Sviluppatore: Jonatan “Cactus” Söderström
Casa di sviluppo: Dennaton Games
Genere: Azione, Top-Down Shooter, Arcade
Genere Narrativo: Crime / Splatterpunk
Motore: Game Maker
Piattaforme: Windows, Mac OS X, Linux, PS3, PS4, PSVita
Anno: 2012
Notte. Il vostro appartamento è illuminato solo dalla luce lampeggiante della segreteria telefonica. Andate al telefono e premete il tasto della segreteria. Una voce che non riconoscete vi dà delle istruzioni: dovete recarvi a un certo indirizzo, recuperare una valigetta e soprattutto uccidere tutti quelli che troverete dentro. Nel pianerottolo di casa, il vostro mandante vi ha anche lasciato un pacchetto: dentro, una maschera da gallo. E’ quella che dovrete indossare durante il massacro.
Andate. Non sapete perché, ma andate. E questa è solo la prima delle stragi che compirete su richiesta della vostra segreteria telefonica. Ma perché preoccuparsi tanto? Questi sono gli anni ’80, questa è la Miami degli anni ’80, la terra della cocaina, ed è così rilassante sfondare crani con spranghe di ferro e spezzare colli con le proprie mani.
Non so cosa steste facendo voi alla fine degli anni ’80; io stavo nascendo. Per questo motivo, mi sono perso l’epoca che è stata l’apogeo delle sale giochi. Quando ho cominciato a frequentarle – soprattutto al mare in spiaggia – erano già sul viale del tramonto: oltre a un ottimo Metal Slug, un Bubble Bobble e l’occasionale Tekken o Street Fighter, non avevano molto da offrire. Quando ho compiuto dieci anni, erano scomparse ormai quasi tutte. Ma ho fatto comunque tempo a godermi, in piccola parte, il gusto per il gioco arcade – gioco semplice e immediato, dalla grafica limitata, dove in un rush di adrenalina bisognava sparare a tutto ciò che si muoveva. Hotline Miami fa rivivere tutto questo, e nel modo più gore.
Hotline Miami, uscito nel 2012 dalle mani di uno sviluppatore indie svedese con un infinito curriculum di giochi alle spalle, è un top-down shooter vecchia scuola, con omini visti dall’alto e grafica pixellosa. Il gioco è strutturato in missioni, in ciascuna delle quali bisogna irrompere in un edificio e ammazzare tutti i bastardi che ci stanno dentro, prima che siano loro ad ammazzare noi. Se l’edificio ha più piani, ogni piano è un ‘livello’; completandolo e salendo al piano successivo si attiva un checkpoint,si modo tale che morendo si riprende dall’ultimo piano e non dall’inizio della missione. Il che è fondamentale – perché la caratteristica più interessante di Hotline Miami è che è fottutamente difficile.
Trailer di Hotline Miami
Ogni nemico infatti ha un punto vita, il che significa che una mazzata o una sventagliata di mitra lo uccideranno; ma lo stesso vale per l’eroe. Ti colpiscono e sei fuori. E tu sei uno, mentre loro sono tanti. L’unico modo per sopravvivere è pianificare con attenzione, approfittando del fatto che all’inizio del livello i nemici non si sono ancora accorti della vostra presenza – in che ordine eliminarli, in quali stanze nascondersi, che armi prendere lungo il percorso – per poi mettere in atto la strategia nel modo più rapido ed efficiente possibile. Prima il cervello, poi i riflessi animali. Si può attirare un nemico in una stanza facendo rumore con una sventagliata di mitra, si può agguantare uno alle spalle e usarlo come scudo umano, si può colpire di rimbalzo – l’importante è essere più veloci degli avversari.
Ma un gioco è semplicemente nostalgico se si limita a riproporre grafiche e gameplay del passato, senza aggiungere qualcosa di originale. L’originalità di Hotline Miami prende la forma dell’iperviolenza. La grafica stilizzata e poco realistica dello stile top-down anni ’80 permette a Söderström di scatenare una festa di sangue: se prendiamo un tipo ad asciate, vedremo i suoi arti volare in diverse direzioni; salendo a cavalcioni un tipo che abbiamo stordito, per finirlo, potremo (a seconda dell’arma che abbiamo in mano) strangolarlo o sfondargli il cranio o tagliargli la gola (con conseguente spruzzo). E data l’adrenalina a mille, e la coscienza di poter morire per mano loro in qualsiasi momento, ci vedremo diventare in tempo zero degli animali che urlano, stringono freneticamente il controller e gioiscono quando, alla fine di un livello, il nostro personaggino si ritrova solo in una stanza piena di corpi e sangue. Io sono una persona calma di natura – ma durante le mie partite a Hotline Miami regredivo a un pazzo maniaco.
