratta male i suoi vagabondi e i suoi poveri, ma quella dell’Ottocento li trattava anche peggio. Morley si rende conto che ingentiliamo il passato nella nostra immaginazione solo perché non l’abbiamo vissuto, e perché tendiamo volutamente a ignorarne i lati peggiori. Ma dall’altro lato, traspare l’idea che gli uomini del 1880 stessero meglio, se non fisicamente, almeno spiritualmente. Un leitmotiv del romanzo è proprio la convinzione che nei visi dei newyorkesi dell’82 ci sia una vitalità, una gioia di vivere assenti nelle ‘spente’ facce del 1970. A qualcuno questa patina di idealismo farà piacere – io l’ho trovata solo irritante e autoindulgente.

Il Dakota, il palazzo usato da Morley per il viaggio nel tempo, sullo sfondo di Central Park nel gennaio 1882.

I problemi più grossi del romanzo, però, riguardano il ritmo. Time and Again è un romanzo lento, tranquillo, in cui le cose succedono poco alla volta. Questo in parte è dovuto all’approccio del libro – abbiamo detto che è un “romanzo d’atmosfera”, in cui le descrizioni e le sensazioni del protagonista hanno più importanza della trama. L’intreccio c’è, non viene mai dimenticato, ha dei momenti brillanti (anche dal punto di vista speculativo), qualche trovata geniale (il braccio della Statua della Libertà!) e raggiunge una conclusione dignitosa; ma possono anche passare 50 pagine prima che ci sia uno sviluppo nella trama, 50 pagine piene di scorci di Manhattan, conversazioni coi locali, sottotrame amorose. Nell’ultimo quarto del libro ci sono diverse scene d’azione e il ritmo si fa più serrato, ma ormai quel tipo di lettore si è già addormentato. Pure a me qualche volta è calata la palpebra.
E se a volte questa lentezza appare giustificata dal tipo di esperienza che questo libro vuole offrire, altre volte Finney sfocia nella pura e semplice logorrea alla King – intere pagine di dettagli e conversazioni inutili. Questo dilungarsi è particolarmente incomprensibile quando riguarda le parti ambientate nel presente, dove non c’è neanche la scusa dell’affresco storico. A che pro descrivere per pagine e pagine la via e la facciata esterna della sede del progetto governativo, o le allegre scampagnate di Si e Kate? Soltanto intorno a pagina 50 viene spiegato il meccanismo dei viaggi nel tempo e quale sia il ruolo di Si in tutto ciò; solo intorno a pagina 90 cominciano i primi esperimenti di viaggio nel passato. Time and Again è un romanzo così lento che il preambolo dura 50 pagine! Non siamo dalle parti del Silenzio di Lenth ma quasi. Persino scene movimentate come quella dell’incendio finiscono con l’essere troppo lunghe e ripetitive – alla quarta o quinta persona salvata dall’edificio in fiamme anche il lettore più fedele comincia ad averne abbastanza…

Time and Again è un romanzo molto particolare – forse la parola giusta è delicato – e sicuramente non è un romanzo per tutti. Forse potrà piacere più a color che vengono dal mainstream e dallo slice of life che non ai veterani del romanzo di genere, dato il ritmo morbido e la carenza di azione, a patto che riescano ad accettare la premessa fantastica del viaggio nel tempo.
Soprattutto, credo che questo sia il tipo di romanzo che risente tantissimo delle condizioni e dell’umore in cui lo si legge. Letto nei ritagli di tempo, nella pausa pranzo, nel trasbordo da un vagone della metro alla carrozza del tram, può (giustamente) far pensare: “Ma di che parla? Ma cos’è che è successo prima? Ma perché cazzo sto leggendo una roba simile? Che menata di libro”. Letto nella tranquillità di casa propria, magari durante un weekend lungo, senza distrazioni, può farci vivere la stessa magia che prova Si, chiusi anche noi nel nostro Dakota, che lentamente scivoliamo assieme a lui in un’altra epoca.
Nonostante qualche momento di stanca, a me è piaciuto molto, e sono felice di consigliarlo dopo un mese di silenzio. Un libro così insolito non lo dimenticherò facilmente.

Barbe di fine Ottocento

Una cosa della fine dell’Ottocento non dimenticheremo mai: le BARBE.

