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To go Apeshit

Apeshit Pazzi furiosi PreitanoNon vorrei proprio trovarmi nella situazione di un editore che deve scegliere il titolo italiano di un’opera straniera. Quando ti va bene, il titolo si può tradurre in modo letterale senza perdere di significato; un The Moon Is a Harsh Mistress che rapido e indolore diventa “La Luna è una severa maestra”. Altre volte va un po’ meno bene, ti capita sottomano The Windup Girl di Bacigalupi e, anche se il concetto è chiaro, ti chiedi come renderlo in italiano senza che suoni terribilmente lame. ‘La ragazza caricata a molla’? Decisamente no. ‘La ragazza a molla’ allora? Meh. E finisci come Multiplayer Edizioni che l’ha portata in Italia con il grigio, anonimo ‘La ragazza meccanica’. Altre volte, poi, ti va proprio di merda e devi pubblicare The Word for World is Forest della Le Guin, e a quel punto non vorrò proprio essere nei tuoi panni, amico.
Carlton Mellick è un altro di quegli autori che amano i giochi di parole e le espressioni idiomatiche. Certo, Warrior Wolf Women of the Wasteland si può tradurre come “Le guerriere licantrope delle terre selvagge”, ma che tristezza infinita non è? E tanti saluti al coraggioso che vorrà tradurre Zombies and Shit (“Zombie e altra merda”? “Zombie e altre stronzate”?). Pure Apeshit (così come il suo seguito Clusterfuck) non scherza. Letteramente ‘to go apeshit’ significa incazzarsi, impazzire, andare fuori di testa. Il titolo del romanzo può leggersi al contempo come infinito che elide il verbo ‘go’ (“Sbroccare”) e come sostantivo (“Sbroccati”) – come scegliere? E al tempo stesso, si porta dietro quell’immagine di merda e di bestialità che tanto ci piace e che fa tanto gorefest splatterpunk.
Ma il Duca ha scelto bene, e per l’ultima uscita di Vaporteppa ha optato per il doppio titolo: “Apeshit – Pazzi Furiosi”.

Dopo una serie di edizioni italiane di libri di Carlton Mellick che non ho mai letto (Cuddly Holocaust, Cannibals of Candyland) o che non mi entusiasmavano troppo (Kill Ball, Village of the Sirens), Vaporteppa ha ultimamente importato titoli mellickiani di altissimo livello. Ad Aprile La casa sulle sabbie mobili (Quicksand House in originale), a mio avviso una delle cose più belle – e dolci, e intime – mai scritte da Mellick. E ieri Apeshit, un’altra storia stupenda e, con la sua crudezza splatter da b-movie horror, il perfetto contraltare a Quicksand House.
Non starò a raccontarvi nel dettaglio perché mi piaccia tanto Apeshit: ci ho scritto a suo tempo un intero Consiglio del Lunedì. Come tutti i romanzi mellickiani particolarmente ben riusciti, il suo bello è che viaggia in parallelo a più livelli di lettura. Può essere letto come una storiella pulp sopra le righe, un tour-de-force grottesco ed esilarante che non perde mai di ritmo; o ci si può immedesimare e leggerla come una storia seria e drammatica, e ci si rende conto che tiene benissimo (tanto dal punto di vista psicologico, di coerenza e credibilità dei personaggi, quanto da quello logico, di ferreo rapporto causa-effetto di tutto ciò che succede); o ancora si può leggere in ottica meta-narrativa, come presa in giro e ribaltamento degli stereotipi degli horror slasher. Comunque si scelga di ‘interpretarla’, la storia tiene e dà soddisfazione.

Apeshit Pazzi furiosi cover

La copertina di Apeshit – Pazzi Furiosi

Vi serve un’altra ragione per leggerlo? E’ una lettura breve: 110 pagine circa nell’edizione italiana, l’equivalente quindi di un pomeriggio ozioso o un paio di sere (si sa che queste letture conciliano il sonno). Un’altra ragione ancora? La traduzione italiana per Vaporteppa è opera della dolce Siobhàn. Ho avuto modo di leggerla (anzi: di ascoltarla dalla sua viva voce) e, avendo ancora in testa l’originale – che ho letto due volte – posso dire che mi sembra un ottimo lavoro.
Un’altra? La copertina è a mio avviso una delle più belle che Manuel Preitano abbia mai realizzato per Vaporteppa. Non solo basta guardarla un secondo perché ti si imprima nella retina – con quell’occhio di ghiaccio, la bocca feroce, il riflesso del mostro nella lama – ma è anche un’eccellente sintesi dei temi principali del libro. In generale, trovo che lo shift dell’ultimo annetto dalle vecchie copertine con il collage di situazioni e il protagonista in primo piano, alla scelta di un’immagine unica, sia un netto miglioramento in termini di eleganza e memorabilità. E’ una mia impressione e non ho dati oggettivi a supporto, ma dai pareri che ho raccolto credo di non essere l’unico a preferire questo tipo di copertine.

Detto tutto questo, Apeshit è il romanzo ideale per chi non si sia mai avvicinato a Mellick o alla Bizarro Fiction? Probabilmente no.
La struttura narrativa, che ricalca fedelmente l’archetipo horror del weekend nella ‘casa nel bosco’, lo rende sicuramente accessibile e facile da leggere, ma al tempo stesso è così grafico nel mostrare l’ultraviolenza che potrebbe disturbare molti lettori. Apeshit entra con tutte e due le scarpe nel territorio dello splatterpunk e più ancora che il pubblico tradizionale della Bizarro Fiction, forse i suoi destinatari elettivi sono gli appassionati di horror estremo e di autori come Edward Lee – vedi Header – e Jack Ketchum (e più in generale di tutte quelle trashate che piacciono a Zwei). Per il neofita di Mellick, una storia più ‘delicata’ come La casa sulle sabbie mobili è sicuramente più adatta (e certo non meno bella).
Ciò detto, per chi si sentisse pronto ad affrontarlo, Apeshit è una lettura che regala un sacco di soddisfazioni e uno dei punti più alti del canone di Mellick. Bravo il Duca che si è accollato l’onere di portarlo in Italia.

Batshit crazy

E quando nemmeno ‘andare apeshit’ è abbastanza, si diventa direttamente batshit crazy. Non so perché tutta questa fissa per la cacca degli animali.

Silent Meh

Welcome to Silent HillQuando parlo di narrativa horror, anche al di fuori del mondo dei videogiochi, uno degli esempi di eccellenza che faccio sempre è quello della serie di Silent Hill. E come potrebbe essere altrimenti? I primi Silent Hill hanno accompagnato la mia infanzia e adolescenza, sono state tra le poche cose capaci di terrorizzare un tipo impassibile come me (che rimane in genere indifferente ai film horror), e penso che Silent Hill 2 sia un capolavoro a livello di trama, sviluppo dei personaggi e immersività.
Poi, col tempo, io e Silent Hill abbiamo preso strade diverse. Dopo l’uscita nel 2004 di The Room, il quarto gioco della serie, Konami giudicò che la serie non faceva abbastanza profitto in Giappone e sciolse il Team Silent, la squadra interna che aveva sviluppato tutti i capitoli della saga. Da allora, la serie è stata abbastanza bistrattata. Tutti i Silent Hill successivi sono stati realizzati da case di sviluppo occidentali, ogni volta diverse. L’addio del compositore Akira Yamaoka a Konami e alla serie nel 2009 è stato il colpo di grazia. Questa gestione pasticciata della serie da parte di Konami, oltre alle recensioni poco generose dei nuovi titoli che trovavo più o meno ovunque, mi avevano convinto che ormai Silent Hill fosse ben avviata sul viale del tramonto.

Finché lo scorso settembre è arrivato P.T., e il rilancio in grande stile del marchio. Avevo già accennato nello scorso articolo che il geniale teaser altro non era che un modo per tastare il terreno e verificare il potenziale di un nuovo Silent Hill, e che il gioco vero e proprio era ancora tutto da fare (con tutti i biblici tempi di sviluppo che ne conseguono). Nel frattempo, Kojima a dicembre ha anche abbozzato una data di uscita – che, se lo conosco, sarà ritoccata n volte – Halloween 2016.
Cioè, cioè, mo’ dovrei aspettare due anni? Ma ormai vi avete fatto ritornare la voglia di Silent Hill! Non mi è sembrata quindi un’idea folle, quella di andare a recuperare i capitoli che avevo consciamente saltato; non avrei gridato al capolavoro, ma qualcosa di buono poteva esserci e almeno avrei saziato un po’ di quella fame. Negli scorsi mesi ho quindi giocato al quinto e al sesto titolo della serie 1, ossia Homecoming (sviluppato dall’americana Double Helix, oggi acquisita da Amazon) e Downpour (sviluppato da Vatra Games, casa della Repubblica Ceca poi fallita. Certo che i team di sviluppo se la passano bene in questi anni).

L’ultimo trailer (non dimostrativo del gioco reale) rilasciato per Silent Hills

La mia impressione è più o meno quello che mi aspettavo mentre ero in coda al negozio: due titoli complessivamente piacevoli da giocare, ma sotto la media della serie e decisamente lontani dallo “spirito” di Silent Hill. Homecoming è un buon gioco dal punto di vista tecnico e ha una trama decente, ma è letteralmente un’americanata: l’atmosfera di ansia e solitudine è scomparsa, i personaggi sono pallidi, i combattimenti sono così numerosi e snervanti che sembra di giocare più a un action che non a un horror, e spesso e volentieri il gioco sembra una fanfiction del film di Silent Hill (che già era non-canon). Downpour è più fedele all’atmosfera della serie e ha premesse molto interessanti; ma si perde per strada, è pieno di problemi tecnici come se l’avessero fatto di fretta, ha un monster design imbarazzante, e commette errori di worldbuilding in grado di far rivoltare il più tiepido fan della serie (l’Overworld completamente frainteso, i finali che modificano retroattivamente la storia del protagonista).
I due giochi introducono anche delle oggettive migliorie al gameplay della serie, a partire dal sistema di combattimento. Entrambi i capitoli hanno colto la filosofia del “protagonista debole” dei Silent Hill, e quindi le munizioni per le armi da fuoco si fanno tremendamente rare, ponendo l’enfasi sul combattimento corpo a corpo e la fuga. Homecoming introduce il miglior sistema di parate, schivate e affondi della serie (qualcosa di cui si sentiva il bisogno nei legnosissimi capitoli giapponesi), mentre in Downpour le armi si rompono con l’uso e vanno frequentemente sostituite con ciò che si trova nello scenario (assi di legno, bottiglie, spranghe, sedie, estintori, accette…). Risultato: i combattimenti sono molto più letali che in passato. Quando cominciamo a sentire le statiche dalla nostra radio o walkie talkie, ci caghiamo giustamente sotto.

Anche in questo aspetto, però, emerge una schizofrenia di fondo che la serie di Silent Hill non ha mai risolto, e che anzi negli ultimi capitoli si è aggravata. Se da una parte la scarsità di risorse e la difficoltà dei combattimenti sottolinea la debolezza del protagonista, e invita a fuggire dai mostri, dall’altro gli ambienti di gioco sembrano progettati per obbligare allo scontro. Gran parte di entrambi i giochi è fatta di corridoi e stanze strette con mostri appostati ovunque. Evitarli e seminarli è quasi impossibile, e soprattutto non è vantaggioso rispetto al combattimento. Ma al contempo, il giocatore è punito con armi che si rompono dopo pochi colpi e una barra della salute cortissima. Verso la fine di Downpour, addirittura, c’è la classica “sezione dell’ascensore”: il protagonista è su largo montacarichi, con ondate di mostri che continuano ad arrivare, e il giocatore è costretto a ucciderli tutti per andare avanti. Una situazione tipica dei giochi d’azione – non certo di un horror di atmosfera in cui il combattimento dovrebbe essere l’ultima risorsa.
La gestione della difficoltà degli scontri è uno dei punti più delicati nella creazione di un gioco horror. I nemici devono essere forti e pericolosi, altrimenti il giocatore non si sentirà più teso; ma uccidilo troppo spesso, e quell’ansia si trasformerà in frustrazione verso il gioco, e l’immersione sarà immediatamente rotta. Avevo già toccato l’argomento in questo articolo dell’anno scorso, in cui vedevo nella generazione procedurale del mondo di gioco una soluzione per evitare ripetitività e frustrazione. Quella rimane una soluzione affascinante, ma estrema; cos’altro si potrebbe fare, rimanendo il più possibile fedeli alla formula di Silent Hill? Come avrebbero potuto gestire diversamente la faccenda, i tizi di Double Helix e di Vatra Games? Come si potrebbe migliorare le meccaniche di gioco, senza smarrire la filosofia della serie?
Ecco le tre cose che mi sono venute in mente.

