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Indiegames: Hatoful Boyfriend

Hatoful BoyfriendSviluppatore: Hato Moa, Jeff Tanton (remake)
Casa di sviluppo: Pigeonation Inc., Mediatonic (remake)
Genere: Visual novel / Dating-sim
Genere Narrativo: Slice of Life / Slipstream / Distopia / Mystery
Motore: Famous Writer, Unity (remake)
Piattaforme:
Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2011, 2014 (remake)

The most splendid and greatest academy of the pigeon, by the pigeon and for the pigeon.

Supponiamo che, in seguito a misteriosi esperimenti, gli uccelli siano divenuti intelligenti. Supponiamo che, grazie all’attività di uccelli attivisti, i pennuti abbiano acquisito pari diritti degli esseri umani, entrando a far parte della nostra società. Supponiamo ancora che voi, una normalissima ragazza giapponese, siate riusciti a farvi ammettere alla celebre St. Pigeonation, la più prestigiosa scuola superiore per uccelli, diventando a tutti gli effetti la prima studentessa umana dell’istituto. E mettiamo caso che, per bizzarro che possa sembrare, il vostro piccolo cuore puro di fanciulla palpiti al solo pensare a quei piumaggi delicati, a quelle zampette aggraziate e a quei becchi ricurvi… be’, complimenti, significa che siete i protagonisti di Hatoful Boyfriend, il primo simulatore di appuntamenti tra esseri umani e volatili!1

I simulatori di appuntamenti, lo sanno anche i sassi, sono un genere videoludico profondamente amato dai giapponesi. Ogni anno centinaia di nuovi titoli invadono il mercato nipponico, ad opera tanto di grandi case quanto di piccoli sviluppatori indipendenti, e coi tagli più diversi: dalle avventure romantiche a quelle più esplicitamente sporcaccione, da storie più leggere ed escapiste (trova e conquista la ragazza dei tuoi sogni!) a storie più serie e drammatiche. La struttura di base è nella maggior parte dei casi la stessa: il protagonista è uno studente delle superiori – poco importa che sia una normale scuola giapponese, un’accademia militare per piloti di robottoni, o la scuola di magia di un mondo fantasy – che tra una lezione e l’altra avrà l’opportunità di conoscere tutta una serie di partner dell’altro sesso. Una serie di biforcazioni nella trama gli permetteranno di scegliere su quale partner concentrare i propri sforzi di seduzione; a conquista avvenuta, il gioco finisce.

Con un framework così radicato e riconoscibile, è inevitabile che i dating-sim diventino la base per infinite variazioni e sperimentazioni. Sono giochi molto semplici da sviluppare, consistendo in genere di riquadri testuali su sfondi statici (la parte più delicata nello sviluppo di giochi simili è l’art design con cui sono realizzate le figure dei personaggi), per cui anche chi è a digiuno di programmazione può cimentarsi e svilupparne uno. Il che è esattamente quanto è accaduto nel nostro caso.
La prima incarnazione di Hatoful Boyfriend nasce nel 2011 dalle mani di una mangaka soprannominatasi Hato Moa. È uno stupido giochetto in Flash fatto in mezza giornata come scherzo per il Pesce d’Aprile; i personaggi, invece che essere disegnati, consistevano di foto ritagliate e incollate alla bell’e meglio di uccelli realmente fotografati dall’autrice in un parco di Kobe. Ma l’idea di base è talmente assurda che la community impazzisce, e invoca un gioco vero. Vengono accontentati: nel corso dell’anno, Hato Moa rilavora al progetto e pubblica il prodotto completo a fine ottobre. Il pubblico impazzisce di nuovo. A febbraio 2012 esce la prima edizione in inglese, e Hatoful Boyfriend varca ufficialmente i confini nazionali.

Hatoful Boyfriend - Torimi Cafè

Preparatevi a ridefinire il vostro concetto di sexy.

Non è un dato banale. Da una parte, la comunità indie giapponese è abbastanza isolata e sono pochi i giochi indipendenti che escono dai circuiti nazionali. Dall’altra i dating-sim, pieni come sono di reference alla cultura e alla vita quotidiana giapponesi (oltre che essere soffusi di un’aria di sfigataggine particolarmente intensa tra noi occidentali), non hanno molto mercato all’estero. Quelli che si conquistano una localizzazione inglese, risaltano per qualche caratteristica particolare o perché fanno crossover con altri generi più popolari. È il caso ad esempio di quei GDR che integrano componenti da dating-sim, come nella celebre serie di Persona della Atlus: di giorno siamo normali studenti e cerchiamo di farci degli amici, di notte andiamo a combattere demoni.
Non Hatoful Boyfriend, che per struttura è una semplicissima visual novel scolastica, solo con piccioni e colombe al posto degli esseri umani. Per la precisione è un otome, un sottogenere tradizionalmente orientato a un pubblico femminile eterosessuale: la protagonista è una ragazza – non è possibile decidere il sesso – e tutti i possibili partner sono maschi (non che la cosa si noti più di tanto, essendo degli uccelli…).

Nel frattempo – siamo arrivati al 2014 – il gioco è diventato un fenomeno di culto per gli psicopatici di mezzo mondo. Se ne accorge la Devolver Digital – distributori, tra l’altro, degli Hotline Miami – e insieme a Hato Moa lavora a nuova edizione internazionale rimasterizzata. È questa l’edizione che è stata pubblicata su Steam, e quella a cui più facilmente avrete l’opportunità di giocare.2

Cos’ha fatto, insomma, questo Hatoful Boyfriend, per meritarsi un tale successo? Ha semplicemente preso un’idea demenziale e l’ha schiaffata su un template consolidato, facendo un gioco che è tutta superficie? Merita allora la critica che viene mossa di continuo alla Bizarro Fiction, ossia di essere del banale weird for the sake of weirdness? Amo l’assurdo – credo sia ormai ampiamente assodato – e non potevo quindi esimermi dal verificarlo di persona. Come lunedì scorso abbiamo inaugurato l’anno con la demenzialità di Alieni coprofagi dallo spazio profondo, così oggi proseguiamo con una nuova opera di sensibilità Bizarro. Ecco cos’ho scoperto.

Hatoful Boyfriend - Maid Cafe

Un gioco che ti stupra prima gli occhi e poi il cervello.

Uno sguardo approfondito
Dopo i primi minuti di gioco Hatoful Boyfriend conferma la sensazione iniziale di essere, nonostante il successo, una grezzata di livelli cosmici – almeno per chi, come me, non mangia visual novel romantiche a colazione. Il gioco comincia con il primo giorno di scuola della nostra piccola protagonista al secondo anno di liceo: qui vengono introdotti tutti i personaggi principali, ossia gli uccelli tra cui dovremo scegliere la nostra liaison sentimentale. Le tipologie di partner prendono a piene mani dagli stereotipi degli anime: abbiamo l’amico d’infanzia, lo sportivo, il ragazzino introverso, il compagno di classe ricco e arrogante, il playboy, il professore pasticcione, e via dicendo.
L’interazione è davvero minima. Ogni tanto, a partire dal secondo giorno di gioco, avremo la possibilità di fare delle scelte che ci avvicineranno all’uno o all’altro partner – ad esempio a quale club iscriverci, con chi parlare durante la gita scolastica, chi invitare al festival… – ma si tratta di un numero molto limitato di bivi. Al di fuori di queste opzioni offerte dal gioco non abbiamo alcuna possibilità di intervento nella storia, il che rafforza l’idea di una storia su binari. Esistono anche tre parametri da potenziare tra cui scegliere – saggezza, robustezza e carisma – ma dopo qualche partita appare chiaro che la loro utilità è molto limitata (servono soltanto a migliorare l’affinità con un numero estremamente ridotto di personaggi). Il livello di sfida è minimo, perché una volta deciso su quale partner concentrare le energie e il tempo, le risposte giuste sono estremamente intuitive.

Il gioco si scandisce in tre parti, corrispondenti ad altrettanti quadrimestri dell’anno scolastico giapponese. Il primo – quello primaverile-estivo – è quello in cui ci vengono introdotti i vari personaggi e dobbiamo decidere su quale puntare, escludendo progressivamente gli altri (semplicemente trascurandoli). Nel secondo, che comincia al termine della pausa estiva, abbiamo ormai deciso il nostro partner e si tratta di conquistarlo trascorrendo del tempo con lui. Nella terza fase raccogliamo ciò che abbiamo seminato, si arriva alla proposta d’amore e si sblocca il finale: il gioco si conclude nel momento in cui conquistiamo l’uccello prescelto. E qui incontriamo un nuovo problema – la conclusione e lo scorrere dei titoli di coda del gioco arriva in modo così brusco e inaspettato, rafforzando l’idea di stare giocando a un’opera poco rifinita. Non si arriva nemmeno alla fine ufficiale dell’anno scolastico!
Se dalla struttura di gioco passiamo agli aspetti più tecnici, la situazione non migliora. Le animazioni sono quasi assenti. Le musiche sono anonimi pezzi di repertorio (nel senso che sembrano prese da una library a casaccio) e nella maggior parte dei casi sembrano dei midi dell’era Super Nintendo. Pare che in questo Hatoful Boyfriend non si discosti di molto dalla maggior parte delle visual novel – almeno da quelle artigianali – ma bisogna ammettere che, messo di fronte ad altri giochi narrativi del circuito indie (da The Stanley Parable a Gone Home) il paragone appare davvero impietoso.

Hatoful Boyfriend - Tanabata

Il tipo di scelte che ti aspetteresti da un simulatore di appuntamenti. Se ve lo state chiedendo, sì: anche questa scelta influisce sul finale.

È quindi notevole che, nonostante quest’aria grezza, così poco rifinita, e queste meccaniche semplici fino alla stupidità, la storia e il mondo di gioco catturino così tanto. Prima di rendermene conto, avevo giocato per due ore di fila e sbloccato i finali di due personaggi diversi.
Una prima ragione di interesse è proprio nei personaggi. Aldilà di alcune route pensate esplicitamente for comedy – come quella di Okosan, colomba atleta ossessionata dalla ricerca del budino perfetto – i possibili partner di Hatoful Boyfriend rivelano, sotto la superficie dello stereotipo, personalità complesse e problemi seri. Intrecciando relazioni con ciascuno di loro toccheremo temi che spaziano dalla depressione e il suicidio, al conflitto tra doveri di famiglia e ambizioni personali, alla difficoltà di lasciare andare la persona amata, passando per gli ostacoli di una relazione sentimentale tra un essere umano e un uccello (e non oso immagine gli ostacoli a livello sessuale, che il gioco saggiamente non tocca neanche…). Al contrario di quello che ci si aspetterebbe da un dating-sim, inoltre, non tutte le route si concludono con l’avvio di una relazione nel senso convenzionale del termine, anche sbloccando il finale migliore; semplicemente, ci dice il gioco, alcune persone non sono fatte per stare insieme a quel modo, anche se si vogliono bene. Il che è insolitamente maturo per un genere di giochi escapista come questo.

