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I Consigli del Lunedì #44: The Forever War

The Forever WarAutore: Joe Haldeman
Titolo italiano: Guerra eterna
Genere: Science Fiction / Military SF / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1975
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 260 ca.

Difficoltà in inglese: **

La vita di William Mandella, e di altri novantanove giovani come lui, cambia per sempre il giorno in cui una navicella spaziale, mandata a colonizzare un pianeta lontano, viene abbattuta da un vascello di origine aliena. Nulla di sa di chi siano i colpevoli o perché l’hanno fatto – si sa soltanto che bisogna distruggerli senza pietà, prima che siano loro a fare lo stesso. L’organo militare dell’UNEF prende il controllo del programma di colonizzazione, e i cento giovani più brillanti del pianeta sono costretti ad arruolarsi per istituire un corpo di combattenti spaziali d’élite. La Terra è appena entrata in guerra.
Mandella, dottorando in fisica poco più che ventenne, ha vinto un biglietto di sola andata per Charon, pianetucolo ai margini del Sistema Solare, dove sarà addestrato per diventare una macchina da guerra e imparare a pilotare la sua tuta spaziale. Questa è solo la prima tappa di un viaggio che lo porterà verso regioni sconosciute della galassia, a combattere contro un nemico incomprensibile. Il suo obiettivo? Riuscire a sopravvivere per tutti e quattro anni di leva forzata, e tornare a casa intero. Non sa ancora quello che lo aspetta – la guerra eterna è appena cominciata.

Cosa succederebbe se l’umanità scoprisse il sistema per il viaggio interstellare, ma il suo sogno di colonizzazione della galassia venisse istantaneamente spezzato da un nemico incomprensibile e intenzionato a distruggerci? Questa è la premessa da cui parte Joe Haldeman nel suo romanzo d’esordio nella fantascienza. The Forever War è un’opera estremamente ambiziosa, che vuole coniugare una speculazione su come realisticamente si potrebbe combattere una guerra interstellare, con il racconto delle dinamiche della vita sotto le armi.
The Forever War, che nel mondo anglosassone è diventato un classico (tanto che la Gollancz lo scelse per inaugurare gli SF Masterworks) si inserisce nella scia della seria fantascienza militare inaugurata da Starship Troopers. Il romanzo di Haldeman si articola in tre parti – “Soldato Mandella”, “Tenente Mandella”, “Maggiore Mandella” – che raccontano altrettante tappe nella carriera militare del suo riluttante protagonista, e altrettante fasi della guerra. Ma l’approccio di Haldeman è antitetico a quello di Heinlein; e invece che mostrarci un’utopia militaristica dai solidi principi morali, ci getta in un’atmosfera cinica e amara, e nei panni di un uomo che questa guerra proprio non la vuole fare. Vale la pena, quindi, dopo il Consiglio dedicato questa primavera ad Heinlein, ascoltare anche la campana di The Forever War.

Un brano per restare in tema: l’Overture dalla colonna sonora “non ufficiale” del film Silent Running ad opera dei 65daysofstatic.

Uno sguardo approfondito
Con The Forever War, Haldeman si è scelto un soggetto parecchio difficile. Fin dall’inizio si trova a dover spiegare al lettore un sacco di cose: a che punto è arrivata la tecnologia spaziale umana, come funziona il viaggio interstellare, come è stata impostata la guerra ai Taurani (come è stato ribattezzato il nemico), gli effetti della relatività a velocità vicine a quella della luce. Bisogna però ammettere che Haldeman sceglie uno dei modi peggiori per riempire questo vuoto di spiegazioni: col raccontato, i riassuntoni, gli infodump.
The Forever War è scritto in prima persona dal punto di vista di William Mandella, e il suo timbro rende quantomeno più plausibile (e accettabile) il fatto che l’autore spenda tanto tempo, fin dalle prime pagine, nello spiegarci il suo worldbuilding. Pur non essendo un narratore istrionico come le prime persone dei romanzi di Heinlein o di Mellick, Mandella fa il suo dovere: è un tipo cinico e sarcastico, che odia cordialmente l’esercito e tutto ciò che gli è ordinato di fare, e la sua voce è riconoscibile per tutto il romanzo. “There really wasn’t any sense in having us train in the cold. Typical army half-logic”, ci racconta il narratore all’inizio del secondo capitolo.

La voce di Mandella, però, non allevia la pesantezza del raccontato e dell’approccio di Haldeman alle spiegazioni. Poco dopo, sempre nel secondo capitolo, ecco come esordisce la spiegazione sui collapsar jump, il principio fisico che permette i viaggi interstellari:

Twelve years before, when I was ten years old, they had discovered the collapsar jump. Just fling an object at a collapsar with sufficient speed, and out it pops in some other part of the galaxy. It didn’t take long to figure out the formula that predicted where it would come out: it travels along the same “line” (actually an Einsteinian geodesic) it would have followed if the collapsar hadn’t been in the way – until it reaches another collapsar field, whereupon it reappears, repelled with the same speed at which it approached the original collapsar. Travel time between the two collapsars – exactly zero.

Se un infodump di queste dimensioni è digeribile, e tutto sommato “informa” il lettore in modo abbastanza efficiente, il dilatarsi di questo stile narrativo per la maggior parte del romanzo trasforma spesso la lettura in un pantano. Il raccontato in Haldeman si affaccia infatti non solo nei flashback o nelle digressioni di background, ma anche in molte scene nel presente narrativo – come le descrizioni dei tempi morti durante i viaggi interstellari da una destinazione all’altra – o anche in vere e proprie scene d’azione – come le descrizioni di alcune fasi di una battaglia campale. Questo non può che creare un filtro tra il lettore e la storia, rendendolo meno coinvolto nel destino dei personaggi. Nonostante la mole di idee affascinanti, a livello emotivo capita spesso di sentirsi poco presi da quel che succede.
E il problema si estende anche alla caratterizzazione dei personaggi. Aldilà del protagonista, tutte le altre persone che incontriamo nel corso del romanzo sono poco più che nomi volanti con qualche tratto caratteristico appiccicato addosso – il soldato Rogers, il sergente di ferro Cortez, il gelido capitano Stott, e più avanti il luogotenente Charlie o l’autoritaria Hilleboe; la stessa Marygay, di cui il protagonista si innamora. Si fa fatica ad affezionarsi a loro o anche solo a dare loro una fisionomia, per cui il fatto che poi nelle battaglie muoiano a decine e centinaia ci lascia sempre abbastanza indifferenti.

Kerbal Space Program Personaggi

La vera identità dei Taurani?

La distanza tra noi e la storia è anche una conseguenza della natura episodica del romanzo. Nel solco di Starship Troopers, anche The Forever War ci racconta le tante tappe nella vita di soldato di Mandella, così da costituire tante piccole storie separate: il campo d’addestramento nel Missouri, poi l’addestramento all’uso della tuta spaziale sul pianeta Charon, la costruzione della base a Stargate – il punto di partenza di tutte le campagne terrestri – e poi le varie battaglie, e i lunghi mesi di viaggio da un punto all’altro.
Ogni episodio permette a Haldeman di toccare questo o quell’argomento, dalla spiegazione del funzionamento delle camere di accelerazione ai modi per mantenere la disciplina a bordo di una piccola nave spaziale; dalla costruzione di un avamposto militare su un pianetoide ostile, a una digressione sugli effetti della dilatazione relativistica del tempo, al modo più efficace per punire un soldato rissoso che rischia di mettere in pericolo l’equipaggio.
Questo approccio era probabilmente l’unico per raccontare una storia così complessa, e che copre un arco temporale così vasto. Preso di per sé non solo non mi dispiace, ma non può neanche essere oggettivamente chiamato “difetto”. Nondimeno, in combinazione con la prosa poco mostrata e molto distante di Haldeman, contribuisce a rendere la lettura lenta.

Dove The Forever War brilla davvero, è nella descrizione della vita militare. Si capisce al volo che Haldeman sotto le armi c’è stato davvero, e in un’esperienza che gli ha lasciato il dente avvelenato – fu infatti la guerra del Vietnam, a cui partecipò come combat engineer.1 Addestramenti meccanici e spesso inutili, comandanti codardi, la retorica sul gruzzolo che stanno accumulando servendo la patria (ma di cui certo non potranno godere se moriranno prima della fine dei quattro anni di leva obbligatoria), strane idiosincrasie – come la sostituzione del classico saluto militare con un “fuck you sir!” che dovrebbe sollevare gli animi dei soldati, ma che alla fin fine non fa che esacerbarli ancora di più – sono tanti piccoli dettagli che formano un quadro credibile e (nonostante la prosa) immersivo.
Non possiamo che sposare il risentimento e la paura di Mandella prima di una battaglia, nella consapevolezza che stanno andando al macello e che pochissimi potranno tornare a casa a godersi gli stipendi accumulati. A differenza del classico di Heinlein, insomma, Haldeman ci mostra un esercito meno eroico e  più ‘umano’, molto più realistico nel suo cinismo, nella sua fallibilità, nella stupidità di molte sue scelte.

Griffin military

 

Ma, al tempo stesso, evita di cadere nell’estremo opposto di un esercito “idiota e cattivo” perché sì. Facendo compiere al suo protagonista tutto l’arco della carriera militare – da soldato semplice ad alto ufficiale – nel corso del romanzo il lettore sente entrambe le campane, quella di chi è costretto a eseguire gli ordini e quella di chi è costretto a darli.
Attraverso gli occhi del Mandella ufficiale, capiremo anche la necessità di certe procedure in sé stupide, e l’importanza di mantenere la disciplina, la gerarchia e i suoi strani rituali, per quanto spesso sembrino stupidi e perversi. La guerra è una cosa orribile, è vero, e spesso chi sta in cima alla catena di comando appare come uno stronzo insensibile che tratta i soldati come degli expendables; ma al tempo stesso, sembra dirci Haldeman, in una guerra in cui non capisci il tuo nemico, l’unico modo di procedere è alla cieca, per trial and error, tentando di portare a casa qualche risultato nel modo più efficiente possibile.

La stessa ricerca di verosimiglianza la ritroviamo nell’immaginare come potrebbe funzionare una guerra tra due civiltà spaziali. Anche se non è rigoroso come un Clarke o un Anderson, l’approccio di The Forever War è quello dell’Hard SF. Le collapsar, i corpi celesti inventati da Haldeman che piegano lo spazio-tempo e connettono due punti lontani della galassia, funzionano alla fin fine come i classici wormhole e sono il punto meno elegante del worldbuilding del romanzo; ma il sistema di propulsione delle navicelle umane – il Bussard ramjet – e gli effetti di dilatazione temporale del viaggiare a velocità vicine a quelle della luce sono uguali a quelli che troviamo in Tau Zero di Poul Anderson.
Haldeman sfata tanti miti da sovraesposizione a Star Wars, dall’assurdità dei dogfight spaziali all’abilità dei piloti umani. In The Forever War, il 90% delle battaglie è gestito dai computer, per l’ottimo motivo che un essere umano non potrà mai eguagliarne la rapidità di calcolo; gli scontri si svolgono a milioni di chilometri di distanza, e le battaglie campali sono rare e ben distanziate da mesi e mesi di semplice viaggio da un corpo celeste all’altro.2 Un esempio eccellente dell’approccio razionale di Haldeman alle battaglie è la descrizione (non priva di un simpatico umorismo nero) dei cannoni laser posti a difesa delle basi planetarie:

On top was a swivel-mounted gigawatt laser. The operator—you couldn’t call him a “gunner”—sat in a chair holding deadman switches in both hands. The laser wouldn’t fire as long as he was holding one of those switches. If he let go, it would automatically aim for any moving aerial object and fire at will. Primary detection and aiming was by means of a kilometer-high antenna mounted beside the bunker.
It was the only arrangement that could really be expected to work, with the horizon so close and human reflexes so slow. You couldn’t have the thing fully automatic, because in theory, friendly ships might also approach.
The aiming computer could choose among up to twelve targets appearing simultaneously (firing at the largest ones first). And it would get all twelve in the space of half a second.
The installation was partly protected from enemy fire by an efficient ablative layer that covered everything except the human operator. But then, they were dead-man switches. One man above guarding eighty inside. The army’s good at that kind of arithmetic.

Space Dogfight

Ecco: queste cose no.

Nonostante tutto ciò, e malgrado la prosa distanziante, Haldeman è in grado di costruire nel corso del romanzo una manciata di battaglie campali realmente appassionanti. L’ultima battaglia alla fine del libro, in particolare, è carica di tensione e rimane fino all’ultimo di esito incerto. L’ho letta d’un fiato.
Tutto The Forever War è un susseguirsi di alti e bassi, di scene straordinarie e momenti noiosotti o proprio mal scritti. La parte ambientata sulla Terra, per esempio, è narrata in modo chiaramente sbrigativo – specialmente nel finale, che ha tutto il sapore di un deus ex machina messo a bella posta per costringere il protagonista a tornare nello spazio – come se l’autore avesse fretta di tornare a raccontare la vita militare.

Nel complesso, The Forever War è un libro straordinario e abbastanza unico nel suo genere, nonostante una pletora di difetti grandi e piccoli gli impediscano di essere un vero capolavoro. Soprattutto, del romanzo di Haldeman colpisce l’ambizione e vastità di propositi – il voler raccontare in neanche trecento pagine cinquecento anni di storia, di guerra, di evoluzione tecnologica. Tanti temi vengono abbozzati, alcuni in maniera più riuscita e altri meno – dal controllo delle nascite, al sesso, all’economia di guerra, alla difficoltà di comunicazione tra specie diverse e alle conseguenze che questo genere.
Il finale arriva in modo brusco e ci lascia in bocca un sapore amaro – ma alla fin fine, è l’unico finale credibile per un romanzo come questo (a meno di farlo finire in medias res, senza una risoluzione), e mi piace. Entro la fine del romanzo avremo tutte le risposte: scopriremo chi sono i Taurani, come e perché sia scoppiata la guerra, cosa vogliano da noi. E tutto ha perfettamente senso – benché sia un senso molto grottesco.
In definitiva, The Forever War è uno di quei libri che colpisce moltissimo sul piano intellettuale, meno su quello emotivo, ma che in generale non si chiude con indifferenza. La mia raccomandazione? Cominciatelo, e vedete se riuscite a digerire la prosa. Se superate le prime dieci o venti pagine, avrete una buona idea di come sarà – coi suoi alti e bassi – tutto il resto del romanzo. Secondo me ne vale la pena.