Su Finney
Jack Finney è considerato in genere un autore di secondo piano, probabilmente non a torto. A parte Time and Again, il suo nome è legato a un solo altro romanzo, famoso per avere ispirato il film L’invasione degli Ultracorpi (The Invasion of the Body Snatchers, 1956):
The Body SnatchersThe Body Snatchers (L’invasione degli Ultracorpi) è un classico romanzo di invasione silenziosa. Baccelli alieni capaci di replicare e sostituirsi a qualsiasi essere vivente atterrano in una piccola cittadina della campagna californiana, con l’intenzione di colonizzare tutta la Terra; toccherà al medico Miles Bennett e ai suoi amici tentare di fermarli. Il romanzo è carino ma non molto originale (neanche per l’epoca), e come sottolineato da Knight spesso i protagonisti si comportano in modo illogicamente stupido e ingenuo. Avrà anche un valore storico, ma si può tranquillamente fare a meno di leggerlo.

Dove si trova
Su Library Genesis, Time and Again si trova in due versioni differenti, pdf ed ePub – quest’ultima è anche completa di tutte le immagini originali. Tuttavia, anche se sono ottimizzate per la lettura su reader, forse un libro così è più comodo e preferireste leggerlo su carta; in questo caso, su Amazon potete trovare a circa 8.50 Euro la bella edizione dei Fantasy Masterworks.
Su Emule si trovano anche diverse traduzioni in italiano, e quanto ai formati c’è solo l’imbarazzo della scelta: ePub, pdf, doc, lit e rar.

Qualche estratto
Innanzitutto mi scuso, perché gli estratti che ho scelto sono molto lunghi; ma come ho già accennato, Finney è tutto meno che sintetico. Tagliare i brani più di quanto abbia già fatto rischiava di rovinarne il godimento – perciò portate pazienza.
Il primo estratto descrive il primo set per viaggi nel tempo che viene mostrato a Si, quando ancora non è stato messo a parte nei dettagli della teoria sul viaggio temporale; oltre a vedere un esempio del metodo autosuggestivo per viaggiare a ritroso, dà un’idea del buon mostrato di Finney. Il secondo estratto, molto più avanti nella storia (sigh), mostra uno dei primi tentativi di Si di viaggiare nel passato mediante ipnosi – è un pezzo molto delicato, ma spero che riesca a trasmettervi un po’ della magia che ha trasmesso a me.