Questo dato, di per sé, eleva Hatoful Boyfriend al di sopra del simulatore di appuntamenti medio – un genere, er, non particolarmente celebre per la sua qualità narrativa – ma dirà poco a un consumatore abituale di libri e film di buona qualità. È facile risaltare nel tuo pratino, se i tuoi dirimpettai sono dei mongoloidi. Per i non appassionati di visual novel giapponesi, il vero fascino del gioco sta piuttosto nella cura e nella strana presentazione del suo worldbuilding. In un certo senso, infatti, Hatoful Boyfriend è la negazione stessa dell’infodump. Veniamo scaraventati in questo mondo di strana convivenza tra specie diversi, unici esseri umani ammessi in una scuola di uccelli intelligenti, senza alcuna spiegazione di come ci siamo riusciti.
Il background del mondo di gioco ci viene mostrato gradualmente sullo sfondo del gioco di appuntamenti, mediante allusioni e immagini ben scelte. Uno dei primi giorni di gioco, ad esempio, vediamo la nostra protagonista che si sveglia a casa sua: una caverna spoglia in aperta campagna. Lei stessa parla di sé come di una “cacciatrice-raccoglitrice”, in antitesi ai suoi compagni uccelli. Una parte della città appare in rovina, come se ci fosse stata una guerra. Alcuni eventi nella scuola ci fanno scoprire, ancora, che gli uccelli non sono sempre stati intelligenti ma lo sono diventati in tempi relativamente recenti (il che lascia immaginare che il mondo di gioco sia in effetti il nostro mondo, in un futuro prossimo). Sappiamo che gli esseri umani esistono ancora e intrattengono rapporti con gli uccelli, ma nel corso del gioco non ne incontriamo mai un altro. Le relazioni tra le due specie appaiono pacifiche, almeno all’interno della scuola, ma i nostri compagni non cesseranno mai di rimarcare in un modo o nell’altro che noi e loro non apparteniamo alla stessa razza. La situazione che si viene creando è insieme assurda, esilarante e inquietante.

Hatoful Boyfriend - Punkgeon

La vita non è sempre rose e fiori alla scuola di St. Pigeonation.

E qui entra in gioco la meccanica narrativa peculiare di Hatoful Boyfriend: lo scoprire, poco alla volta, cosa c’è sotto la superficie del mondo di gioco, cosa è stato nascosto al giocatore. Ogni volta che si completa il finale di un personaggio, nel menu principale si sbloccano dei documenti segreti che lasciano capire che nella scuola non tutto è come sembra. Nuove opzioni e route nella storia principale si aprono mano a mano che i personaggi più semplici vengono completati (è interessante notare, ad esempio, che nelle primissime partite non si può scegliere di prestare servizio nell’infermeria della scuola). Quello che era un semplice simulatore di appuntamenti assume le tinte di un mystery investigativo. E solo quando tutte le route di specifici personaggi chiave sono state completate, sbloccheremo un’ulteriore storyline completamente diversa dalle altre, dalle tinte molto più macabre, e che promette di rivelare tutti i segreti di questo mondo futuro in mano agli uccelli…
È questa struttura a matrioska del mondo di gioco, dove sotto uno strato narrativo ce n’è sempre un altro più profondo, a spingere l’ignaro giocatore a ricominciare ancora e ancora l’anno scolastico a St. Pigeonation. E scoprire, in questo modo, che anche le idee più assurde e le trovate apparentemente più gratuite – dalla stupidità imbarazzante di Okosan alle allucinazioni da JRPG di Anghel, passando per le improbabili dicerie che circolano sull’infermeria della scuola – sono in realtà collegate e hanno senso anche aldilà della gag passeggera. Certo: il worldbuilding di Hatoful Boyfriend non è perfetto, ma non si può non apprezzare la volontà dell’autrice di far quadrare tutti i conti.

Il prezzo da pagare per scoprire quanto è profonda la tana del bianconiglio è la ripetitività dell’esperienza, perché ovviamente il grosso del gioco, scandito nei suoi periodi dell’anno, rimane uguale – fatta salva la storia specifica del partner che avremo deciso di sedurre volta per volta. Per nostra fortuna, bisogna dire che il ritmo del gioco è sempre abbastanza alto, una partita dal primo giorno di scuola al finale dura generalmente meno di un’ora, e le partite sono intrise di quell’umorismo ritardato tipico giapponese che tanto ci piace. Il solo vedere le foto male appiccicate degli uccelli che sporgono dalle finestre di testo e ci fanno proposte sentimentali con assoluta serietà è abbastanza demenziale da risollevarci il morale anche nelle giornate peggiori.
Hatoful Boyfriend
è un’opera assurda dalla testa ai piedi, che ti cattura con la sua stupidità e poi ti tiene avvinghiato con lo strano worldbuilding e il bisogno di svelare i suoi misteri. Come Alieni coprofagi è pensato per solleticare gli amanti della Bizarro Fiction, anche se ovviamente toccando corde diverse.  Non è un capolavoro, soprattutto sul piano tecnico, ma una piccola gemma narrativa che vale la pena provare – magari quando siamo scazzati col mondo e non vogliamo fare niente di più complicato.

Hatoful Boyfriend - Blaster

…ahem.


(1) Nonostante il gioco reiteri più e più volte, anche nei nomi del luogo, la parola ‘piccione’ (‘Hato’ in giapponese significa propio piccione), la scuola e il mondo di gioco in generale ospitano diverse specie di pennuti. Non solo piccioni dunque, ma anche colombe, pettirossi, parrocchetti, all’insegna dell’amore libero e interspecie.Torna su


(2) È sempre sull’edizione di Steam che è stata scritta questa mia recensione. Da allora, è stata distribuita su PS4 e XboxOne una nuova versione del gioco ulteriormente espansa (ad esempio, con un nuovo partner). Preciso da subito che non ho provato questa  nuova versione.Torna su

Indiegames: MirrorMoon EP

Mirrormoon EPSviluppatore: Pietro Righi Riva, Nicolò Tedeschi, Paolo Tajé
Casa di sviluppo: Santa Ragione
Genere: Esplorazione / Puzzle Game / Art Game
Genere Narrativo: Science Fiction / Mystery

Motore: Unity Engine
Piattaforme:
Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2013

I am slowly learning to travel in space…

Mi risveglio, solo, nella cabina di pilotaggio della mia astronave. Le luci sono spente, e dai vetri della cabina vedo le stelle fuori. La cabina è troppo stretta per muovermi, posso sono interagire con i pulsanti e i display di fronte a me. Premo un tasto, le luci si accendono. Premo altri tasti, tutti i monitor entrano in funzione e indicano la mia posizione in questa galassia, in orbita attorno a una grossa stella. Premo un ultimo tasto, e la navicella mi teleporta su un pianeta in orbita attorno alla stella. Con me un unico strumento, una pistola dall’uso sconosciuto.
Il pianeta è un sasso piccolo, liscio, rosso e vuoto. In orbita, torreggiante sopra di me, la luna del pianeta – un corpo nero e liscio, circondata da un alone rossastro, che pare un’esatta replica del pianeta su cui mi trovo. Sulla superficie del satellite ci sono tre piccolo simboli – uno sembra una freccia, gli altri sono indecifrabili. All’orizzonte, vedo una strana costruzione azzurrastra, la forma di una piramide. Mi avvicino. E qui arriva lo shock: il simbolo della freccia sulla superficie della luna si muove con me. Quella freccia indica me, e una delle due altre icone la piramide verso cui mi sto dirigendo. La luna è una mini-mappa; uno specchio del pianeta su cui mi trovo.

Arrivo alla costruzione azzurra. La costruzione è fatta di pura luce, posso passarci attraverso. All’interno, una piccola piramide rossa fluttua sopra un piedistallo; non appena mi avvicino, come vinta dall’attrazione gravitazionale della bocca della mia pistola, ci si attacca. Che cos’è?
Mi allontano dalla piramide, e faccio quattro passi su questo pianeta vuoto. Non impiego molto a percorrere il periplo del pianeta – è davvero molto piccolo – ma non appena la luna riappare sopra l’orizzonte, mi accorgo di una cosa: posso ruotarla. Dev’essere il potere della piccola piramide. “Scorro” il satellite, per studiare la posizione di tutte le icone che dovrebbero corrispondere ad altrettante costruzioni sul pianeta. Calcolo il percorso per arrivarci. Mi metto in moto.
Ma è proprio quando comincio ad acquistare confidenza col pianeta e con le meccaniche di questo mondo, proprio quando il terzo artefatto si aggancia alla mia pistola, che arriva la sorpresa. Punto la pistola – che ora sembra un cannone – sul satellite. Il satellite comincia a vibrare, a pulsare. Sposto il braccio – e sono avvolto dalla luce. Ho spostato la luna. Posso muoverla dove voglio. E ora guardo dritto in faccia il sole. E di colpo è giorno.
C’è ancora molto da fare.


Trailer di lancio di MirrorMoon EP

Ho un rapporto ambivalente con quei giochi etichettati come “art game”. In teoria dovrebbero essere proprio il tipo di cosa che mi piace: produzioni sperimentali che, abbandonando del tutto l’ottica commerciale – ossia ideare un gioco in funzione dei gusti dell’audience al quale lo si vuole vendere – provano a fare qualcosa che non si è mai fatto prima, per scoprire se si possa spostare un po’ più in là il confine di ciò che un videogioco può essere. In realtà, si traducono spesso nell’equivalente di buona parte dell’arte astratta post-moderna: prodotti autoreferenziali che solo lo sviluppatore e i suoi amici sono in grado di capire (o fingere di capire), creati al solo scopo di ammantare l’artista di un aura da auteur. Sono una posa e non un’opera sostanziale.
A una prima impressione, MirrorMoon Extended Play potrebbe sembrare questo genere di cosa. Uscito a settembre 2013 dopo un anno abbondante di gestazione, è un gioco che inizialmente lascia spaesati – ci si ritrova senza istruzioni in un ambiente di gioco insolito e difficile da codificare. Con una visuale in prima persona e una pistola alla Portal che sbuca dall’angolo destro dello schermo, uno si aspetterebbe di essere di fronte a uno strano puzzle game, solo che non si capisce in cosa consiste l’enigma né quale sia l’obiettivo. Fa spazientire in fretta, e se lo si gioca nello stato mentale sbagliato verrà voglia in due minuti di chiuderlo e attaccare un più rassicurante Minecraft o uno Spelunky.
Eppure, questo gioco mi ha toccato. E il fatto che periodicamente senta il bisogno di tornare a giocarci deve significare qualcosa.