Su Haldeman
In seguito alla bella esperienza di The Forever War, ho letto altri tre romanzi di Haldeman. Nessuno di questi eguaglia il suo esordio nella fantascienza, ma sono comunque una lettura interessante:
All My Sins RememberedAll My Sins Remembered (Al servizio del TB II), il migliore dei tre, è in realtà una raccolta di tre novellas collegate da una cornice. Il libro racconta la vita e la carriera di Otto McGavin, agente segreto con la capacità, tramite ipnosi, di ‘diventare’ altre persone (assumendo i loro ricordi e la loro personalità) e potersi così infiltrare in qualsiasi ambiente. In tre tappe che raccontano altrettanti casi che è chiamato a risolvere, vedremo la discesa di McGavin da pacifista convinto ad assassino a sangue freddo e la sua graduale perdita di identità. L’opera – che vuole essere un quadro amaro sulla crudeltà dei governi e le brutture della guerra – colpisce allo stomaco, ma è troppo frammentata e scritta non particolarmente bene.
The Hemingway HoaxThe Hemingway Hoax (Il paradosso Hemingway) è una strana novella sui viaggi nel tempo e le dimensioni parallele. Partendo dal famoso aneddoto del primo manoscritto di Hemingway – un romanzo completo che la moglie gli perse per sbaglio prima della consegna all’editore e non fu mai più ritrovato – Haldeman immagina la storia dell’incontro tra John Baird, studioso di Hemingway, e il falsario Castlemaine, e la loro decisione di forgiare un falso manoscritto per farci su bei soldi. Ma l’impresa prenderà una piega inaspettata, e Baird si troverà a fronteggiare un’entità sovrannaturale e la trasformazione della struttura stessa dell’universo. L’idea iniziale è interessante, ma lo svolgimento diventa gradualmente più contorto, e tutto l’elemento sovrannaturale suona un po’ stonato: ce ne vuole per convincerci che la virilità di Hemingway può determinare il destino dell’universo! Curioso ma troppo pasticciato.
Forever PeaceForever Peace (Pace eterna), seguito concettuale di The Forever War, è un romanzo militare aggiornato al mondo della guerra di quarta generazione (4GW) e delle nanotecnologie. Julian Class è un pilota di soldierboy, guerrieri artificiali comandati a distanza tramite connessioni neurali, chiamato a combattere coi suoi compagni l’infinita guerra contro gli Ngumi, una rarefatta organizzazione terroristica sudamericana. Sullo sfondo, un piano disperato per terminare per sempre tutte le guerre. Il romanzo presenta tutti gli elementi classici di Haldeman – sfiducia verso i governi, brutalità della guerra, stupidità della burocrazia civile e militare – ma ha due problemi: una pesante asimmetria nella trama (la prima metà del libro è slice of life cupo, la seconda diventa un thrillerone un po’ ingenuo), e una struttura narrativa demente (vengono alternati paragrafi in prima persona col pov di Julian e paragrafi in terza con narratore onnisciente). Poteva essere un capolavoro, invece è così così.

Dove si trova?
Nel mondo anglosassone The Forever War è molto famoso, ergo trovarlo è estremamente facile, sia su Library Genesis che su Bookfinder (che sembra essersi definitivamente ribattezzato Bookfi). Per l’edizione italiana, cercate “Guerra eterna” sul caro vecchio Emule o su Torrentz.

Qualche estratto
Per questo articolo ho scelto due brani il più possibile antitetici: il primo è un puro infodump, ed espande il didascalico estratto che avevo già messo nel corpo dell’articolo sul collapsar jump; il secondo invece mostra una scena d’azione, ossia un’esercitazione di combattimento del corpo di Mandella al boot camp sul pianeta Charon.

1.
Twelve years before, when I was ten years old, they had discovered the collapsar jump. Just fling an object at a collapsar with sufficient speed, and out it pops in some other part of the galaxy. It didn’t take long to figure out the formula that predicted where it would come out: it travels along the same “line” (actually an Einsteinian geodesic) it would have followed if the collapsar hadn’t been in the way – until it reaches another collapsar field, whereupon it reappears, repelled with the same speed at which it approached the original collapsar. Travel time between the two collapsars – exactly zero.
It made a lot of work for mathematical physicists, who had to redefine simultaneity, then tear down general relativity and build it back up again. And it made the politicians very happy, because now they could send a shipload of colonists to Fomalhaut for less than it had once cost to put a brace of men on the moon. There were a lot of people the politicians would love to see on Fomalhaut, implementing a glorious adventure rather than stirring up trouble at home.
The ships were always accompanied by an automated probe that followed a couple of million miles behind. We knew about the portal planets, little bits of flotsam that whirled around the collapsars; the purpose of the drone was to come back and tell us in the event that a ship had smacked into a portal planet at .999 of the speed of light.
That particular catastrophe never happened, but one day a drone limped back alone. Its data were analyzed, and it turned out that the colonists? ship had been pursued by another vessel and destroyed. This happened near Aldebaran, in the constellation Taurus, but since “Aldebaranian” is a little hard to handle, they named the enemy “Tauran.”
Colonizing vessels thenceforth went out protected by an armed guard. Often the armed guard went out alone, and finally the Colonization Group got shortened to UNEF, United Nations Exploratory Force. Emphasis on the “force.”
Then some bright lad in the General Assembly decided that we ought to field an army of footsoldiers to guard the portal planets of the nearer collapsars. This led to the Elite Conscription Act of 1996 and the most elitely conscripted army in the history of warfare.
So here we were, fifty men and fifty women, with IQs over 150 and bodies of unusual health and strength, slogging elitely through the mud and slush of central Missouri, reflecting on the usefulness of our skill in building bridges on worlds where the only fluid is an occasional standing pool of liquid helium.

Dodici anni prima, quando io avevo dieci anni, avevano scoperto il balzo tra le collapsar. Lancia un oggetto contro una collapsar a velocità sufficiente, e l’oggetto ti schizza fuori in qualche altra parte della galassia. Non c’era voluto molto tempo per calcolare la formula che prediceva dove sarebbe uscito: l’oggetto viaggia lungo la stessa “linea” (che in realtà è una linea geodetica einsteiniana) che avrebbe seguito se non ci fosse stata di mezzo la collapsar, fino a quando non arriva a un altro campo di collapsar, e allora ricompare, respinto con la stessa velocità con cui si era avvicinato al primo campo. Tempo impiegato nel viaggio tra le due collapsar… esattamente zero.
Questo aveva comportato un sacco di lavoro per i fisici matematici, che erano stati costretti a ridefinire la simultaneità, e poi a fare a pezzettini la relatività generale e a ricostruirla daccapo. E aveva reso felici gli uomini politici, perché adesso potevano spedire a Fomalhaut un’astronave carica di coloni, spendendo meno di quanto costasse una volta spedire un gruppetto di uomini sulla Luna. C’era una quantità di gente che gli uomini politici preferivano vedere su Fomalhaut, a realizzare una gloriosa avventura, anziché a fomentare guai in patria.
Le astronavi erano sempre accompagnate da una sonda automatizzata che le seguiva a una distanza di qualche milione di chilometri. Sapevamo tutto dei pianeti portale, pezzettini di detriti cosmici che turbinavano intorno alle collapsar: la funzione della sonda consisteva nel ritornare indietro a informarci, nel caso che un’astronave fosse andata a sbattere contro un pianeta portale a 0,999 della velocità della luce.
Una catastrofe di questo genere non era mai capitata, ma un brutto giorno una sonda era ritornata indietro da sola, zoppicando. I dati erano stati analizzati, ed era saltato fuori che l’astronave dei coloni era stata inseguita da un altro veicolo spaziale ed era stata distrutta. Il fattaccio era successo dalle parti di Aldebaran, nella costellazione del Toro, latino Taurus, ma poiché “Aldebaraniani” era un po’ lungo da pronunciare, i nemici erano stati battezzati “Taurani”.
A partire da quella volta, le astronavi dei coloni si erano messe in viaggio protette da una scorta armata. Spesso la scorta annata si metteva in viaggio da sola, e alla fine il Gruppo Colonizzazione venne abbreviato in FENU, Forza Esplorativa delle Nazioni Unite. Con l’accento su Forza.
Poi qualche genio dell’Assemblea Generale aveva deciso che bisognava piazzare un’armata di fanti e fare la guardia ai pianeti portale delle collapsar più vicine. E questo portò alla Legge per la Coscrizione Elitaria del 1996, e alla creazione dell’esercito più elitario in tutta la storia della guerra.
E perciò adesso noi eravamo lì, cinquanta uomini e cinquanta donne, con quoziente d’intelligenza superiore a 150, e fisico dotato di salute e di forza fuori del comune, a trascinarci elitariamente nel fango e nella neve impoltigliata del Missouri centrale, a meditare sull’utilità della nostra bravura nel costruire ponti su mondi dove l’unico fluido che si può trovare è qualche pozzanghera stazionaria di elio liquido.

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L’esplorazione spaziale può essere pericolosa…

2.
“Fire team A—move out!” The twelve of us advanced in a ragged line toward the simulated bunker. It was about a kilometer away, across a carefully prepared obstacle course. We could move pretty fast, since all of the ice had been cleared from the field, but even with ten days’ experience we weren’t ready to do more than an easy jog.
I carried a grenade launcher loaded with tenth-microton practice grenades. Everybody had their laser-fingers set at a point oh eight dee one, not much more than a flashlight. This was a simulated attack—the bunker and its robot defender cost too much to use once and be thrown away.
“Team B, follow. Team leaders, take over.”
We approached a clump of boulders at about the halfway mark, and Potter, my team leader, said, “Stop and cover.” We clustered behind the rocks and waited for Team B.
Barely visible in their blackened suits, the dozen men and women whispered by us. As soon as they were clear, they jogged left, out of our line of sight.
“Fire!” Red circles of light danced a half-klick downrange, where the bunker was just visible. Five hundred meters was the limit for these practice grenades; but I might luck out, so I lined the launcher up on the image of the bunker, held it at a forty-five degree angle and popped off a salvo of three.
Return fire from the bunker started before my grenades even landed. Its automatic lasers were no more powerful than the ones we were using, but a direct hit would deactivate your image converter, leaving you blind. It was setting down a random field of fire, not even coming close to the boulders we were hiding behind.
Three magnesium-bright flashes blinked simultaneously about thirty meters short of the bunker. “Mandella! I thought you were supposed to be good with that thing.”
“Damn it, Potter—it only throws half a klick. Once we get closer, I’ll lay ’em right on top, every time.”
“Sure you will.”
I didn’t say anything. She wouldn’t be team leader forever.

— Squadra A… muoversi! — E noi dodici avanzammo in una fila irregolare verso il bunker simulato. Era a circa un chilometro di distanza, in fondo a un percorso a ostacoli accuratamente preparato. Potevamo muoverci in fretta, poiché quasi tutto il ghiaccio era stato rimosso dal campo, ma nonostante i dieci giorni di esperienza non ce la sentivamo di andare a un’andatura più svelta di un trotto tranquillo.
Io portavo un lanciagranate carico con bombe da esercitazione di un decimo di microton. Tutti avevamo le dita laser regolate a zero virgola zero otto, dispersione uno: poco più di una lampada tascabile. Era un attacco simulato… il bunker e il suo difensore robot costavano troppo perché si potesse pensare di adoperarli una volta e poi buttarli via.
— Squadra B, seguiteli. Comandanti di squadra, prendete il comando.
Ci avvicinammo a un gruppo di macigni che si trovavano circa a metà strada, e la Potter, il mio comandante di squadra, disse: — Fermatevi e mettetevi al coperto. — Ci raccogliemmo dietro le rocce e aspettammo la Squadra B.
A malapena visibili negli scafandri anneriti, i dodici, uomini e donne, ci passarono accanto con un fruscio. Non appena furono lì al sicuro, si avviarono verso sinistra, fuori della nostra visuale.
— Fuoco! — Cerchi rossi di luce danzarono più avanti, dove il bunker era appena visibile. La portata massima di quelle granate da esercitazione era cinquecento metri; ma io speravo di avere fortuna, perciò puntai il lanciagranate sull’immagine del bunker, lo tenni inclinato a un angolo di quarantacinque gradi e feci partire una salva di tre colpi.
Il bunker rispose al fuoco prima ancora che le mie granate arrivassero a terra. I suoi laser automatici non erano più potenti di quelli che adoperavamo noi, ma un colpo diretto avrebbe disattivato il trasformatore d’immagini, lasciandoci ciechi. Il bunker stava sparando a casaccio, senza neppure avvicinarsi ai macigni dietro i quali stavamo nascosti.
Tre lampi fulgidissimi, come magnesio, ammiccarono simultaneamente a trenta metri dal bunker. — Mandella! Credevo che tu sapessi maneggiare quel coso!
— Accidenti, Potter… arriva a mezzo chilometro soltanto. Quando saremo più vicini, lo colpirò giusto sul tetto, tutte le volte.
— Sicuro. — Io non replicai. Non sarebbe stata in eterno al comando della squadra.

Tabella riassuntiva

Una rappresentazione lucida di una guerra interstellare. Uso sistematico del raccontato e dell’infodump.
La vita militare raccontata da chi l’ha vissuta realmente.  Personaggi piatti a cui è difficile affezionarsi.
Alcune battaglie regalano veri momenti di tensione. La struttura episodica rallenta il ritmo di lettura.
Sense of wonder a manetta.


(1) E’ in questo, secondo me, che sta la grande differenza d’approccio tra Heinlein e Haldeman. Il primo partecipò – come ufficiale di Marina – alla Seconda Guerra Mondiale, una guerra “giusta” nella misura in cui era una reazione alle aggressioni di Germania e Giappone; e non andò mai personalmente al fronte. Haldeman invece ci andò, al fronte, e contro la propria volontà; e in una guerra di occupazione che non fu mai molto ben giustificata.
Heinlein, insomma, ebbe l’impressione di stare facendo la cosa giusta; Haldeman, di essere trascinato in una cosa orribile con cui non avrebbe voluto avere nulla a che fare. Di qui l’ottimismo dell’uno e il pessimismo dell’altro in merito alla vita militare.
E’ bene comunque ricordare che la supposta rivalità tra i due autori, di cui a volte si sente parlare, non ci fu mai. Haldeman non scrisse The Forever War “contro” Starship Troopers, anzi parlò spesso della sua ammirazione per Heinlein. E viceversa, pare che quando The Forever War vinse il Nebula, Heinlein gli scrisse per congratularsi.Torna su


(2) Certo, non mancano trovate più discutibili. La visione di Haldeman di come sarebbe un esercito aperto alle donne – con l’incoraggiamento del sesso tra camerati al punto dal fare cuccette matrimoniale e indire ogni notte un’assegnazione randomizzata delle suddette cuccette, così da permettere a tutti di accoppiarsi con tutti – fa molto anni ’70, ma oggi che abbiamo veramente quote femminili negli eserciti suona un po’ buffo.Torna su

I Consigli del Lunedì #42: The Moon Is A Harsh Mistress

The Moon Is A Harsh MistressAutore: Robert A. Heinlein
Titolo italiano: La Luna è una severa maestra
Genere: Science Fiction / Hard SF / Politico
Tipo: Romanzo

Anno: 1966
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 380 ca.

Difficoltà in inglese: ***

There ain’t no such thing as a free lunch.

Nel XXI secolo la Luna è diventata una colonia penale. Una prigione che non ha bisogno di sbarre né di molte guardie, perché fuggire è impossibile: pochi possono permettersi di pagare il passaggio sulle navi merci che transitano mensilmente; e soprattutto, dopo pochi mesi di permanenza sulla Luna, la bassa gravità opera sull’organismo cambiamenti irreversibili che rendono insopportabile la gravità terrestre. Sotto l’occhio vigile dell’Autorità Lunare, i Lunatici si sono costruiti la propria società, scavando intere città sotterranee e trattando lo sterile suolo terrestre in modo da convertirlo in acqua e grano. Una quota del grano prodotto viene mensilmente venduta all’Autorità, proprietaria di una catapulta con cui viene spedito nello spazio e giù sulla Terra.
Manuel non si è mai interessato di politica. Nato sulla Luna da nonni deportati, è fiero di essere un Lunatico, ma conduce una vita tranquilla come tecnico del super-computer che coordina tutte le attività amministrative a Luna City. Manuel è anche l’unico ad essersi accorto che un bel giorno il computer è diventato autocosciente; l’ha chiamato Mike ed è diventato il suo unico amico. Ma una sera del 2075, per fare un favore a Mike, Manuel si trova suo malgrado invischiato in una protesta dei Lunatici contro il monopolio dell’Autorità. E ben presto capirà che in gioco c’è il futuro stesso dei Lunatici e delle risorse lunari. O la Luna diventerà indipendente e libera dalla Terra, o sono condannati a un futuro di carestia e schiavitù… e Manuel potrebbe avere in mano la carta vincente per decidere le sorti della rivolta.