Silent Hill mappa completa

Ricostruzione completa della mappa di Silent Hill (clicca per ingrandire). In alto la zona visitata nel primo Silent Hill; in basso a sinistra, quella di Silent Hill 2 e 3, e in basso a destra quella di Downpour. Come planimetria non ha molto senso, ma è quello che succede quando ogni gioco vuole aggiungere la “propria” parte di città.

Stealth
Per promuovere un certo tipo di comportamento da parte del giocatore, come per tutte le cose della vita, ci vuole il metodo della carota e del bastone: le azioni “sbagliate” devono essere scoraggiate, quelle corrette incoraggiate. Negli ultimi Silent Hill, gli scontri coi mostri sono stati giustamente resi più difficili – così non ti puoi rilassare – ma sfuggirli non è stato reso più semplice. E qui sta l’errore: da “troppo facile”, il gioco diventa “frustrante” e stop.
Il prossimo passo logico, per sottolineare la filosofia ‘evita il combattimento se non è strettamente indispensabile’, è quello di dare al giocatore nuovi mezzi per non combattere. Ironia della sorte, Kojima sarebbe particolarmente indicato a introdurre questa meccanica, perché il miglior esempio di stealth è proprio quello dei suoi Metal Gear Solid. Parlo della possibilità di camminare rasente i muri, strisciare per terra, fare rumore per attirare i mostri lontano da sé, nascondersi dietro le porte o negli armadi o sotto una macchina. Non parlo ovviamente di fare capriole o mosse acrobatiche alla Solid Snake, il nostro protagonista è un everyman; ma una versione più goffa e da “persona normale” delle meccaniche dei Metal Gear Solid funzionerebbe alla grande.

Giochi horror incentrati sul nascondersi e sfuggire del tutto ai combattimenti esistono almeno sin dai tempi del primo Clock Tower, in cui il “cattivo” era pressoché invulnerabile. Tuttavia, finora queste meccaniche sono state usate piuttosto male: in quei giochi (comprese iterazioni più recenti, tipo Haunting Ground del 2005) si poteva interagire – e usarli per nascondersi – con un numero limitato di elementi dello scenario, e tutto aveva un’aria molto meccanica e artificiosa. Quello di cui parlo, è un’interazione molto più profonda con l’ambiente: la possibilità di appiattirsi contro qualunque superficie, accucciarsi dietro gli oggetti – dalla macchina al bidone della spazzatura – entrare in qualsiasi vano sufficientemente grande che non sia chiuso a chiave.
Immaginate: state esplorando un condominio abbandonato, e mentre salite una rampa di scale la radio comincia a emettere statiche. Vi bloccate. Appiattiti contro il muro, salite le scale un gradino alla volta e vi affacciate sul pianerottolo. Niente. Con la morte nel cuore, entrate nel corridoio e aprite la prima porta sulla sinistra. Le statiche si fanno più forti. Esplorate la cucina – niente. Fate per uscire, quando cogliete un movimento dalla camera da letto, qualcosa che viene nella vostra direzione. Vi gettate per terra, nascondendovi dietro l’isola della cucina. Sentite il mostro entrare in cucina. Non vi ha ancora sentito, ma viene verso di voi. Per terra, a poca distanza da voi, c’è una lattina vuota. La raccogliete. Il mostro sta per affacciarsi dietro l’isola – e voi lanciate la lattina nella direzione opposta, verso il bagno. Clang. La creatura si blocca – e un secondo dopo scatta in bagno. Aspettate un secondo; quindi vi alzate, in punta di piedi uscite dall’appartamento, e senza far rumore vi chiudete la porta alle spalle. Avete evitato il combattimento.

Nonostante l’addio di Yamaoka si senta, l’OST di Downpour ha delle piccole gemme di sapore silenthilliano come questa.

Open world
Un naturale corollario di questa maggiore interattività dovrebbe essere un mondo più aperto, con più percorsi e più modi per procedere nella storia. Silent Hill in fin dei conti dovrebbe essere una città, ma in Downpour – con tutti quei posti di blocco e squarci nel terreno – finisce per sembrare nient’altro che corridoi e corridoi con pochissima libertà di movimento. Pur tenendo ferme una serie di tappe che il giocatore deve raggiungere e una progressione obbligata nella trama, la città dovrebbe essere liberamente esplorabile fin da subito, o quantomeno con poche limitazioni (come per esempio accadeva in Silent Hill 2). I dungeon indoor tipici della serie rimarrebbero, ma invece di avere un’unica linea di progresso, potrebbero essere riprogettati come dei grandi edifici-puzzle da risolvere nell’ordine che si vuole.
Questo potrebbe influire anche sul progresso della trama: fare le cose in un ordine diverso, o farne alcune al posto di altre, potrebbe modificare quello che succede e le reazioni dei personaggi secondari nei nostri confronti. Questo aumenterebbe esponenzialmente il replay value e darebbe l’impressione di un mondo un po’ più vivo, che reagisce in base ai nostri comportamenti.

Endings
Il che ci porta a parlare dei finali. Uno dei capisaldi della serie è quello dei finali alternativi, generalmente basati su scelte morali: a seconda di come mi sarò comportato, il destino del mio personaggio alla fine del gioco sarà più o meno allegro, più o meno “corrotto”. Eppure, raramente i Silent Hill hanno fatto un buon lavoro in questo rispetto. Forse per risparmiare sul costo delle cutscenes, i finali alternativi sono sempre sembrati un po’ abbozzati, un po’ deboli, con molte didascalie o monologhi su fondo nero e poco mostrato. A volte (e Downpour è ancora una volta l’esempio per eccellenza) c’è una chiara distinzione tra finali di serie A e di serie B, con i primi più curati e i secondi buttati là di fretta.
Eppure, questo è uno dei momenti più delicati di un Silent Hill. Dato che questi giochi sono dei moral play, è molto importante mostrare al giocatore (e nel modo più struggente e spettacolare possibile!) le conseguenze delle proprie scelte nel corso del gioco – come ho trattato gli altri personaggi della storia, come mi sono comportato in un momento cruciale. Altrimenti mi sentirò preso per il culo: “sì sì, il senso di colpa, prendersi la responsabilità delle proprie azioni, bla bla bla, e poi alla fine non cambia una sega!”. Salvare la vita a un suicida o spingerlo a buttarsi deve fare una differenza. Se devo risparmiare soldi su qualche elemento del mio gioco, non è certo questo.

Team Silent

Hiroyuki Owaku (scenario writer), Masahiro Ito (art director), Akira Yamaoka (compositore): il cuore creativo del Team Silent.

Questi sono i cambiamenti che, più di ogni altro, desidererei da un Silent Hill. Nuove meccaniche – o meccaniche migliorate – che però servano a valorizzare di più la filosofia e l’atmosfera tradizionale della serie. Oltre al ritorno a una cura nella trama che si è persa dopo lo scioglimento del Team Silent (e che in realtà, già in Silent Hill 3 e in The Room era un po’ venuta meno). Non sarà probabilmente la strada intrapresa da Kojima e Del Toro con Silent Hills: data la pesantezza dei loro nomi e l’hype che hanno creato attorno al progetto, è probabile che il nuovo gioco sarà qualcosa di radicalmente nuovo.
Ma non si sa mai. Masahiro Ito, art director e monster designer di Silent Hill 2 e 3, una delle menti principali dietro entrambi i progetti, ha dichiarato la sua disponibilità a lavorare con Kojima al nuovo titolo se quest’ultimo glielo chiedesse. Altri due vecchi membri del Team Silent, tra cui il drama director di Silent Hill 2 Suguru Murakoshi, sono confluiti in Kojima Productions. Queste sono alcune delle persone che hanno inventato la formula di Silent Hill – possiamo permetterci di sperare.

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(1) Sotto il franchise “Silent Hill”, in realtà, negli ultimi anni sono usciti molti più giochi, tra reboot, re-imaginings, e altre fregnacce, e il fatto che (seguendo la moda del momento) Konami abbia lasciato cadere una numerazione ufficiale nei titoli non facilita il lavoro.
Nella numerazione ufficiosa, comunque, Homecoming e Downpour sono di solito considerati il quinto e il sesto capitolo. Silent Hill: Origins, sviluppato per PSP, è un prequel del primo gioco ed è quindi numerato come “Silent Hill zero”; Shattered Memories e Book of Memories, invece, sono spin-off e quindi non rientrano nella numerazione dei titoli principali.Torna su

Mellick for Dummies

Carlton MellickAmo la Bizarro Fiction. Ne amo le premesse weird, la voglia di innovare, l’uscire dai soliti canovacci. Sono stati uno dei pochi, in Italia, a occuparsi di Bizarro, non solo come curiosità occasionale ma con continuità negli anni. Sono contento di aver sponsorizzato, nel mio piccolo, una corrente letteraria e un “modo di fare” narrativa che nel tempo ha prodotto un piccolo numero di autori in gamba.
Non potevo che essere felicissimo, quindi, quando il Duca ha cominciato a far tradurre in italiano le novelle di Carlton Mellick e a pubblicarle per Vaporteppa. Il Duca è una persona precisa, che ama il suo lavoro e che soprattutto non edulcorerebbe un’opera solo per renderla più marchettabile (a differenza di quell’editore che aveva trasformato Help! A Bear is Eating Me di Mykle Hansen nel triste “Missione in Alaska”) – non posso quindi pensare a una persona migliore di lui per far arrivare Mellick in Italia. Nel corso del 2014, ben quattro dei suoi libri sono stati pubblicati in italiano – Puttana da guerra, Il ninja morbosamente obeso, La vagina infestata, Kill Ball – e altri sembrano essere in cantiere.

Ma gli editori di Bizarro Central sfornano libri a un ritmo troppo elevato perché io possa stargli dietro con i miei Consigli e le mie Bonus Track. Da un paio d’anni a questa parte poi – come raccontavo in un mio vecchio articolo – Mellick ha deciso che per pagarsi il mutuo doveva accelerare i tempi e quindi ha adottato la politica di pubblicare un libro ogni quadrimestre (ogni Gennaio, Aprile, Luglio, Ottobre). Troppa roba! Ho quindi deciso deciso di sintetizzare le mie impressioni sull’opera di Mellick in un grande “articolo-catalogo” da consultazione. E quale momento migliore per pubblicarlo che il primo lunedì del 2015, come auspicio per un nuovo anno all’insegna del weird e del disagio?
Oltre a questo articolo, che pubblico nella sezione Risorse in modo tale da lasciargli maggiore visibilità, terrò una pagina parallela che sarà periodicamente aggiornata in modo da far posto alle nuove opere meritevoli di Mellick mano a mano che escono, e segnalare nuove uscite di traduzioni in italiano. Un lavoro in tutto e per tutto analogo, insomma, a quello de La Mia Classifica. Se invece volete sapere quello che penso degli altri autori di Bizarro Fiction, potete dare un’occhiata a questo mio vecchio articolo su cinque opere Bizarro, o farvi un giro nella sezione Bonus Tracks (dove ho parlato della Villaverde, di Mykle Hansen, Alan Clark e Patrick Wensink).