La prima cosa che lascia spaesati, atterrando dalla navicella sul primo pianeta, è lo stile: una grafica minimalista e poligonale, con pochi colori netti – il nero, il bianco, il rosso, l’azzurro – che si stagliano l’uno contro l’altro, linee spezzate, profili squadrati. Il pianeta è una superficie spoglia e tutta uguale, sulla quale ci si smarrisce immediatamente se si perdono i pochi punti di riferimento, dati da edifici traslucidi fatti anch’essi di linee nette e squadrate. L’intero mondo di gioco è un aggregato quasi cartoonesco di linee, angoli e figure geometriche.
Secondo fattore disturbante è la visuale di gioco, o meglio, il fatto di non aver alcun controllo su di essa. Possiamo muoverci nelle quattro direzioni, e ruotare lo sguardo sull’asse orizzontale, ma non possiamo alzare né abbassare la testa – il che è abbastanza problematico in un gioco in cui dobbiamo costantemente tenere d’occhio il cielo, e la luna sopra di noi. Più che una scelta stilistica, hanno spiegato gli sviluppatori in un’intervista, si è trattato in questo caso di un’esigenza tecnica per far funzionare il resto dell’ambiente di gioco. Nondimeno, il risultato è che il nostro alter-ego vede sempre la stessa porzione di cielo (non potendo spostare lo sguardo), e quindi per avere davanti agli occhi il satellite saremo costretti a spostarci fisicamente lungo la superficie del pianeta fino ad averlo nella posizione desiderata sopra l’orizzonte. Fastidioso.

MirrorMoon Pianeta iniziale

Il pianeta iniziale di MirrorMoon EP. In alto la luna nonché mini-map; all’orizzonte, la piramide di luce azzurra.

Superato il primo impatto straniante col mondo di gioco, emerge il problema di fondo: cosa cavolo devo fare?
MirrorMoon EP è un gioco di esplorazione spaziale. Il primo pianeta che visitiamo è una sorta di tutorial, in cui “impariamo” le meccaniche di base del gioco e le mettiamo a frutto per risolvere il puzzle. Non che il gioco ci accompagni mai per mano; dobbiamo dedurre come andare avanti per trial & error, decodificando la logica tutta particolare di questo mondo a suon di tentativi. Nel momento in cui attiviamo le strutture nascoste del pianeta, quest’ultimo è considerato “risolto” e torniamo sulla navicella. Ed è a questo punto che la vera esperienza di gioco comincia, perché tutte le funzioni della nave si attivano, possiamo abbandonare il pianeta di partenza ed esplorare a nostro piacimento quest’angolo di galassia.
Guardando la mappa stellare rappresentata sul monitor della navicella, selezioniamo la nostra destinazione e partiamo. Ogni stella dà accesso a un pianeta, su cui ci possiamo teletrasportare per esplorarlo. Ogni pianeta è – proprio come quello iniziale – un piccolo puzzle, che una volta risolto ci darà accesso a un orb. Lo scopo? Nessuno: MirrorMoon è un gioco open-ended, nel senso che non ha un obiettivo ultimo da raggiungere o un finale da sbloccare. Il fine è l’esplorazione stessa, e il mondo di gioco è infinito.

I pianeti sono generati proceduralmente. Ciascuno di essi avrà una combinazione casuale di colori, posizione della luna (alcuni mondi partiranno notturni, altri diurni), effetti atmosferici (tempeste elettromagnetiche, piogge di comete, o altro), strutture presenti sul pianeta, e soprattutto di enigmi. I tipi di puzzle fondamentali sono stati inventati a tavolino dai programmatori, e ogni volta si tratterà fondamentalmente di assemblare i vari pezzi della nostra pistola – nascosti negli edifici eterei del pianeta – per poi manipolare in vari modi la luna; ma è affidato al motore di gioco di volta in volta combinare i singoli puzzle in modi diversi per creare enigmi differenti.
Alcuni pianeti saranno completati nel giro di un minuto e senza il minimo sforzo, altri saranno parecchio complicati, e altri ancora non potranno essere risolti senza prima aver fatto dell’altro su altri pianeti del sistema. In ogni caso, la varietà di ambientazioni, costruzioni bizzarre e palette cromatiche tiene viva – in chi ce l’ha, ovvio – la voglia di esplorare e cercare il pianeta successivo. Ogni tanto saremo ricompensati con il ritrovamento di una costruzione suggestiva e completamente fuori posto: un volto femminile affiorante dalla terra; un letto d’ospedale; una sedia; una macchina fotografica; una piccola Laputa sospesa nel cielo. O magari il tassello di un puzzle più grande.

Mirrormoon Screenshot

Sense of wonder.

Ciò che rende il mondo di MirrorMoon vivo, oltre alla generazione procedurale dei pianeti, è il suo essere online, condiviso tra tutti i giocatori, e in costante espansione. Ogni giocatore può visitare i mondi esplorati e “risolti” da altri. E il primo giocatore che scopre e completa un nuovo pianeta, può rinominarne la stella, come se ne rivendicasse la proprietà.
Ogni settore della galassia, inoltre, presenta un’enigma centrale (chiamato anomalia) che richiede di visitare certi pianeti e compiere certe azioni. Nel momento in cui un giocatore – raccolti e interpretati correttamente gli indizi sparsi per il mondo di gioco – raggiunge i pianeti in questione e risolve l’enigma, si conclude una season, e i giocatori vengono trasportati a quella successiva. Il concetto ha affascinato talmente un numero ristretto di giocatori, che su Steam si è creata una vera e propria comunità attorno a MirrorMoon, dove gli utenti si aiutano reciprocamente a decodificare il mondo di gioco, e a trovare e risolvere di volta in volta l’anomalia per sbloccare la season successiva.
Quasi come in un MMO – ma a un livello ovviamente molto più modesto – gli sviluppatori di MirrorMoon seguono la comunità, e di volta in volta arricchiscono le nuove season di tipologie di pianeti, artefatti, camei.

Ma aldilà delle trovate per tenere viva la comunità, una comunità non esisterebbe affatto se in primo luogo non ci fosse qualcosa, in questo MirrorMoon, ad attrarre la gente – o quantomeno, una tipologia di persone. E credo che la ragione di fondo sia questa: nonostante l’assenza di istruzioni, di personaggi, di un obiettivo, di parola scritta, il gioco possiede una narrativa di fondo, che è molto potente. Una narrativa non scritta, ma mostrata. Questa narrativa – lo accennavo prima – è quella dell’esplorazione, della frontiera, della scoperta. E tutti gli elementi di gioco rinforzano questa narrativa.
A partire dal design della cabina di pilotaggio della nostra nave. Il primo impatto è straniante: una marea di pulsanti e schermi dalle funzioni ignote, la metà dei quali non in funzione finché non si risolve il pianeta tutorial. Ma a poco a poco, sperimentando con mano quello che fa ogni interruttore, si capisce la funzione di ogni interruttore, e il fascino analogico della navetta. C’è il manubrio per muoversi lungo la mappa stellare, mentre sui monitor appaiono una serie di scritte che spiegano posizione assoluta, distanza dalla nave e dimensioni del corpo celeste; un secondo manubrio che modifica la parallasse della mappa; c’è il pulsante che attiva il raggio traente, e la manopola che regola la velocità di movimento nello spazio; c’è un jack apposta per passare dalla modalità di movimento a quella di teletrasporto sul pianeta. E per teletrasportarsi, bisogna infilare una sorta di floppy disk (che si può girare su entrambi i lati) in un mangianastri.

Mirrormoon Cockpit

La cabina di pilotaggio, accesa. Ogni pulsante viola è cliccabile e ha una sua funzione.

Muoversi nello spazio non è istantaneo, come di norma nei videogiochi, ma richiede del tempo; su uno dei display possiamo vedere la distanza percorsa e i secondi che mancano all’arrivo, che scorrono uno dopo l’altro. Se scegliamo una stella nell’angolo nella mappa potrebbero volerci anche cinque o sei minuti a percorrere la distanza e raggiungerlo. Ciò che sarebbe assolutamente intollerabile in un gioco mainstream, aggiunge una nota di fascino in questo gioco di nicchia che richiede esplicitamente uno sforzo da parte tua.
E l’esplorazione, in completa solitudine, in silenzio – non fosse per la colonna sonora astratta e tintinnante del gioco – dove non ti è mai spiegato nulla ma devi capire tutto da solo, mi ha riportato alla mente esperienze del passato come Myst o il browser game notpr0n (che è talmente obsoleto che va giocato con Internet Explorer!). Si avverte la stessa sensazione di viaggio eremitico, mistico; la stessa atmosfera di pace e tempi lunghissimi. E nonostante lo stile grafico irrealistico e le premesse senza senso – muovere in giro satelliti con l’ausilio di artefatti geometrici fluttuanti? – restituisce il senso dell’immensità dello spazio, e dell’enormità del nostro viaggio, là dove tante opere con molto più “realismo di superficie” falliscono miseramente. Se in Interstellar la componente scientifica è uno strato di vernice che viene via al primo grattare, MirrorMoon è un’opera surreale e sfacciatamente non scientifica che tuttavia nasconde nel suo cuore un’incredibile coerenza di fondo. E più di una scintilla di vero sense of wonder.

Certo, il gioco non è privo di problemi di fondo. Aldilà dell’irritazione di dover impersonare i panni di un tizio che non è capace di sollevare la testa, è la stessa risoluzione degli enigmi a stancare in fretta. Da un lato, dato il numero tutto sommato limitato di combinazioni, i puzzle diventano in fretta ripetitivi. Dall’altro l’esplorazione del pianeta, una volta passata la meraviglia iniziale, è logorante: è un attimo perdersi mentre si cammina sulla superficie tutta uguale, e lo sconforto può tramutarsi velocemente in un sordo panico se dopo una trentina di secondi di corsa in tutte le direzioni si è perso il senso dell’orientamento e non si vede nulla all’orizzonte se non il vuoto. Il fatto che “capire dove si è e dove bisogna andare senza perdersi” sia una delle meccaniche fondamentali degli enigmi del gioco non è esattamente un punto a favore di MirrorMoon.
In un gioco orientato alla scoperta come questo, l’esplorazione dovrebbe essere sempre piacevole, mai frustrante. Se dovessi immaginare un reboot del gioco – magari con un team di sviluppo più ampio e un periodo di gestazione più lungo – rivedrei interamente la morfologia dei pianeti, trasformandoli da palle uniformi in ambienti se non ricchi, almeno sufficientemente variegati. L’esplorazione dovrebbe essere meccanicamente semplice; gli enigmi non dovrebbero essere basati tanto sull’orientamento, quanto su un’analisi attenta degli elementi presenti sulla superficie e sul satellite mini-map.