The Moon is a Harsh Mistress, o: piccolo manuale del rivoluzionario pragmatico. Il Consiglio di oggi non avrebbe certo bisogno di presentazioni; Robert Heinlein è uno dei Big Three della fantascienza della Golden Age, e questo è uno dei suoi romanzi più famosi, dopo (o accanto a?) Starship Troopers e Stranger in a Strange Land. Ma mentre alcuni dei suoi romanzi più celebri – compresi i due summenzionati – negli ultimi anni sono stati riportati nelle librerie italiane, dalla Mondadori e dalla Fanucci, La Luna è una severa maestra è rimasto relegato alle ristampe Urania. Un trattamento ingiusto. Dopo il Consiglio su Clarke e quello su Asimov, dunque, è giunto il momento di chiudere il cerchio con questo classico (non molto letto in Italia) di Heinlein.
Come potrebbe un piccolo satellite come la nostra Luna ribellarsi con successo alla Terra e conquistare l’indipendenza? Quali tattiche dovrebbe adottare, come dovrebbe organizzarsi? The Moon Is A Harsh Mistress ci racconta tutte le fasi della rivoluzione lunare – dai primi germi, alla preparazione, all’esecuzione, all’esito finale. Ma Moon è anche un’opera di Hard SF, e un romanzo d’azione; e a tratti diventa anche un trattato di filosofia politica. Vediamo come il buon vecchio Anson ha tenuto tutto insieme.

Brass Cannon

Un cannone di ottone. Uno dei simboli del romanzo, infatti Heinlein originariamente avrebbe voluto intitolarlo “The Brass Cannon” (fortunatamente gli fu impedito di commettere questa pazzia).

Uno sguardo approfondito
Immaginate di uscire a bere qualcosa con un amico che non vedevate da tempo. Seduti a un tavolo, boccale di birra davanti, il vostro amico vi racconta la storia della sua vita e voi, pazienti, lo ascoltate. Ecco: questa è esattamente la sensazione che lascia il narratore di Heinlein. The Moon is a Harsh Mistress, come molti altri dei suoi romanzi, è raccontato in prima persona e al passato remoto dal protagonista Manuel O’Kelly-Davis. Dico “raccontato” non a caso, perché per trovare delle scene mostrate decentemente in tutto il romanzo bisogna andare a cercarle col lanternino.
Tutto il romanzo è pesantemente filtrato dal punto di vista di Mannie, che non si fa problemi a commentare, fare del sarcasmo, lanciarsi in digressioni su questo o quello. A descrizioni dettagliate di alcune scene chiave, seguono riassunti sbrigativi di giorni o anche settimane di avvenimenti. Gli infodump sono spiattellati in faccia al lettore senza tanti problemi: per esempio, all’inizio del romanzo il protagonista va a incontrare Mike, e subito si lancia in un lungo excursus sulla natura del super-computer, sulla storia di come abbia scoperto che era senziente e di come sono diventati amici. Solo il tono frizzante e sopra le righe della voce narrante, e il fatto che di norma queste digressioni siano interessanti, ti fa resistere alla tentazione di lanciare il libro dalla finestra.

Insomma, l’impostazione narrativa ricorda tanto quella di un romanzo tardo-ottocentesco alla Henry James o Thackeray, non fosse per il fatto che il pov-narratore è troppo arrogante e dalla parlata troppo slang per confonderlo coi libri di quell’epoca. Ma oltre all’immersione – più che calarci direttamente negli avvenimenti della storia, ci sembra di essere di fronte a uno che ce li racconti – ne risente anche il ritmo della narrazione: a parti adrenaliniche in cui succedono cose e seguiamo concitatamente l’azione, seguono pagine e pagine di spiegoni sospesi nel tempo.
E a questo si aggiungono alcune scelte poco chiare di Heinlein nella gestione del ritmo narrativo. Un momento critico e anticipato per un centinaio di pagine, come il golpe dei ribelli sul governo lunare, è liquidato in poche pagine raccontate con grande distacco, mentre pagine e pagine sono dedicate a discussioni inconcludenti tra il protagonista e il Professore (il volto pubblico della rivolta lunare) sul pensiero anarchico.

Edward Hopper

“E ti dicevo, no, di quando ho liberato la Luna dalle ingerenze terrestri…”

Non aiuta la caratterizzazione dei personaggi: The Moon is a Harsh Mistress presenta il tipico spaccato di figure piatte e stereotipate di quasi tutti i romanzi di Heinlein. Wyoming Knott, la bella rivoluzionaria che sedurrà il protagonista convincendolo così a unirsi alla causa, è la classica eroina heinleiniana, forte di carattere ma troppo idealista, indipendente ma sotto sotto ansiosa di essere posseduta da un uomo forte; il Professor de la Paz è il vecchio saggio, indurito e reso cinico da anni di lotte e angherie, ma determinato a fare del mondo un posto migliore. Gli altri personaggi, si fa fatica persino a ricordarseli. Lo stesso protagonista, benché col suo sarcasmo e la sua schiettezza sia un piacevole compagno di viaggio per le quasi 400 pagine del romanzo, è il tipico alter-ego heinleiniano: un uomo pragmatico e moderatamente egocentrico, disposto a cambiare il mondo quel tanto da garantirsi una vita in cui farsi serenamente i cazzi propri e campare cent’anni. Del resto, Heinlein sembra più preoccupato di far dire ai suoi personaggi battute a effetto e scambi brillanti, piuttosto che costruire una psicologia credibile.
Il personaggio più interessante alla fin fine è proprio il super-computer Mike, sorta di bambino prodigio che mescola una conoscenza enciclopedica dell’universo e una capacità di ragionamento sovrumana con un’incredibile ingenuità per le sottigliezze dell’animo e del linguaggio umano. Una sorta di HAL9000 ‘buono’, ma da approcciare con cautela per evitare di essere fraintesi. E’ stimolante vedere come Heinlein gestisca il rapporto tra l’intelligenza artificiale e i protagonisti umani, e come Mike “evolva” nel tempo in conseguenza di queste interazioni.

Ma dove Heinlein ha davvero fatto un lavoro magistrale, è nel worldbuilding. La società lunare appare fin dalle prime pagine come qualcosa di molto diverso da quella terrestre, in ragione della sua storia (il fatto, cioè, di essere nata come colonia penale per ergastolani) e della sua scarsità di risorse (dal cibo alle persone). Farò giusto un paio di esempi.
Morire sulla Luna è facile: basta essere gettati fuori da un portellone dell’aria nel vuoto. Poiché la vita individuale è così a rischio, e in conseguenza della scarsità di popolazione lunare, i Lunatici hanno evitato di estinguersi organizzandosi in veri e propri clan familiari, all’interno dei quali vige il matrimonio di gruppo. In un line marriage, tutti i mariti e le mogli sono sposati tra di loro, e di conseguenza condividono tutte le responsabilità (dall’amministrazione delle finanze all’allevamento dei figli) e prendono insieme tutte le decisioni; quando un figlio raggiunge l’età adulta potrà sposarsi, abbandonando la famiglia originaria ed entrando in matrimonio di gruppo in un’altra famiglia.
In conseguenza della scarsità di donne nella società lunare originaria – quando ancora era soltanto un carcere – il gentil sesso è sempre stato una risorsa preziosa. Di conseguenza, la donna ha acquisito un potere incredibile nella società. Nessun uomo oserebbe mai provarci con una che non ci sta, perché alla minima manifestazione di insofferenza di lei, il pugno di uomini più vicino potrebbe acchiappare il “molestatore” e mandarlo al creatore schiaffandolo fuori da un portellone. E all’interno dei matrimoni di gruppo, il voto delle donne conta quanto quello degli uomini. Insomma, una donna dovrebbe essere piuttosto contenta di vivere sulla Luna.

My nose itches

La vita sulla Luna può essere davvero dura.

Le città della Luna sono enormi complessi sotterranei di sale e corridoi organizzati a livelli, in cui perdersi è facilissimo. I Lunatici sopravvivono del suolo lunare attraverso culture idroponiche e altre complicate trasformazioni molecolari, mediante macchinari direttamente posseduti dalle famiglie. Lungi dall’essere importatori, i Lunatici esportano grano, sparandolo periodicamente sulla Terra dall’unica catapulta di proprietà dell’Autorità Lunare. E proprio il possesso di questa catapulta diventerà il pomo della discordia tra Lunatici e Autorità e scatenerà la rivoluzione lunare.
A fronte di tutte queste belle idee, quindi, è un vero peccato che la storia sia tutta raccontata e che “vediamo” così poco. Le peculiarità antropologiche delle società lunari sono affidate agli spiegoni del protagonista, e anche delle affascinanti città della Luna vediamo ben poco: descrizioni fisiche degli ambienti ci sono solamente quando sono strettamente funzionali alla trama, come un inseguimento tra i cunicoli sotterranei o un assalto della fanteria terrestre alle città.1 Per la maggior parte del romanzo, sembra che i personaggi si muovano nel vuoto o quasi.

Il tratto in assoluto più interessante del romanzo è però ascoltare Heinlein che ci spiega come si fa la rivoluzione. Con un approccio da realpolitik che mi ha ricordato Tecnica del colpo di stato di Curzio Malaparte, Heinlein ci spiega che per rovesciare con successo un governo gli ideali di partenza non contano una mazza; ciò che conta è un’organizzazione efficiente e una strategia rigorosa. Nel corso della storia l’autore toccherà tutti i temi, da come si debbano strutturare le cellule del partito per limitare i danni in caso si venga scoperti, a come prendere il controllo dei punti chiave del governo da rovesciare, a come gestire la propaganda o i negoziati col nemico, fino a come gestire una vera e propria guerra.
L’esecuzione delle varie parti del piano è affascinante, e soprattutto traspare l’idea di quanto sia complicato, e improbabile anche nel migliore degli scenari possibili, avere successo. Qualunque siano le simpatie politiche personali (e le mie non collimano certo con quelle di Heinlein), e nonostante la difficoltà tecnica di immedesimarsi nei ribelli protagonisti, dopo un po’ non si può non simpatizzare per il piccolo Davide-Luna nella sua lotta per trionfare su quel Golia che è la Terra. Così come è interessante vedere come il protagonista passi dalla frase con cui si presenta al lettore – My old man taught me two things: ‘Mind own business’ and ‘Always cut cards.’ Politics never tempted me” – a diventare uno degli organizzatori della rivoluzione. L’unico rammarico è forse che, secondo Heinlein, le possibilità di riuscita da parte di una società piccola come quella lunare è davvero così bassa, da far dipendere tutto il piano dei ribelli su un asso nella manica veramente sbilanciato: l’amicizia con il super-computer che amministra praticamente l’intero satellite. Così sembra quasi troppo “comodo”!

French revolution

La rivoluzione è crudele.

E’ comunque un bene che Heinlein abbia una visione così pragmatica della tecnica del golpe, perché quando si butta nella teoria politica viene da piangere. Tra le dissertazioni del Professor de la Paz e le riflessioni del protagonista, un sacco di pagine sono buttate in una celebrazione del liberismo e dello Stato anarchico che dopo i disastri del 2007-2008 sono assai difficili da prendere sul serio (“ah! Se i governi non si immischiassero e lasciassero che il mercato si autoregolasse negli scambi fra i privati, starebbero tutti meglio! Ah, solo i deboli hanno bisogno dello Stato, gli uomini davvero in gamba si assumono la responsabilità delle proprie azioni!”). Questi passaggi sono resi ancora più deboli dal fatto che, proprio per lo stile pesantemente raccontato, queste teorie e la loro validità non passano come le convinzioni personali di alcuni personaggi, quanto come un dato di fatto sancito dal Narratore.

The Moon is a Harsh Mistress, insomma, è un romanzo geniale nelle idee benché povero nell’esecuzione – anche se, vale la pena dirlo, è pur sempre diverse spanne sopra i veri inetti della prosa, come Clarke o Poul Anderson. La vastità degli argomenti toccati – dal calcolo della traiettoria dei proiettili lanciati dalla Luna a una lezione sulla finanza lunare, dal funzionamento dei matrimonio di gruppo agli effetti della gravità lunare sulla struttura muscolare umana – da sola la dice lunga sulla cura e la serietà messe da Heinlein nello scrivere questo libro.
Se non avete mai letto Heinlein, questo è (proprio come Starship Troopers o Stranger in a Strange Land) un ottimo punto di partenza. Se l’avete letto e vi piace il suo stile, e per qualche strana ragione non avete ancora provato The Moon is a Harsh Mistress, correte a farlo. Se Heinlein invece vi dà il voltastomaco (reazione comprensibile), be’… questo libro è puro Heinlein 100%, quindi forse dovreste starne alla larga. Quanto a me, in futuro mi piacerebbe tornare su Heinlein, magari toccando un romanzo meno conosciuto: la sua bibliografia è sterminata, e materiale di buona qualità non manca. Vediamo intanto le reazioni a questo articolo.

Dove si trova?
Come potete immaginare, non è difficile procurarsi una copia digitale di quest’opera. Edizioni ePub di The Moon Is A Harsh Mistress si trovano sia su Library Genesis che su BookFinder, mentre su Emule potrete scaricarvi la traduzione italiana (La Luna è una severa maestra).

