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Gli Italiani #11: Alieni coprofagi dallo spazio profondo

Alieni coprofagi dallo spazio profondoAutore: Marco Crescizz
Genere: Commedia Nera / Fantasy / Bizarro Fiction
Tipo: Romanzo breve

Anno: 2015
Pagine: 100 pg. circa
Editore: Antonio Tombolini Editore
Collana: Vaporteppa

A nessuno piacciono i ciccioni.
Lo impara ogni giorno a sue spese Nunzio, trentenne impiegato delle poste, talmente grasso che non riesce a vedersi il pisello e fa fatica a passare dalla porta. I colleghi lo deridono e si approfittano di lui, il capo lo copre di insulti. Fuori dal lavoro, si nasconde in casa dove affonda i suoi dispiaceri nelle vaschette di gelato e nei pacchetti di nachos. Da anni, per la vergogna, non va a trovare i genitori, ai quali ha raccontato di essere dimagrito. E a nulla valgono le esortazioni a fare attività fisica e a scuotersi dal torpore di Schwarzy, l’amico immaginario che si è creato sul modello dell’attore culturista.
Be’, direte voi, la vita di Nunzio non potrà certo diventare più miserabile di così, giusto? Può, può. Perché da qualche tempo, in città, si registrano sparizioni di obesi. E se gli escrementi degli esseri umani fossero, per le creature di un altro pianeta, una potente droga dal valore inestimabile? E se esistesse un traffico intergalattico di ciccioni, schiavizzati per l’abbondanza della merda che possono produrre? Nunzio scoprirà a sue spese che il passaggio da una vita di umiliazioni a quella di una “mucca mungi-merda” può essere sorprendentemente breve. Riuscirà a sopravvivere e a riscattare la dignità perduta, o diventerà l’ennesima vittima della tratta degli obesi?

Ultimamente ho cominciato un po’ troppi dei miei articoli con toni da barbogio: non sono un amante dell’high fantasy, non mi piacciono le storie di supereroi, non sono un fan delle Cronache di Martin… Basta! Oggi voglio riscattarmi ed esordire con un messaggio positivo: adoro i b-movie, tanto quelle pellicole vintage “so bad it’s good”, tanto gli omaggi volontari ai filmacci di genere (sullo stile dei film di Rodriguez). Inevitabilmente i miei occhi si sono illuminati quando ho scoperto che Vaporteppa, la collana di narrativa fantastica gestita dal Duca, aveva pubblicato un titolo che pareva un incrocio tra un filmaccio pseudo sci-fi degli anni ’50 e un’opera di Carlton Mellick.
Alieni coprofagi dallo spazio profondo – romanzo breve dell’esordiente Marco Crescizz – è una strana scommessa. Da una parte, per il modo in cui si presenta, rischia di attirare solo lo sparuto numero di amanti italiani della Bizarro Fiction (come me). Al contempo, vuole essere – pur senza prendersi troppo sul serio e senza assumere, vivaddio, toni da Pubblicità Progresso – una storia sull’obesità, su cosa significhi essere obesi e su quanto sia difficile superarlo. Due anime apparentemente distanti, che rischierebbero di non rivolgersi allo stesso pubblico – ma che nella storia di Crescizz collimano in modo interessante. Cercherò di dimostrarvi come.

It Came From Outer Space

Le pellicole anni ’50 a cui Crescizz dichiara di essersi ispirato. Sublime!

Uno sguardo approfondito
È molto raro, soprattutto nella narrativa di genere, trovare storie con protagonisti dalle condizioni fisiche non standard. L’unico altro romanzo letto negli ultimi anni con un protagonista obeso che mi venga in mente, per esempio, è The Morbidly Obese Ninja di Mellick. Ancora più raro, poi, è che la storia in questione riesca a trasmettere al lettore, a livello sensoriale, la diversità di questo corpo che sta abitando durante la lettura. Di recente ho letto Il padiglione d’oro (Kinkaku-ji) di Mishima, tratto dalla storia vera del giovane accolito buddista che negli anni ’50 diede inspiegabilmente fuoco al famoso tempio di Kyoto, radendolo al suolo. Il protagonista è balbuziente dalla nascita, e questo tratto è la chiave del suo essere un asociale e un misantropo – tuttavia, nel corso della lettura continuavo a dimenticarmi della sua balbuzie, ricordando solamente il suo essere genericamente uno ‘sfigato’ con problemi relazionali. Un po’ per la tendenza di Mishima a usare il discorso indiretto piuttosto che quello diretto, un po’ per l’uso del narratore onnisciente, la disabilità del protagonista, pur così rilevante (e interessante da vivere, del resto) rimaneva un dato astratto, privo di concretezza per il lettore.
Tutto il contrario in Alieni coprofagi. Scritto in terza persona ravvicinata, con il pov unico di Nunzio, il romanzo di Crescizz ci fa avvertire ad ogni riga l’obesità del suo protagonista – l’ingombranza, la pesantezza del suo corpo. La difficoltà di passare dalle porte, le sedie troppo strette per il proprio culone, la difficoltà di chinarsi, l’impossibilità di vedersi l’uccello o le scarpe a causa della trippa, i fiumi di sudore che colano continuamente da ogni orifizio e rimangono intrappolati nella tuta… La condizione di Nunzio, ossia l’elemento che più di ogni altro lo caratterizza nei suoi rapporti col mondo e determina i suoi conflitti (esterni e interiori), ci è continuamente davanti agli occhi, e la viviamo nella nostra pelle: “Tirò il freno a mano e aprì la portiera. Le cosce rimasero schiacciate contro la parte bassa del volante. Oddio non riesco a uscire! Oddio… devo stare calmo...” Diventiamo dei cicciomerda con Nunzio.