Mirrormoon Collage

Un altro possibile problema del gioco è il fatto di essere, fondamentalmente, “ingiusto”. La galassia di MirrorMoon, come vi ho mostrato, è ricca di angoli pittoreschi e cameo brillanti; ma trovarli è questione di fortuna. Un giocatore A potrebbe passare ore e ore a giocare, e finire sempre su pianeti banali che si risolvono in due minuti, mentre un giocatore B potrebbe in mezz’ora trovare due luoghi spettacolari uno in fila all’altro.
Nella sua casualità, MirrorMoon è crudele. Ma a differenza di quelli sopra elencati, questo non è un vero difetto, bensì un aspetto caratterizzante della filosofia del gioco – un gioco che, a differenza di quelli tradizionali, non è bilanciato né tagliato su misura sul giocatore, ma è per così dire “autarchico”. Un gioco che richiede pazienza, una sana perseveranza, e soprattutto la consapevolezza che i premi non arrivano in automatico e non sono ‘dovuti’ – come se fossero gli achievements di Steam. Del resto, l’esplorazione dello spazio è un azzardo: così deve essere.

Se dovessi dare un giudizio finale su MirrorMoon, direi che è un gioco dalla filosofia perfetta ma dall’esecuzione migliorabile. Non è un prodotto per tutti, non è nemmeno un prodotto per molti – è chiaramente rivolto a una nicchia di gente che cerca davvero qualcosa fuori dal normale ed è pronto ad accettare un gioco minimalista che non concede alcuna gentilezza al giocatore. Non è nemmeno un gioco a cui si possa giocare a lungo o con metodo giorno dopo giorno; ma al quale ogni tanto, magari quando siamo di umore pensoso, viene voglia di dedicare una sessione di venti minuti o mezz’ora. Se il mio articolo vi ha incuriosito a sufficienza, approfittate del fatto che su Steam è attualmente in saldo a 4,99 Euro (il suo prezzo pieno è 9,99 Euro).
MirrorMoon potrebbe passare sotto silenzio come un esercizio molto sui generis, ma io al contrario spero che diventi fonte di ispirazione, per altri giochi che sfruttino e sviluppino ulteriormente lo stesso tema; o per film o romanzi che riprendano il senso di solitudine, vuoti immensi e vita da pionieri che mi immagino essere l’autentica esplorazione dello spazio. Opere più come The Martian di Andy Weir e meno come Interstellar.

Mirrormoon Route Zero

Un omaggio a Kentucky Route Zero, aggiunto in una season più tarda del gioco. Gli sviluppatori hanno inserito altri easter egg riferiti a indiegames famosi, da Gone Home a Dear Esther.

Un’ultima nota: come avrete intuito dai nomi dei suoi membri, Santa Ragione è un team italiano (con alle spalle un altro gioco, recentemente pubblicato su Steam, Fotonica: check it out). E MirrorMoon è uno dei pochi giochi indie italiani ad essersi ritagliato un angolino di fama a livello internazionale, ottenendo articoli su Kotaku e Rock Paper Shotgun.
Ora: la nazionalità degli sviluppatori, come tutto ciò che è extranarrativo, è l’ultima cosa a interessarmi in un’opera. Ma il fatto che questo bizzarro gioiellino sia una creazione italiana non fa che rendermi doppiamente felice.

Approfondimenti
In genere non pubblico approfondimenti ai miei articoli, ma in questo caso ero troppo gasato per esimermi. Ecco quindi tre interviste ai ragazzi di Santa Ragione per scoprire qualcosa di più su MirrorMoon e sul suo making of:
Intervista su Rock Paper Shotgun
Intervista su Softonic
Discorso di Righi Riva all’Indipendent Games Summit 2014

Indiegames: Hotline Miami

Hotline MiamiSviluppatore: Jonatan “Cactus” Söderström
Casa di sviluppo: Dennaton Games
Genere: Azione, Top-Down Shooter, Arcade
Genere Narrativo: Crime / Splatterpunk

Motore: Game Maker
Piattaforme: Windows, Mac OS X, Linux, PS3, PS4, PSVita
Anno: 2012

Notte. Il vostro appartamento è illuminato solo dalla luce lampeggiante della segreteria telefonica. Andate al telefono e premete il tasto della segreteria. Una voce che non riconoscete vi dà delle istruzioni: dovete recarvi a un certo indirizzo, recuperare una valigetta e soprattutto uccidere tutti quelli che troverete dentro. Nel pianerottolo di casa, il vostro mandante vi ha anche lasciato un pacchetto: dentro, una maschera da gallo. E’ quella che dovrete indossare durante il massacro.
Andate. Non sapete perché, ma andate. E questa è solo la prima delle stragi che compirete su richiesta della vostra segreteria telefonica. Ma perché preoccuparsi tanto? Questi sono gli anni ’80, questa è la Miami degli anni ’80, la terra della cocaina, ed è così rilassante sfondare crani con spranghe di ferro e spezzare colli con le proprie mani.

Non so cosa steste facendo voi alla fine degli anni ’80; io stavo nascendo. Per questo motivo, mi sono perso l’epoca che è stata l’apogeo delle sale giochi. Quando ho cominciato a frequentarle – soprattutto al mare in spiaggia – erano già sul viale del tramonto: oltre a un ottimo Metal Slug, un Bubble Bobble e l’occasionale Tekken o Street Fighter, non avevano molto da offrire. Quando ho compiuto dieci anni, erano scomparse ormai quasi tutte. Ma ho fatto comunque tempo a godermi, in piccola parte, il gusto per il gioco arcade – gioco semplice e immediato, dalla grafica limitata, dove in un rush di adrenalina bisognava sparare a tutto ciò che si muoveva. Hotline Miami fa rivivere tutto questo, e nel modo più gore.
Hotline Miami, uscito nel 2012 dalle mani di uno sviluppatore indie svedese con un infinito curriculum di giochi alle spalle, è un top-down shooter vecchia scuola, con omini visti dall’alto e grafica pixellosa. Il gioco è strutturato in missioni, in ciascuna delle quali bisogna irrompere in un edificio e ammazzare tutti i bastardi che ci stanno dentro, prima che siano loro ad ammazzare noi. Se l’edificio ha più piani, ogni piano è un ‘livello’; completandolo e salendo al piano successivo si attiva un checkpoint,si modo tale che morendo si riprende dall’ultimo piano e non dall’inizio della missione. Il che è fondamentale – perché la caratteristica più interessante di Hotline Miami è che è fottutamente difficile.

Trailer di Hotline Miami

Ogni nemico infatti ha un punto vita, il che significa che una mazzata o una sventagliata di mitra lo uccideranno; ma lo stesso vale per l’eroe. Ti colpiscono e sei fuori. E tu sei uno, mentre loro sono tanti. L’unico modo per sopravvivere è pianificare con attenzione, approfittando del fatto che all’inizio del livello i nemici non si sono ancora accorti della vostra presenza – in che ordine eliminarli, in quali stanze nascondersi, che armi prendere lungo il percorso – per poi mettere in atto la strategia nel modo più rapido ed efficiente possibile. Prima il cervello, poi i riflessi animali. Si può attirare un nemico in una stanza facendo rumore con una sventagliata di mitra, si può agguantare uno alle spalle e usarlo come scudo umano, si può colpire di rimbalzo – l’importante è essere più veloci degli avversari.
Ma un gioco è semplicemente nostalgico se si limita a riproporre grafiche e gameplay del passato, senza aggiungere qualcosa di originale. L’originalità di Hotline Miami prende la forma dell’iperviolenza. La grafica stilizzata e poco realistica dello stile top-down anni ’80 permette a Söderström di scatenare una festa di sangue: se prendiamo un tipo ad asciate, vedremo i suoi arti volare in diverse direzioni; salendo a cavalcioni un tipo che abbiamo stordito, per finirlo, potremo (a seconda dell’arma che abbiamo in mano) strangolarlo o sfondargli il cranio o tagliargli la gola (con conseguente spruzzo). E data l’adrenalina a mille, e la coscienza di poter morire per mano loro in qualsiasi momento, ci vedremo diventare in tempo zero degli animali che urlano, stringono freneticamente il controller e gioiscono quando, alla fine di un livello, il nostro personaggino si ritrova solo in una stanza piena di corpi e sangue. Io sono una persona calma di natura – ma durante le mie partite a Hotline Miami regredivo a un pazzo maniaco.

La trama, con il suo sviluppo lento e allucinato, fa da buon contraltare al ritmo animalesco del gioco. Ogni missione (tranne verso la fine del gioco) è strutturata allo stesso modo: ci risvegliamo da sogni inquieti nel letto del nostro appartamento, andiamo alla segreteria ad ascoltare la prossima richiesta del nostro datore di lavoro, scendiamo da basso, saltiamo nella decappottabile e partiamo. A missione finita, ripigliamo la macchina e, su uno sfondo di palme al tramonto, andiamo nel luogo di raccolta convenuto – di volta in volta un fast food, un supermarket 24/7, un negozio di dischi – a ritirare il nostro compenso. In questi momenti di cool-off, abbiamo la possibilità di cogliere qualche informazione sparsa sul senso di ciò che stiamo facendo. E cominciamo a cogliere cose che non vanno.
I venditori dei negozi, per cominciare, hanno tutti la stessa faccia e sembrano quasi essere la stessa persona. Occasionalmente, nei nostri sogni, ci ritroviamo in una stanza con dentro tre tizi con addosso maschere di animali proprio come la nostra – un gallo, un cavallo, un gufo – che ci fanno domande sulla nostra vita e sul nostro gusto nell’infliggere dolore al prossimo. Cominciamo a dubitare dell’esperienza che stiamo vivendo. Quanto di ciò che stiamo facendo è reale? E’ tutta un’allucinazione data dalla droga? O davvero qualcuno ci sta manovrando? E quanto siamo consapevoli del sangue sulle nostre mani? Mano a mano che si procede nella trama, le tinte – già fosche – del gioco si fanno ancora più cupe, fino al climax.

Hotline Miami Screenshot - Beard guy

Sei brutto come la fame PUSSA VIA!!

La trama di Hotline Miami, è il caso di dirlo subito, è un elemento minimale, che serve più a creare la giusta atmosfera e un’allucinata cornice al gameplay, che non a vivere di vita propria. Il protagonista è un avatar del giocatore senza personalità, e anche i (pochi) altri personaggi presenti hanno una caratterizzazione ridotta all’osso. Ad analizzarla seriamente, la trama di questo gioco vive di tutti i cliché delle storie di crimine. Ma è comunque sufficientemente ben strutturata da fare il suo lavoro, ossia immergerci a dovere nel mood e nello stile di gioco; ed è la dimostrazione che, anche nel mondo dei videogiochi, basta allontanarsi dal territorio dei titoli blockbuster prodotti dalle grandi case per trovare trame che non assomigliano a un canovaccio hollywoodiano, ci fanno impersonare ruoli più ambigui e non puntano all’happy ending. Inoltre non mancano un paio di simpatici twist – come la possibilità, dopo la “fine” del gioco, di cambiare il corso della trama impersonando un altro personaggio, e di arrivare a un altro finale, “segreto” e meta-narrativo.
Il tutto inserito nella cornice di una Miami degradata, invasa dalla criminalità e dalla sporcizia. Ora – data la grafica scrausa, e considerando che il gioco si svolge quasi interamente in interni, che sia ambientato a Miami piuttosto che a New York o Los Angeles o Berlino o Istanbul in teoria ci cambia poco. Ma è quel tocco in più che ci aiuta nell’immersione nella vicenda. La Miami degli anni ’80 ci richiama il mondo corrotto e iperviolento di Scarface, della serie Miami Vice, di GTA: Vice City, e aiutati da quel kitschissimo sfondo di palme delle schermate di caricamento, ci sentiamo veramente più inseriti nel mondo di gioco.