Panda Arcobaleno

Oggi come nel 2011: il mondo ha ancora bisogno di panda che vomitano arcobaleni.

Come funzionerà questo catalogo? Prenderò in considerazione le opere, tra quelle che ho letto, scritte tra il 2003 e il 2013 compreso – lasciando fuori per ora il 2014. Preciso “tra quelli che ho letto”, dato che non ho letto l’opera omnia di Mellick (chi può dire di averlo fatto?), ma soltanto una metà abbondante della sua produzione (28 opere su 45 al momento in cui scrivo – cazzo, hanno ampiamente superato i romanzi di King e tallonano da vicino quelli di Dick…). Inoltre, non troverete una rassegna completa delle opere che ho letto, ma solo una cernita delle più interessanti.
Uno dei meriti di Mellick è di saper spaziare, da un romanzo all’altro, nei generi e nelle ambientazioni più diverse – dal post-apocalittico alla commedia trash-romantica, dallo sperimentale lynchiano al camp horror di serie B, passando per l’urban fantasy. Ciononostante, i libri di Mellick possono tutti ricondursi a mio avviso a un numero limitato di categorie. Perciò, invece di fare una classifica o un elenco, ho pensato di presentarvi le sue opere suddivise in gruppi tematici: a voi decidere quale o quali categorie preferite, e quindi su che libri buttarvi.
Per ciascuna categoria, ho scelto i tre o quattro libri più rappresentativi tra quelli che ho letto, mettendoli poi in ordine in base a quanto li ho trovati interessanti. I miei commenti a ciascun libro saranno giocoforza sintetici, ma linkerò la recensione completa per tutte le opere a cui ho dedicato un articolo.

Nota: i ‘Mellick-starter’
Quando un autore ha prodotto tanta roba, succede spesso che i suoi fan, quando devono consigliare chi si avvicina per la prima volta all’autore, selezionino uno o più libri “da cui cominciare”. Questo è tanto più vero quando lo scrittore in questione scrive roba strana. Ci penserei due volte, prima di consigliare a un novizio di Bizarro Fiction di provare il racconto The Baby Jesus Butt-Plug, pieno com’è di gore e blasfemie (in senso buono) – anche se a volte quelli più assurdi sono anche i migliori.
Alcune opere, insomma, sono meglio di altre per “tastare il terreno” e capire se il lettore può essere interessato all’offerta. Segnalerò quindi con l’avviso ‘Mellick-starter’ i libri più adatti a chi non avesse mai letto Mellick in vita sua.

Mario Martinez

Mario Martinez: un altro artista che è entrato nello spirito giusto.

A. Storie surreali
Le storie di questo gruppo sono ambientate nel nostro mondo – o in una versione leggermente modificata – e hanno come protagonista una persona normale. Qualcosa di strano irrompe nella vita del protagonista, trascinandolo in una spirale di bizzarrie crescenti. Narrate generalmente in prima persona da persone che potremmo anche essere noi, sono molto immersive e inquietanti, e rispetto ad altri libri di Bizarro Fiction sono in genere più abbordabili. L’azione è scarsa, e quando c’è rimane nel territorio del verosimile – non ci sono gli eccessi pirotecnici da film di cui Mellick abbonda in altri libri. Come genere, sono catalogabili generalmente nell’Horror.

The Handsome Squirm Titolo: The Handsome Squirm
Tipo: Novella
Anno:
2012
Pagine:
 140 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Cosa succederebbe, se ad andare al potere negli Stati Uniti fosse l’equivalente ammerigano del MOIGE? Se “proteggere i bambini” da qualsiasi possibile turbamento diventasse l’origine di tutte le leggi, e nel giro di pochissimo tempo l’aborto, il divorzio, avere figli fuori dal matrimonio o anche solo dire parolacce in pubblico diventasse illegale? E cosa succederebbe, se in questa società un povero cristo mettesse per errore incinta una donna aliena con il costume di divorare vivi i propri consorti?
The Handsome Squirm è la storia inquietante di un uomo normale che si trova solo contro tutti, in un mondo in cui il bene dei bambini e la preservazione della famiglia tradizionale sono così importanti che la vita del singolo non conta più niente. Del resto, cosa non saresti disposto a sacrificare per i tuoi figli?L’atmosfera del libro è un po’ troppo improbabile e sopra le righe perché il destino del protagonista faccia davvero paura, ma una sottile inquietudine attraversa tutta la storia e il ritmo si mantiene sempre altro. Forse un po’ troppo disgustoso e borderline per chi non si sia mai avvicinato al Bizarro.

The Haunted VaginaTitolo: The Haunted Vagina
Tipo: Novella
Anno:
2006
Pagine:
 120 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: La Vagina Infestata
Su Tapirullanza: I Consigli del Lunedì #04

Steve ha un problema. Ama alla follia Stacy, la sua sexy ragazza dai lineamenti asiatici, ma da quando ha scoperto che di notte dalla sua vagina escono sussurri e altri suoni inquietanti, non riesce più a fare sesso con lei. Stacy dice che la sua vagina è abitata da un fantasma, e che è sempre stato così – ma questo non lo tranquillizza. La situazione peggiora quando cose ben più strane cominciano a uscire dalla sua vagina, e nel momento peggiore! Steve sarà costretto a entrare di persona nella patata infestata per scoprire cosa diavolo sta succedendo, e proteggere così la sua Stacy.
Le premesse sono idiote quanto basta, ma in realtà The Haunted Vagina è molto di più: nello spazio di un centinaio di pagine, sa essere di volta in volta inquietante, demenziale, erotico, deprimente. E’ una storia di esplorazione di un mondo assurdo e apparentemente impossibile, ma in realtà è soprattutto una storia d’amore; una delle più strane che abbia mai letto, ma, devo dire, anche una delle più sincere, e delle più coinvolgenti. E grazie al fatto che l’assurdo si inserisce in una cornice di normalità, è un approccio dolce alla Bizarro Fiction. Assolutamente consigliato.

Village of the MermaidsTitolo: Village of the Mermaids
Tipo: Novella
Anno:
2013
Pagine:
 120 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Pensate che gli animalisti di Greenpeace siete dei pazzi? Perché non avete ancora conosciuto quelli dell’ESS, l’Endangered Species Security! Nel mondo di Village of the Mermaids, le specie a rischio di estinzione contano più degli esseri umani, e ucciderne anche solo un esemplare può costare la condanna a morte. Questo anche se la specie in questione sono sirene mangiauomini. Vestiremo i panni del dottor Black, un uomo con una malattia terminale che sta trasformando il suo corpo in argilla, mentre compie la sua ultima missione prima di morire: visitare Siren Cove, remota isola di pescatori dove vivono alcuni degli ultimi esemplari di sirena, e scoprire perché hanno cominciato a comportarsi in modo strano.
Con il titolo insolitamente mite di Village of the Mermaids, Mellick ci presenta un horror rurale che richiama il celebre The Shadow over Innsmouth di Lovecraft. La sua consueta rivisitazione degli stereotipi di genere stavolta tocca le sirene, trasformate da fanciulle di fiaba in ferali e ottusi (ma bellissimi) mostri divoratori di uomini. L’assenza di un narratore in prima persona e l’ambientazione avvicinano questa novella ad altre categorie della narrativa mellickiana, ma lo sviluppo pacato della vicenda e l’assenza di scene d’azione pirotecniche lo avvicinano a Haunted Vagina e Handsome Squirm. Il finale è un po’ brusco (per essere ben sviluppata, a mio avviso la storia avrebbe richiesto il doppio delle pagine) e le sirene si vedono poco, ma nel complesso è una lettura interessante. La sua impostazione classica e l’assenza di scene ‘estreme’ lo rendono un ottimo primo approccio alla Bizarro.

B. Storie fantasy-horror drammatiche
Storie ambientate in universi alternativi, o su pianeti lontani, o in un futuro remoto e quasi irriconoscibile – ovunque sia, il Bizarro impregna queste ambientazioni da capo a piedi. Possiamo avere un unico protagonista che narra in prima persona (The Egg Man, Warrior Wolf Women) o pov multipli; ma in ogni caso, come per i protagonisti del gruppo precedente, si tratta di persone abbastanza “normali” – per gli standard della loro ambientazione – che si trovano invischiati in situazioni pericolose. L’azione c’è e può anche essere intensa, ma in genere è periferica al protagonista, che non ha poteri sovrumani.
Insomma, potremmo anche chiamare queste storie, “storie di sopravvivenza in mondi assurdi”. Il genere prevalente rimane l’Horror, spruzzato però di fantascienza o fantasy; le dimensioni sono spesso (ma non sempre) quelle del romanzo. La maggior parte dei miei libri preferiti di Mellick sono in questa categoria; ma la quantità elevata di bizzarre richiede un minimo sforzo di accettazione da parte del lettore.

The Egg ManTitolo: The Egg Man
Tipo: Novella
Anno: 2008
Pagine: 180 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: I Consigli del Lunedì #34

In un futuro distopico in cui le persone nascono come insettoni simili a mosche ed evolvono gradualmente in esseri umani schiavi delle corporazioni, Lincoln, un Odore, si mantiene come pittore e deve dimostrare all’azienda che lo possiede di essere in grado di produrre tele creative, o verrà gettato in mezzo alla strada, senza diritti e senza un soldo. E ora c’è una donna disgustosa e incinta, Luci, una Vista, che lo perseguita; e il suo ragazzo, che crede che Lincoln se la voglia portare a letto e ha giurato che lo ammazzerà; e una faida che si sta preparando nel suo palazzo tra gli uomini della OSM e quelli della MSM. E Lincoln sente di essere spacciato: non ha un briciolo di talento.
Questo è il mio romanzo preferito in tutta la produzione di Mellick. Rispetto al resto della sua produzione, in The Egg Man non c’è un briciolo della leggerezza e dell’umorismo grottesco tipiche mellickiane. La depressione, la crudeltà e il cinismo avvolgono ogni situazione, ogni personaggio e i rapporti tra di loro; e il protagonista stesso – ben lungi dall’essere semplicemente una vittima del sistema con cui empatizzare – riserverà qualche colpo di scena. Con la scusa che Lincoln è un individuo dall’olfatto iper-sviluppato, inoltre, Mellick ne approfitta per costruire una prosa affascinante in cui gli odori danno forma alle cose. Una storia vivida e che non può lasciare indifferenti; per molti però potrebbe risultare eccessivamente depressiva e sgradevole.

Quicksand HouseTitolo: Quicksand House
Tipo: Romanzo
Anno: 2013
Pagine: 220 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

In tutta la loro vita, Tick e Polly non sono mai usciti dalla nursery. Aspettano il giorno in cui saranno abbastanza grandi da incontrare i loro genitori. Non possono andare a cercarli da soli: la casa è troppo grande, e i corridoi fuori dalla nursery sono infestati di strani mostri che si muovono nelle ombre. La loro tata continua a ripetergli che, quando sarà il momento, i loro genitori verranno a prenderli. Perciò aspettano. Ma quando le macchine della nursery cominceranno a malfunzionare e la loro sopravvivenza sarà in pericolo, saranno costretti a trasgredire le regole – e avventurarsi nell’ignoto dell’immersa casa dei loro genitori.
Quicksand House è un romanzo atipico nella produzione di Mellick. Il ritmo pacato, il silenzio e l’ansia sottile che si respira nelle pagine, la tenerezza che spira dai pochi personaggi e dalla loro storia. Per dire, non c’è neanche una scena di sesso assurdo! Uno dei libri più intimi ed emotivamente coinvolgenti della produzione di Mellick, tranquillamente accostabile a diverse opere del New Weird.