Su Heinlein
Ansioso di informarmi su uno degli scrittori ritenuti più importanti nella storia della fantascienza, nel corso degli ultimi due anni ho letto una decina abbondante di romanzi di Heinlein. Di seguito quelli che ho apprezzato di più – chissà, da uno di questi potrebbe nascere in futuro un Consiglio o una Bonus Track:
The Puppet Masters The Puppet Masters (Il terrore della sesta luna) è un classico dei romanzi d’invasione “tipo ultracorpi”: una navicella atterra in mezzo ai campi del Midwest, e in men che non si dica una progenie di lumaconi prende il controllo della popolazione locale. I lumaconi controllano le loro vittime attaccandosi al loro cervelletto, dopodiché si fingono umani normali e cominciano a diffondersi in modo sistematico… I protagonisti sono un pugno di agenti di un’organizzazione segreta della Difesa americana, e il romanzo racconta di come faranno a contenere l’invasione e quindi annientarla. I personaggi sono abbastanza bidimensionali, c’è molto machismo un po’ datato, nessuna ambiguità morale – ma la partita a scacchi tra i buoni e gli alieni cattivi è affascinante, e gestita con molta intelligenza. Un romanzo piacevole, nettamente superiore all’altro classico dell’invasione “tipo ultracorpi” – The Body Snatchers di Jack Finney.
Farmer in the Sky Farmer in the Sky (Pionieri dello spazio) è un romanzo per ragazzi, uno dei cosiddetti “Heinlein’s Juveniles”. La trama è molto semplice: racconta di un ragazzo che, non avendo prospettive sulla Terra, decide di emigrare sul padre nelle prime colonie su Ganimede, una delle lune di Giove. Ma la vita su Ganimede è dura, la voglia di mollare tanta. C’è una cosa di questo romanzo che me lo rende caro – la sincerità del messaggio che Heinlein lancia ai suoi lettori: nella vita nulla arriva gratis, se vuoi qualcosa devi darti da fare, con intelligenza e determinazione; se molli (per codardia, o pigrizia) perderai il rispetto di te stesso. Il tutto mostrato con molta efficacia. Per me Farmer in the Sky è il migliore degli Heinlein’s Juveniles.
The Door into Summer The Door Into Summer (La porta sull’estate) sembra il sogno bagnato di un’ingegnere mischiato a un romanzo sui viaggi nel tempo. Daniel Davis è il geniale inventore di una serie di automi per le faccende domestiche che hanno rivoluzionato il mercato, ma oggi è un uomo finito: la sua ex-amante e il suo partner d’affari l’hanno truffato e buttato fuori dalla compagnia. Amareggiato dalla vita, Davis decide di farsi criogenizzare assieme al suo unico caro – il suo gatto – per tornare a vivere in un futuro migliore; ma questo è solo l’inizio di una serie di avvenimenti rocamboleschi che lo porteranno a chiudere i conti con i due traditori. Il plot è melodrammatico e la dinamica dei viaggi nel tempo suona inverosimile, ma il protagonista è simpatico, la descrizione delle invenzioni deliziosa e l’interplay tra i personaggi (in particolare con il gatto!) ben riuscito. Il più dolce e meno pretenzioso dei romanzi di Heinlein.
Starship Troopers Starship Troopers (Fanteria dello spazio) non ha certo bisogno di presentazioni. Come tanti giovani della sua età Rico, appena diplomato, non sa cosa fare della propria vita; e più per emulazione che per reale convinzione, si arruola nell’esercito. Attraverso i suoi occhi, vivremo la vita militare in un mondo utopico in cui l’esercito ha assunto il controllo della Terra e la amministra con efficienza, dai boot camp per i cadetti ai campi di battaglia interstellari. Nonostante gli alti e bassi, un romanzo di formazione affascinante e ben scritto; incredibile pensare che sia stato scritto per un target Young Adult.
Stranger in a Strange Land Stranger in a Strange Land (Straniero in terra straniera), un altro dei romanzi più famosi della fantascienza, racconta le peripezie di Michael Valentine Smith, primo uomo nato ed educato su Marte, dopo il suo arrivo sulla Terra. A metà tra il romanzo d’avventura e il saggio antropologico, questo romanzo vuole mettere in luce le idiosincrasie della cultura occidentale attraverso gli occhi ingenui dell’uomo venuto da un altro pianeta. Nonostante alcune digressioni siano un po’ pesanti, questo è uno dei libri dove Heinlein ha trovato il miglior equilibrio tra narrazione e disquisizioni saggistiche. Assicuratevi di leggere la Uncut Version, che contiene un paio di centinaia di pagine in più rispetto alla versione tagliata che è circolata per decenni.
La produzione di Heinlein è in genere divisa in tre periodi cronologici. Tutte le opere che ho letto finora appartengono al Periodo Giovanile (fino a Starship Troopers) o al Periodo della Maturità (fino a The Moon is a Harsh Mistress). Ma visto che Heinlein mi è piaciuto, in futuro leggerò di sicuro anche qualcosa del Periodo Tardo (in particolare sono attratto da Time Enough for LoveFridayJob: A Comedy of Justice). Vi farò sapere che ne penso.

Qualche estratto
Il primo estratto, preso dall’inizio del libro, è la presentazione del personaggio di Mike da parte del protagonista, e dà subito un’idea del tono e del linguaggio colorito della voce narrante (ma anche della maniera in cui semina infodump a pioggia). Il secondo è invece un vivace dialogo tra il protagonista e la bella Wyoh, e tocca i temi caldi del libro: teoria e pratica della rivoluzione, l’organizzazione della famiglia di Mannie, il suo scetticismo pratico e la situazione politica terrestre. E’ un po’ lungo ma ha ritmo – e ne vale la pena.

1.
When Mike was installed in Luna, he was pure thinkum, a flexible logic—“High-Optional, Logical, Multi-Evaluating Supervisor, Mark IV, Mod. L”—a HOLMES FOUR. He computed ballistics for pilotless freighters and controlled their catapult. This kept him busy less than one percent of time and Luna Authority never believed in idle hands. They kept hooking hardware into him—decision-action boxes to let him boss other computers, bank on bank of additional memories, more banks of associational neural nets, another tubful of twelve-digit random numbers, a greatly augmented temporary memory. Human brain has around ten-to-the-tenth neurons. By third year Mike had better than one and a half times that number of neuristors.
And woke up.
Am not going to argue whether a machine can “really” be alive, “really” be self-aware. Is a virus self-aware? Nyet. How about oyster? I doubt it. A cat? Almost certainly. A human? Don’t know about you, tovarishch, but I am. Somewhere along evolutionary chain from macromolecule to human brain self-awareness crept in. Psychologists assert it happens automatically whenever a brain acquires certain very high number of associational paths. Can’t see it matters whether paths are protein or platinum.
(“Soul?” Does a dog have a soul? How about cockroach?)
Remember Mike was designed, even before augmented, to answer questions tentatively on insufficient data like you do; that’s “high optional” and “multi-evaluating” part of name. So Mike started with “free will” and acquired more as he was added to and as he learned—and don’t ask me to define “free will.” If comforts you to think of Mike as simply tossing random numbers in air and switching circuits to match, please do.

Super Mario on the Moon

Non c’entra niente ma DOVEVO metterla.

2.
 “Mannie, why do you say our program isn’t practical? We need you.”
Suddenly felt tired. How to tell lovely woman dearest dream is nonsense? “Um. Wyoh, let’s start over. You told them what to do. But will they? Take those two you singled out. All that iceman knows, bet anything, is how to dig ice. So he’ll go on digging and selling to Authority because that’s what he can do. Same for wheat farmer. Years ago, he put in one cash crop—now he’s got ring in nose. If he wanted to be independent, would have diversified. Raised what he eats, sold rest free market and stayed away from catapult head. I know—I’m a farm boy.”
“You said you were a computerman.”
“Am, and that’s a piece of same picture. I’m not a top computerman. But best in Luna. I won’t go civil service, so Authority has to hire me when in trouble—my prices—or send Earthside, pay risk and hardship, then ship him back fast before his body forgets Terra. At far more than I charge. So if I can do it, I get their jobs—and Authority can’t touch me; was born free. And if no work—usually is—I stay home and eat high.
“We’ve got a proper farm, not a one-cash-crop deal. Chickens. Small herd of whiteface, plus milch cows. Pigs. Mutated fruit trees. Vegetables. A little wheat and grind it ourselves and don’t insist on white flour, and sell—free market—what’s left. Make own beer and brandy. I learned drillman extending our tunnels. Everybody works, not too hard. Kids make cattle take exercise by switching them along; don’t use tread mill. Kids gather eggs and feed chickens, don’t use much machinery. Air we can buy from L-City—aren’t far out of town and pressure-tunnel connected. But more often we sell air; being farm, cycle shows Oh-two excess. Always have valuta to meet bills.”
“How about water and power?”
“Not expensive. We collect some power, sunshine screens on surface, and have a little pocket of ice. Wye, our farm was founded before year two thousand, when L-City was one natural cave, and we’ve kept improving it—advantage of line marriage; doesn’t die and capital improvements add up.
[…] But back to your plan, Wyoh: two things wrong. Never get ‘solidarity’; blokes like Hauser would cave in—because they are in a trap; can’t hold out. Second place, suppose you managed it. Solidarity. So solid not a tonne of grain is delivered to catapult head. Forget ice; it’s grain that makes Authority important and not just neutral agency it was set up to be. No grain. What happens?”
“Why, they have to negotiate a fair price, that’s what!”
“My dear, you and your comrades listen to each other too much. Authority would call it rebellion and warship would orbit with bombs earmarked for L-City and Hong Kong and Tycho Under and Churchill and Novylen, troops would land, grain barges would lift, under guard—and farmers would break necks to cooperate. Terra has guns and power and bombs and ships and won’t hold still for trouble from ex-cons. And troublemakers like you—and me; with you in spirit—us lousy troublemakers will be rounded up and eliminated, teach us a lesson. And earthworms would say we had it coming . . . because our side would never be heard. Not on Terra.”
Wyoh looked stubborn. “Revolutions have succeeded before. Lenin had only a handful with him.”
“Lenin moved in on a power vacuum. Wye, correct me if I’m wrong. Revolutions succeeded when—only when—governments had gone rotten soft, or disappeared.”
“Not true! The American Revolution.”
“South lost, nyet?”
“Not that one, the one a century earlier. They had the sort of troubles with England that we are having now—and they won!”
“Oh, that one. But wasn’t England in trouble? France, and Spain, and Sweden—or maybe Holland? And Ireland. Ireland was rebelling; O’Kellys were in it. Wyoh, if you can stir trouble on Terra—say a war between Great China and North American Directorate, maybe PanAfrica lobbing bombs at Europe, I’d say was wizard time to kill Warden and tell Authority it’s through. Not today.”
“You’re a pessimist.”
“Nyet, realist. Never pessimist. Too much Loonie not to bet if any chance. Show me chances no worse then ten to one against and I’ll go for broke. But want that one chance in ten.”

Tabella riassuntiva

Ti spiega come si fa la rivoluzione! E’ tutto raccontato!
Rigoroso worldbuilding di una società lunare autosufficiente. Infodump a pioggia e ritmo altalenante.
Il destino dei ribelli lunari è incerto fino all’ultimo. Personaggi stereotipati.
Voce narrante frizzante e piacevole. Ti ingozza a forza di dottrine politico-economiche assai discutibili.


(1) L’unica eccezione importante sta nel linguaggio. Sia nei dialoghi, sia nel parlato stesso della voce narrante, Heinlein fa uso di una grammatica strana, dai periodi spezzati, in cui spesso gli articoli come the o i pronomi personali vengono omessi. Al contempo, i Lunatici usano un gergo tutto loro che mischia le lingue più diverse, come il buffo termine ‘dinkum thinkum’ adottato da Manuel per indicare Mike o l’abbondanza di parole di origine russa (‘nyet’, ‘tovarish’…). Questo mix sarebbe una conseguenza del melting pot di razze che hanno caratterizzato la colonia penale lunare fin dalle origini.
Heinlein, insomma, crea un linguaggio personalizzato a scopo narrativo alla maniera di Burgess in Arancia Meccanica, anche se senza spingersi così in là. Il risultato è piacevole, anche se non sempre facile da seguire in inglese. Bravo Robert.Torna su

La lezione di Swanwick

Io“Scrivi di ciò che sai”: questo vecchio adagio vale anche per la narrativa fantastica. Joe Haldeman ha potuto scrivere The Forever War, uno dei classici della fantascienza militare, perché era un veterano della guerra nel Vietnam. Asimov ha potuto scrivere The Gods Themselves – che nasce dalla domanda: “sotto che condizioni potrebbe esistere l’isotopo plutonio-186”? – perché era un chimico. I romanzi marinareschi di Conrad – La follia di Almayer, Cuore di tenebra, La linea d’ombra – nascono dai viaggi che realmente fece, come marinaio, nelle terre semi-selvagge del Sud-Est Asiatico e del Congo belga.
E ciò che non sai? Ti documenti per saperlo. Alcuni scrittori hanno avuto una vita noiosissima, ma questo non li ha fermati. Né Gibson né Sterling sono vissuti nell’Ottocento, eppure hanno scritto The Difference Engine. Guardate però alla mole di lavoro che c’è dietro: gli studi sulla Londra vittoriana dell’Ottocento reale, sulla situazione politica mondiale dell’epoca, su Babbage e sull’informatica ottocentesca. Questo romanzo è diventato il punto di riferimento dello steampunk in letteratura in larga parte per tutto il lavoro di ricerca che c’è a monte (anche perché dal punto di vista della trama è noiosotto). E lo stesso Haldeman, a prescindere dal fatto di aver assaggiato la guerra sulla propria pelle, non avrebbe potuto scrivere con cognizione di causa di tute potenziate e battaglie nello spazio senza una preparazione in fisica.

E la fantascienza? Bisogna essere dei post-graduate di qualche scienza naturale per poterne scrivere? In effetti, gli autori ‘seri’ degli anni ’40 e ’50 erano per la maggior parte chimici, fisici, ingegneri. C’erano anche gli umanisti, come Philip K. Dick; ma nel loro caso l’elemento ‘scientifico’ era talmente tenue e implausibile da far girare i coglioni a più di un purista. Buona parte dei lavori di Dick si potrebbero tranquillamente definire ‘Fantasy con le pistole a raggi’. Poi negli anni ’60 e ’70 sono arrivati quelli della New Wave: Ballard, la Le Guin, Moorcock, Spinrad. Ma la loro fantascienza era quasi invariabilmente molto soft.
Ora, però, facciamo un salto nel tempo e arriviamo agli anni ’80. Chi si affaccia sulla scena fantascientifica? Michael Swanwick, William Gibson, Bruce Sterling, Kim Stanley Robinson: tutti personaggi di estrazione umanistica. Trattano con nonchalance nozioni scientifiche, talvolta arrivano a rasentare l’Hard SF, e scrivono pure meglio. Sterling immagina intere civiltà che vivono in colonie artificiali in orbita attorno alla Terra, a Marte, alle lune di Giove, o annidate negli asteroidi; Swanwick astronavi alimentate da querce bioingegnerizzate e alberi di Dyson che crescono sulle comete; Gibson ci parla di IA che colonizzano il cyberspazio e Stanley Robinson dedica tre libri alla terraformazione di Marte. Com’è possibile?

Minecraft terraforming

Un esempio di terraformazione.

Flogging Babel
Da un mesetto a questa parte ho cominciato a seguire Flogging Babel, il blog di Michael Swanwick. Mi ci sono imbattuto per caso: neanche mi era venuto in mente che potesse averne uno. Ma dato che Swanwick è uno dei miei scrittori preferiti e lo ritengo un uomo intelligente, ho passato le ultime settimane a spulciarmi qua e là i suoi post in cerca di roba interessante. E l’ho trovata. Nel 1997, Swanwick pubblica un racconto intitolato “The Very Pulse of the Machine”, che l’anno dopo vince il premio Hugo. Lo scenario è quello di Io, la più interna delle lune di Giove, nonché il corpo celeste più vulcanicamente attivo del Sistema Solare. Nel corso del racconto, Io è descritta nel dettaglio: dalle sue spianate di zolfo allo stato solido ai moti convettivi che coinvolgono il suo oceano sotterraneo, dai fiori di cristalli di zolfo che sbocciano sulla superficie al flusso di ioni che corre tra i poli di Io e quelli di Giove. Una mattina di Settembre del 2012, un utente fa a Swanwick questa domanda:

Where you got all the information and research for your short story “Pulse of the Machine” that dealt with the magnificent descriptions of Io. I would like to write a story about Io, but I can’t find any of the background information you found for this story. Any help would be appreciated.

La risposta a questa domanda è diventato il breve articolo Researching Io. Non starò a riportare tutto il post; leggetevelo. Prendiamo soltanto un paio di brani, all’inizio e alla fine:

As it chances, I was inspired to write “The Very Pulse of the Machine” by a remark by (I think) Geoff Landis, who told a mutual friend that he was baffled by the fact that NASA had spent billions of dollars exploring the Solar System and then put all the information they found up on the Web available for free — and yet almost no SF writers were taking advantage of it.
So I chose Io because it seemed an interesting place to me and went to the NASA website to see what they had to say.
[…]
I realize this rather sidesteps your question — how to find these sources. But I’ve had no formal training on running searches (when I was a student, my college had exactly one computer, an IBM mainframe), nor was I particularly ingenious in my research. I just kept poking around, looking and finding until I had what I needed.
Go thou and do likewise.