I giochi che preferisco sono quelli con una chiara visione artistica. Giochi, cioè, in cui tutti gli elementi – gameplay, grafica, trama, colonna sonora, level design – si fondono  in qualcosa di organico. Hotline Miami questa visione artistica ce l’ha.
La grafica non è semplicemente retro, è acida. I livelli di gioco sembrano annegare in un oceano vuoto di luci fluorescenti dai colori rigorosamente sgradevoli – verde radioattivo, blu elettrico, rosso sangue, giallo piscio – che ci ricordano le luci della sala giochi, di una discotecaccia, di un viaggio in acido. I volti delle persone con cui interagiamo sono tutti orribili e deformati in una maniera quasi innaturale.
E poi c’è la colonna sonora: musica elettronica sporca e rugginosa che pare avere il preciso scopo di farci agitare sulla sedia e iniettarci gli occhi di sangue. Le tracce che accompagnano i livelli di gioco sono ritmate, energiche e tutto sommato orecchiabili; peggiori quelle che accompagnano le parti di trama e i preparativi per le missioni, musiche che evocano grattugie passate su una lamiera o martelli pneumatici che ci trapanano le tempie.
Questo mix di elementi, che ci mantiene in uno stato di tensione e disagio costante, non solo si sposa alla perfezione col gameplay, ma rafforza l’idea che ci sia qualcosa di veramente sbagliato nella testa del nostro protagonista e che siamo solo fino a un certo punto padroni delle nostre azioni. Anche stile grafico e sonoro, del resto, sono elementi narrativi, che raggiungono il massimo dell’efficacia quando sono organici alla trama e ai temi della storia e rafforzano l’immersione.

Hydrogen di M.O.O.N., una delle tracce più iconiche (e orecchiabili) della soundtrack di Hotline Miami

Così come è organico all’esperienza di gioco complessiva il livello esagerato di difficoltà. E qui entra in gioco un altro colpo di genio di Söderström. Negli ultimi anni, a causa della massificazione del videogioco, è cosa nota che la difficoltà media dei giochi si sia notevolmente abbassata: se per rientrare del mio investimento multimilionario devo vendere il mio gioco anche al casual gamer dodicenne che si spazientisce subito, devo fare in modo che anche lui sia in grado di finirlo. Per soddisfare tutti quei giocatori hardcore che favoleggiavano l’età dell’oro dei giochi semi-impossibili da finire, è quindi comprensibile che si siano mossi soprattutto piccoli team di sviluppo con piccoli budget, e gli sviluppatori indie.
Ma c’è un modo corretto e un modo sbagliato di fare un gioco difficile. Se – alla maniera dei vecchi Tomb Raider – al ventesimo salto calcolato al millimetro inclino male la manopola direzionale, manco la sporgenza, rovino nel burrone e devo ricominciare dall’ultimo save point, l’esperienza è più frustrante che difficile. Hotline Miami sceglie l’approccio opposto. In Hotline Miami, le vite sono infinite. Ogni volta che si muore, si ricomincia dall’inizio del livello (o “piano”) in cui si è morti. I livelli sono molto brevi (raramente serve più di un minuto a completarli, e spesso meno). Soprattutto, anche grazie alla grafica minimale, non ci sono tempi di caricamento: una volta morto, premo un tasto e nel giro di un secondo scarso ho riavviato la partita. Il che significa che sì muore sì un casino, ma il costo del fallimento e del retry è bassissimo – in un attimo sono di nuovo in pista e pronto a imparare dall’errore.
Questo semplice meccanismo è di vitale importanza per trasformare un’esperienza potenzialmente frustrante – la perdita di progresso e l’essere costretti alla ripetizione – in un booster di adrenalina e voglia di giocare. Si innesca così il leit motiv tipico degli arcade: “Cazzo sono morto… vabbé, un’altra partita e poi basta!”. E si va avanti per le due ore successive.

Hotline Miami, in breve, è una droga. Si sa quando si comincia ma non quando si finisce; lo si accende per ammazzare una mezz’ora, e prima che te ne accorgi è ora di pranzo. Il limite di questo gioco, se vogliamo, è che – con le sue neanche venti missioni totali – è molto breve. Ma potrebbe anche essere un punto di forza:
1. A trascinarle troppo in lungo, le meccaniche di gioco potrebbero diventare ripetitive. Alla fine si tratta sempre di fare la stessa cosa: irrompere in un edificio e ammazzare tutti prima che siano loro ad ammazzare te. Per quanto puoi cambiare la mappatura del piano, il numero dei nemici e le armi a loro disposizione, sempre la stessa frittata è. In questo modo, invece, si arriva alla fine del gioco prima di cominciare ad annoiarsi.
2. Quando si arriva alla fine, finalmente ci si libera del gioco e si può tornare ad avere una vita normale. Ho la sensazione di aver buttato via quasi un intero weekend dietro a questo gioco, senza quasi rendermene conto.

Hotline Miami Screenshot

Ordinaria amministrazione.

Nell’ambiente degli hardcore gamer, Hotline Miami ha avuto un successo strepitoso. Per questo, fin dal 2013 Söderström aveva annunciato di essere al lavoro su un seguito. Hotline Miami 2: Wrong Number dovrebbe uscire a fine 2014, e a giudicare dal trailer e dalle dichiarazioni dello sviluppatore sarà fondamentalmente un more of the same: più personaggi, più missioni, più difficile. Potrei decidere di prenderlo, ma non sono troppo entusiasta – non c’è nulla di radicalmente nuovo, e quella noia e ripetitività che il primo gioco era riuscito a evitare potrebbe finalmente manifestarsi. In ogni caso, Söderström ha messo le mani avanti: questo sarà il capitolo conclusivo della serie. Quantomeno, la bellezza del titolo originale non sarà rovinato da una serie di sequel poco ispirati.
Hotline Miami è un piccolo gioiello splatterpunk col quale sfogare con eleganza tutte le incazzature accumulate nel corso della giornata. A livello di gameplay, coniuga la necessità di una pianificazione intelligente a monte con la rapidità dell’esecuzione, facendo lavorare sia la testa che i riflessi; a livello di narrativa e atmosfera, è un’esperienza ricca che, per quanto non vi rivoluzionerà la vita, ricorderete di certo anche ad anni di distanza. All in all, un’esperienza di gioco abbastanza unica nel suo genere; se vi piacciono un minimo gli shooter in salsa arcade, non fatevelo sfuggire.

Il mese di Ottobre sta per finire, e con esso anche la mia scorta di titoli horror/iperviolenti. Con Hotline Miami, ci siamo gradualmente spostati dallo splatter over-the-top e quasi comico di Apeshit e Header verso atmosfere più cupe, dove si mena ancora molto ma si ride poco. Già la novella di Lee, del resto, aveva risvolti più drammatici di molte delle entrate che l’avevano preceduto – anche se si fa sempre fatica a prendere sul serio i redneck.
Continueremo questo movimento nella settimana conclusiva di questa carrellata.

Procedural Horror

Darkwood ScreenshotSe ciò che ci fa paura, in un’atmosfera horror, è il senso dell’ignoto, la minaccia nascosta – allora la prima cosa che uccide la tensione è la ripetizione. Che sia un’esperienza che fa di noi meri spettatori (un film, un libro) o partecipanti diretti (un videogioco), sapere in anticipo cosa sta per succedere perché lo si è già visto elimina o quantomeno addolcisce di molto il senso di minaccia.
I jumpscares funzionano solo la prima volta. Un’atmosfera di ansia diffusa e costante può resistere più a lungo, ma alla fine anche quella smetterà di farci paura – chiunque abbia giocato più volte a un Silent Hill per vedere tutti i finali se ne sarà reso conto. Come già accennavo nell’articolo dedicato a P.T., il primo nemico di qualsiasi videogioco horror, anche il meglio riuscito, è quindi quell’effetto di già visto che si crea partita dopo partita. Non è nemmeno necessario iniziare un nuovo gioco perché il problema si manifesti: è sufficiente morire e ripartire dall’ultimo checkpoint, e il senso di mistero si sarà dissipato perché sappiamo già cosa succederà da lì fino al punto in cui si è morti. L’esperienza di gioco passa dall’immersione nell’atmosfera carica d’ansia e di incertezza della prima partita, a: “quale sarà il modo più efficiente per arrivare di nuovo al punto dov’ero morto?”.
Per questo il concetto di horror a generazione procedurale è particolarmente affascinante.

La generazione procedurale di elementi di gioco è stata introdotta nei giochi horror di ultima generazione da Left 4 Dead della Valve. Left 4 Dead è un gioco cooperativo in prima persona, in cui quattro giocatori (o un giocatore più altri tre personaggi controllati dal computer, se siete sficati e giocate da soli offline) devono superare una serie di scenari, partendo dalla “casa base” e arrivando al punto d’arrivo del livello, tentando nel mentre di sopravvivere a orde di zombie affamate di cervelli umani.
Una delle caratteristiche più interessanti del gioco è il Regista (“The Director”), un sistema che monitora in tempo reale le performance dei giocatori, e in base ad esse determina la posizione di spawn di oggetti, munizioni e nemici, nonché il numero e la tipologia di questi ultimi. Questo sistema – definito da alcuni procedural narrative – permette non solo di alterare di volta in volta il livello in modo tale da mantenere sempre un ritmo adeguato alle capacità e allo stato di salute dei giocatori, ma di rendere ogni partita imprevedibile e diversa dalle altre. Si eliminava in questo modo ogni possibilità di rilassarsi, e quindi annoiarsi, anche se si era già giocato decine di volte quello specifico scenario.

Left 4 Dead Artwork

Un’illustrazione dal primo Left 4 Dead.