Warrior Wolf Women of the WastelandTitolo: Warrior Wolf Women of the Wasteland
Tipo: Romanzo
Anno:
2009
Pagine:
 300 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: I Consigli del Lunedì #23

Cosa succederebbe se ad ogni orgasmo, una donna perdesse un poco della sua umanità per trasformarsi gradualmente in un licantropo? E’ quello che succede nel mondo post-apocalittico di Warrior Wolf Women of the Wasteland. Daniel Togg conduce una vita infelice a McDonaldland – l’ultimo bastione di civiltà in un mondo devastato – costretto a lavorare sedici ore al giorno e a mangiare cibo McDonald’s tutto il tempo. In questo mondo, per il terrore di trovarsi un lupo mannaro in casa, qualunque donna venga sorpresa a fare sesso o a masturbarsi senza aver ricevuto l’autorizzazione dal governo viene immediatamente esiliata aldilà dei confini di McDonaldland, e condannata così a finire in pasto ai licantropi là fuori. Ma a essere esiliati sono anche i mutanti, e le cose si mettono male per Togg, al quale sono appena spuntate due braccia in più…
Warrior Wolf Women of the Wasteland è la folle storia dell’esilio di un uomo nelle terre selvagge, delle spaventose creature che troverà la fuori, dell’infinita battaglia delle lupe mannare contro McDonaldland, e dell’impossibilità di un rapporto d’amore tra un uomo e una donna sotto il peso della maledizione della licantropia. Con questo romanzo, Mellick ha creato una delle sue ambientazioni più complesse e affascinanti, con conflitto a palate, personaggi memorabili e sviluppi imprevedibili. La parte finale non è all’altezza del precedente worldbuilding, ma nel complesso si tratta comunque di un romanzo molto bello (benché non adatto ai palati di tutti, con la sua abbondanza di splatter e idee disgustose). Se vi piace, date un’occhiata anche ai tre racconti di Barbarian Beast Bitches of the Badlands, che espandono l’ambientazione del romanzo; Mellick sta inoltre lavorando da un paio d’anni a un seguito, Pippi of the Apocalypse, anche se non è chiaro quando uscirà.

Tumor FruitTitolo: Tumor Fruit
Tipo: Romanzo
Anno:
2013
Pagine:
 290 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Perché non prendiamo una storia di naufraghi sbattuti su un’isola misteriosa alla Lost, ma spostiamo il fulcro della trama dall’esplorazione dei misteri alla pura e semplice sopravvivenza? Detto fatto. Tumor Fruit non si svolge sulla Terra ma su un pianeta assurdo, dalle tinte rosa e una certa tendenza a essere tossico per l’uomo. Una navicella spaziale precipita, e solo in otto sopravvivono sulle coste bianche di un’isola in mezzo a un oceano corrosivo e inavvicinabile. Ora gli otto dovranno sopravvivere a un ambiente che chiaramente non è fatto per l’uomo, e che tenterà di ucciderli in ogni modo. Tocchi l’acqua e ti corrode fino a ucciderti. Mangi il cibo che cresce sull’isola e sarai sconquassato dalle malattie.
Mellick confeziona un romanzo corale d’avventura che ricorda vagamente Zombies and Shit, ma con un timbro narrativo più serio, tinte molto più fosche, una certa dose di misteri (con tanto di rivelazione sconcertante finale) e una maggiore attenzione all’analisi psicologica dei personaggi rispetto all’azione pura e semplice. Una storia violenta e delicata, tra le migliori di Mellick. Gli amanti di Lost dovrebbero apprezzare.

C. Storie fantasy-horror d’azione
Come le storie del gruppo precedente, anche queste sono ambientate in mondi assurdi che potrebbero essere una versione alternativa del nostro, o essere nel nostro futuro. Ma in questo caso, Mellick getta al vento ogni parvenza di credibilità. Queste storie si leggono come film d’azione folli, pieni di esplosioni, inseguimenti e colpi di scena, e spesso sono tributi espliciti a qualche pellicola o sottogenere cinematografico (Armadillo Fists è una tarantinata, Zombies and Shit è Battle Royale con gli zombie). Il che non significa che non ci si immedesimi nei protagonisti, anzi. Solo che questi protagonisti sono in genere individui eccezionali che fanno cose pirotecniche – e, spesso, muoiono orribilmente.
Proprio grazie a questi richiami al cinema di genere, i libri appartenenti a questa categoria sono spesso tra i più accessibili per chi si avvicini al Bizarro per la prima volta.

Zombies and ShitTitolo: Zombies and Shit
Tipo: Romanzo
Anno: 2010
Pagine: 310 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

L’apocalisse zombie incontra Battle Royale. In un mondo in cui i superstiti del genere umano hanno ricostruito la civiltà su isole artificiali al largo della costa, lasciando il continente in mano a orde di non-morti quasi indistruttibili, ogni anno il governo rapisce dagli slums una ventina di malcapitati per farli partecipare al più fiko dei reality. Un percorso attraverso le rovine di una vecchia metropoli, un elicottero sul punto d’arrivo, tre giorni di tempo per arrivarci. E un sacco di zombie! Ma l’elicottero è monoposto: solo uno dei contendenti potrà salvarsi, a costo di ammazzare gli altri con le sue stesse mani.
Questo è uno dei romanzi più divertenti e scorrevoli da leggere di Mellick. I personaggi sono quasi tutti spettacolari – ci sono nazisti, robot, punkettoni, super-guerrieri bioingegnerizzati, e l’immancabile scrittore disperato – l’intreccio è imprevedibile, il ritmo frenetico. Ma le risate e l’adrenalina sanno lasciare il posto, all’occorrenza, a momenti drammatici. Non sapere quali personaggi moriranno e quali sopravviveranno genera un’ansia inusuale nei confronti dei nostri preferiti: arriveranno sani e salvi fino al prossimo capitolo? Questo libro non si legge, si divora.

Armadillo FistsTitolo: Armadillo Fists
Tipo: Romanzo breve
Anno:
2012
Pagine:
 150 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

June Howard è la migliore pugile sulla piazza; nessuno è in grado di resisterle sul ring, e questo soprattutto grazie al fatto che si è fatta impiantare degli armadilli vivi al posto delle mani. Ma adesso è in fuga, perché l’organizzazione criminale per cui lavorava vuole farle la pelle. Il motivo? Una sciocchezza: ha inavvertitamente fatto fuori il loro capo! Con l’aiuto di Mr. Fast Awesome, il più veloce autista della città – benché non abbia né mani né piedi – June dovrà sfuggire ai membri dell’organizzazione; o ammazzarli uno dopo l’altro.
Armadillo Fists è un buffo incrocio tra Pulp Fiction e One Piece, e per la precisione quella saga di One Piece in cui i protagonisti devono combattere un’organizzazione di mentecatti che usano numeri al posto dei nomi. La storia salta continuamente tra più timeline parallele, caso unico nella narrativa di Mellick: da una parte assistiamo alla lotta tra June e l’organizzazione, dall’altra a una serie di flashback che ci mostreranno come June sia entrata nel mondo della boxe, com’è diventata quello che è, e perché abbia ucciso il capo. Data la semplicità della trama questi salti avanti e indietro non confondono più che tanto, ma in compenso danno un ritmo sostenuto alla vicenda. Una storia agrodolce, e piena d’azione pirotecnica a metà tra Tarantino e uno shonen – merita sicuramente di essere letta.

War SlutTitolo: War Slut
Tipo: Novella
Anno: 2006
Pagine: 110 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: Puttana da Guerra
Su Tapirullanza: No

In un futuro prossimo, tutti gli abitanti del mondo sono reclutati dall’esercito per partecipare all’ultima di tutte le guerre: la guerra contro i renitenti alla leva. Un pugno di soldati si trova isolato nell’Artico, dove parrebbe celarsi l’ultima roccaforte dei renitenti alla leva. Ma gli ufficiali sembrano entrati in uno stato catatonico, e i soldati si trovano senza una missione né ordini, mentre le provviste vanno esaurendosi. Cosa fare, come uscire dallo stallo?
War Slut parte come una storia surreale, per poi dare gradualmente spazio alle scene d’azione e all’introspezione psicologica. Il fascino della novella è dato dalla bizzaria della situazione di partenza – una guerra senza senso, l’attesa infinita di un evento imprecisato, stile Deserto dei Tartari – e da una piccola galassia di trovare geniali (come la puttana da guerra del titolo). Purtroppo le due metà della storia – la parte iniziale, e quella più di “azione” ambientata nella città di ghiaccio – non si integrano troppo tra loro, e ho l’impressione che Mellick abbia sottosfruttato le possibilità creative della premessa iniziale. Rimane comunque una lettura suggestiva.

D. Storie trash-demenziali
Con questo gruppo di storie entriamo nel territorio della parodia grottesca e della comicità nera. Non è facile tracciare un confine netto tra questa categoria e le due precedenti, ma mi sembra che tutte le storie di quest’ultima abbiano un elemento in comune: essere più divertenti (in un modo strano e spesso disgustoso) che drammatiche o tensive. Il che non significa che non possano esserci, a sorpresa, momenti da occhio lucido e lacrima che cola sulla guancia.
L’ispirazione sono anche in questo caso film o anime di serie B, reinterpretati in salsa Bizarro. I libri di questo gruppo sono quasi sempre novellas intorno al centinaio di pagine, letture ad alto ritmo da consumare nel giro di un pomeriggio.

ApeshitTitolo: Apeshit
Tipo: Novella
Anno: 2008
Pagine: 170 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Si presenta come il tipico horror movie di serie b, con una comitiva di sei fikissimi studenti liceali che vanno a trascorrere in una casetta nei boschi un tranquillo week-end di paura. Orribili maniaci mutati e disumani li aspettano per fargli la festa. Ma più si va avanti nella novella, più la storia diventa grottesca, e gli stessi protagonisti prendono a comportarsi in modo strano, violando i cliché del genere. Fino a una serie di colpi di scena conclusivi che ribaltano il tavolo. No: questa non è proprio la classica storia horror.
Apeshit ricorda il cinema trash auto-parodico di Rodriguez, solo più Bizarro – e non tutte le scene fanno ridere. Una delle più belle rivisitazioni dello stereotipo horror della casa nel bosco, accanto al film prodotto da Joss Whedon Cabin in the Woods. Per stomaci forti.
E se Apeshit vi è piaciuto, date un’occhiata anche al seguito Clusterfuck, romanzo lunfo che riprende l’ambientazione della novella originale, ma calandola sottoterra e con protagonisti dei frat boy del college. Meno geniale del predecessore e più orientato al divertimento duro e puro, è un simpatico omaggio al sottogenere dello spelunking horror.

The Morbidly Obese NinjaTitolo: The Morbidly Obese Ninja
Tipo: Novella
Anno: 2011
Pagine: 100 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: Il Ninja Morbosamente Obeso
Su Tapirullanza: No

In un mondo in cui le grandi corporazioni assoldano ninja per custodire i propri prodotti e rubare quelli altrui, Basu, un ninja di 450 chili, deve proteggere un bambino-salvadanaio dalle grinfie di un’azienda avversaria. Ma se smette di mangiare maionese morirà di una morte atroce.
The Morbidly Obese Ninja è una novella scritta come se fosse la puntata di uno shonen alla Naruto, anche se con molta più intelligenza e originalità. Premessa, ambientazione e idee sono geniali, anche se poi lo sviluppo e la conclusione seguono i canoni classici della narrativa d’azione. Scontri all’arma bianca, inseguimenti ed esplosioni sono la linfa vitale di questa storia, ma l’atmosfera sopra le righe lo trasforma in una commedia dal ritmo indiavolato. Una delle opere di Mellick più accessibili a chi è a digiuno di Bizarro Fiction.