La trama, con il suo sviluppo lento e allucinato, fa da buon contraltare al ritmo animalesco del gioco. Ogni missione (tranne verso la fine del gioco) è strutturata allo stesso modo: ci risvegliamo da sogni inquieti nel letto del nostro appartamento, andiamo alla segreteria ad ascoltare la prossima richiesta del nostro datore di lavoro, scendiamo da basso, saltiamo nella decappottabile e partiamo. A missione finita, ripigliamo la macchina e, su uno sfondo di palme al tramonto, andiamo nel luogo di raccolta convenuto – di volta in volta un fast food, un supermarket 24/7, un negozio di dischi – a ritirare il nostro compenso. In questi momenti di cool-off, abbiamo la possibilità di cogliere qualche informazione sparsa sul senso di ciò che stiamo facendo. E cominciamo a cogliere cose che non vanno.
I venditori dei negozi, per cominciare, hanno tutti la stessa faccia e sembrano quasi essere la stessa persona. Occasionalmente, nei nostri sogni, ci ritroviamo in una stanza con dentro tre tizi con addosso maschere di animali proprio come la nostra – un gallo, un cavallo, un gufo – che ci fanno domande sulla nostra vita e sul nostro gusto nell’infliggere dolore al prossimo. Cominciamo a dubitare dell’esperienza che stiamo vivendo. Quanto di ciò che stiamo facendo è reale? E’ tutta un’allucinazione data dalla droga? O davvero qualcuno ci sta manovrando? E quanto siamo consapevoli del sangue sulle nostre mani? Mano a mano che si procede nella trama, le tinte – già fosche – del gioco si fanno ancora più cupe, fino al climax.
La trama di Hotline Miami, è il caso di dirlo subito, è un elemento minimale, che serve più a creare la giusta atmosfera e un’allucinata cornice al gameplay, che non a vivere di vita propria. Il protagonista è un avatar del giocatore senza personalità, e anche i (pochi) altri personaggi presenti hanno una caratterizzazione ridotta all’osso. Ad analizzarla seriamente, la trama di questo gioco vive di tutti i cliché delle storie di crimine. Ma è comunque sufficientemente ben strutturata da fare il suo lavoro, ossia immergerci a dovere nel mood e nello stile di gioco; ed è la dimostrazione che, anche nel mondo dei videogiochi, basta allontanarsi dal territorio dei titoli blockbuster prodotti dalle grandi case per trovare trame che non assomigliano a un canovaccio hollywoodiano, ci fanno impersonare ruoli più ambigui e non puntano all’happy ending. Inoltre non mancano un paio di simpatici twist – come la possibilità, dopo la “fine” del gioco, di cambiare il corso della trama impersonando un altro personaggio, e di arrivare a un altro finale, “segreto” e meta-narrativo.
Il tutto inserito nella cornice di una Miami degradata, invasa dalla criminalità e dalla sporcizia. Ora – data la grafica scrausa, e considerando che il gioco si svolge quasi interamente in interni, che sia ambientato a Miami piuttosto che a New York o Los Angeles o Berlino o Istanbul in teoria ci cambia poco. Ma è quel tocco in più che ci aiuta nell’immersione nella vicenda. La Miami degli anni ’80 ci richiama il mondo corrotto e iperviolento di Scarface, della serie Miami Vice, di GTA: Vice City, e aiutati da quel kitschissimo sfondo di palme delle schermate di caricamento, ci sentiamo veramente più inseriti nel mondo di gioco.
I giochi che preferisco sono quelli con una chiara visione artistica. Giochi, cioè, in cui tutti gli elementi – gameplay, grafica, trama, colonna sonora, level design – si fondono in qualcosa di organico. Hotline Miami questa visione artistica ce l’ha.
La grafica non è semplicemente retro, è acida. I livelli di gioco sembrano annegare in un oceano vuoto di luci fluorescenti dai colori rigorosamente sgradevoli – verde radioattivo, blu elettrico, rosso sangue, giallo piscio – che ci ricordano le luci della sala giochi, di una discotecaccia, di un viaggio in acido. I volti delle persone con cui interagiamo sono tutti orribili e deformati in una maniera quasi innaturale.
E poi c’è la colonna sonora: musica elettronica sporca e rugginosa che pare avere il preciso scopo di farci agitare sulla sedia e iniettarci gli occhi di sangue. Le tracce che accompagnano i livelli di gioco sono ritmate, energiche e tutto sommato orecchiabili; peggiori quelle che accompagnano le parti di trama e i preparativi per le missioni, musiche che evocano grattugie passate su una lamiera o martelli pneumatici che ci trapanano le tempie.
Questo mix di elementi, che ci mantiene in uno stato di tensione e disagio costante, non solo si sposa alla perfezione col gameplay, ma rafforza l’idea che ci sia qualcosa di veramente sbagliato nella testa del nostro protagonista e che siamo solo fino a un certo punto padroni delle nostre azioni. Anche stile grafico e sonoro, del resto, sono elementi narrativi, che raggiungono il massimo dell’efficacia quando sono organici alla trama e ai temi della storia e rafforzano l’immersione.