Il potenziale di un universo generato proceduralmente è enorme. Può variare da un minimo di generazione casuale della posizione di oggetti e nemici, a un massimo di generazione casuale dell’intero mondo di gioco, a là Minecraft (anche se questo significa sacrificare in modo consistente la grafica degli ambienti, e completamente la componente narrativa).
Uno dei generi videoludici in cui la generazione procedurale dei livelli gioca un ruolo chiave è quello dei roguelike. Prendiamo Spelunky, il gioco a cui avevo accennato alla file dello scorso articolo. E’ un platform 2D vecchia scuola, il cui scopo è scendere sempre più nelle profondità della terra, attraverso una serie di livelli di piccole dimensioni, per raggiungere un favoloso tesoro. Spelunky ha raggiunto nel giro di due anni una notorietà spaventosa, e questo perché crea dipendenza (posso confermare personalmente). La sua formula si fonda su due elementi chiave:
1. Come in tutti i roguelike, i livelli di gioco sono generati in modo casuale.1
2. Se si muore, si ricomincia da capo. E in Spelunky si muore tantissimo.
Questi due meccanismi generano un loop letale per il tempo libero del giocatore. Le morti frequenti accendono il meccanismo tipico da gioco arcade del: “ne faccio un’altra e poi basta”; la generazione procedurale dei livelli fa sì che ogni partita sia diversa dalla precedente e quindi mantenga alto il divertimento.

Come la maggior parte dei roguelike, Spelunky non è (e non vuole essere) un gioco d’immersione – è troppo stilizzato, e troppo improntato alla caccia al punteggio. Le partite sono troppo difficili e troppo brevi. Certo, giocandoci – e soprattutto arrivando molto in fondo – si provano ansia e tensione a chili, ma è “ansia da prestazione”: il terrore costante che un errore banale o un pericolo non previsto ci ammazzino all’improvviso e vanifichino tutta la nostra partita. Ma che uso si potrebbe fare, allora, della generazione procedurale in un gioco horror? Come al solito, la prima cosa che ho fatto è stato dare un’occhiata al panorama indie, dove le nuove idee fioriscono più in fretta. Ma di horror procedurali non ce n’è molti.
Uno dei giochi indie in via di sviluppo e disponibili in Early Access più celebri degli ultimi tempi è The Forest. Nel gioco, impersoniamo l’unico sopravvissuto a un incidente aereo che si ritrova immerso in una foresta misteriosa; durante il giorno, dovremo procurarci da mangiare e trovare il modo per costruirci un riparo, perché la notte questo posto apparentemente tranquillo si trasforma in un luogo maledetto e popolato di mostri feroci. Ma in The Forest l’unico elemento randomico sembra essere il punto di partenza dell’avventura (ogni volta l’aereo si schianta in un posto diverso): l’ambientazione rimane sempre uguale. Troviamo una generazione casuale del mondo di gioco in un altro titolo molto celebre, il roguelike Don’t Starve; ma benché l’elemento di sopravvivenza sia centrale e l’atmosfera goticheggiante, non lo si potrebbe mai e poi mai definire un gioco ‘horror’.

Spelunky screenshot

Spelunky: questo gioco è un delirio

Ma alla fine, nella mia ricerca, sono incappato in un titolo – ancora in via di sviluppo – che rispondeva alle caratteristiche: Darkwood di Acid Wizard Studio, piccolo team polacco alle prese con il suo primo gioco.

Darkwood
DarkwoodCi risvegliamo in mezzo a dei boschi, lontani dalla civiltà, da qualche parte nel Blocco Sovietico di una realtà alternativa. Non sappiamo cosa ci facciamo qui, non riusciamo a ricordarlo; l’unica cosa chiara, è che dobbiamo trovare il modo di sopravvivere, perché ci sono forze oscure all’opera in questi boschi.
Concettualmente, Darkwood è molto simile a The Forest. Si tratta di un gioco di sopravvivenza horror diviso tra una fase diurna – in cui esplorare l’ambientazione alla ricerca di cibo, armi, erbe medicinali, e indizi – e una fase notturna, in cui bisogna barricarsi in un luogo sicuro per difendersi dalle creature che si liberano al calare delle tenebre. Ma a differenza di The Forest, l’intero ambiente di gioco è interamente generato in modo casuale a ogni nuova partita. Come già in Spelunky, anche Darkwood prevede il “permadeath”, ossia il fatto che a ogni morte il gioco ricominci da capo. Questo significa due cose: da un lato, il terrore generato dall’ambientazione e dalla lotta per la sopravvivenza è amplificato dal sapere di non avere una seconda possibilità; dall’altro, ogni volta che si muore e si ricomincia, si ha la garanzia di un’esperienza sempre nuova. L’unica cosa che evolve è l’esperienza del giocatore e la sua abilità di imparare dagli errori del passato per riuscire a stare in vita più a lungo la prossima volta.

Certo, un ambiente di gioco così malleabile non viene senza un prezzo. Invece di muoverci in un 3D sciccoso degno di uno Skyrim – come accade in The Forest – Darkwood adotta una visuale top-down stile Diablo. Benché gli effetti sonori, l’atmosfera, e l’oscurità dell’ambientazione creino un certo feeling horror, con una grafica talmente distanziante e semplificata c’è il rischio di non riuscire a immergersi nel gioco. Invece del genuino orrore di un Silent Hill ben fatto, potremmo limitarci a provare apprensione all’idea di perdere ore e ore di partita per una morte stupida – e non è la stessa cosa.
Perplessità aumentata dal fatto che, sulla loro pagina di Indiegogo, gli sviluppatori di Darkwood hanno scritto (grassetto loro):

A top-down perspective hinders your ability to clearly identify what you see on the screen. We embrace it. It’s much less literal that way, and forces your imagination to work and visualize things you can’t clearly see in the game. We find the fear of the unknown to be very strong and want to evoke that feeling not only through the gameplay, but also the art style. This makes experiencing the game closer to reading a book, letting your imagination run wild.

L’ultima frase, in particolare, mi preoccupa molto. E poi, potevano dirlo che non hanno creato un ambiente 3D perché non erano in grado di farlo con una generazione procedurale; invece parlano di “scelta artistica”. Meh.

Trailer della Pre-Alpha di Darkwood rilasciato quest’estate.

Sia come sia, il gioco è disponibile in Early Access su Steam, e ad oggi le recensioni sono molto positive. Chi l’ha provato, dice che il terrore dell’ignoto c’è ed è palpabile. Unito alla fragilità del personaggio, all’atmosfera spettrale, alla necessità di costruirsi ripari a prova di mostro, e al permadeath, gli ingredienti per qualcosa di genuinamente spaventoso ci sono.
Possiamo solo sperare che, quando il gioco sarà completato, l’esperienza finale sia davvero quella di un horror, e non la variante “d’atmosfera” di un roguelike alla Spelunky.

Esperienza cinematica VS Survival
Mentre mi studiavo Darkwood e tutta questa pletora di titoli indie con elementi di randomizzazione, mi sono reso conto di una cosa. Per loro natura, tutti i giochi in cui la generazione procedurale gioca un ruolo importante, non vanno d’accordo col concetto tradizionale di trama. Può esserci ancora una spinta verso la risoluzione di un mistero o tema centrale, e una conclusione scriptata della storia; ma non c’è più quel percorso univoco per raggiungerla, che è la formula di tutti i giochi lineari.
In Darkwood, spiegano gli sviluppatori, bisogna raccogliere una serie di indizi per capire cosa sia successo e permettere al protagonista di scappare dal bosco; ma la posizione di questi indizi, l’ordine in cui verranno raccolti, e il modo stesso di impossessarsene cambierà a ogni partita. E’ anche probabile che, in ogni partita, sarà possibile raccogliere indizi diversi e ottenere così differenti outcome finali. Questa struttura, insomma, elimina il concetto di regia.

Darkwood Screenshot

Uno screenshot da Darkwood.

La cosa, nel caso di un horror, ha risvolti particolarmente interessanti. Tradizionalmente, il genere del survival horror doveva la sua capacità di far paura – sia che si appoggiasse ai jumpscares come Resident Evil, sia che puntasse all’ansia dell’ignoto come Silent Hill – alla regia. Una telecamera piazzata nel punto giusto, un mostro appostato che sbuca fuori quando meno ce lo aspettiamo, una sedia a rotelle dove meno ce lo aspetteremmo. Va da sé, però, che in un horror a generazione procedurale tutto questo non può sopravvivere.
E infatti, da The Forest a Darkwood, il punto focale dell’esperienza è passato a un altro elemento: la sopravvivenza. Costruirsi un riparo, procurarsi le risorse per superare la notte, fabbricarsi armi e attrezzi, stare sempre all’erta per l’arrivo di nemici imprevedibili. In tutti questi giochi, la presenza del permadeath, unita alla debolezza del protagonista, significa che bastano pochi errori fatali di pianificazione per arrivare al Game Over e dover ricominciare. La generazione casuale di ogni nuova partita sembra incentivare l’adozione del permadeath e di un livello di difficoltà che non perdona. E questo, a sua volta, non fa che incrementare esponenzialmente – o così dovrebbe – l’ansia data dall’atmosfera. Non sono più le scelte registiche costruite on top del gameplay a generare la paura, ma le meccaniche di gioco stesse.

…oppure no?
Per un sottogenere che è stato etichettato come “Survival Horror”, il fatto che la lotta per la sopravvivenza diventi l’elemento preponderante del gameplay non dovrebbe essere un fattore negativo. Ma l’horror procedurale implica necessariamente la morte della regia?
A pensarci più attentamente, no. Ripensiamo a Left 4 Dead e al sistema del Regista: si trattava a tutti gli effetti di una regia procedurale, che cambiava il mood e il ritmo dell’esperienza in base al feedback dei giocatori. Sarebbe in teoria possibile creare una versione più sofisticata di The Director, che all’interno di un ambiente di gioco generato in modo randomico compia delle alterazioni in tempo reale in base alle condizioni del giocatore e agli eventi pregressi (facendo sbucare fuori un mostro che non doveva esserci, modificando gli elementi dello scenario, e così via).

The Forest Screenshot

Uno screenshot di The Forest. Tempo di costruirsi un riparo per la notte…

Mi chiedo, però, se una IA così complessa sia alla portata di uno sviluppatore indie. Forse sarà alla portata di un Kojima per il prossimo Silent Hills. Ma per il futuro prossimo, prevedo una radicale biforcazione tra questi due approcci all’horror: un filone di giochi più tradizionali, che continueranno ad affidarsi a una buona regia e a un design oculato degli ambienti di gioco, e il filone degli horror sandbox e/o procedurali, fondati sulla sopravvivenza e sul permadeath.