E tenete conto che all’epoca non esisteva Wikipedia. Oggi, muovere i primi passi in un territorio che non si conosce – perché è a questo che può servire Wikipedia – è ancora più semplice di così.
Ma quanto ci vuole a condurre un lavoro del genere? Quanti giorni di lavoro può portar via una ricerca fatta bene? Sappiamo che Flaubert impiegò sei anni a scrivere Salammbò, il suo romanzo storico ambientato nell’antica Cartagine ai tempi della rivolta dei mercenari. Ma Flaubert non aveva bisogno di guadagnarsi da vivere coi suoi romanzi, quindi poteva permetterselo. E uno scrittore che ci deve campare, invece? Swanwick ci dice anche questo. In questo articolo (che vi consiglio di leggere) cita a titolo esemplificativo il suo racconto The Mask, ispirato alla storia di Venezia e alla figura dei dogi. Il racconto è lungo 1700 parole – circa sei pagine.

From Stan’s story to publication in the April, 1994 issue of Asimov took a mere thirteen years. I’ll leave it as an exercise for the student to work out how much I was earning by the hour.

Ancora sicuri di voler fare gli scrittori?

Vulcanismo di Io

Un esempio dell’attività vulcanica di Io. Le immagini sono state prese dalla sonda Galileo rispettivamente nel 1999 e nel 2000.

The Very Pulse of the Machine
Martha è sola sulla superficie di Io. E’ a quarantacinque miglia dalla navicella di atterraggio, e ha solo quaranta ore prima di finire l’ossigeno. Non può fermarsi, neanche per dormire. Dietro di sé, su una slitta messa insieme alla bell’e meglio, trascina il cadavere di Juliet Burton, la sua compagna di avventure. Andava tutto bene finché non si sono schiantate col moonrover contro un sasso, e un buco grande come un pugno si è aperto nella faccia di Burton. Ora Martha può contare solo su sé stessa. Finché alla radio comincia a sentire la voce di Burton che cita poesie del Settecento e dichiara di essere Io.
OK, documentarsi è importante, abbiamo afferrato il concetto; alla fine, però, ciò che conta è che la storia sia figa, no? E questo The Very Pulse of the Machine, stringi stringi, com’è? Cercherò di essere analitico: è bello in maniera esagerata. Il senso di solitudine di Martha, le routine della sua lunga marcia verso la navetta, l’assenza di vita della superficie di Io, sono rese alla perfezione dal ritmo lento e calmo (ma non noioso) della narrazione. Le descrizioni della ‘natura’ di Io si alternano con i tentativi di Martha di psicanalizzarsi (la ragazza si odia abbastanza…) e coi dialoghi folli con la voce che viene dalla radio.

La cosa più interessante – anche ai fini di questo articolo – è che Io non fa semplicemente da sfondo alla vicenda, non è un pianetino buono come un altro. La geologia e la magnetosfera di Io diventano un vero e proprio personaggio. L’idea del pianeta autocosciente non è affatto nuova nella fantascienza – ad esempio, la troviamo nel romanzo Nemesis di Asimov – nuovo è invece come questa idea è veicolata e spiegata scientificamente. E allora si capisce che tutti i dettagli fisici che Swanwick ci centellina su Io non sono un semplice show-off (“avete visto quanto ho studiato?”), e neanche descrizioni-per-il-gusto-delle-descrizioni alla Tolkien.
Senza tutta quella ricerca, semplicemente The Very Pulse of the Machine non avrebbe potuto essere scritto. Ed è un peccato, perché ad oggi è il miglior racconto di Swanwick che abbia mai letto.
Potete leggere il racconto qui. Ci vorrà mezz’ora, quaranta minuti al massimo: credetemi, ne vale la pena. E non abbiate timore: pur con tutta questa scienza “dura”, The Very Pulse of the Machine rimane essenzialmente un racconto psicologico.

Magnetosfera di Giove

La magnetosfera di Giove e la sua interazione con Io (in giallo). Nel racconto di Swanwick si parla anche di questo!

Tornerò a parlare di Swanwick nel prossimo, e più corposo, articolo.

I Consigli del Lunedì #32: Tau Zero

Tau ZeroAutore: Poul Anderson
Titolo italiano: Tau Zero / Il fattore Tau Zero
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 210 ca.

Difficoltà in inglese: **

“May you have a fortunate voyage and come home safe.”
“If the voyage is really fortunate,” she reminded him, “we will never come home. If we do—” She broke off. He would be in his grave.

Prendiamo una navicella che viaggia nello spazio. Se v è la velocità (uniforme) della navicella, e c la velocità della luce, allora tau equivale a:

Equazione Tau

Più v si avvicina a c, più tau si avvicina a zero. E più tau si avvicina a zero, più la navicella acquisisce massa, maggiore sarà la sfasatura temporale tra l’interno dell’astronave e il mondo all’esterno. Per un membro dell’equipaggio della nave, il tempo scorrerà più lentamente che per coloro che sono rimasti a casa.
Poniamo ora che, in un futuro non troppo lontano dal nostro – un futuro in cui la pace mondiale è stata raggiunta delegando ogni potere politico e poliziesco alla piccola e affidabile Svezia – il governo della Terra organizzi una spedizione spaziale per colonizzare i pianeti della vicina stella Beta Virginis. Questa stella dista trentuno anni luce; ma grazie al Bussard ramjet, un innovativo sistema di propulsione che raccoglie e comprime idrogeno dal medium interstellare fino ad avviare una reazione nucleare, sarà possibile raggiungerla in soli trentatré anni umani, sfiorando la velocità della luce. Inoltre, in virtù della dilatazione temporale, per i membri dell’equipaggio – venticinque uomini e venticinque donne iperselezionati – ne passeranno solo sei.
Tuttavia, i partecipanti sanno benissimo che si tratta di un viaggio di non ritorno. Charles Reymont, ex-colonnello dei Lunar Rescue Corps con un’infanzia di miseria alle spalle, lo fa perché stanco della sua vita e perché sente che nulla lo lega più alla Terra. Ingrid Lindgren, fisica svedese di buona famiglia, lo fa perché fin da piccola sogna le stelle, e non riuscirebbe ad immaginare per sé un futuro diverso da questo. Ma il lungo viaggio e la clausura delle loro vite a bordo della Leonora Christine seminerà dei dubbi nella loro coscienza. E quando uno sfortunato incidente danneggerà la navicella al punto da rendere impossibile invertire l’accelerazione e quindi la costante riduzione del tau, l’intero scopo della missione e il senso delle loro cinquanta vite sarà rimesso in discussione.

Benché in Italia sia poco conosciuto e ancor meno letto, nel mondo anglosassone Tau Zero è considerato uno dei capisaldi dell’Hard SF. Sul solido impianto della relatività generale, Anderson costruisce un device per il viaggio interstellare – il Bussard ramjet – ne trae delle conseguenze fisiche e sociali, e su di questi sviluppa una storia. Come da tradizione della fantascienza hard, Tau Zero non è che una rappresentazione narrativa di una speculazione fantascientifica.
Due sono gli argomenti sviluppati nel romanzo. Il primo è quello propriamente fisico: come funziona il viaggio della Leonora Christine? Quali rischi e quali ostacoli incontreranno i nostri eroi lungo il percorso? E che possibilità ci sono di arrivare a destinazione (o a una qualunque altra destinazione) in seguito all’incidente che impedisce alla nave di ridurre la propria accelerazione? Il secondo è quello sociale: come faranno i cinquanta membri dell’equipaggio a convivere pacificamente per tutti gli anni del viaggio, sopportando il loro isolamento e la consapevolezza di non poter più tornare indietro? Fino a che punto, anche la psiche più equilibrata, più addestrata, più ragionevole, può resistere allo stress di una situazione che sembra senza via d’uscita?

Search for a better planet

Uno sguardo approfondito
L’Hard SF non è mai stato un genere che curi molto lo stile, e Tau Zero non fa eccezione. Anderson, in particolare, è uno degli scrittori più tecnicamente scarsi che abbia mai visto (benché non al livello di bruttura di un Clarke).
I dolori cominciano con la gestione del POV, un bel narratore onnisciente che a seconda della scena si avvicina ai personaggi fino ad entrare nella loro testa, oppure si allontana fino ad osservare l’intera vita dell’equipaggio con uguale distacco. L’approccio generale di Anderson è questo: ampi pezzi raccontati con telecamera distante che descrivono la vita dell’intero equipaggio per lunghi periodi di tempo; intervallati da alcune scene clou in cui la telecamera si avvicina a questo o quel personaggio e al raccontato si mescola un po’ di mostrato. Anche in questi casi, comunque, la voce narrante non si identifica con il personaggio-pov e si riserva la possibilità di spostarsi in qualsiasi momento verso un altro personaggio.
A queste si aggiunge un altro tipo di scena, che Anderson mette all’inizio o alla fine di un capitolo, oppure all’inizio di un paragrafo: la telecamera onnisciente “esce” dalla navicella e ci mostra la Leonora Christine da fuori. In brani quasi più saggistici che narrativi, il narratore ci ‘spiega’ il viaggio della nave: in che punto dello spazio si trovi, come funzioni il motore, quali leggi fisiche abbiano reso possibile la spedizione, che ostacoli stiano per incontrare e quali conseguenze potrebbero comportare per il futuro della missione. E’ in uno di questi brani che ci viene spiegata l’equazione Tau, il rapporto tra velocità, massa dell’astronave e dilatazione del tempo, e l’effetto che tutto ciò ha sull’equipaggio. In questi passaggi di puro infodump, l’immersione crolla, la finzione narrativa viene fatta cadere e Tau Zero si rivela per quello che è: speculazione scientifica con contorno di personaggi.

Benché questi pezzi uccidano il ritmo e siano fatali per la suspension of disbelief, possiedono un certo fascino per chi è appassionato alla materia (cioè, i destinatari ideali del libro): il fascino del professore universitario che ti spiega concetti straordinari e implicazioni inaspettate delle leggi classiche. Fino a un anno fa, sarei forse stato anche incline a ‘perdonare’ questo approccio: sì, è vero che l’autore spezza la narrazione per farti uno spiegone in prima persona, ma lo fa in momenti di cesura (come l’inizio o la fine di un capitolo) e mai in mezzo a un paragrafo, e inoltre non ci sarebbe altro modo di veicolare tutti questi concetti sulla teoria della relatività al neofita (se non attraverso espedienti ancora peggiori, come l’As you know, Bob).
Ma ormai so che non è vero. Quest’ultima affermazione è semplicemente falsa, e può derivare solamente da ignoranza o da pigrizia mentale. Modi plausibili se ne trovano sempre. Dal più banale: il protagonista che, solo nella sua cuccetta o di fronte a un quadro comandi, si abbandona ai suoi pensieri e riflette, malinconico, sul viaggio che sta affrontando, sulla sua destinazione, alle equazioni (che conosce) e così via. Potrebbe anche rivivere la lezione universitaria in cui il suo docente preferito gli spiegava l’equazione del Tau; oppure immaginare di vedere la nave dal di fuori, facendo lui stesso la parte, nei propri pensieri, del narratore onnisciente1. Alle più creative: il protagonista, o un altro dei personaggi-pov, potrebbe decidere di incidere su nastro delle “lezioni” sulla teoria della relatività e rapporti sul loro viaggio: il destinatario potrebbero essere le future generazioni, i suoi discendenti, dei familiari rimasti sulla Terra. E queste sono solo le prime due idee che mi sono venute in mente.
Affidando anche le parte più infodumpose alla voce dei personaggi-pov, integrando ogni spiegone nel corpo della narrazione, trasformando anche uno sguardo ‘impossibile’ come quello della navicella da fuori nell’occhio mentale del protagonista, si mantengono tutti i vantaggi del pov onnisciente senza tutti gli svantaggi di perdita di ritmo e immersività. Quel che voglio dire, è che nella scrittura non bisognerebbe mai fare i pigri ed abbandonarsi alla prima soluzione stilistica che viene in mente: alternative migliori esistono quasi sempre.

Space Core Portal

Tutti pazzi per lo spazio.

Ma Anderson queste cose non le sapeva; e infatti la sua sciatteria colpisce tutto indistintamente. I membri dell’equipaggio sono figure anonime con un cartellino appeso al collo: la xenobiologa con problemi relazionali, il medico rude e buontempone, l’esile cinesina compassata, il vecchio capitano che ne ha viste di cotte e di crude. E dire che Anderson il problema della clausura forzata dei cinquanta passeggeri della Leonora se li è posti; e infatti mette una grande attenzione nello spiegare come sia stata organizzata la vita a bordo della nave, come vengano riempite le ore della giornata, come tutti siano stati addestrati a vincere lo stress, come evolvano nel tempo le dinamiche tra i vari ‘gruppi’ (equipaggio, scienziati, corpo di polizia) e così via. Ma il problema è proprio questo: Anderson spiega. Tutto (o quasi) è raccontato con distacco, e il lettore non se ne sente coinvolto.
Su tutto questo grigiore, Reymont e Lindgren spiccano un poco, con il loro mix di problemi pubblici e privati; ma senza esagerare. In particolare, Reymont è una grande occasione sprecata. Nasce come un personaggio molto ambiguo: un’infanzia difficile alle spalle, vissuta nella povertà e nella violenza, il carattere burbero con cui tiene tutti a distanza, l’alto senso della giustizia, il cinismo del ‘il fine giustifica i mezzi’, unito alla funzione di “capo della security” a bordo della nave. Quando in seguito all’incidente il morale dell’equipaggio precipita e la vita sulla Leonore si fa difficile, spetterà a lui ‘assumere il controllo’ e mantenere l’ordine. Da questa situazione poteva sbocciare una grandissima quantità di conflitti, interiori ed esterni. Reymont poteva finire con l’abusare della sua autorità, come accade ad esempio al poliziotto di The Cube; oppure, pur restando in un certo senso un ‘buono’, avrebbe potuto essere costretto, per il fine superiore di mantenere l’ordine sulla nave, a compiere atti di particolare brutalità (es. sopprimere una rivolta nel sangue?). Ma questo non succede. Certo, scontri ce ne sono – ma nei romanzi di Anderson, il buonsenso prevale sempre.

Ho letto diversi romanzi di Anderson. Si ha come l’impressione che l’autore abbia qualche problema con l’idea di “conflitto”. Come se volesse sempre tenerlo il più basso possibile. Certo, i problemi non mancano, ed anzi, nel corso del romanzo si verifica la giusta escalation drammatica; ma Anderson cerca sempre di risolvere i conflitti il prima possibile, cerca sempre di abbassare i toni, e di non mettere troppa ansia nel lettore. Anche quando danno di matto, i suoi personaggi vengono sempre ricondotti al buonsenso. Ora, non dico che a bordo della Leonora Christine doveva andare a finire come nel condominio di Ballard – non sarebbe neanche stato credibile; ma mi sembra che Anderson ecceda dalla parte opposta.
Il dramma esistenziale dell’equipaggio della Leonora Christine si percepisce, ma sempre mantenendo un certo distacco. Proprio perché si vede la faccenda dal di fuori, e non attraverso gli occhi di un personaggio-pov, il lettore percepisce a livello inconscio che la cosa non lo riguarda personalmente. “Sta accadendo a qualcun altro”: e così ogni emozione viene attutita.

Philosoraptor

Una delle domande di cui Tau Zero potrebbe avere la risposta. Oppure no.