1.
Five stories below and on the far side of the area over which we were standing, I saw a small frame house. From this angle I could see onto the roofed front porch. A man in shirt-sleeves sat on the edge of the porch, his feet on the steps. He was smoking a pipe, staring absently out at the brick-paved street before the house.
On each side of this house stood portions of two other houses. The side walls facing the middle house were complete, including curtains and window shades. So were half of each gable roof and the entire front walls, including porches with worn stair treads. A wicker baby-carriage stood on the porch of one of them. But except for the complete house in the middle these others were only the two walls and part of a roof; from here I could see the pine scaffolding that supported them from behind. In front of all three structures were lawns and shade trees. Beyond these were a brick sidewalk and a brick street, iron hitching posts at the curbs. Across the street stood the fronts of half a dozen more houses. On the porch of one lay a battered bicycle. A fringed hammock hung on the porch of another. But these apparent houses were only false fronts no more than a foot thick; they were built along the area wall behind them, concealing the wall.
Leaning on the rail beside me, Rube said, “From where the man on the porch is sitting and from any window of his house or any place on his lawn, he seems to be in a complete street of small houses. You can’t see it from here, but at the end of the short stretch of actual brick street he is facing now, there is painted and modeled on the area wall, in meticulous dioramic perspective, more of the same street and neighborhood far into the distance.”
While he was talking a boy on a bike appeared on the street below us; I didn’t see where he’d come from. He wore a white sailor cap, its turned-up brim nearly covered with what looked like colored advertising-and campaign-buttons; short brown pants that buckled just below the knees; long black stockings; and dirty canvas shoes that came up over the ankles. Hanging from his shoulder by a wide strap was a torn canvas sack filled with folded newspapers. The boy pedaled from one side of the street to the other, steering with one hand, expertly throwing a folded paper up onto each porch. As he approached the complete house, the man on the porch stood up, the boy tossed the paper, the man caught it, and sat down again, unfolding it. The boy threw a paper onto the porch of the false two-walled house next door, which stood on a corner. Then he pedaled around the corner, and — out of sight of the man on the porch now — got off his bike and walked it to a door in the area wall against which the little cross street abruptly ended. He opened the door and wheeled his bike on through it.
[…] I turned to look at Rube’s face, but he was watching the scene below, forearms on the guardrail, his hands clasped loosely together. I said, “I don’t see a camera but I assume you’re either making or rehearsing some kind of movie down there.” I couldn’t help sounding a little bit irritated.
“No,” said Rube. “The man on the porch is actually living in that house. It’s complete inside, and a middle-aged woman comes in to cook and clean for him. Groceries are delivered every day in a light horse-drawn wagon labeled HENRY DORTMUND, FANCY GROCERIES. Twice a day a mailman in a gray uniform delivers mail, mostly ads. The man is waiting to hear whether he’s been hired for any of several jobs he’s applied for in the town. Presently he’ll hear that he’s been accepted for one of these jobs. At that point his habits will change. He’ll begin going out into the town, to work.” Rube glanced at me, then resumed his contemplation of the scene below. “Meanwhile he putters around the house. Waters his lawn. Reads. Passes the time of day with neighbors. Smokes Lucky Strike cigarettes. From green packages. Sometimes he listens to the radio, although in this weather there’s lots of static. Friends visit him occasionally. Right now he’s reading a freshly printed copy, done an hour ago, of the town newspaper for September 3, 1926. He’s tired; it’s been over a hundred down there in the afternoons for the last three days, and in the high eighties even at night. A real Indian-summer heat wave with no air conditioning. And if he looked up here right now all he’d see is a hot blue sky.”
Keeping my voice patient, I said, “You mean they’re following some sort of script.”
“No, there’s no script. He does as he pleases, and the people he sees act and speak according to the circumstances.”
“Are you telling me that he actually believes he’s in a town in —”
“No, no; not that either. He knows where he is, all right. He knows he’s in a New York storage warehouse, in a kind of stage setting. He’s been careful never to walk around the corner and look, but he knows that the street ends there, out of his sight. He knows that the long stretch of street he sees at the other end is actually a painted perspective. And while no one has told him so, I’m sure he understands that the houses across the street are probably only false fronts.” Rube stood upright, turning from the railing to face me. “Si, all I can tell you right now is that he’s doing his damnedest to feel that he’s really and truly sitting there on the porch on a late-summer afternoon reading what Calvin Coolidge had to say this morning, if anything.”
“Is there actually a town and a street like this?”
“Oh, yes; a street with houses, trees, and lawns precisely like that, right down to the last blade of grass and the wicker baby-carriage on the porch. You’ve seen an aerial shot of it; it’s called Winfield, Vermont.” Rube grinned at me. “Don’t get mad,” he said gently. “You have to see it before you can understand it.”