(1) Ovviamente questa randomizzazione segue tutta una serie di criteri. I livelli di Spelunky sono divisi in quattro mondi (più un quinto bonus), ciascuno con la propria ambientazione: la generazione procedurale deve seguire le regole di generazione di quello specifico mondo (in termini di mostri presenti, power-up e livello di difficoltà), e in alcuni casi dello specifico livello (il portale per la City of Gold, ad esempio, appare tutte le volte necessariamente nel secondo livello del Tempio; la nave madre aliena, invece, appare sempre nell’ultimo livello del Ghiaccio).Torna su

Indiegames: To the Moon

To the MoonSviluppatore: Kan Gao
Casa di sviluppo: Freebird Games
Genere: Interactive Fiction, RPG
Genere Narrativo: Slipstream / Science Fiction / Slice of Life

Motore: RPG Maker XP
Piattaforme: Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2011

In un futuro non distante dal nostro, l’uomo ha inventato una macchina per entrare nei ricordi degli individui e alterarli, creando nuove memorie. La dottoressa Eva Rosalene e il dottor Neil Watts sono due agenti della Sigmund Corp., una società specializzata nel realizzare gli ultimi desideri di uomini in punto di morte. Il loro compito? Visitare i pazienti quando sono agli sgoccioli, farsi comunicare il loro desiderio, ed entrare nella loro mente per manipolare i loro ricordi e ricreare la loro vita sul presupposto che quel desiderio si sia realizzato. E strappare loro, così, un ultimo sorriso.
Ma questo caso è il più difficile della loro carriera. L’ultimo desiderio di Johnny Wyles, misterioso vecchio che abita in una villetta su una scogliera a ridosso di un faro, è di andare sulla Luna. Solo che non sa il perché. Eva e Neil dovranno viaggiare a ritroso nei ricordi di Johnny per scoprire come sia nato il suo desiderio e “piantare” nell’animo del suo io infantile l’impulso di diventare astronauta e andare sulla Luna. Ma è una lotta contro il tempo, perché il cuore di Johnny sta per cedere. Riusciranno i nostri eroi a realizzare il suo ultimo desiderio?

Quando leggi un romanzo di Heinlein ti senti così macho, ma così macho, che poi hai bisogno di disintossicarti. Per liberare il mio organismo da questo eccesso di testosterone, sento l’impellente bisogno di buttarmi su storie intimiste e romantiche. E visto che il Consiglio del Lunedì era dedicato alla storia di una società di uomini costretta a vivere sulla Luna e a non potersene più andare, perché non parlare, ora, della storia di un uomo che non è mai stato sulla Luna ma vorrebbe disperatamente andarci?
Come già The Stanley Parable, di cui abbiamo parlato questo inverno, anche To the Moon è un esempio di “walking simulator”, o “interactive fiction”: un gioco in cui si gioca poco, ma che fondamentalmente è un veicolo per raccontare una storia. Al comando dei due agenti Eva e Neil (che il giocatore impersona alternativamente), procederemo dall’inizio alla fine della storia con una limitata possibilità di interazione con l’ambiente e una ancor più limitata influenza sullo sviluppo della trama: più che giocatori siamo spettatori, con la differenza che dovremo muovere fisicamente il nostro avatar e risolvere alcuni enigmi e mini-giochi per andare avanti nella storia.
Ora: si può discutere all’infinito se esperienze come queste – o, ancora di più, come Stanley Parable o Gone Home – siano o meno categorizzabili come “videogiochi”; tuttavia, posto che venga dichiarato a chiare lettere e fin da subito all’acquirente di che tipo di gioco si tratta, è un genere assolutamente legittimo. Io, che macino abitualmente romanzi e film, sono del tutto in grado di godermi un gioco che ha valore esclusivamente dal punto di vista narrativo. Purché la storia sia bella e ben raccontata.

Trailer di To the Moon

Per farsi un’idea di cosa sia To the Moon, il paragone più immediato è col film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, il capolavoro di Michel Gondry (regista) e Charlie Kaufman (sceneggiatore) sbarcato in Italia col pietoso titolo “Se mi lasci ti cancello”. Anche qui, l’elemento fantascientifico – la macchina che fa entrare nei ricordi delle persone – ha il solo scopo di esplorare tematiche soft, ossia i rapporti tra le persone, l’inconscio, l’amore, la ricerca della felicità. Non si tarda a scoprire che al centro di To the Moon c’è una storia d’amore: proprio indagando la relazione tra Johnny e la sua amata, andando a ritroso dalla vecchiaia alla sua infanzia, i due protagonisti dovranno scoprire il mistero che aleggia sulla vita di Johnny e trovare così il modo di instillargli nell’inconscio il desiderio di andare sulla Luna.
Questo spiega anche perché, pur avendo sentito parlare di questo gioco da più di un anno, ho aspettato così a lungo prima di decidermi a provarlo. Non sono tipo da storia romantica, i film sentimentali mi fanno sbadigliare. Molte cose di questo gioco inoltre – dal tema della storia al tono del trailer (i cavalli ommioddio i cavalli!) – sembravano gridare “melodramma cheesy“. Se infine mi sono deciso a provarlo, è per una ragione completamente diversa: il fatto che fosse stato realizzato con RPG Maker.

Una digressione su RPG Maker
RPG Maker è un programma estremamente user-friendly per realizzare giochi di ruolo1 con la grafica bidimensionale di un Final Fantasy o di uno Zelda dell’epoca SNES. Per saper usare RPG Maker non bisogna essere dei programmatori, anzi – il punto di forza del programma è sempre stato il fatto di essere orientato proprio ad adolescenti incapaci, pieni di sogni dopo anni passati davanti ai titoli Square ma senza voglia di imparare sul serio l’arte della programmazione. L’iterazione di maggior successo – con cui anche questo To the Moon è stato realizzato – è RPG Maker XP, che non solo ha una grafica nettamente superiore a quella dei classici per SNES (è pure più bello di Chrono Trigger, che già è una gioia per gli occhi nel panorama dei giochi di ruolo in 2D), ma ha implementato un editor, l’RGSS (Ruby Game Scripting System), del linguaggio di programmazione Ruby. Questo significava che un utente un attimo più scafato, pur senza essere un grande programmatore, può utilizzare l’RGSS per customizzare il proprio gioco ben oltre le possibilità del programma base, e realizzare feature molto complesse.
Io stesso mi ero baloccato parecchio con questo programma intorno ai 15-16 anni, quando pensavo che un videogioco di ruolo fosse un veicolo più adatto della scrittura per dare forma alle mie fantasie. Quegli anni della mia vita sono un monumento al FAIL, una raccolta di progetti ambiziosissimi lasciati a metà, saghe da 300-400 ore di gioco che – a guardarle con il giusto distacco – erano morte ancora prima di cominciare. E in effetti, questo  è sempre stato il destino della maggior parte dei giochi di chi si cimentava nell’impresa. Le sezioni delle release sui siti e i forum dedicati a RPG Maker sono degli enormi cimiteri di elefanti, pieni di demo, promesse stupende, e autori scomparsi nel nulla.

Cimitero degli elefanti

Riproduzione attendibile di una normale comunità di utilizzatori di RPG Maker.

Incappare in un gioco finito in quelle community è sempre stato un piacere raro. Quasi invariabilmente si trattava di titoli brevi, tra le 3 e le 10 ore totali, sviluppati da persone più realiste e pratiche di noialtri. Questo To the Moon non fa eccezione: con le sue 5 orette circa, si può completare in un pomeriggio o un paio di sere. Ancora più raro, tuttavia, è sempre stato incappare in un gioco non solo completo, ma anche ben fatto. Come per altre comunità di sviluppatori indie, anche i progetti di RPG Maker erano di norma portati avanti da una persona sola, che quindi doveva riunire in sé le capacità dell’autore di narrativa (ideare una buona storia, sceneggiarla, costruire l’ambientazione…) e del programmatore (benché di basso livello, si trattava di un lavoro che richiedeva tempo e anche una certa dose di creatività per fare cose più complesse). Anche in questo, To the Moon non fa eccezione, essendo creazione del solo Kan Gao – l’unico aiuto esterno che ha avuto è stato nella composizione di alcuni pezzi della colonna sonora.
Tutto ciò ha fatto sì che volessi scoprire come potesse essere venuto un gioco realizzato su RPG Maker che aveva ottenuto tutto quel successo e risonanza nella comunità indie. Ero persino disposto a sorbirmi una storia d’amore.

Uno sguardo approfondito
Immagino che il primo problema che si sia posto Kan Gao, mentre si metteva a scrivere la sceneggiatura, fosse: “ok, ho tra le mani un melodrammone, pieno di gente sul letto di morte, lacrime, baci e abbracci. Come faccio a rappresentarla senza nauseare a morte chiunque la vedrà?” E ha implementato un paio di rimedi efficaci.
Il primo, la scelta di utilizzare come protagonisti due scienziati che fanno il proprio lavoro. La storia di To the Moon è la storia di Johnny Wyles, ma noi la viviamo attraverso il punto di vista di Eva e Neil. In questo modo, benché la vicenda sia drammatica e coinvolgente, non veniamo avviluppati nella melassa o nell’autocommiserazione che sarebbero inevitabili adottando il pov di Wyles. I due scienziati naturalmente non rimarranno gelidi di fronte alle peripezie del loro paziente, ma il loro sguardo più distaccato e professionale è senza dubbio un antidoto al cheesy.

To the Moon Screenshot romantico

Panchina, altalena, ruscello, scogliera di notte col suono del mare, faro. Di cliché romantico ne abbiamo dimenticato nessuno?

A ciò si aggiunge che i due protagonisti sono personaggi piacevoli. Neil è il tipo brillante e un po’ cinico che tende sempre a sdrammatizzare e buttarla in caciara, mentre Eva fa la tipa algida e rassegnata, costretta a sopportare con imbarazzo il suo collega pagliaccio; insieme fanno una bella coppia e si prestano a una serie di siparietti. Certo, a volte questi sketch tendono a scadere un po’ nel ripetitivo e nel gratuito (specialmente alcune uscite di Neil), ma nel complesso sono ben gestite, fanno sorridere e danno un po’ più di ritmo a una trama che altrimenti sarebbe troppo drammatica e monocroma.
Alla fine, benché il focus narrativo non sia su di loro, Eva e Neil emergono come personaggi sufficientemente complessi, non delle semplici marionette per far progredire la storia di Johnny. Ognuno ha le proprie motivazioni per aver scelto questo mestiere, e una propria visione del proprio lavoro. E, verso la fine del gioco, saranno anche in grado di sorprendere con le loro scelte.

La narrazione oscilla tra il mystery – nella parte di investigazione, in cui i due scienziati cercano di dipanare i misteri attorno alla vita del paziente e si imbattono in una serie di particolari inquietanti – e il dramma d’amore – mano a mano che i dettagli della sua vita vengono alla luce. La storia della vita di Johnny mi ha sorpreso piacevolmente. Il personaggio di Rivers, l’amata di Johnny, è una figura sgradevole e difficile da prendere in simpatia, ma è costruita per essere così – suppongo che la capacità di affezionarsi o meno a lei dipenda in primo luogo da che tipo di persona siamo noi (per esempio: potrebbe piacere ai fan di Rei Ayanami, if you know what I mean).
La loro relazione non è una cosa banale alla Twilight; è sufficientemente complessa, e realistica, nel suo alternare momenti di intimità e momenti di scazzo. Dietro gli atteggiamenti dei due amanti ci sono motivazioni credibili e personalità consistenti. Certo, non mancano momenti veramente cheesy, né trovate cliché2. C’è anche quello che sembra essere un buco di trama abbastanza importante3. Ma tutto sommato mi aspettavo peggio.