Sausagey SantaTitolo: Sausagey Santa
Tipo: Novella
Anno: 2007
Pagine: 130 ca.

Mellick-starter: Sì
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: Bonus Track Natalizia

Lo sapevate che Babbo Natale non era un vecchio bonario, ma un crudele tiranno con l’accento da pirata che odiava i bambini, e che li voleva tutti morti o in schiavitù, finché il buon Dio non decise di punirlo condannandolo a consegnare doni ai bambini per il resto dell’eternità? E sapete che ora Babbo Natale – a causa di un increscioso incidente – è fatto di salsicce legate insieme tra loro? E’ la vigilia di Natale a casa di Matthew Fry, e l’incontro con Sausagey Santa cambierà la sua vita per sempre…
Sausagey Santa è la versione mellickiana del classico tema “dobbiamo salvare il Natale”. Mellick innesta i suoi personaggi bizzarri e trovate creative su un impianto narrativo classico e abbastanza prevedibile, fatto di rapimenti, inseguimenti, combattimenti. Matt è un personaggio simpatico – con una moglie iperviolenta che sogna di diventare un Transformer malvagio, una figlia viziata con una disgustosa escrescenza sul lato della faccia, e un lavoro schifoso alla Nintendo – e il suo destino alla fine della vicenda è insolito per le storie di questo tipo. Una storia divertente e leggera, senza troppe pretese, da leggere sotto l’albero con in sottofondo l’album di Natale di Michael Bublé.

E. Storie sperimentali
Il Mellick ventenne aveva l’ambizione di diventare uno scrittore avanguardista. Il che vale a dire: libri in cui prima vengono le immagini grottesche, i contrasti assurdi, i dettagli vividi, e poi la trama. Le storie sperimentali di Mellick sono più una raccolta di scene e situazioni fuori di testa, alla David Lynch, che narrazioni con un inizio, un centro e una fine (anche se in alcuni di questi libri c’è almeno una parvenza di trama).
I libri di questo gruppo sono tutte brevi novellas, di genere Horror e/o Fantasy. Quasi tutti appartengono al ‘primo’ Mellick, prima che scrivesse The Haunted Vagina e War Slut e virasse verso storie più plot-driven. Ciononostante, ogni tanto gli capita ancora di scrivere storie sperimentali, come Ugly Heaven nel 2007 e The Tick People nel 2014.

Adolf in WonderlandTitolo: Adolf in Wonderland
Tipo: Novella
Anno: 2008
Pagine: 170 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

In un mondo alternativo in cui l’utopia nazista ha conquistato il mondo, un giovane ufficiale ariano delle SS con le parvenze di Adolf Hitler è mandato in missione in una terra sperduta, a trovare ed eliminare l’ultimo essere imperfetto sulla Terra. Ma il mondo nel quale sta entrando è quanto di più lontano dalla perfezione possa esistere, e lo precipiterà da un’assurdità all’altra.
Malgrado il plot promettente e un protagonista interessante, la trama è solo un pretesto per precipitare il lettore – attraverso gli occhi del suo malcapitato protagonista – in una spirale di situazioni e incontri grotteschi. Le idee carine non mancano, e questa versione dark di un paese delle meraviglie crea in effetti una certa atmosfera; ma il libro sembra composto di tanti episodi slegati più che di un tutt’uno coerente e non va a parare da nessuna parte; L’argomento della “perfezione” è un po’ il pretesto della storia ma non viene davvero approfondito. Adolf in Wonderland è un libro che va letto per il gusto dell’immaginario bizzarro – perché in tutto il resto delude.

Razor Wire Pubic HairTitolo: Razor Wire Pubic Hair
Tipo: Novella
Anno: 2003
Pagine: 80 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Una delle primissime opere di Mellick, e di sicuro la sua più strana opera di Mellick che abbia mai letto. In un futuro post-apocalittico in cui l’intero genere maschile si è estinto, e gli esseri umani superstiti vivono in palazzi fatiscenti di città in rovina, vestiamo i panni di un dildo ermafrodita mutante dotato di autocoscienza. Il nostro protagonista è stato dato in “pasto” a Celsia, una donna vorace e completamente egocentrica, che se ne servirà per i suoi giochetti. Questo, finché l’appartamento in cui vive non sarà attaccato dai barbari stupratori delle wastelands, precipitando la vita del povero dildo nel caos più completo.
Nonostante la parvenza di trama, Razor Wire Pubic Hair è più che altro un susseguirsi di scene vivide e bizzarre, che colpiscono l’immaginazione e ogni tanto lo stomaco – un romanzo più affine alla Literary Fiction e al surrealismo che non alla narrativa di genere. Il risultato è molto lynchiano (chi ha mai visto Eraserhead può avere un’idea di cosa aspettarsi); le immagini evocate da Mellick sono estremamente vivide, materiche. Si visualizza senza difficoltà tutte le stranezze e le nefandezze che il povero dildo si trova a subire per opera di Celsia, e il contrasto tra la voracità di Celsia e la riluttanza del protagonista è resa molto bene. Non sono molte le storie in cui ci immedesimiamo in uno strumento sessuale vivente, e soprattutto viviamo il lato oscuro e grottesco dell’essere “vittime” di una completa ninfomane feticista. Unico.

Sea of the Patchwork CatsTitolo: Sea of the Patchwork Cats
Tipo: Novella
Anno: 2006
Pagine: 110 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Un bel giorno, l’intero genere umano decide di suicidarsi senza alcun motivo. L’intero genere umano ad eccezione di Conrad, vecchio ubriacone, che rinviene dall’ultima sbornia per scoprire di essere l’unica persona rimasta sulla Terra. La sua quest per capire cosa sia successo e cosa debba fare ora della sua vita verrà ulteriormente complicata quando un’inondazione di origine sconosciuta si abbatte sul mondo. A bordo di una casa galleggiante, Conrad entrerà in un mondo onirico e surreale, fatto di ville al centro dell’oceano, donne mostruose dagli insaziabili appetiti, e ovviamente un sacco di gatti.
Per ammissione dello stesso Mellick, Sea of the Patchwork Cats è la prima (e unica, grazie al cielo) storia ispirata direttamente da un sogno. Pur avendo all’apparenza l’andamento della normale narrativa di trama, questa novella è in realtà un susseguirsi di scene bizzarre senza un vero nesso logico tra di loro. La premessa del suicidio di massa e dell’ultimo uomo rimasto sul pianeta è terribilmente affascinante, ma tutti gli avvenimenti successivi non hanno nessuna relazione con questo avvenimento. E’ vero, il libro è tempestato di immagini affascinanti e di scene che colpiscono come un quadro di Magritte e Dali; ma è anche vero che si arriva all’ultima pagina pensando: “Ma che minchia ho appena letto?”. Il materiale di partenza si sarebbe potuto sviluppare in direzioni molto più interessanti, invece Mellick ha deciso di lasciarlo allo stato di sogno, una pennellata di bizzarria liberamente interpretabile. Da leggere a proprio rischio e pericolo.

Ugly HeavenTitolo: Ugly Heaven
Tipo: Novella
Anno: 2007
Pagine: 90 ca.

Mellick-starter: No
Edizione italiana: No
Su Tapirullanza: No

Due uomini si risvegliano, dopo la morte, in Paradiso; ma l’aldilà è ormai diventato un luogo spaventoso, colmo di sofferenza e pericoli, e Dio sembra scomparso o morto. Tree e Salmon – completamente dimentichi di quella che era la loro identità e la loro vita sulla Terra – si incammineranno alla ricerca di un senso e di un luogo che possano chiamare casa. Lungo la strada incontreranno una compagna di viaggio e i resti di quello che era un tempo il Paradiso.
Ugly Heaven – storia che nasce come prima metà di un libro scritto a due mani con Jeffrey Thomas – è un’altra novella di esplorazione di un mondo assurdo. Il Paradiso di Mellick è pieno di idee interessanti – soprattutto quelli inerenti alla trasformazione dei corpi umani e dei nuovi sensi. Rispetto agli altri libri di questa sezione, inoltre, la vicenda ha meno la forma di una carrellata di immagini bizzarre e più quella di una storia compiuta. Il problema di Ugly Heaven è che sembra un’opera incompiuta – non solo non troverete risposta alle stranezze che pervadono il Paradiso, ma avrete proprio la sensazione che manchi il finale. O meglio, che Mellick si sia fermato a un terzo o a metà della storia. Una trama promettente, insomma, ma che delude – potreste volerci dare un’occhiata per trarne ispirazione per qualcosa di vostro, e nulla più.

E per finire: la mia classifica di Mellick!
Non poteva ovviamente mancare una conclusione prettamente personale. Ecco, in ordine, i miei dieci libri di Mellick preferiti. Inutile dire che questa classifica rispecchia unicamente i miei gusti, e prescinde dai criteri oggettivi che adotto di solito:

1. The Egg Man
2. Quicksand House
3. Zombies and Shit
4. Warrior Wolf Women of the Wastelands
5. Apeshit
6. Tumor Fruit
7. The Handsome Squirm
8. The Haunted Vagina
9. The Morbidly Obese Ninja
10. Razor Wide Pubic Hair

A ben quattro di questi dieci titoli ho già dedicato, nel corso di questi anni, un intero Consiglio – ma ovviamente non mi è stato possibile farlo per tutti. Se per caso sareste interessati a farmi approfondire uno di questi titoli (o anche un altro che non compare in questa lista, volendo) fatemi sapere.
Quanto ai miei programmi per il futuro: riprenderò da lunedì prossimo coi Consigli del Lunedì, sperando di riuscire a mantenere una scaletta un po’ più rigorosa (ah, beata ingenuità!). Buon 2015 gente!

Bonus Track: The Girl Next Door

The Girl Next DoorAutore: Jack Ketchum
Titolo italiano: La ragazza della porta accanto
Genere: Horror / Slice-of-life / Psicologico
Tipo: Romanzo

Anno: 1989
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 350 ca.

Difficoltà in inglese: **

La vita di David è cambiata per sempre nell’estate del 1958, quando aveva dodici anni. Quel giorno, sulla riva del fiume, ha conosciuto una bellissima ragazza dai capelli rossi, i modi da maschiaccio e qualche anno più di lui. Si chiama Meg. I suoi genitori sono appena morti in un incidente stradale, e lei e Susan, la sua sorellina, sono stati affidati alla cugina della madre, Ruth; che, combinazione, è la vicina di casa David. Dave è amicissimo dei tre figli di Ruth, e ha una grande stima per l stessa Ruth – una trentacinquenne spigliata, che li tratta come degli adulti, gli fa guardare la TV in casa loro, gli offre la birra e dice parolacce ad alta voce. Sembra quindi la situazione perfetta per approfondire la conoscenza della nuova arrivata…
Ma qualcosa non va. Col passare delle settimane, Meg si fa sempre più cupa e distante. Il clima a casa di Ruth si fa teso. Continua a sgridare Meg e a umiliarla per qualsiasi cosa. I ragazzi la tormentano. E quando infine la situazione degenera, David diventa il testimone della lenta discesa agli inferi di Meg Loughlin – incerto se soccorrerla, difenderla, scappare, rimanere silenziosamente a guardare, o prendere parte alle torture. Perché, pian piano, e sotto la supervisione di Ruth, distruggere Meg diventerà l’hobby di tutti i ragazzi del vicinato…

Nell’ottobre del 1965, a Indianapolis, una donna fra i trenta e i quarant’anni viene arrestata, insieme a tutti i suoi figli e ad alcuni ragazzini del vicinato, per l’omicidio e le sevizie inflitte a Sylvia Likens, sedicenne che le era stata affidata solo tre mesi prima, assieme alla sorella minore, dai genitori. Prima della morte per trauma cranico, la ragazza era stata chiusa in cantina e torturata dall’intera famiglia per settimane. Da questa storia vera – che fu definita all’epoca il “peggior crimine nella storia dell’Indiana” – l’autore di horror hardcore Jack Ketchum trasse inspirazione per il suo romanzo The Girl Next Door.
Ne abbiamo fatta di strada in questo mese, passando da un horror over-the-top ed esilarante alla Apeshit, fino alle tinte più cupe e slice-of-life di Paranoia Agent. Il nostro viaggio finisce con questo romanzo, che di sovrannaturale non ha niente e vuole farci vedere invece, attraverso gli occhi di un dodicenne, gli abissi di brutalità a cui possono arrivare – date le giuste condizioni – delle persone normali. The Girl Next Door è un pugno nello stomaco. Il livello di violenza e gore, tecnicamente, è molto più basso che non nella narrativa splatterpunk che abbiamo esplorato nel corso di quel momento; eppure, in quest’horror psicologico e di vita quotidiana, la verosimiglianza e l’identificazione nei protagonisti della vicenda è tale da renderlo molto più agghiacciante. Questo è forse il romanzo che mi abbia fatto stare peggio in tutta la mia vita.