Hydrogen di M.O.O.N., una delle tracce più iconiche (e orecchiabili) della soundtrack di Hotline Miami
Così come è organico all’esperienza di gioco complessiva il livello esagerato di difficoltà. E qui entra in gioco un altro colpo di genio di Söderström. Negli ultimi anni, a causa della massificazione del videogioco, è cosa nota che la difficoltà media dei giochi si sia notevolmente abbassata: se per rientrare del mio investimento multimilionario devo vendere il mio gioco anche al casual gamer dodicenne che si spazientisce subito, devo fare in modo che anche lui sia in grado di finirlo. Per soddisfare tutti quei giocatori hardcore che favoleggiavano l’età dell’oro dei giochi semi-impossibili da finire, è quindi comprensibile che si siano mossi soprattutto piccoli team di sviluppo con piccoli budget, e gli sviluppatori indie.
Ma c’è un modo corretto e un modo sbagliato di fare un gioco difficile. Se – alla maniera dei vecchi Tomb Raider – al ventesimo salto calcolato al millimetro inclino male la manopola direzionale, manco la sporgenza, rovino nel burrone e devo ricominciare dall’ultimo save point, l’esperienza è più frustrante che difficile. Hotline Miami sceglie l’approccio opposto. In Hotline Miami, le vite sono infinite. Ogni volta che si muore, si ricomincia dall’inizio del livello (o “piano”) in cui si è morti. I livelli sono molto brevi (raramente serve più di un minuto a completarli, e spesso meno). Soprattutto, anche grazie alla grafica minimale, non ci sono tempi di caricamento: una volta morto, premo un tasto e nel giro di un secondo scarso ho riavviato la partita. Il che significa che sì muore sì un casino, ma il costo del fallimento e del retry è bassissimo – in un attimo sono di nuovo in pista e pronto a imparare dall’errore.
Questo semplice meccanismo è di vitale importanza per trasformare un’esperienza potenzialmente frustrante – la perdita di progresso e l’essere costretti alla ripetizione – in un booster di adrenalina e voglia di giocare. Si innesca così il leit motiv tipico degli arcade: “Cazzo sono morto… vabbé, un’altra partita e poi basta!”. E si va avanti per le due ore successive.
Hotline Miami, in breve, è una droga. Si sa quando si comincia ma non quando si finisce; lo si accende per ammazzare una mezz’ora, e prima che te ne accorgi è ora di pranzo. Il limite di questo gioco, se vogliamo, è che – con le sue neanche venti missioni totali – è molto breve. Ma potrebbe anche essere un punto di forza:
1. A trascinarle troppo in lungo, le meccaniche di gioco potrebbero diventare ripetitive. Alla fine si tratta sempre di fare la stessa cosa: irrompere in un edificio e ammazzare tutti prima che siano loro ad ammazzare te. Per quanto puoi cambiare la mappatura del piano, il numero dei nemici e le armi a loro disposizione, sempre la stessa frittata è. In questo modo, invece, si arriva alla fine del gioco prima di cominciare ad annoiarsi.
2. Quando si arriva alla fine, finalmente ci si libera del gioco e si può tornare ad avere una vita normale. Ho la sensazione di aver buttato via quasi un intero weekend dietro a questo gioco, senza quasi rendermene conto.
Nell’ambiente degli hardcore gamer, Hotline Miami ha avuto un successo strepitoso. Per questo, fin dal 2013 Söderström aveva annunciato di essere al lavoro su un seguito. Hotline Miami 2: Wrong Number dovrebbe uscire a fine 2014, e a giudicare dal trailer e dalle dichiarazioni dello sviluppatore sarà fondamentalmente un more of the same: più personaggi, più missioni, più difficile. Potrei decidere di prenderlo, ma non sono troppo entusiasta – non c’è nulla di radicalmente nuovo, e quella noia e ripetitività che il primo gioco era riuscito a evitare potrebbe finalmente manifestarsi. In ogni caso, Söderström ha messo le mani avanti: questo sarà il capitolo conclusivo della serie. Quantomeno, la bellezza del titolo originale non sarà rovinato da una serie di sequel poco ispirati.
Hotline Miami è un piccolo gioiello splatterpunk col quale sfogare con eleganza tutte le incazzature accumulate nel corso della giornata. A livello di gameplay, coniuga la necessità di una pianificazione intelligente a monte con la rapidità dell’esecuzione, facendo lavorare sia la testa che i riflessi; a livello di narrativa e atmosfera, è un’esperienza ricca che, per quanto non vi rivoluzionerà la vita, ricorderete di certo anche ad anni di distanza. All in all, un’esperienza di gioco abbastanza unica nel suo genere; se vi piacciono un minimo gli shooter in salsa arcade, non fatevelo sfuggire.
Il mese di Ottobre sta per finire, e con esso anche la mia scorta di titoli horror/iperviolenti. Con Hotline Miami, ci siamo gradualmente spostati dallo splatter over-the-top e quasi comico di Apeshit e Header verso atmosfere più cupe, dove si mena ancora molto ma si ride poco. Già la novella di Lee, del resto, aveva risvolti più drammatici di molte delle entrate che l’avevano preceduto – anche se si fa sempre fatica a prendere sul serio i redneck.
Continueremo questo movimento nella settimana conclusiva di questa carrellata.