To the Moon screenshot

Alcuni episodi della vita di Johnny sono piuttosto inquietanti.

Il problema principale, nell’immedesimazione nei personaggi e nei loro drammi, è il fatto di non poterli guardare in faccia. Come in tutti i videogiochi in 2D con presa dall’alto, tutti i personaggi sono dei piccoli sprite con la stessa personalità di Super Mario in Super Mario World. Da decenni, gli sviluppatori hanno risolto il problema in uno di due modi: inserendo dei quadrati con i close-up dei volti dei personaggi nelle finestre di dialogo, o disegnando i personaggi a mezzobusto sopra le medesime finestre. Così facendo si può avere a buon mercato un’immagine ravvicinata per ogni personaggio, e un set di espressioni da usare nelle diverse situazioni. Uno stratagemma così semplice può avvicinare molto l’audience ai personaggi del gioco.
Kan Gao non fa niente di tutto ciò; le finestre di dialogo di To the Moon sono vuote come nei vecchi Final Fantasy. La ragione non mi è ben chiara. Certo, disegnare i vari personaggi e un ventaglio di espressioni per ciascuno di essi non è semplice; e, nel caso in cui Gao non sapesse disegnare, avrebbe dovuto reclutare una terza persona. Tuttavia, non sarebbe stato un lavoro così logorante, considerando l’esiguo numero di personaggi della storia. E poi, i vantaggi sono così di gran lunga superiori agli svantaggi – soprattutto per una storia così centrata sulle emozioni come questa – che ne sarebbe comunque valsa la pena.

Altrettanto discutibili sono gli sporadici elementi di gioco presenti in To the Moon. Forse per giustificare l’appellativo di “videogioco”, Kan Gao lo ha tappezzato di mini-giochi. Ogni volta che si entra in una scena della vita di Johnny, per passare a quella successiva bisogna rintracciare una serie di ricordi, che facciano da ponte tra una memoria all’altra. Questo concetto, che narrativamente ha anche un suo senso, si traduce in una “caccia al tesoro” in giro per la mappa, a recuperare oggetti (foto, ombrelli, peluche, e così via) che fungono da ricordo. Una volta raggiunto il numero necessario, per aprire il portale verso la nuova memoria parte il secondo minigioco: un puzzle-game in cui bisogna ricomporre una figura a partire dai suoi tasselli.
Spero che a descriverli per iscritto suonino altrettanto idioti che a giocarli, perché è proprio questa la sensazione che danno. Il primo, in particolare, può diventare snervante: ricordo, ad esempio, una volta in cui non riuscivo a trovare l’ultimo ricordo e alla fine, per disperazione, mi sono messo a cliccare tutti i cazzo di oggetti che trovavo nella mappa. Quando un mini-gioco, invece che essere un momento di divertimento, diventa un peso, qualcosa che ostacola la fruizione della storia invece di un elemento che la rafforza, you’re doing it wrong ed è il caso di toglierlo. Più in generale, il problema in To the Moon è che le fasi di gioco sono completamente scollate da quelle narrative – una fonte di distrazione, l’ostacolo tra un pezzo di trama e quello successivo. Voglio godermi la storia e invece devo ricomporre uno stupido puzzle col disegno di un vaso di fiori.

To the Moon screensaver

What the fuck is this shit.

Io avrei fatto così!
Ci sarebbero due soluzioni a questo problema. Quella più semplice e onesta, semplicemente, sarebbe di eliminare tutti i mini-giochi, e lasciare solo la trama. Come per The Stanley Parable e Gone Home, abbandonare anche le ultime velleità di videogioco tradizionale, e limitarsi a raccontare una storia in cui il giocatore deve muovere il personaggio dall’evento X all’evento Y. Esiste un pubblico per giochi del genere, quindi non vedo il problema.
La mia soluzione preferita, ovviamente, è quella più complicata. E prevede, in sostanza, un completo ripensamento del gioco. Pensateci un attimo: partendo dalle sue premesse narrative, cos’è in fondo To the Moon? Una storia d’investigazione. Una lotta contro il tempo per scoprire il segreto nella vita di un vecchio e riuscire a realizzare il suo ultimo desiderio prima che muoia. Ergo: avrei realizzato un vero e proprio gioco investigativo con un tempo limite e finale multiplo.

Al giocatore spetterebbe il compito di mettere insieme gli indizi trovati nei ricordi di Johnny e risolvere il mistero. Se non riuscisse a farlo in tempo, si otterrebbe il bad ending della morte del vecchio senza che il suo desiderio venga realizzato. O si potrebbe scoprire il suo segreto, ma non riuscire a farlo andare sulla Luna. E ancora, cosa anche più interessante, ci potrebbero essere più modi per realizzare il suo desiderio. In questo modo, si avrebbe finalmente un sistema di gioco completamente integrato nella trama, e che incentiva a giocare e sperimentare. La brevità del gioco, inoltre, aumenterebbe la replay value e spingerebbe anche il giocatore che si è beccato il bad ending a riprovare.
Una volta sbloccata una nuova memoria, il giocatore dovrebbe poter tornare ogni volta che vuole a quella e a tutte le precedenti – così da recuperare indizi eventualmente persi o rivivere certe scene per reinterpretarle alla luce di nuove informazioni. L’orologio interno che stabilisce quanto tempo manchi alla morte di Johnny non dovrebbe essere un vero e proprio timer – non vogliamo che il giocatore sia costretto a muoversi di fretta e non riesca più a godersi la storia – ma potrebbe dipendere, per esempio, dagli spostamenti tra i ricordi. Ogni spostamento, muove l’orologio di un’unità verso la morte. In questo modo il giocatore dovrebbe imparare a gestire con oculatezza i propri spostamenti, ma una volta arrivato in un ricordo potrebbe con calma esaminare la scena e riflettere sul da farsi.
Se sentissimo, in questo modo, che la vita di Johnny non è semplicemente un elemento della trama ma dipende veramente dalle nostre azioni, ed è veramente appesa a un filo, forse ci sentiremmo più responsabili. E sentiremmo la sua tragedia più vicina a noi.

To the Moon Screenshot

Kan Gao realizza delle scene che onestamente non credevo possibili su RPG Maker.

In conclusione
Le storie d’amore cariche di pathos, lo ribadisco, non fanno per me; e posso confermare, come sospettavo, che questo To the Moon non è indirizzato alle persone come me. E’ quindi interessante che, nonostante tutto ciò, io abbia divorato il gioco. A parte i primi quaranta minuti, mi sono passato tutto il gioco in una sola seduta – perché volevo sapere come andava a finire. To the Moon ha ritmo. Nonostante i mini-giochi stupidi, e nonostante alcune scene discutibili, non si avverte mai un momento di stanca. E la scena finale, devo ammetterlo, è stupenda; la dimostrazione della saggezza di quel vecchio adagio dei manuali di narrativa, “arrive late and leave early”.
Non è un gioco che consiglierei a tutti. Gli amanti della fantascienza rimarrebbero delusi, come anche chi si aspettasse un secondo Eternal Sunshine (quel film è parecchie spanne sopra l’opera di Kan Gao). Ma per gli amanti dei drammi psicologici, dello slice of life, e naturalmente delle storie d’amore, be’, To the Moon è un bel prodottino. Provatelo. Se siete indecisi, aspettate i prossimi saldi di Steam. L’ultima cosa che posso dirvi per convincerci è che: no, il “voglio andare sulla Luna” non è una forbita metafora. Parla proprio della Luna. E di andarci. Con uno shuttle. Della NASA.

Kan Gao ha annunciato da tempo di essere al lavoro su un secondo episodio, che vedrà i dottori Eve e Neil alle prese con un nuovo caso (spoiler: nessuno dei due muore). Prima di allora, però, dovrebbe uscire un episodio più breve – chiamato Bird Story che fungerebbe un prequel al secondo capitolo vero e proprio di To the Moon. Questo capitolo intermedio ruoterà attorno a “un bambino e un uccellino con un’ala spezzata”, e se possibile sembra ancora meno nelle mie corde del precedente. Bird Story non ha ancora una data di uscita ufficiale; se la storia dei programmatori di RPG Maker mi ha insegnato qualcosa, è facile che prima di allora Kan Gao sia scappato in Kirghizistan e abbia aperto un allevamento di cavalli (sembrano piacergli così tanto).
Quanto a me, la carrellata di articoli dedicati alla Luna e all’esplorazione spaziale non è ancora terminata. Ne riparleremo lunedì prossimo.

To the Moon Screenshot Horses

Figa i cavalli.


(1) Dico “giochi di ruolo” per semplificare. In realtà, benché RPG Maker sia impostato principalmente per realizzare gdr, un utente un po’ scafato può piegare il programma per realizzare (con fatica) altri tipi di gioco, dallo sparatutto al platform.Torna su


(2) Su tutte, il trauma infantile che sconvolge la vita di Johnny. L’incidente stradale che ti ammazza il fratellino è una delle trovate più abusate nella storia della narrativa drammatica. E il fatto che si passi un’ora di gioco buona a cercare di scoprire di cosa si tratti rende la delusione solo più cocente, quando finalmente il mistero è risolto.Torna su


(3) Il fulcro della relazione tra Johnny e Rivers è che lui si è dimenticato del loro primo incontro quand’erano piccoli, e lei non gliel’ha mai perdonato. Questa sua dimenticanza, a sua volta, è causata dal fatto che per dimenticare il trauma della perdita del fratello è stato imbottito di psicofarmaci.
Ora, per far nascere in Johnny il desiderio di andare sulla Luna, Eva rimuove dai suoi ricordi il secondo incontro con Rivers, al liceo; in questo modo, lui continuerà inconsciamente a “inseguirla” sulla Luna. Tuttavia Eva fa anche una seconda cosa, ossia cancella la morte del fratello. Ma questo fa crollare tutto il castello di carte.
Se suo fratello non muore, Johnny non comincerà mai a prendere psicofarmaci. Non perderà mai la memoria, ergo tornerà nel ‘posto magico’ con Rivers l’anno dopo. Il secondo incontro al liceo non avverrà mai, semplicemente perché i due non smetteranno di vedersi. Ma allora Johnny, non avendo smarrito Rivers, non proverà mai la tentazione di andare sulla Luna. Se risparmi il fratello, altre cose potranno cambiare, ma non è chiaro che direzioni prenderà il rapporto tra i due; Johnny potrebbe ritrovarsi di nuovo infelice alla fine della sua vita.

Datemi del cinico, ma io avrei preferito semplicemente che Eva rimuovesse Rivers dalla vita di Johnny (cambiando solo l’episodio del liceo). Lui sarebbe stato molto più felice. Forse sarebbe andato sulla Luna. Forse no. Ma non avrebbe vissuto una vita inutile accanto a una donna come Rivers.Torna su