The Girl Next Door Screenshot

Un’immagine dal film tratto da The Girl Next Door, del 2007. Giusto per entrare nel mood.

Uno sguardo approfondito
Voglio cominciare con una citazione, quella con cui si apre il romanzo:

You think you know about pain?
Talk to my second wife. She does. Or she thinks she does.
She says that once when she was nineteen or twenty she got between a couple of cats fighting—her own cat and a neighbor’s—and one of them went at her, climbed her like a tree, tore gashes out of her thighs and breasts and belly that you still can see today, scared her so badly she fell back against her mother’s turn-of-the-century Hoosier, breaking her best ceramic pie plate and scraping six inches of skin off her ribs while the cat made its way back down her again, all tooth and claw and spitting fury. Thirty-six stitches I think she said she got. And a fever that lasted days.
My second wife says that’s pain.
She doesn’t know shit, that woman.

The Girl Next Door, insomma, si presenta da subito come una meditazione sul dolore e sulla banalità del male.
Il romanzo ha un ritmo e uno sviluppo molto lenti. Si apre con una cornice, con il protagonista ormai quarantenne che – due matrimoni falliti alle spalle e un peso sulla coscienza – guarda indietro alla sua vita, e all’esperienza che, a suo dire, ha corrotto la sua anima per il resto dei suoi giorni. Solo a partire dal terzo capitolo la cornice è abbandonata e la dodicesima estate di David diventa a tutti gli effetti il “presente” del romanzo. La trama continua a svilupparsi con calma, con la graduale introduzione del setting e dei personaggi della storia, e un andamento da romanzo slice-of-life; gli elementi horror entrano solo a poco a poco, e diventano dominanti dalla metà in poi del romanzo.

Questo approccio ha dei pregi e dei difetti.
Il limite principale, naturalmente, è la distanza che tende a creare tra il lettore e gli eventi narrati, dato che il narratore della vicenda si trova trent’anni nel futuro. Anche quando la storia entra nel vivo (cioè a partire dal terzo capitolo), la presenza del David quarantenne non scompare. Quest’ultimo si inserisce spesso nella narrazione principale – ma specialmente all’inizio o alla fine di paragrafi e capitoli – con digressioni, considerazioni, flashforward: “That day, on that Rock, I met my adolescence head-on in the person of Megan Loughlin, a stranger two years older than I was, with a sister, a secret, and long red hair. That it seemed so natural to me, that I emerged unshaken and even happy about the experience I think said much for my future possibilities—and of course for hers. When I think of that, I hate Ruth Chandler.”
Nonostante ogni tanto se ne venga fuori con un insight affascinante che sarebbe sfuggito alla sua controparte dodicenne, nella maggior parte dei casi queste digressioni rallentano il ritmo e ci staccano dalla vicenda, col risultato di indebolire la storia. Un’impostazione del romanzo priva di cornice, o con una cornice che veramente – alla maniera di un Cuore di tenebra – dopo le prime pagine scompare definitivamente per lasciar parlare i nudi fatti, senza filtro, avrebbe aumentato l’impatto emotivo della storia e lasciato ai lettori il compito di “decodificarne” il messaggio.

Jack Ketchum

Jack Ketchum si è ispirato anche alla propria infanzia nel New England degli anni ’50, mescolando quei ricordi alla cronaca dell’omicidio.

Questa costruzione della storia ha però anche un grande vantaggio. Il narratore ci anticipa da subito che è successo qualcosa di orribile, di cui lui si è reso complice; la curiosità del lettore si sposta quindi dal cosa al come. Accettare il ritmo placido della prima metà di romanzo, e la lenta introduzione del setting, diventa quindi molto più facile e anche piacevole – perché già sappiamo (e ci viene ricordato periodicamente dal narratore) dove stiamo andando.
Quando Ketchum non si abbandona al raccontato della voce narrante quarantenne, è molto bravo a mostrare. L’ambientazione di The Girl Next Door – una via di periferia di una piccola cittadina del New England, dove le case si affacciano immediatamente nei boschi e nella campagna, e i ragazzi fanno vita all’aperto – ricorda da vicino la bellissima novella mainstream The Body di Stephen King (quella da cui è stato tratto il famoso film Stand By Me). Come King, Ketchum racconta con molto disincanto la vita di un ragazzino degli anni ’50: l’abitudine alle piccole violenze, le spacconate, i giornaletti porno sbiaditi nascosti nei boschi, il prendersi a sassate, il pescare gamberetti nei torrenti con le mani, il torturare piccoli animali con nonchalance, l’essere alla completa mercé dei propri genitori, il tabù del sesso, le ragazze più grandi guardate a vista.

La prima metà del romanzo è molto lenta, vero. Ma è proprio questa graduale immersione nella vita di questi ragazzi di campagna, nei loro giochi e nei loro problemi, che ci fa appassionare al loro destino e rende la seconda metà tanto più agghiacciante. Conosciamo così i tre figli di Ruth: Woofer, il più piccolo, così chiamato per il suo agitarsi frenetico e il suo ululare da bestiolina; Donny, il più sveglio e il migliore amico di David; e Willie, il più grande dei tre, un tipo che ha già la pancia da birra e che il protagonista non esita a chiamare rincoglionito. Conosciamo i due fratelli Morino, i cui genitori italo-americani sono dei bigotti cattolici; e poi Eddie e Denise, due schizzati pericolosi che vengono regolarmente pestati dal padre alcolista; e Susan, la sorellina di Meg, rimasta ferita nell’incidente che si è portato via i loro genitori e ridotta a un fragile cencino costretto a girare in stampelle.
E soprattutto conosciamo Meg. Ketchum qui merita degli applausi, perché attraverso gli occhi di David anche noi ci innamoriamo nel giro di poche pagine di Meg. Ci viene presentata come una ragazza in gamba, che sa acchiappare un pesce a mani nude; una ragazza orgogliosa, ma non arrogante, e con senso dell’umorismo; una ragazza che non è disposta a farsi mettere i piedi in testa o ad accettare le ingiustizie senza combattere. Per questo è tanto più terribile osservare la lenta degradazione di Meg, dai primi alterchi con Ruth, alle prime proibizioni, alle prime accuse ingiustificate, fino alla discesa nello scantinato. Uno dei limiti dell’uso della prima persona al passato, è che la tensione cala perché sappiamo già che il protagonista sopravviverà – ma in The Girl Next Door il problema non sussiste, perché il nostro focus non è sul protagonista ma su Meg e sul suo destino. David è testimone più che fulcro della vicenda.

Stand By Me

Tipo Stand By Me – solo con meno buoni sentimenti e più gore.

Anche questo però non è del tutto vero. David non è semplicemente spettatore – è complice. E in questa ambiguità troviamo l’aspetto forse peggiore del romanzo: l’ambiguità morale del pov. Avevo toccato il tema già l’anno scorso, parlando del romanzo di Alan M. Clarke A Parliament of Crows (con cui questo The Girl Next Door ha diverse somiglianze, a partire dall’essere ispirato a un vero episodio di cronaca nera): una prosa ben scritta deve essere in grado di farti identificare persino con Adolf Hitler nel momento di approvare la soluzione finale. Il romanzo di Clarke, pur avendo per protagoniste tre sorelle assassine seriali, era troppo raccontato perché questo processo si innescasse, e si rimaneva abbastanza freddi di fronte alla narrazione delle loro macabre performance.
Nel romanzo di Ketchum, invece, l’identificazione avviene – ed è come se ci trovassimo, con David, a essere complici della tortura di una ragazza di cui siamo innamorati. La sua psicologia di dodicenne sveglio, ma pur sempre dodicenne, è molto ben resa: a volte sembra rendersi conto dell’orribilità di quello che sta facendo, altre volte è troppo preso dalla novità di questo “gioco”, o dal fatto di trovarsi davanti, per la prima volta nella sua vita, un corpo nudo femminile. Vivere la tortura di Meg attraverso i suoi occhi fa sentire sporchi. Più di una volta, durante la lettura, non riuscivo a credere che David potesse starsene lì impalato e avrei voluto gridargli di intervenire, di fare qualcosa – tutte reazioni che non capita di sperimentare spesso con un libro.

David è anche un tipo molto particolare di unreliable narrator. Nel corso di tutta la prima parte del romanzo, lo vediamo descrivere e dare per scontate cose che a noi, lettori adulti e più consapevoli, suonano come campanelli d’allarme. Il modo sciatto di vestirsi di Ruth; il disordine e la sporcizia che regnano nel suo giardino; il modo in cui stanno crescendo due dei suoi tre figli; le sue reazioni nevrotiche di fronte alle soubrette televisive o alle modelle delle pubblicità sulle riviste; il suo modo di parlare con dei ragazzini. Per David, questi tratti di Ruth sono fantastici, e il fatto che lei sembri trattarli da pari a pari motivo di ammirazione; ma noi come lettori sappiamo che qualcosa non va in lei, e anche che cosa non va in lei, e l’evoluzione della storia ci dà ragione. Le motivazioni per la crudeltà che Ruth riverserà su Meg sono chiarissime – solo che non vengono mai enunciate ad alta voce, perché il David dodicenne non è in grado di afferrarle.
Leggendo alcune recensioni su Amazon, ho trovato diverse critiche al fatto che la psicologia dei personaggi non sia sufficientemente approfondita. Nulla di più falso. Questa convinzione deriva forse da un’eccessiva abitudine a una prosa alla King, dove le motivazioni dei personaggi sono analizzate ancora e ancora per centinaia di pagine. Ketchum, aldilà delle autoanalisi del protagonista, spiega poco delle psicologie dei comprimari – ma queste sono interamente deducibili dai loro gesti e dai loro comportamenti. Da questo punto di vista, il mostrato in The Girl Next Door fa un lavoro eccellente. Inoltre, Ketchum ci dà anche alcune lezioni di psicologia sociale inquietanti e vere, come questo passaggio in cui spiega la graduale degradazione di Meg agli occhi del gruppo:

“From admiration at the sheer all-or-nothing boldness of the act, at the very concept of challenging Ruth’s authority so completely and publicly, we drifted toward a kind of vague contempt for her. How could she be so dumb as to think a cop was going to side with a kid against an adult, anyway? How could she fail to realize it was only going to make things worse? […] It was as though in failing with Mr. Jennings she had thrown in all our faces the very fact of just how powerless we were as kids. Being “just a kid” took on a whole new depth of meaning, of ominous threat, that maybe we knew was there all along but we’d never had to think about before. Shit, they could dump us in a river if they wanted to. We were just kids. We were property. […]
It was as though in failing herself Meg had failed us as well.
So we turned that anger outward. Toward Meg.”

The Girl Next Door 2007

Un altro fotogramma dal film del 2007: Ruth e la sua “famiglia allargata” di mocciosi.