Cinque piani più in basso, in un angolo remoto rispetto al punto in cui eravamo vidi una casetta di legno. Da quell’angolazione potevo vedere sotto la veranda frontale. Un uomo in maniche corte era seduto sui gradini. Stava fumando una pipa e guardava con aria assente la strada di mattoni che passava proprio davanti alla casa.
La casa era circondata da porzioni di altre case. I muri visibili da quella centrale erano completi in ogni particolare, con tanto di tendine alle finestre. Anche metà dei tetti era a posto, assieme alle facciate e alle verande con i loro scalini di legno. Su una veranda c’era una carrozzina di vimini. Ma solo la casa centrale era completa; le altre due erano composte da due soli muri e una parte di tetto; dal mio punto di vista potevo vedere le intelaiature di legno che sorreggevano i muri. Davanti alle case vi erano aiole e alberi. Più in là un marciapiede e una strada di mattoni, con paletti di ferro per attaccare i cavalli lungo i bordi del marciapiede. Dalla parte opposta vi erano le facciate di un’altra mezza dozzina di case. Sulla veranda di una di queste era appoggiata una bicicletta scassata. Su un’altra avevano sospe- so un’amaca. Ma si trattava solo di facciate, non più spesse di trenta centimetri, costruite sulla parete divisoria in modo da ricoprirla completamente.
Rube si appoggiò alla ringhiera al mio fianco. «Dal punto in cui è seduto quell’uomo» disse «o da qualsiasi finestra della sua casa o da qualsiasi punto del suo giardino, gli sembra di essere in una via piena di piccole casette. Da qui non puoi vederlo, ma in fondo a quel breve tratto di strada è stato dipinto e modellato con prospettiva meticolosa il proseguimento della strada e del quartiere, che si perde in lontananza».
Mentre parlava, sulla strada sotto di noi apparve un bambino in biciclet- ta; non capii da dove era sbucato. Aveva un cappellino da marinaio bianco, coperto di spille che sembravano pubblicitarie o di propaganda elettorale, e indossava pantaloni alla zuava abbottonati sotto il ginocchio e lunghe calze nere. Ai piedi aveva un paio di scarpe di tela consumate che arrivavano sopra la caviglia. Portava con sé una borsa di tela strappata con dentro un mucchio di giornali piegati in due. Il ragazzo pedalava da una parte all’altra della strada, guidando con una mano e lanciando, con l’altra, i giornali su ogni veranda. Quando si avvicinò all’unica casa intera, l’uomo si alzò in piedi, prese il giornale al volo, e si sedette di nuovo a leggerlo. Il ragazzo gettò un altro giornale sotto la veranda della casa accanto, quella con due sole pareti, e svoltò l’angolo, scomparendo alla vista dell’uomo seduto sugli scalini. Quindi scese dalla bici e aprì una porta nel muro dove finiva di colpo la strada. Accompagnò la bici attraverso la porta, e la chiuse alle sue spalle.
[…] Mi voltai per guardare Rube in faccia, ma il suo sguardo era rivolto in basso, e teneva gli avambracci appoggiati alla ringhiera e le mani unite. «Non vedo cineprese, ma immagino che stiate riprendendo o facendo le prove per qualche film, laggiù» dissi. Non potei fare a meno di assumere un tono leggermente irritato.
«No» rispose Rube. «Quell’uomo sta effettivamente vivendo in quella casa. Dentro è completa, e c’è una donna di mezza età che viene a cucinare per lui e a fare le pulizie. I generi alimentari gli vengono consegnati giornalmente da un carretto trainato da cavalli con la scritta HENRY DORTMUND, ALIMENTARI DI QUALITÀ. E due volte al giorno un postino in uniforme grigia gli porta la posta; soprattutto pubblicità. Quell’uomo sta aspettando una risposta a una delle richieste di lavoro che ha inoltrato in città. Fra poco apprenderà che è stato assunto, e la sua vita cambierà. Andrà in città tutti i giorni, a lavorare». Rube mi lanciò un’occhiata, poi tornò a contemplare la scena sottostante. «Nel frattempo non fa altro che bighellonare per casa. Innaffiare il giardino. Leggere. Passare le giornate con i vicini. Fumare Lucky Strike. Col pacchetto verde. A volte ascolta anche la radio, anche se con questo caldo la ricezione è un po’ difettosa. Ogni tanto riceve la visita di qualche amico. In questo momento sta leggendo una copia fresca di stampa, uscita meno di un’ora fa, del giornale locale del 3 settembre 1926. È molto stanco; la temperatura negli ultimi tre giorni ha superato i trentacinque gradi tutti i pomeriggi, e non scende sotto i venticinque neanche la sera. Una calura tremenda da sopportare senza condizionatori. E se ora alzasse lo sguardo, non vedrebbe altro che un caldo cielo azzurro».
Mantenendo un tono paziente, dissi: «Vuoi dire che si attengono a una sceneggiatura?»
«No, non c’è nessuna sceneggiatura. Lui fa ciò che gli pare, e la gente che incontra parla e si comporta in maniera diversa a seconda delle circostanze».
«Non dirmi che lui crede effettivamente di vivere in un paese nel…»
«No, no, non è nemmeno così. Lui sa bene dove si trova. Sa bene di es- sere in un magazzino a New York, in una specie di scenario cinematografico. Si trattiene dal girare l’angolo per guardare ma sa bene che la strada finisce lì. E sa anche che la via che vede perdersi in lontananza non è altro che una prospettiva dipinta. E anche se non gliel’ha detto nessuno, sono certo che si rende conto che le case dall’altra parte della strada non sono altro che facciate dipinte». Rube lasciò la ringhiera, e mi guardò. «Simon, tutto quello che ti posso dire per il momento è che quell’uomo sta facendo del suo meglio per credere di trovarsi veramente sotto quella veranda in un pomeriggio di tarda estate a leggere quello che ha da dire oggi Calvin Coolidge».
«Ed esiste un paese con una strada come questa?»
«Oh si; una strada con case, alberi e aiole esattamente come questa, u- guale in ogni minimo particolare; dal modo in cui è tagliata l’erba alla carrozzina sotto la veranda. È quella della foto aerea che hai visto; Winfield, nel Vermont». Rube mi sorrise. «Non ti arrabbiare» disse con tono cortese. «Devi vedere prima di capire».