Ma l’Hard SF si misura soprattutto sotto il profilo delle idee – della loro correttezza scientifica, sulla loro genialità, su quanto riescano a meravigliarti. Sul primo punto non mi esprimo, che non ne capisco niente. Quanto al sense of wonder – be’, Tau Zero è un capolavoro. Già il concetto del viaggio generazionale verso una stella lontana, condito dalla spiegazione di come ciò sarebbe fisicamente possibile, era di per sé interessante. La logica del Bussard ramjet, il sistema di propulsione della Leonora Christine (ma che non ha inventato Anderson), è forse la vera protagonista del romanzo.
Ma Anderson è in grado di trasportare tutta la storia su scala mastodontica; e così ci si ritrova a parlare di, e a vivere, spazi tra le galassie, e poi grappoli di galassie, e poi l’origine e la fine ultima dell’Universo, Big Bang, Big Crunch, spazi di tempo talmente grandi da essere incommensurabili… i concetti in gioco sono talmente grandi, talmente incredibili, che a un certo punto mi sono venute le lacrime agli occhi. E’ vero, la prosa è quello che è, ma c’è della vera epica cosmica là in mezzo, e Anderson è in grado di fartela provare – basta avere pazienza e sopportare la sciatteria generale. Il finale è straordinario, e si chiude il libro con una certa serenità, e la sensazione di essersi arricchiti in qualche modo.

Scritto da mani più esperte, Tau Zero poteva diventare uno dei grandi capolavori della fantascienza. Anche così, rimane un bel romanzo, e si conquista un posto nella Top 30 dei miei romanzi preferiti. E se la parte psicologico-sociale soffre particolarmente l’incapacità di Anderson di dare vita ai suoi personaggi, la parte più, diciamo, ‘astrofisica’ se la cava dignitosamente.
Certo, non è un libro per tutti; bisogna innanzitutto avere passione per l’argomento ed essere pronti a sorbirsi un po’ di fisica for dummies, non sempre facilissima. Credo comunque che l’audience di Tau Zero sia più ampio di quello di Mission for Gravity – l’ultimo Hard SF di cui mi sono occupato – se non altro per la generalità e l’ordine di grandezza delle idee coinvolte; sebbene i personaggi del romanzo di Clement siano probabilmente più interessanti.

Bussard ramjet

Una rappresentazione artistica del Bussard ramjet.

Su Anderson
Poul Anderson è uno degli scrittori più prolifici della narrativa fantastica; quanto a numero di romanzi pubblicati, fa impallidire anche grafomani conclamati come Philip Dick o Moorcock. E come Dick e Moorcock, la qualità dei lavori è parecchio altalenante (e lo stile oscilla sempre tra il mediocre e il pessimo). Tra i romanzi suoi che ho letto, ecco i più interessanti:
The High Crusade The High Crusade (Crociata spaziale) è un romanzetto farsesco con una premessa geniale: a metà del Trecento, mentre Edoardo III d’Inghilterra prepara l’invasione della Francia, una navicella aliena atterra in un ameno villaggio del Lincolnshire. Gli alieni hanno intenzioni ostili, ma contro ogni aspettativa Sir Roger de Tourneville, signore del luogo, e i suoi uomini sterminano gli invasori e si impossessano della nave. E’ l’inizio di una crociata che porterà i fanatici cavalieri di Sir Roger alla conquista della galassia. High Crusade è divertentissimo, benché sia in larga parte rovinato dallo stile stra-raccontato e spesso riassunto, che a tratti fa sembrare la storia più un canovaccio di trama che un romanzo vero e proprio.
There Will Be Time There Will be Time (Tempo verrà), un romanzo sui viaggi nel tempo. Jack Havig è nato col dono di potersi spostare, col solo esercizio della volontà, avanti e indietro nel tempo;
ma quando si imbarcherà in un viaggio alla ricerca dei suoi simili, scoprirà di una catastrofe che sta per distruggere la nostra civiltà e di un’organizzazione di viaggiatori intenzionata a diventare la guida del nuovo mondo. Nonostante l’argomento interessante e i continui spostamenti tra passato e futuro, il libro ha spesso poco mordente. Anderson fa la scelta ottocentesca di filtrare la narrazione attraverso il pov di un personaggio marginale (il medico di famiglia del protagonista, a cui Havig racconta le sue vicende); la mole di raccontato, i riassuntoni e la sciattezza generale fanno il resto.
Fire Time Fire Time racconta la storia di Ishtar, un bizzarro pianeta che orbita attorno a tre stelle contemporaneamente. Ogni cinquecento anni la stella Anu si avvicina troppo al pianeta, scatenando un riscaldamento infernale che puntualmente distrugge la civiltà indigena. Ora la stella si sta avvicinando di nuovo, ma i terrestri sono arrivati sul pianeta e potrebbero cambiare le cose – se non fosse che si sta scatenando una guerra interplanetaria. Fire Time è una storia corale che intreccia Hard SF, romanzo politico e di guerra, con un sacco di idee affascinanti su xenobiologia, fisica, evoluzionismo. Purtroppo lo stile un po’ piatto, i personaggi non memorabili, l’eccessivo buonismo e la strana tendenza di Anderson di ridurre sempre al minimo ogni fonte di conflitto lo rendono a tratti noioso. Peccato – poteva essere un altro capolavoro!
Poul Anderson rimane uno scrittore interessante, benché di serie B. Gli altri suoi romanzi che vorrei leggere: il fantasy shakespeariano A Midsummer TempestThe Boat of a Million Years e forse (un grande ‘forse’) il fantasy epico The Broken Sword.

Dove si trova?
Come detto in apertura di articolo, Tau Zero è un romanzo estremamente popolare oltreoceano. Di conseguenza, si trova facilmente su qualunque canale: Bookfinder e Library Genesis per l’edizione in lingua originale, Emule per quella italiana.

Qualche estratto
Come primo estratto ho scelto in realtà un brano abbastanza avanti nel romanzo. E’ la digressione pseudo-saggistica cui ho accennato in apertura d’articolo, in cui Anderson spiega il significato del valore ‘tau’ e la logica del viaggio della Leonora Christine. Il secondo estratto ci riporta al primo capitolo; una scena in cui Reymont e la Lingren si confrontano sulle ragioni che li hanno portati a decidere di partire, e abbandonare la loro Terra per sempre…

1.
 A year after she started, Leonora Christine was close to her ultimate velocity. It would take her thirty-one years to cross interstellar space, and one year more to decelerate as she approached her target sun.
But that is an incomplete statement. It takes no account of relativity. Precisely because there is an absolute limiting speed (at which light travels in vacuo; likewise neutrinos) there is an interdependence of space, time, matter, and energy. The tau factor enters the equations. If v is the (uniform) velocity of a spaceship, and c the velocity of light, then tau equals

Equazione Tau

The closer that v comes to c, the closer tau comes to zero.
Suppose an outside observer measures the mass of the spaceship. The result he gets is her rest mass — i.e., the mass that she has when she is not moving with respect to him — divided by tau. Thus, the faster she travels the more massive she is, as regards the universe at large. She gets the extra mass from the kinetic energy of motion; e=mc^2.
Furthermore, if the “stationary” observer could compare the ship’s clocks with his own, he would notice a disagreement. The interlude between two events (such as the birth and death of a man) measured aboard the ship where they take place, is equal to the interlude which the observer measures … multiplied by tau. One might say that time moves proportionately slower on a starship.
Lengths shrink; the observer sees the ship shortened in the direction of motion by the factor tau.
Now measurements made on shipboard are every bit as valid as those made elsewhere. To a crewman, looking forth at the universe, the stars are compressed and have gained in mass; the distances between them have shriveled; they shine, they evolve at a strangely reduced rate.
Yet the picture is more complicated even than this. You must bear in mind that the ship has, in fact, been accelerated and will be decelerated in relation to the total background of the cosmos. This takes the whole problem out of special and into general relativity. The star-and-ship situation is not really symmetrical. The twin paradox does not arise. When velocities match once more and reunion takes place, the star will have passed through a longer time than the ship did.
If you ran tau down to one one-hundredth and went into free fall, you would cross a light-century in a single year of your own experience. (Though, of course, you could never regain the century that had passed at home, during which your friends grew old and died.) This would inevitably involve a hundredfold increase of mass. A Bussard engine, drawing on the hydrogen of space, could supply that. Indeed, it would be foolish to stop the engine and coast when you could go right on decreasing your tau.
Therefore, to reach other suns in a reasonable portion of your life expectancy: Accelerate continuously, right up to the interstellar midpoint, at which point you activate the decelerator system in the Bussard module and start slowing down again. You are limited by the speed of light, which you can never quite reach. But you are not limited in how close you can approach that speed. And thus you have no limit on your inverse tau factor.
Throughout her year at one gravity, the differences between Leonora Christine and the slow-moving stars had accumulated imperceptibly. Now the curve entered upon the steep part of its climb. Now, more and more, her folk measured the distance to their goal as shrinking, not simply because they traveled, but because, for them, the geometry of space was changing. More and more, they perceived natural processes in the outside universe as speeding up.
It was not yet spectacular. Indeed, the minimum tau in her flight plan, at midpoint, was to be somewhat above 0.015. But an instant came when a minute aboard her corresponded to sixty-one seconds in the rest of the galaxy. A while later, it corresponded to sixty-two. Then sixty-three … sixty-four … the ship time between such counts grew gradually but steadily less … sixty-five … sixty-six … sixty-seven…

Un anno dopo la partenza, la Leonora Christine aveva quasi raggiunto la sua massima velocità. Le ci sarebbero voluti trentun anni per attraversare lo spazio interstellare, e un anno in più per decelerare mentre si avvicinava al sole che rappresentava il suo obiettivo.
Ma questa è un’affermazione incompleta, che non tiene conto della relatività. Proprio perché la velocità assoluta non può superare un certo limite (rappresentato dalla velocità con cui la luce viaggia in vacuo; e ciò varrebbe anche per i neutrini) c’è un’interdipendenza tra spazio, tempo, materia ed energia. Nelle equazioni entra il fattore tau. Se v è la velocità (uniforme) di un’astronave e c la velocità della luce, allora tau è uguale a:

Equazione Tau

Quanto più i valori di v si avvicinano a quelli di c, tanto più tau tende a zero.
Supponiamo che un osservatore esterno misuri la massa di un’astronave. Il risultato che ottiene è la massa a riposo ― cioè la massa che l’astronave ha allorché non si muove rispetto a lui ― divisa per tau. Così, quanto più velocemente si muove l’astronave, tanto maggiore è la sua massa, per quanto riguarda l’universo in generale. Ricava l’eccedenza di massa dall’energia cinetica: e = mc2.
Inoltre, se l’osservatore «fisso» potesse controllare gli orologi dell’astronave e compararli al suo, noterebbe uno sfalsamento. Il periodo di tempo trascorso tra due avvenimenti (per esempio, la nascita e la morte di un uomo), misurato a bordo della nave dove questi avvenimenti si sono verificati, è uguale al periodo di tempo misurato dall’osservatore… moltiplicato per tau. Si potrebbe perciò dire che il tempo si muove proporzionalmente più a rilento su un’astronave.
Anche le misure di lunghezza si contraggono; l’osservatore vede l’astronave accorciata, nella direzione del moto, dal fattore tau.
Ora le misurazioni fatte a bordo di un’astronave sono altrettanto valide, in tutto, di quelle fatte altrove. A un cosmonauta, che guardi l’universo davanti a sé, le stelle appaiono compresse e la loro massa risulta aumentata; le distanze tra loro si sono ridotte; esse scintillano e si muovono a un ritmo stranamente ridotto.
Eppure la situazione è ancora più complicata di così. Bisogna tenere bene a mente che l’astronave, in effetti, è stata accelerata e sarà decelerata in relazione a tutto il cosmo che le fa da sfondo. Ciò fa rientrare l’intero problema nell’ambito della teoria generale della relatività. La situazione stelle-astronave non è realmente simmetrica. Il paradosso dei gemelli non si verifica. Quando le velocità si uguagliano ancora una volta e avviene la riunione, per la stella sarà trascorso un tempo più lungo di quello trascorso per l’astronave.
Se il fattore tau si riduce a un centesimo e l’astronave procede in caduta libera, un secolo-luce verrà percorso in un solo anno di vita degli astronauti (sebbene, naturalmente, non si potrà più riguadagnare il secolo che è trascorso sulla Terra, durante il quale gli amici degli astronauti saranno invecchiati e morti). Ciò comporterà inevitabilmente un aumento della massa di cento volte. Un motore Bussard, sfruttando l’idrogeno dello spazio, poteva produrre un simile effetto, ma sarebbe stato folle fermare il motore e proseguire con moto inerziale quando si poteva ottenere la stessa cosa facendo decrescere il fattore tau.
Perciò, raggiungere altri soli è una parte ragionevole della speranza di vita: tanto vale accelerare continuamente, fino al punto intermedio interstellare, dopodiché si attiverà il deceleratore. C’è il limite imposto dalla velocità della luce, che non si può quasi mai raggiungere. Ma non c’è limite all’approssimarsi quanto più è possibile a tale velocità. Così non si hanno limiti per quanto riguarda l’inverso del fattore tau.
Nonostante l’anno trascorso a gravità uno, le differenze tra la Leonora Christine e le stelle che si muovevano lentamente si erano accumulate impercettibilmente. Adesso la curva si accingeva ad affrontare la parte più ripida della sua discesa. Ora, sempre più la distanza che divideva gli astronauti dal loro obiettivo sembrava loro come contratta, non soltanto perché viaggiavano, ma perché, per loro, la geometria dello spazio stava cambiando. Sempre più gli astronauti si rendevano conto di quanto i processi naturali nell’universo esterno si stessero sviluppando con maggior velocità.
Non era ancora niente di spettacolare. Anzi, il valore minimo di tau nel piano di volo dell’astronave era, al punto intermedio, intorno a 0,015. Ma arrivò un momento in cui un minuto a bordo dell’astronave corrispondeva a sessantun secondi nel resto della galassia. Un po’ più tardi, corrispondeva a sessantadue. Poi a sessantatré… sessantaquattro… il tempo dell’astronave tra tali conteggi cresceva gradualmente ma sistematicamente… sessantacinque… sessantasei… sessantasette…

Red Bull Space Program

2.
 “I … thought you might be lonely. You have no one, have you?”
“No relatives left. I’m only touring the fleshpots of Earth. Won’t be any where we are bound.”
Her sight lifted again, toward Jupiter this time, a steady tawny-white lamp. More stars were treading forth. She shivered and drew her cloak tight around her, against the autumnal air. “No,” she said mutedly. “Everything alien. And when we’ve hardly begun to map, to understand, that world yonder — our neighbor, our sister — to cross thirty-two light-years—”
“People are like that.”
“Why are you going, Carl?”
His shoulders lifted and dropped. “Restless, I suppose. And frankly, I made enemies in the Corps. Rubbed them the wrong way, or outdistanced them for promotion. I was at the point where I couldn’t advance further without playing office politics. Which I despise.” His glance met hers. Both lingered a moment. “You?”
She sighed. “Probably sheer romanticism. Ever since I was a child, I thought I must go to the stars, the way a prince in a fairy tale must go to Elf Land. At last, by insisting to my parents, I got them to let me enroll in the Academy.”
[…] He managed to keep the talk inconsequential while he nosed into Strцmmen, docked the boat, and led her on foot across the bridge to Old Town. Beyond the royal palace they found themselves under softer illumination, walking down narrow streets between high golden-hued buildings that had stood much as they were for several hundred years. Tourist season was past; of the uncounted foreigners in the city, few had reason to visit this enclave; except for an occasional pedestrian or electrocyclist, Reymont and Lindgren were nearly alone.
“I shall miss this,” she said.
“It’s picturesque,” he conceded.
“More than that, Carl. It’s not just an outdoor museum. Real human beings live here. And the ones who were before them, they stay real too. In, oh, Birger Jarl’s Tower, the Riddarholm Church, the shields in the House of Nobles, the Golden Peace where Bellman drank and sang — It’s going to be lonely in space, Carl, so far from our dead.”
“Nevertheless you’re leaving.”
“Yes. Not easily. My mother who bore me, my father who took me by the hand and led me out to teach me constellations. Did he know what he was doing to me that night?” She drew a breath. “That’s partly why I got in touch with you. I had to escape from what I’m doing to them. If only for a single day.”