Queste pagine fanno male.
Rispetto a Apeshit, Header, e a tutte le altre storie splatterpunk che abbiamo visto nel corso di questo mese, il livello di violenza è molto più modesto. Ma il contesto quotidiano, l’approccio serio, e l’affezione che l’autore ci ha fatto sviluppare per la vittima, fanno sì che questa lenta, diluita escalation di piccole violenze arrivi a noi lettori come altrettanti schiaffi. La posta in gioco continua a crescere, e si arriva a un punto in cui si è combattuti tra il disgusto che ci spingerebbe a chiudere il libro, e l’adrenalina di andare avanti e vedere perversamente cosa può ancora succedere. A un certo punto, verso la fine del libro, il narratore si rifiuta di mostrare una scena – be’, penso sia stata la prima volta che sono stato grato che ci fosse un raccontato al posto del mostrato.
Qualcuno potrebbe pensare che Ketchum sia un bastardo malato per le idee che sviluppa, ma se si va a guardare la cronaca dell’omicidio di Sylvia Likens si scopre che, ben lungi dall’aver ingigantito la faccenda, l’autore ha edulcorato ciò che è successo realmente; si è rifiutato di riproporre alcune delle sevizie subite dalla controparte reale di Meg. I meccanismi psicologici che si innescano in The Girl Next Door, e portano una famiglia di gente tutto sommato nella  media a diventare degli aguzzini sadici e insensibili, sono qualcosa di reale e diffuso nella società – un interruttore che, date le giuste condizioni, potrebbe accendersi in molti di noi.1

Ricorderete forse l’articolo che ho dedicato al bellissimo saggio Obedience to Authority del sociologo Stanley Milgram, e al suo esperimento sulla capacità degli uomini di infliggere volontariamente dolore a un altro uomo, se a dare l’ordine è un’autorità sufficientemente forte e se si crea una distanza, tra esecutore e vittima, sufficiente da depersonalizzare quest’ultima. The Girl Next Door sembra, per molti versi, una rappresentazione pratica di questa teoria. Ruth è un genitore, e gli altri sono un branco di ragazzini in un’epoca in cui l’autorità genitoriale era sentita con più forza che non adesso: se l’adulto ti dà il permesso, non può essere sbagliato, no? I carnefici del romanzo di Ketchum non sono altro che una buona combinazione di sadismo, insensibilità, ottusità, curiosità infantile e mancanza di immaginazione. Inoltre, il fatto che l’artefice e principale responsabile della violenza sia una donna e non un uomo, ci allontana dalla retorica dell’uomo che abusa la donna (già sento Dago gridare: femminicidio!), per mostrarci la capacità più in generale dell’essere umano di fare del male a un altro essere umano.
Capire questo, rende il romanzo di Ketchum più atroce di qualsiasi orrore cosmico lovecraftiano o bizzarria sovrannaturale alla Mellick – per quanto io per primo sia un amante del fantastico. La totale assenza di elementi fantastici, che fanno di The Girl Next Door un romanzo quasi Mainstream, sono anche l’unica ragione ad avermi spinto a farne una Bonus Track e non un Consiglio. Perché sotto ogni rispetto il romanzo di Ketchum è un capolavoro. Non è certamente una lettura per tutti; ma lo consiglio a chiunque se la senta.
E’ un buon modo, mi sembra, per chiudere questo mese dedicato all’horror.

Caso Sylvia Likens

Il vero caso di Sylvia Likens

 

Dove si trova?
Il caso di The Girl Next Door è uno di quei pochi in cui posso dire a cuor sereno di stare alla larga da Amazon: troverete o l’edizione cartacea (con il paperback a partire da 12 Euro nel momento in cui scrivo, ma si tratta di copie tutte possedute da terze parti, quindi sia la disponibilità sia il prezzo saranno molto fluttuanti), o un e-book che però non è del romanzo originale, bensì della sceneggiatura del film che hanno tratto dal romanzo. Semplificatevi invece la vita, e scaricatevi l’ePub di The Girl Next Door da Library Genesis a questo link.
Paradossalmente, su Amazon è più facile trovare la traduzione italiana (ma solo in cartaceo): 8,42 Euro al momento in cui scrivo, edizioni Gargoyle. Ignoro la qualità di questa traduzione, ma la copertina con tipa mezza nuda in camicia da notte non mi fa ben sperare.

Chi devo ringraziare?
Questa è una di quelle volte in cui sono veramente felice di gestire questo blog. Inizialmente, per il giorno di oggi era previsto un altro articolo, molto meno hardcore. Poi, nei commenti al post Impressioni di Ottobre, Zethani mi ha consigliato di leggere The Girl Next Door. Il fatto che abbia deciso di sostituire il palinsesto originale con l’articolo che avete appena letta, la dice lunga su quanto il consiglio sia stato azzeccato. Ergo: grazie Zethani. Continuate così ^-^
L’articolo che avevo inizialmente scritto per l’ultima entry di Ottobre, comunque, tornerà da qualche parte tra Novembre e Dicembre.

Milgram experiment

La struttura base dell’esperimento di Milgram.

Qualche estratto
I due brani che ho scelto vengono entrambi dalla prima parte del libro, prima che la situazione degeneri. Uno mostra il primo incontro tra il protagonista e Susan, la sorella minore di Meg, ed è una descrizione che mi ha colpito per la sua vividezza e per come imposta il rapporto tra i personaggi; l’altro, un alterco carico di tensione tra Meg e Ruth che dà il via a una delle tipiche riflessioni di David.

1.
When you’re twelve, little kids are little kids and that’s about it. You’re not even supposed to notice them, really. They’re like bugs or birds or squirrels or somebody’s roving housecat—part of the landscape but so what. Unless of course it’s somebody like Woofer you can’t help but notice.
I’d have noticed Susan though.
I knew that the girl on the bed looking up at me from her copy of Screen Stories was nine years old—Meg had told me that—but she looked a whole lot younger. I was glad she had the covers up so I couldn’t see the casts on her hips and legs. She seemed frail enough as it was without my having to think about all those broken bones. I was aware of her wrists, though, and the long thin fingers holding the magazine.
Is this what an accident does to you? I wondered.
Except for the bright green eyes it was almost like meeting Meg’s opposite. Where Meg was all health and strength and vitality, this one was a shadow. Her skin so pale under the reading lamp it looked translucent.
Donny’d said she still took pills every day for fever, antibiotics, and that she wasn’t healing right, that walking was still pretty painful.
I thought of the Hans Christian Andersen story about the little mermaid whose legs had hurt her too. In the book I had the illustration even looked like Susan. The same long silky blond hair and soft delicate features, the same look of sad longtime vulnerability. Like someone cast ashore.
“You’re David,” she said.
I nodded and said hi.
The green eyes studied me. The eyes were intelligent. Warm too. And now she seemed both younger and older than nine.
“Meg says you’re nice,” she said.
Smiled.
She looked at me a moment more and smiled back at me and then went back to the magazine. On the radio Alan Freed played the Elegants’ “Little Star.”
Meg stood watching from the doorway. I didn’t know what to say.
I walked back down the hall. The others were waiting.
I could feel Ruth’s eyes on me. I looked down at the carpet.
“There you go,” she said. “Now you know each other.”

2.
Ruth nodded again. “Come here,” she said.
Meg just stood there.
“I said come over here.”
She walked over.
“Open your mouth and let me smell your breath.”
“What?”
Beside me Denise began to giggle.
“Don’t sass me. Open your mouth.”
“Ruth…”
“Open it.”
“No!”
“What’s that? What’d you say?”
“You don’t have any right to …”
“I got all the right in the world. Open it.”
“No!”
“I said open it, liar.”
“I’m not a liar.”
“Well I know you’re a slut so I guess you’re a liar too. Open it!”
“No.”
“Open your mouth!”
“No!”
“I’m telling you to.”
“I won’t.”
“Oh yes you will. If I have to get these boys to pry it open you will.”
Willie snorted, laughing. Donny was still standing in the doorway holding the cans and jars. He looked embarrassed.
“Open your mouth, slut.”
That made Denise giggle again.
Meg looked Ruth straight in the eye. She took a breath.
And for a moment she suddenly managed an adult, almost stunning dignity.
“I told you, Ruth,” she said. “I said no.”
Even Denise shut up then.
We were astonished.
We’d never seen anything like it before.
Kids were powerless. Almost by definition. Kids were supposed to endure humiliation, or run away from it. If you protested, it had to be oblique. You ran into your room and slammed the door. You screamed and yelled. You brooded through dinner. You acted out—or broke things accidentally on purpose. You were sullen, silent. You screwed up in school. And that was about it. All the guns in your arsenal. But what you did not do was you did not stand up to an adult and say go fuck yourself in so many words. You did not simply stand there and calmly say no. We were still too young for that. So that now it was pretty amazing.

Tabella riassuntiva

Un viaggio atroce nella crudeltà umana. Le intrusioni del narratore quarantenne ostacolano l’immersione.
Personaggi e ambientazione resi alla perfezione.  Il ritmo lento potrebbe innervosire qualcuno.
Crescendo di tensione fino al finale.  Questo tipo di violenza non è per tutti.
Trasmette la realtà del “dolore” meglio di qualsiasi splatterpunk.


(1) Voglio però anche sottolineare come il romanzo di Ketchum non sia una messa in fiction del caso Likens. Nonostante i legami con l’avvenimento reale siamo molto forti, sono solo stati materiale d’ispirazione per scrivere una storia molto più personale.Torna su

Paranoia Agent

Paranoia AgentRegista: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Satoshi Kon / Seishi Mikanami
Titolo originale: 妄想代理人 (Mōsō Dairinin)
Genere: Horror / Crime / Slipstream

N° Episodi: 13
Anno: 2004

La disegnatrice Tsukiko Sagi è una piccola star. Da quando ha creato il personaggio di Maromi, un cagnetto rosa super-deformed, lo studio per cui lavora ha raggiunto una fama inimmaginabile. Tutti amano Maromi, grandi e piccini; ci sono gadget di Maromi, zaini di Maromi, serie animate di Maromi. Ma ora, dopo anni di successo ininterrotto dovuto a un unico personaggio, lo studio ha chiesto a Tsukiko di inventare una nuova mascotte. E lei è terrorizzata. Quella notte, mentre rincasa da sola, sente che qualcuno la pedina – l’ultima cosa che vede, mentre le luci dei lampioni si spengono, e prima di essere tramortita, è un ragazzino su pattini a rotelle dorati, con una visiera a coprirgli il volto, un largo sorriso e una mazza da baseball. Si risveglierà in ospedale.
L’aggressione a Tsukiko sembrerebbe un caso isolato, se non fosse che, la notte dopo, un giornalista scandalistico che si era interessato al suo caso viene a sua volta malmenato dal piccolo aggressore sorridente. E poi ci sono una terza, una quarta, una quinta vittima. Ikari e Maniwa, i due investigatori assegnati al caso, si troveranno ben presto invischiati in un gioco più grande di loro, mentre gli attacchi del misterioso ragazzino con la mazza da baseball si fanno di notte in notte più violenti; e la città di Tokyo cade nell’ossessione e nella paranoia.