Newspaper boy

Ah! Ridatemi gli anni ’20 e i ragazzini che consegnavano i giornali casa per casa!

2.
“But you know what the world is like; you know that very well. You know all about it. Why shouldn’t you know what the world is like tonight, January 21, 1882? Because that is the date; that is the time we’re in, of course. That’s why I’m dressed as I am, and you as you are. That’s why this room is as it is. Don’t sleep quite yet, Si. Hold your eyes open just a bit. For just a few seconds longer.
“Now, hear what I say. I am going to give you a final, irrevocable instruction; you will hear it, you will obey it. You will sleep for twenty minutes. You will awake rested. You will go out for a walk. Just a little walk, a breath of air before you go to bed. You will be as careful as you possibly can be… that no one sees you. You will be absolutely certain to speak to no one. You will allow no act of yours, however small, to influence anyone in any way, however trivial.
“Then you will come back here, go to bed, and sleep all night. You will awaken in the morning as usual, free of all hypnotic suggestion. So that as you open your eyes, all your knowledge of the twentieth century will light up in your mind again. But you will remember your walk. You will remember your walk. You will remember your walk. Now… let go. And sleep.”
[…] I felt rested now; alive and energetic, a little too restless to feel like going to bed, and I decided to take a walk. It was still snowing, but big soft flakes. There was no wind, I’d been indoors too long, and I wanted to get out, into that snow, breathing chill fresh air; and I walked to the closet and put on my overcoat, chest protector, boots, and my round fur cap of black lamb’s wool.
I walked down the building stairs, somehow glad to encounter no one; I didn’t feel like chatting, and if I’d heard someone on the stairs I think I’d have stood waiting till he’d gone. Downstairs I walked out of the building, glancing quickly around, but saw not a soul — tonight I didn’t want to see anyone — and I turned toward Central Park just across the street ahead. It was a fine night, a wonderful night. The air was sharp in my lungs, and snowflakes occasionally caught in my lashes, momentarily blurring the streetlamps just ahead, already misty in the swirls of snow around them.
Just ahead the street was almost level with the curbs, unmarked by steps or tracks of any kind. I crossed it and walked into the park. […] I plodded on just a little way more, feet lifting high, boots clogged with damp snow, enjoying the exercise of it, exhilarated by the feel of this snowy luminous night, and my aloneness in it. Behind me and to the north I heard a distant rhythmical jingle, perceptibly louder each time it sounded, and I turned to look back toward the street once again. For a moment or two I stood listening to the jink-jink-jingle sound, and then just beyond the silhouetted branches, down the center of the lighted street, there it came, the only kind of vehicle that could move on a night like this: a light, airy, one-seated sleigh drawn by a single slim horse trotting easily and silently through the snow. The sleigh had no top; they sat out in the falling snow, bundled snugly together under a robe, a man and a woman passing jink-jink-jingle through the snow-swirled cones of light under each lamp. They wore fur caps like mine, and the man held a whip and the reins in one hand. The woman was smiling, her face tilted to receive the snow, and the only sounds were the bells, the muffled hoof-clops, and the hiss of the sleigh runners. Then their backs were to me, the sleigh drawing away, diminishing, the steady rhythm of the sleigh bells receding.
They were nearly gone when I heard the woman laugh momentarily, her voice muffled by the falling snow, the sound distant and happy.