― Io… pensavo che lei avrebbe potuto sentirsi solo. Lei non ha nessuno, vero?
― Non mi è rimasto alcun parente. Sto facendo un giro turistico per visitare i bordelli della Terra. Non ce ne saranno, là dove siamo diretti.
Gli occhi di lei si alzarono di nuovo, questa volta in direzione di Giove, un lume fisso di colore bianco-bruno. Altre stelle si stavano facendo avanti. Lindgren fu scossa da un brivido e si serrò più strettamente il soprabito intorno al corpo, come per difendersi dall’aria autunnale. ― No ― disse con voce bassa. ― Ogni cosa ci sarà estranea. E ora che abbiamo appena cominciato a tracciare una mappa di quel mondo lassù, a capirlo ― il nostro vicino, la nostra sorella ― un viaggio di trentadue anni-luce…
― La gente è fatta così.
― Perché lei ha deciso di venire, Carl?
L’uomo alzò e abbassò le spalle. ― Sono un individuo irrequieto, suppongo. E, per essere sincero, mi son fatto alcuni nemici nel Corpo di Salvataggio. Ho lisciato loro il pelo dalla parte sbagliata o li ho lasciati troppo indietro per via delle mie promozioni. Ero giunto a un punto morto: non avrei potuto avanzare oltre senza mettermi a brigare tra le quinte. Cosa che disprezzo. ― Lo sguardo di Reymont incontrò quello della donna. Per un attimo indugiarono a guardarsi l’un l’altra negli occhi. ― E lei?
Ingrid sospirò. ― Probabilmente, per puro e semplice romanticismo. Fin da quando ero bambina pensavo di dover andare sulle stelle, nello stesso modo in cui un principe in un racconto di fate deve andare alla terra degli Elfi. Alla fine, dopo aver molto insistito con i miei genitori, li ho convinti a lasciarmi iscrivere all’Accademia.
[…] Reymont tentò di mantenere la conversazione su un piano di assoluta banalità mentre si infilava nello Strömmen, attraccava a riva l’imbarcazione e si avvicinava con la donna a piedi attraverso il ponte che portava alla città vecchia. Superato il palazzo reale si trovarono in una zona illuminata in modo più blando, e camminarono per stradine strette fiancheggiate da edifici dalle facciate color dell’oro che erano rimaste sempre eguali da alcune centinaia d’anni. La stagione turistica era ormai finita; degli innumerevoli forestieri che ospitava la città, pochi avevano ragioni per visitare quel lembo di terra sperduto; fatta eccezione per qualche occasionale pedone o elettrociclista, Reymont e Lindgren erano praticamente soli.
― Mi mancherà tutto questo ― disse la donna.
― È uno spettacolo pittoresco ― concesse Reymont.
― È più di questo, Carl. Non è soltanto un museo all’aperto, perché qui vivono reali esseri umani. E coloro che hanno preceduto gli attuali abitanti è come se vivessero ancora. Oh, la Torre di Birger Jarl, la chiesa di Riddarholm, gli scudi della Casa dei Nobili, la Pace d’Oro dove Bellman bevve e cantò… Ci sentiremo soli nello spazio, Carl, così lontani dai nostri morti.
― Eppure lei sta per partire.
― Sì. Ma non è facile. Mia madre che mi ha partorito, mio padre che mi prendeva per mano e mi portava fuori all’aperto per insegnarmi a riconoscere le costellazioni. Quella prima notte, si sarà reso conto di ciò che stava facendo? ― Trasse un profondo respiro. ― In parte è per questo che mi sono messa in contatto con lei. Dovevo fuggire da ciò che sto facendo loro. Anche se per un solo giorno.

Tabella riassuntiva

Un’avventura interstellare che coinvolge il destino ultimo dell’Universo! Narratore onnisciente e “raccontato” a chili.
Speculazione realistica sulla possibilità di viaggiare a velocità luce. Digressioni infodumpose che spezzano il ritmo.
Un dramma esistenziale sugli equipaggi delle astronavi. Personaggi piatti e conflitto tenuto sempre al minimo.

(1) Non è così strano che una persona pensi e ripensi, anche nel dettaglio, a fatti e concetti così gravidi di conseguenze per la sua vita, considerando anche tutto il tempo libero che hanno i membri dell’equipaggio: è una cosa che facciamo tutti.Torna su

I Consigli del Lunedì #25: Mission of Gravity

Mission of GravityAutore: Hal Clement
Titolo italiano: Stella doppia 61 Cygni
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1953
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 220 ca.

Difficoltà in inglese: ***

In tutta la Via Lattea non c’è un pianeta come Mesklin. La violenza della sua accelerazione centrifuga gli ha dato una forma da pallone da rugby, schiacciato ai poli e stiracchiato all’equatore. Ha anche una massa immensa, e la sua attrazione di gravità varia dai 3G sull’Orlo (l’equatore) ai 700G ai poli. Ma nonostante le condizioni proibitive, Mesklin ospita vita intelligente: una razza di animaletti simili a millepiedi, robustissimi, che si muovono agganciandosi al terreno con le loro numerose zampe uncinate. E ora i terrestri hanno bisogno di loro.
Barlennan, capitano della nave mercantile Bree, è stato contattato dall’umano Charles Lackland per una missione della massima importanza. I terrestri hanno inviato un razzo al polo sud di Mesklin per compiere una serie di rilevazioni sulla gravità del pianeta; rilevazioni che potrebbero rivoluzionare le teorie fisiche sulla gravitazione dai tempi di Einstein. Ma proprio a causa dell’attrazione di Mesklin, il razzo non riesce più a lasciare la superficie. L’equipaggio di Barlennan dovrà raggiungere i poli – dove nessun umano potrà mai mettere piede – e recuperare le attrezzature per restituirle i terrestri; ma quale prezzo chiederanno i meskliniti per questa impresa? E cosa impareranno gli uni dagli altri le due specie?

Mission of Gravity è unanimemente riconosciuto come una delle massime vette raggiunte dall’Hard SF classica. Un romanzo che, come da tradizione del genere, parte da premesse incredibili – un pianeta schiacciato e dalla gravità altissima, e su cui c’è vita!? – e procede a illustrarle senza mai deviare dal rigore scientifico.  Che genere di vita potrebbe ospitare un pianeta dalle condizioni così estreme? E come queste condizioni modificherebbero la forma mentis dei suoi abitanti? Come sarebbe percepito da loro il cosmo? Quali cose si potrebbero fare, e quali no? E così via.
Ma il romanzo di Hal Clement non è saggistica immaginaria – è anche un romanzo d’avventura! La ciurma della nave Bree, guidata dall’impavido (e scaltro) capitano Barlennan, e con l’aiuto di Lackland e dei terrestri in orbita attorno al pianeta, dovrà affrontare tutta una serie di ostacoli e imprevisti per raggiungere il polo sud. Pericoli che daranno all’autore l’occasione per illustrare vari aspetti della vita su Mesklin.
L’ambizione è quella di coniugare speculazione scientifica e narrativa di buon livello. Ci sarà riuscito?

Forza di gravità

Il mantra di Clement.

Uno sguardo approfondito
Una delle cose più spiazzanti del romanzo – e che contribuiscono a distinguere Mission of Gravity dal resto della Hard SF – sta nel fatto che i protagonisti, nonché punto di vista privilegiato della storia, non sono gli esseri umani ma i meskliniti. Il libro comincia infatti con il pov del capitano Barlennan, e attraverso i suoi occhi osserviamo i venti letali dell’inverno equatoriale che minacciano di spazzare via la loro nave spiaggiata, o il suo secondo Dondragmer che si erge sulle sei zampe posteriori per ancorare la nave.
Il bel sogno purtroppo dura poco. Da quando, alla fine del secondo capitolo, entra in scena l’umano Lackland, il punto di vista del romanzo retrocede a quello del narratore onnisciente. Per il resto del romanzo, Clement fa viaggiare la telecamera un po’ come gli capita, posandola osa su Lackland, ora sui generici scienziati in orbita attorno a Mesklin, ora su Barlennan, ora sui membri dell’equipaggio ‘in generale’, ora a volo d’uccello (onniscienza vera e propria). La cosa più sgradevole, è che questi salti di pov avvengono nel bel mezzo di un paragrafo senza alcun preavviso. Nel migliore dei casi, questo significa semplicemente poca immersione e percezione da parte del lettore di una ‘regia occulta’ che lo sballotta di qua e di là; in alcune situazioni più concitate, significa dover rileggere un passaggio più volte perché non si capisce più bene cosa stia succedendo o da quale angolo visuale si stia guardando la scena.

E in realtà, bisogna ammettere che la presenza del narratore onnisciente è presente in tutto il romanzo, anche nelle scene mostrare attraverso gli occhi dei meskliniti. Le parti scritte col pov di Barlennan, infatti, danno più che altro l’impressione di un documentario naturalista: immagini di animaletti che si muovono nell’ambiente selvaggio, con voice over del narratore che ci spiega cosa pensano, cosa provano, cosa li preoccupa. Tra noi e il personaggio punto di vista percepiamo sempre il filtro dell’autore; di conseguenza non ci immedesimiamo mai nella specie aliena, li vediamo sempre dal di fuori anche quando sono loro a dominare la scena.
La presenza del narratore onnisciente rende anche più indigesti gli infodump. Quando va bene, gli elementi dell’ambientazione sono mostrati nelle conseguenze che hanno per i personaggi o, più spesso, discussi nei dialoghi tra Barlennan e Lackland. Questi dialoghi, specie quando entrano nel dettaglio tecnico, suonano un po’ artificiosi, ma rimangono comunque preferibili alla media degli espedienti da Hard SF (tipo l’As You Know, Bob). Quando va male, l’autore in persona interrompe la narrazione – o si inserisce in un punto morto della stessa – per spiegarci questa o quella caratteristica del pianeta.

Pallone da rugby

Un’approssimazione del pianeta Mesklin?

In Mission of Gravity troviamo anche un altro limite tipico dell’Hard SF: personaggi funzionali e bidimensionali come manichini. Ognuno dei personaggi segue fedelmente il suo ruolo istituzionale: Lackland è lo scienziato-antropologo che vuole stringere amicizia con i nativi; il Dottor Rosten è il capo della missione severo e pragmatico, ma, essendo anche un biologo, è pronto ad andare in sollucchero e a perdonare gli errori di Lackland in cambio della promessa di esemplari della vita di Mesklin da analizzare; Barlennan è il mercante-esploratore astuto, pronto a portare a termine una missione rischiosa in cambio di una contropartita; Dondragmer è il secondo diffidente ma fedele al suo leader. L’unica nota positiva nella caratterizzazione dei personaggi è l’esistenza di una certa evoluzione di Barlennan e Dondragmer nel corso della storia; tanto che nel finale entrambi regaleranno al lettore qualche piccola sorpresa.
Ma la nota più fastidiosa è la ragionevolezza, il buon senso che pervade sempre i personaggi e il rapporto tra le due specie, anche nei momenti di maggiori tensione. Lackland e Barlennan sono sempre in grado di discutere su come superare un determinato ostacolo con la massima naturalezza. Ora, penso che nemmeno degli etnologi di professione possano avere rapporti così idilliaci e razionali con i nativi della tribù africana o polinesiana che vanno a studiare, e stiamo pur sempre parlando di uomini della stessa razza e dello stesso pianeta! Possibile che i rapporti tra terrestri e millepiedi di un pianeta a 700G possa essere così idilliaco e così scevro di incomprensioni?

Il che ci porta al terzo, e più grave problema del romanzo: la brutta caratterizzazione della psicologia dei meskliniti.
Da un lato Clement fa un buon lavoro, quando si concentra sulla fisica del loro corpo o sulle conseguenze psichiche dell’ambiente in cui vivono. I meskliniti sono bassi e lunghi per meglio resistere alla pressione gravitazionale del pianeta, e hanno tante zampe (uncinate) per potersi sempre tenere ancorati al suolo e non rischiare di cadere. Da dove viene l’equipaggio della Bree infatti – ossia dalle fasce temperate di Mesklin – la gravità è così elevata che anche una caduta di pochi centimetri può significare la lacerazione di tutti gli organi interni e la morte. Di conseguenza, il suo popolo ha un terrore folle sia per le altezze, sia per avere qualcosa – di qualsiasi materiale – sopra la loro testa, e difatti le loro case non hanno un tetto. Quando ha portato la sua ciurma alle basse gravità dell’Equatore, Barlennan l’ha avvisata di non prendere l’abitudine di saltare o di sollevarsi troppo sulle zampe anteriori: se infatti per distrazione lo facessero anche una volta tornati nella loro patria, finirebbero quasi certamente per ammazzarsi.
Ma a parte questi tratti derivanti dalle condizioni particolari del pianeta, i meskliniti suonano terribilmente umani. Il loro modo di ragionare, di fare affari, di darsi una gerarchia, è identico al nostro. Anche quando l’equipaggio della Bree si imbatte in altre tribù e altri popoli della loro specie, queste creature non sono più strane o variegate dei selvaggi d’Africa di un racconto d’avventura dell’Ottocento, e spesso meno. Clement non si è chiesto che tipo di psiche potesse svilupparsi in una specie di millepiedi schiacciati al terreno, né si è premurato di inventarne una da capo a piedi. I meskliniti sembrano esseri umani in un un corpo di insetti.

Newton e la gravità

Dove Clement dà il meglio di sé è nel worldbuilding. La velocità di rotazione del pianeta è tale che un giorno dura meno di 20 minuti. Nelle prime pagine del romanzo è piuttosto straniante sentire i personaggi parlare con nonchalanche di aspettare cento, duecento o cinquecento giorni, ma poi si comincia a vedere il sole sorgere e tramontare con una frequenza allarmante. Sempre a causa di questa velocità di rotazione, in alcuni periodi dell’anno i venti spirano dai poli verso l’equatore, e la regione dell’Orlo è spazzato da correnti talmente forti che i meskliniti devono ancorare sé stessi e la loro imbarcazione al suolo per non volare via. Ancora, i mari di Mesklin sono fatti di metano e i venti di cristalli di ammoniaca.
Il popolo di Barlennan non possiede un termine per “lanciare” né il concetto, perché da dove vengono loro, con una gravità vicina ai 700G, appena un qualsiasi oggetto lascia la mano, istantaneamente arriva al suolo. L’accelerazione è tale che l’occhio non percepisce il movimento attraverso l’aria. Al polo sud, un sassolino lasciato cadere da oltre duecento metri di altezza scava un buco di alcuni metri e solleva un’onda di pulviscolo (che comunque scema rapidamente a terra). Di conseguenza, il suo popolo non possiede armi da lancio, ma solo armi bianche. E così via.

Insomma, Mission of Gravity è lontano dalla perfezione, ma certo si tratta di uno dei romanzi di Hard SF meglio scritti e anche più piacevoli da leggere che abbia mai incontrato. Intendiamoci: il gusto del libro è quello di un “rompicapo scientifico”, una lettura che colpisce più il cervello che i sensi. La gestione distanziante del pov e gli infodump rallentano in parte il ritmo della storia, mentre personaggi piatti e la psicologia poco aliena dei meskliniti riducono il fascino dell’esperienza, ma per gli amanti del genere l’epopea della Bree attraverso Mesklin sarà divertente e regalerà molti momenti di sense of wonder. E Mesklin è probabilmente uno dei pianeti più “alieni” e meglio pensati nella storia della fantascienza.
Al terzo posto dopo Rendezvous with Rama e Ringworld, lo ritengo uno dei punti di partenza ideali per chi voglia esplorare il sottogenere dell’Hard SF.