Quando si parla di lungometraggi d’animazione giapponese, il primo nome che mi viene in mente non è quello di Miyazaki, ma quello di Satoshi Kon. Nella sua breve carriera (è morto di tumore a quarantasette anni, manco fossimo nell’Ottocento…) ha porodotto una piccola serie di perle weird; storie che paiono un incrocio tra Philip K. Dick e una sessione psicanalitica degenerata nell’horror, storie in cui l’allucinazione e il sovrannaturale si inseriscono a poco a poco nel tessuto della realtà e non sai mai dove finisca uno e cominci l’altro. Una sola volta si è cimentato con una serie anime, e ne è uscito questo Paranoia Agent. Che, dopo un paio di episodi, si capisce subito non essere un anime dalla struttura classica, ma una roba sperimentale che gronda auteur da tutti i pori – nel bene e nel male.
Paranoia Agent è una storia corale e dalla struttura a episodi. Pur avendo una continuity interna e un numero limitato di personaggi ricorrenti – l’illustratrice Tsukiko, la prima vittima, e i due investigatori Ikari e Maniwa – ogni puntata è un racconto autoconclusivo, centrata su uno o più personaggi che si trovano a fronteggiare Shounen Bat (lett. “Il ragazzo con la mazza da baseball”). Ogni episodio è un’indagine psicologica, in cui siamo introdotti alla vita e ai problemi nascosti del suo protagonista, fino al climax dell’incontro/scontro con l’aggressore. Al tempo stesso, ogni puntata porta anche avanti la trama principale, aggiungendo un tassello all’indagine di Ikari e Maniwa – mano a mano, ciascuno di questi episodi di violenza permetterà ai due investigatori di arrivare più vicini all’aggressore misterioso e alla risoluzione del caso. Forse.

Opening di Paranoia Agent. Creepy as hell.

Uno sguardo approfondito
Molte delle storie raccontate in Paranoia Agent sono estremamente affascinanti. Il secondo episodio, per esempio, è dedicato alla storia di un ragazzino, Yuuichi, bello e popolare, abituato ad essere sempre il primo della classe e ad avere la stima di tutti, che si trova ad avere la sfiga di assomigliare tantissimo (nell’aspetto e nell’abbigliamento) a Shonen Bat. Di colpo, compagni di classe e vicini di casa cominciano a pensare che potrebbe essere lui l’aggressore – la sua popolarità crolla in un attimo, comincia a essere bulleggiato e tenuto a distanza, e non ha idea di come fermare tutto questo.
Il terzo episodio è dedicato invece alla tutrice di Yuuichi, che dietro una facciata di ordine e perbenismo nasconde uno sdoppiamento di personalità. E poi, ancora: un poliziotto che di notte fa affari con la yakuza, una donna afflitta fin dall’infanzia da una malattia che la costringe a casa, un gruppo di due uomini e una ragazzina uniti dalla determinazione a suicidarsi insieme. Completano il quadro due strani figuri: un vecchietto che vive in un ospizio, e che passa tutto il suo tempo in uno stato di catatonia, a disegnare con un gesso un’equazione in cui parrebbe celarsi il pattern delle aggressioni di Shonen Bat; e un’altra vecchietta, una silenziosa senzatetto che potrebbe essere l’unico testimone oculare della prima aggressione.

L’analisi psicologica e l’interplay fra i personaggi è di certo l’elemento più importante di Paranoia Agent. Fortunatamente, tutti i personaggi sono ben caratterizzati, a partire dai protagonisti. L’illustratice Tsukiko sembra essere progettata per stare sul cazzo allo spettatore, pur essendo la vittima: debole e riservata, risponde a monosillabi, non sa interagire con gli altri, non collabora con chi vorrebbe aiutarla, sembra essere completamente concentrata su sé stessa, al punto dell’alienazione. Maniwa e Ikari sono un’ottima coppia: il primo è l’investigatore giovane, il rookie, amante delle speculazioni metafisiche, pronto a intraprendere approcci non ortodossi alle indagini e incline al sovrannaturale; il secondo un poliziotto navigato, vicino alla pensione, che crede nel buon senso, nei casi “normali” con moventi “normali” e colpevoli “normali”, e che rimpiange i bei tempi andati in cui tutto era più semplice. Il modo in cui evolve il rapporto tra questo triangolo di personaggi nel corso delle puntate è affascinante.
Più in generale, nell’opera di Satoshi Kon c’è un’onestà nel trattare argomenti difficili, e in cui scadere nella retorica è un attimo – l’ipocrisia, l’esclusione sociale, la frustrazione, lo stress lavorativo, il pettegolezzo, la vergogna, la rimozione collettiva – che non si incontra spesso negli anime. Tanto nelle serie leggere (come gli shonen) quanto in quelle drammatiche, c’è spesso una tendenza alla stilizzazione, al cliché, all’esagerazione grottesca (sì, Madoka Magica, ce l’ho anche con te). Paranoia Agent sta invece in quell’olimpo rarefatto di anime, come Evangelion (la serie originale, non il Rebuild), in cui le reazioni delle persone paiono realistiche e credibili, anche quando impazziscono.

Paranoia Agent - Ottavo episodio

I protagonisti dell’ottavo episodio. In questo anime non ci sono persone normali.

Certo, molti potrebbero essere infastiditi dalla struttura frammentaria dell’anime e dall’assenza di un protagonista riconoscibile che faccia da catalizzatore della storia. Gli episodi centrali della serie, in particolare, raccontano storie che inizialmente appaiono del tutto scollegate dalla trama principale (solo verso la fine si colgono i collegamenti), e l’assenza di qualsiasi personaggio già incontrato precedentemente disturba (“ma questo cosa c’entra? Cosa sto guardando?”). Alla fin fine, questi episodi non mi sono dispiaciuti e penso arricchiscano l’universo di Paranoia Agent 1 – ma qualche collegamento in più con la trama principale non avrebbe fatto schifo.
Cosa più importante: nonostante il carattere episodico, il senso di unità e progressione della trama è sempre molto forte. Di puntata in puntata, non solo le vite dei tre protagonisti, ma l’intera Tokyo subirà dei cambiamenti irreversibili – e alla fine della serie si avrà l’impressione di essere in un luogo molto diverso rispetto a quello da cui si è partiti. Lo stesso Shonen Bat muterà profondamente in proporzione all’aumento della sua popolarità, facendosi più violento di aggressione in aggressione, fino ad arrivare all’omicidio e alle stragi. Sino al climax delle ultime tre puntate, in cui la serie abbandona la struttura autoconclusiva per imbastire uno showdown tra protagonisti e antagonista.

Qualche rammarico c’è. I personaggi secondari, una volta conclusa la puntata a loro dedicata, scompaiono quasi del tutto dalla storia, mentre sarebbe stato interessante vedere cosa ne è delle loro vite dopo il climax dell’incontro con Shonen Bat – chi rimane soffocato dai propri problemi, chi riemerge, e come? Prendiamo il caso di Yuiichi: cosa ne sarà di lui quando, nella seconda metà della serie, sarà evidente al di là di ogni dubbio che non può essere lui Shonen Bat? Concedendosi qualche episodio in più invece dei soli tredici che dura, Satoshi Kon avrebbe potuto riannodare tutti i fili del suo universo narrativo e portare l’intero cast fino alla fine della storia; purtroppo non sapremo mai cosa ne è di molti di loro.
Quanto al finale, è il tipico Satoshi Kon goes wild che gli amanti del regista avranno ben presente dagli altri suoi film – un degenero completo in una serie di avvenimenti uno più folle dell’altro, in cui non si capisce più cosa è reale e cosa non lo è, cosa è allucinazione e cosa è puro e semplice sovrannaturale. Nonostante qualche riserva sulla risoluzione del mistero dietro Shonen Bat 2, il finale mi è piaciuto – dirò solo che ho guardato gli ultimi tre episodi uno dietro l’altro, come in trance.

Paranoia Agent Maromi

Il cane Maromi. E’ pure più inquietante di Shounen Bat.

Paranoia Agent è un capolavoro. Se non vi farete intimidire dalla struttura sperimentale e dall’apparente assenza di un arco narrativo tradizionale, scoprirete una storia capace di regalarvi tensione, personaggi immersivi e appassionanti e diversi momenti creepy, immersi in una visione lucida della realtà e dei rapporti umani. L’assenza di gore e di scene veramente violente – qualche momento sanguinolento c’è, ma è poca cosa – rende inoltre la visione accessibile a tutti.
Di tutte le opere che ho presentato nel corso di questo mese e che ancora presenterò, Paranoia Agent è anche l’unica che si presti davvero a un’interpretazione metaforica. Alla fin fine, Satoshi Kon crea un grande affresco sociale; la sua storia vuole parlarci del disagio dell’uomo moderno (in particolare giapponese, ma non solo), e dare forma alle sue ansie e paure. La sua è la tipica opera di cui si dice che “fa pensare”. Ma no, non mettete mano alla pistola – perché Kon lo fa nel modo giusto, mostrandoci una serie di casi concreti e andando dal particolare al generale, e soprattutto confezionando una storia che ha comunque perfettamente senso, e ritmo, e tensione di per sé. Paranoia Agent è quel tipo di opera che, se avete un minimo di sensibilità, a fine visione non vi lascerà completamente uguali a com’eravate prima di vederla.

Chi devo ringraziare?
La prima persona a segnalarmi questo anime fu nientemeno che Gamberetta, intorno al 2010 o 2011, quando ancora il blog Gamberi Fantasy era un poco attivo. Mi segnai il titolo ma lo misi da parte.
L’ho riscoperto invece quest’anno, quando, stimolato da un mio amico, sono andato a recuperarmi tutte le opere di Satoshi Kon. E, che dire – Gamberetta aveva ragione.

La sigla di chiusura di Paranoia Agent

Tabella riassuntiva

Una serie atipica che coniuga tensione sovrannaturale e indagine sociale. La natura episodica potrebbe disturbare qualcuno.
Ottima caratterizzazione psicologica dei personaggi.  Le storyline dei personaggi secondari vengono abbandonate.
Adatto anche a chi si spaventa facilmente.
Shonen Bat è un personaggio geniale.


(1) SPOILERS AHEAD.
In particolare mi sto riferendo agli episodi otto, nove e dieci, dedicati rispettivamente al club dei tre suicidi, alle vicine di casa pettegole, e allo studio d’animazione incaricato di girare l’anime di Maromi. Oltre a raccontare le storie individuali di questi personaggi, questi episodi muovono la trama principale mostrando la graduale trasformazione di Shonen Bat.
Siamo infatti arrivati a un punto in cui – subito dopo l’omicidio del copycat Kozuka in maniera chiaramente sovrannaturale – Shonen Bat è diventato talmente potente da non aver più bisogno di un legame diretto tra le varie vittime per poter colpire. Non è più indispensabile che i personaggi degli episodi precedenti compaiano, e infatti non compaiono. Assistiamo, invece, all’ingigantirsi del mito dietro Shonen Bat, e di conseguenza alla sua trasformazione da ‘semplice’ serial killer a leggenda metropolitana, fino a divinità mitologica in grado di essere ovunque in qualsiasi momento e prendere qualunque forma voglia.Torna su


(2) Again, SPOILERS AHEAD.
Scopriamo il passato di Tsukiko e della morte del vero cagnolino Maromi negli ultimi due episodi. Nel penultimo, la faccenda viene spiegata a Maniwa per accenni, ma lasciandola aperta a più interpretazioni. Io, ovviamente, ci avevo messo la mia – e la trovo più figa di come poi si scopre essere andata realmente.
Io mi ero convinto che ad ammazzare Maromi fosse stata Tsukiko stessa, in un raptus. Dato il suo carattere introverso e passivo-aggressivo, non era così impensabile. Dopodiché, non potendo accettare ciò che aveva fatto, aveva rimosso la propria responsabilità nel gesto trasferendo la colpa su una figura immaginaria, quella del ragazzino con la mazza da baseball. In questo modo, aveva “esternalizzato” la propria parte malvagia, che aveva finito per prendere vita propria. Il ritratto di questa ragazzina, omicida e folle, mi piaceva molto.
Alla fine invece, non so se per mancanza di coraggio o perché era la sua idea fin dall’inizio, Satoshi Kon opta per il cliché del pirata della strada: Tsukiko ha la responsabilità di aver lasciato inavvertitamente finire il cane sotto la macchina, ma non è direttamente colpevole della sua morte. La cosa mi ha un po’ deluso.Torna su