«Eppure sai com’è fatto il mondo; lo sai molto bene. Sai tutto del mon-do. Perché mai non dovresti sapere come è fatto il mondo in questa notte del 21 gennaio 1882? Perché questa è la data, naturalmente; questo è il giorno che stiamo vivendo. È per questo che io sono vestito a questo modo, e anche tu. Ed è per questo che questa stanza è così com’è. Non addormentarti ancora, Simon. Tieni gli occhi aperti ancora per un istante. Solo qualche secondo ancora.
«Ora, ascolta ciò che ti dico. Ti darò delle istruzioni finali e irrevocabili; tu le ascolterai, e ubbidirai. Dormirai per venti minuti, e ti sveglierai riposato. Quindi uscirai a fare una passeggiata. Giusto quattro passi per prendere un po’ d’aria prima di andare a dormire. Starai attentissimo… a non farti vedere da nessuno. Farai in modo di non parlare con nessuno, assolutamente. E non permetterai a nessun tuo gesto, per quanto piccolo, di in- fluenzare nessuno in nessun modo, nemmeno il più insignificante.
«Quindi tornerai in questo appartamento, te ne andrai a letto, e dormirai per tutta la notte. Ti risveglierai domani mattina come al solito, libero da qualsiasi genere di suggestione ipnotica. Quando aprirai gli occhi, tutto ciò che sai del Ventesimo secolo sarà di nuovo disponibile nella tua memoria. Ma ricorderai la tua passeggiata. Ricorderai la tua passeggiata. Ricorde- rai la tua passeggiata. E ora, lasciati pure andare… e dormi».
[…] Ora mi sentivo riposatissimo; pieno di vitalità ed energia, tanto che non me la sentivo di andare subito a letto, e decisi di fare una passeggiata. Nevicava ancora, ma i fiocchi erano grossi e morbidi. Non c’era un alito di vento, ero stato in casa fin troppo tempo, e avevo voglia di uscire, in mezzo alla neve, a respirare quell’aria fresca. Mi avvicinai all’armadio, dove presi il soprabito, gli stivali e il mio cappello di astrakan.
Discesi le scale dell’edificio, stranamente contento di non incrociare altri inquilini; non me la sentivo di chiacchierare, e credo che se avessi sentito qualche rumore sulle scale mi sarei fermato ad aspettare che la via fosse libera. Una volta fuori mi guardai attorno rapidamente, ma non vidi anima viva. Stasera non volevo proprio incontrare nessuno. Mi diressi verso Central Park, dalla parte opposta della strada. Era una bella serata; una serata meravigliosa. L’aria era fredda nei miei polmoni, e ogni tanto un fiocco di neve mi si fermava sulle ciglia, annebbiando momentaneamente i lampioni, già offuscati dai vortici di nevischio che li avvolgevano.
La strada era alla stessa altezza del marciapiede, ed era completamente intatta da orme o tracce di qualsiasi genere. La attraversai ed entrai nel parco. […] Procedetti ancora per un poco, sollevando i piedi a fatica a ogni passo, con gli stivali coperti di neve umida, godendomi l’esercizio, esaltato dalla sensazione di quella notte luminosa e innevata nella quale mi trovavo in solitudine. A un certo punto udii alle mie spalle un tintinnare ritmico e distante, che diventava sempre più vicino. Mi voltai nuovamente verso la strada. Rimasi per un attimo ad ascoltare il tintinnio, poi, da dietro i rami degli alberi, in mezzo alla strada illuminata, la vidi; l’unico veicolo che po- teva aggirarsi in una notte come questa: una slitta aperta, leggera, trainata da un solo cavallo, piuttosto magro, che trottava tranquillo e silenzioso sulla neve. Un uomo e una donna sedevano sulla slitta, sotto la neve, avvolti in una coperta di lana. Attraversarono tintinnando i coni di luce innevati di ogni lampione. Avevano entrambi cappelli di pelliccia come il mio, e l’uomo teneva le redini e la frusta in una mano. La donna sorrideva, il viso inclinato all’indietro, godendosi la neve, e si udivano solo i campanelli, i passi soffocati del cavallo, e il leggero sibilo della slitta sulla neve. Mi passarono davanti, e li seguii con lo sguardo finché non scomparvero nel nevischio, il tintinnio sempre più distante.
Poco prima che scomparissero del tutto, sentii la donna che rideva; una risata distante e felice, attutita dalla neve.

Tabella riassuntiva

Un modo incredibilmente suggestivo di viaggiare nel passato! Trama minimale, subordinata alla ricostruzione storica.
Affascinante e precisa ricostruzione della New York del 1882. Ritmo lento che mette alla prova e tendenza alla logorrea.
Quando vuole, Finney è molto bravo a mostrare. Tendenza sentimentalista a idealizzare il passato.

(1) La precisione è pure troppa! Come quando Finney descrive l’abbigliamento ottocentesco: usa una valanga di termini che non solo io non avevo mai sentito nominare, ma che non conosce neppure il dizionario del mio reader! Dannazione.Torna su