Science raptor

Let’s do some fucking science!

Dove si trova?
In lingua originale, Mission of Gravity si può trovare su Library Genesis. Ci sarebbe anche su Bookfinder, ma al momento dice che il download non è disponibile, quindi lasciate stare.
Come ha fatto notare Talesdreamer, l’edizione italiana si può scaricare via Mulo cercando l’orrido titolo “Stella Doppia 61 Cygni”, nei cinque gusti .doc, .rar, .pdf, .lit o epub.

Qualche estratto
Entrambi gli estratti che ho scelto vengono dal primo capitolo, che è uno dei più interessanti in quanto adotta il punto di vista del mesklinita Barlennan. Il primo estratto dà un assaggio dell’ambientazione, ma anche del taglio documentaristico e distaccato della voce narrante anche quando ancora la telecamera nella testa del personaggio. Il secondo viene dal primo dialogo tra Barlennan e Lackland; è particolarmente interessante perché mostra la visione che, in conseguenza del loro sistema di riferimento, hanno i meskliniti del loro mondo: una scodella!

1.
The wind came across the bay like something living. It tore the surface so thoroughly to shreds that it was hard to tell where liquid ended and atmosphere began; it tried to raise waves that would have swamped the Bree like a chip, and blew them into impalpable spray before they had risen a foot.
The spray alone reached Barlennan, crouched high on the Bree’s poop raft. His ship had long since been hauled safely ashore. That had been done the moment he had been sure that he would stay here for the winter; but he could not help feeling a little uneasy even so. Those waves were many times as high as any he had faced at sea, and somehow it was not completely reassuring to reflect that the lack of weight which permitted them to rise so high would also prevent their doing real damage if they did roll this far up the beach.
Barlennan was not particularly superstitious, but this close to the Rim of the World there was really no telling what could happen. Even his crew, an unimaginative lot by any reckoning, showed occasional signs of uneasiness. There was bad luck here, they muttered — whatever dwelt beyond the Rim and sent the fearful winter gales blasting thousands of miles into the world might resent being disturbed. At every accident the muttering broke out anew, and accidents were frequent. The fact that anyone is apt to make a misstep when he weighs about two and a quarter pounds instead of the five hundred and fifty or so to which he has been used all his life seemed obvious to the commander; but apparently an education, or at least the habit of logical thought, was needed to appreciate that.
[…] No witness could have told precisely where the shore line now lay. A blinding whirl of white spray and nearly white sand hid everything more than a hundred yards from the Bree in every direction; and now even the ship was growing difficult to see as hard-driven droplets of methane struck bulletlike and smeared themselves over his eye shells. At least the deck under his many feet was still rock-steady; light as it now was, the vessel did not seem prepared to blow away. It shouldn’t, the commander thought grimly, as he recalled the scores of cables now holding to deep-struck anchors and to the low trees that dotted the beach. It shouldn’t — but this would not be the first ship to disappear while venturing this near the Run. Maybe his crew’s suspicion of the Flyer had some justice. After all, that strange being had persuaded him to remain for the winter, and had somehow done it without promising any protection to ship or crew. Still, if the Flyer wanted to destroy them, he could certainly do so more easily and certainly than by arguing them into this trick. If that huge structure he rode should get above the Bree even here where weight meant so little, there would be no more to be said. Barlennan turned his mind to other matters; he had in full measure the normal Mesklinite horror of letting himself get even temporarily under anything really solid.

Il vento che arrivava dalla baia sembrava una cosa viva. Lacerava e sconvolgeva la distesa d’acqua in un pulviscolo di frammenti cosi minuti che era difficile stabilire dove finisse l’elemento liquido e dove cominciasse l’atmosfera. Il vento sembrava sempre sul punto di sollevare ondate capaci di spazzare via la “Bree” come un sughero, ma poi le disperdeva in miriadi di spruzzi impalpabili, prima che riuscissero ad alzarsi di mezzo metro.
Solamente gli spruzzi arrivavano fino a Barlennan, che se ne stava comodamente sdraiato, in alto, sul castello di poppa della “Bree”. Già da un pezzo aveva portato la nave al sicuro in secca sulla spiaggia, cioè da quando aveva capito di dover passare l’inverno lì. Tuttavia non poteva fare a meno di sentirsi un po’ a disagio anche dopo questa decisione. Quelle ondate erano le più alte che avesse mai visto in mare, e in un certo senso non trovava del tutto rassicurante nemmeno sapere che proprio la mancanza di peso, se da una parte permetteva alle onde di alzarsi tanto, dall’altra avrebbe anche impedito ai flutti di provocare veri e propri danni, se fossero riusciti a spingersi molto addentro sulla spiaggia.
Il Comandante Barlennan non era particolarmente superstizioso, ma trovandosi così vicino agli Orli del Mondo, non avrebbe davvero saputo dire cosa poteva succedere. Perfino l’equipaggio, che certo non era dotato di molta immaginazione, ogni tanto mostrava evidenti segni di malessere. Era la maledizione che regnava in quella regione, mormoravano… Qualunque mistero ci fosse al di là dell’Orlo, la cosa che mandava le terribili raffiche di vento invernale a spazzare per migliaia di chilometri quella parte del mondo poteva non gradire di essere disturbata dalla spedizione di Barlennan. Al minimo incidente l’equipaggio ricominciava a mormorare, e di incidenti, lievi o gravi che fossero, se ne verificavano spesso. Chiunque pesi poco più di un chilogrammo, invece dei duecentocinquanta a cui è stato abituato per tutta la vita, si trova nella condizione di commettere un sacco di errori. Era una costatazione ovvia per il Comandante, ma lui aveva una mentalità scientifica e l’abitudine a pensare in termini logici e razionali.
[…] Nessuno di loro, in quel momento, avrebbe potuto dire dove si trovava la linea costiera. Un vortice accecante di spruzzi e di sabbia bianca nascondeva ogni cosa che fosse a più di cento metri di distanza dalla “Bree”, in tutte le direzioni. Anche la nave cominciava a non essere quasi più visibile, mentre le goccioline di metano lanciate a tutta velocità dal vento colpivano come tante pallottole, spiaccicandosi sopra le conchiglie oculari. Per lo meno il ponte, sotto i suoi molteplici piedi, era ancora saldo come una roccia; e il battello, benché fosse alleggerito di molto, non sembrava disposto a farsi spazzare via dal vento. Cosa impossibile, ad ogni modo, si disse il Comandante, pensando alle decine di cavi che trattenevano la nave alle ancore profondamente sepolte nella sabbia e ai bassi alberi che punteggiava-no la spiaggia. Impossibile, certo, eppure la sua non sarebbe stata davvero la prima nave a scomparire durante una spedizione così pericolosamente vicina all’Orlo. Forse i sospetti dell’equipaggio nei confronti del Volatore non erano del tutto infondati. In fin dei conti, quella strana creatura lo aveva persuaso a fermarsi lì per tutto l’inverno e in un certo senso era riuscita a convincerlo senza garantire la minima protezione alla nave o all’equipaggio. D’altra parte, se il Volatore avesse voluto annientarli, avrebbe potuto farlo molto più facilmente e direttamente che non ingannandoli a parole. Se quell’immensa macchina su cui viaggiava avesse dovuto passare sulla “Bree” anche in questa parte del mondo, dove il peso aveva così poca importanza, sarebbe stata la fine. Barlennan si costrinse a pensare ad altro. Conosceva l’esatta misura del terrore congenito di tutti i meskliniti all’idea di stare, sia pure per breve tempo, sotto qualunque massa solida.

Michael Jackson sconfigge la gravità

Per recuperare il razzo dovevano chiamare lui.

2.
“What I really wondered about, Charles, was how long this blow was going to last. I understand your people can see it from above, and should know how big it is.”
“Are you in trouble already? The winter’s just starting — you have thousands of days before you can get out of here.” “I realize that. We have plenty of food, as far as quantity goes. However, we’d like something fresh occasionally, and it would be nice to know in advance when we can send out a hunting party or two.”
“I see. I’m afraid it will take some rather careful timing. I was not here last winter, but I understand that during that season the storms in this area are practically continuous. Have you ever been actually to the equator before?” “To the what?”
“To the — I guess it’s what you mean when you talk of the Rim.”
“No, I have never been this close, and don’t see how anyone could get much closer. It seems to me that if we went much farther out to sea we’d lose every last bit of our weight and go flying off into nowhere.”
“If it’s any comfort to you, you are wrong. If you kept going, your weight would start up again. You are on the equator right now — the place where weight is least. That is why I am here. I begin to see why you don’t want to believe there is land very much farther north. I thought it might be language trouble when we talked of it before. Perhaps you have time enough to describe to me now your ideas concerning the nature of the world. Or perhaps you have maps?”
“We have a Bowl here on the poop raft, of course. I’m afraid you wouldn’t be able to see it now, since the sun has just set and Esstes doesn’t give light enough to help through these clouds. When the sun rises I’ll show it to you. My flat maps wouldn’t be much good, since none of them covers enough territory to give a really good picture.”
“Good enough. While we’re waiting for sunrise could you give me some sort of verbal idea, though?”
“I’m not sure I know your language well enough yet, but I’ll try.
“I was taught in school that Mesklin is a big, hollow bowl. The part where most people live is near the bottom, where there is decent weight. The philosophers have an idea that weight is caused by the pull of a big, flat plate that Mesklin is sitting on; the farther out we go toward the Rim, the less we weigh, since we’re farther from the plate. What the plate is sitting on no one knows; you hear a lot of queer beliefs on that subject from some of the less civilized races.”
“I should think if your philosophers were right you’d be climbing uphill whenever you traveled away from the center, and all the oceans would run to the lowest point,” interjected Lackland. “Have you ever asked one of your philosophers that?”
“When I was a youngster I saw a picture of the whole thing. The teacher’s diagram showed a lot of lines coming up from the plate and bending in to meet right over the middle of Mesklin. They came through the bowl straight rather than slantwise because of the curve; and the teacher said weight operated along the lines instead of straight down toward the plate,” returned the commander. “I didn’t understand it fully, but it seemed to work. They said the theory was proved because the surveyed distances on maps agreed with what they ought to be according to the theory. That I can understand, and it seems a good point. If the shape weren’t what they thought it was, the distances would certainly go haywire before you got very far from your standard point.”
“Quite right. I see your philosophers are quite well into geometry.”

— Quello che mi stavo domandando, Charles, è quanto durerà questa bufera. So che i tuoi uomini possono vederla dall’alto, e dovrebbero quindi essere in grado di valutarne l’entità.
— Ti trovi già in pericolo? L’inverno è appena cominciato… hai davanti migliaia di giorni prima di poter uscire da questa zona.
— Lo so. Le scorte di vettovaglie sono più che abbondanti, ma ogni tanto si sente la necessità di un po’ di cibo fresco, e sarebbe utile sapere in anticipo quando potremo mandare fuori una spedizione di caccia, o anche due.
— Capisco. Ma ho paura che dovranno calcolare i tempi con molta precisione. Non mi trovavo in questa zona l’inverno scorso, ma so che durante l’inverno le bufere si susseguono in modo pressoché ininterrotto. Ci sei stato veramente nella regione equatoriale, in passato?
— Dove?
— Nella… ah, credo che quando parlate dell’Orlo in realtà vi riferiate all’Equatore.
— No, non mi sono mai spinto tanto vicino all’Orlo, e non vedo come qualcuno possa avanzare oltre un certo limite. La mia impressione è che se ci spingessimo ancora di più verso l’alto mare finiremmo per perdere anche gli ultimi residui di peso e voleremmo via come pagliuzze.
— Se ti è di conforto, posso assicurarti che ti sbagli. Continuando ad andare verso l’alto mare, il vostro peso ricomincerebbe ad aumentare. In questo momento sei sulla linea dell’ Equatore, cioè proprio dove si pesa meno. E’ per questo che io mi trovo qui. Ora comincio a capire perché tu non vuoi credere che ci siano terre molto più a nord. All’inizio, quando abbiamo cominciato a parlare di queste cose, pensavo che dipendesse dalla nostra difficoltà di comunicare, ma adesso credo che tu abbia il tempo di spiegarmi le tue idee circa la natura di questo mondo. O forse possiedi delle carte geografiche, delle mappe…?
— Naturalmente, abbiamo una “coppa” qui, sul castello di poppa, ma temo che tu non possa vederla, adesso che il sole è appena tramontato ed Esstes non dà luce sufficiente con tutta questa nuvolaglia. Domani, quando sorgerà il sole, te la mostrerò. Le mie carte geografiche non ti sarebbero di molto aiuto, perché nessuna di esse riproduce territori abbastanza estesi da fornire un quadro sufficientemente chiaro della regione.
— Capito, Ma, in attesa dell’alba, non potresti descrivermele a voce?
— Non sono sicuro di essere padrone della tua lingua fino a questo punto. Comunque proverò. A scuola mi hanno insegnato che il nostro pianeta è come una grande coppa dalla cavità molto profonda. La zona in cui vive la maggior parte della popolazione è vicina al fondo della coppa, dove il peso è più forte. Secondo la teoria dei nostri saggi questo peso è causato da una specie d’immenso vassoio piatto su cui posa Mesklin. Più ci si allontana dal fondo verso l’Orlo, più il nostro peso diminuisce e, perché nello stesso tempo ci si allontana anche dal vassoio. Su cosa poi sia posato il vassoio, nessuno lo sa. Al riguardo si sentono raccontare una quantità di strane leggende, soprattutto da parte delle razze meno civilizzate.
— Mi sembra che i tuoi saggi avrebbero ragione, se uno si accorgesse di salire verso l’alto tutte le volte che si allontana dal fondo della coppa, cioè dal centro, e se tutti gli oceani tendessero a raccogliersi verso il punto più basso, vale a dire al centro della coppa — obiettò Lackland. — Non hai mai approfondito la questione con uno di loro?
— Da giovane ho visto un disegno che spiegava tutta la situazione. Il diagramma del mio maestro mostrava una grande quantità di linee che salivano dal vassoio e si piegavano per incontrarsi esattamente nel centro di Mesklin. Il loro tracciato lungo la coppa seguiva praticamente una linea retta, a causa della curvatura, e il maestro disse che il peso si scaricava lungo quelle linee invece di correre direttamente giù verso il vassoio. Non riuscii a capire bene, ma il ragionamento mi sembrò abbastanza logico. L’ipotesi, ho saputo poi, aveva la sua conferma nei fatti. Infatti le distanze rilevate sulle carte concordavano esattamente con quelle calcolate in base alla teoria. E questa è una cosa che posso capire facilmente, e mi sembra rappresenti un punto fermo. Se la forma non corrispondesse a quella indicata dai saggi, le distanze risulterebbero tutte sbagliate, appena si cominciasse ad allontanarsi dal nostro punto medio d’osservazione.
— Giustissimo. Vedo che i tuoi saggi sono molto istruiti in fatto di geometria.

Tabella riassuntiva

Ambientato su un pianeta dalla gravità che varia dai 3 ai 700G! Narratore onnisciente e pov che salta da un personaggio all’altro.
I protagonisti sono coriacei millepiedi con l’orrore delle altezze! Alieni dalla psicologia terribilmente umana.
Unisce speculazione scientifica e avventura. Personaggi bidimensionali e perfettamente razionali.