Ma Nunzio è un tipo passivo, che si culla nei sensi di colpa e nell’autocommiserazione, un vigliacco che si fa mettere i piedi in testa e mente a sé stesso – per cui, sarebbe stato facile per il lettore provare insofferenza nei suoi confronti. L’autore riesce invece a farci sviluppare empatia nei suoi confronti. È vero, Nunzio non è un personaggio particolarmente positivo, ma quelli che lo circondano sono delle merde assai peggiori; i tanti piccoli imbarazzi che Nunzio prova nel corso della sua giornata toccano delle corde dentro di noi (come il senso di vergogna di presentarsi in cassa con quantità di cibo per un esercito e dover sostenere gli sguardi del cassiere…); e la figura immaginaria di Schwarzy, coi suoi incitamenti macchiettistici a tirare fuori le palle e cambiare vita, oltre a risolvere il problema della solitudine del protagonista – senza nessuno con cui parlare e scontrarsi, le scene non lavorative potevano diventare velocemente noiose – ci fa capire che in fondo in fondo Nunzio vorrebbe realmente cambiare. È la prima scintilla che fa capire al lettore che la storia non rimarrà statica, che Nunzio avrebbe dentro di sé il coraggio per fare qualcosa e che deve solo tirarlo fuori.
Noterete che non ho ancora nominato gli alieni. Nonostante il titolo del romanzo, infatti, il plot fantascientifico appare piuttosto tardi nella storia, all’incirca nella seconda metà del libro. Benché siano un pezzo fondamentale della storia, infatti – e indizi sono disseminati fin dall’inizio – gli alieni non sono il focus tematico del romanzo, che invece è centrato sulla lotta personale di Nunzio contro la sua inerzia esistenziale e quindi contro la ciccia. Gli alieni di Crescizz sono creature macchiettistiche, tra il cartone animato e l’omaggio alla fantascienza di serie b degli anni ’50; svolgono bene il loro doppio ruolo – come fonte di gag, e come antagonisti fisici del protagonista – ma rimangono caratterizzati in modo abbastanza superficiale. Non essendo il centro della storia, questo va bene; ma è un peccato che Crescizz non abbia speso qualche energia in più per creare un po’ di sense of wonder. La fisionomia degli alieni, l’astronave, la tecnologia aliena – è tutto molto citazionistico e a tratti divertente, ma anche abbastanza piatto e privo di reali sorprese.

Schwarznegger Personal Trainer

In generale, ho avvertito una certa scollatura tra la prima parte del romanzo, di vita quotidiana, e la seconda più improntata all’azione. La prima è assolutamente brillante, nel suo rendere i rapporti interpersonali, le piccole meschinità dell’ufficio (la collega opportunista, il capo a cui importa solo di pararsi il culo, la generale mediocrità intellettuale); la seconda è un po’ più convenzionale, benché il ritmo rimanga rapido. In questa seconda parte, soprattutto, si gioca la vera trasformazione del protagonista da perdente in vincente – per sfuggire alla prigionia Nunzio dovrà cambiare atteggiamento e superare i propri limiti – ma il cambiamento è troppo rapido. Da pavido cicciomerda che ha paura persino della propria collega a leader carismatico, capace di infondere coraggio nei compagni di sventura e di affrontare a muso duro gli alieni, il passo è molto lungo e andava a mio avviso scandito meglio. Complice anche il fatto che trascorre un lungo lasso di tempo nel corso della prigionia (lasso di tempo che non viviamo), la transizione dal vecchio Nunzio al nuovo Nunzio è troppo repentina per essere del tutto credibile.
Qua e là c’è qualche altra scelta poco felice. Ancora all’inizio del romanzo, Nunzio viene punito a lavorare due settimane al turno di notte: mi sarei aspettato che questo nuovo setting, con in più l’introduzione di un nuovo personaggio che per la prima volta menziona gli alieni, avesse un ruolo importante nel portare avanti la trama. Invece l’episodio rimane inconsequenziale sullo sviluppo della trama, e il personaggio di Tazzi riappare solamente alla fine del romanzo. Ancora: poco dopo aver introdotto gli alieni, Crescizz si affretta a spiegarci perché si esprimono in italiano anziché nella loro lingua – il che è apprezzabile. Ma lo fa in un As you know, Bob? terribilmente artificioso. Forse sarebbe stato più elegante posticipare la spiegazione di qualche capitolo ma farla emergere in modo più naturale, per esempio in un dialogo tra Nunzio e i suoi compagni di prigionia.

Ma si tratta di problemi tutto sommato marginali. Nel complesso la storia scorre bene: sia nella prima che nella seconda parte accadono continuamente cose, e quindi non si vivono mai momenti di stanca. Soprattutto, la lettura è resa piacevole dall’umorismo che pervade tutta la narrazione – un umorismo ora più drammatico (Nunzio che non passa dalle porte), ora più buffonesco (gli alieni che si sballano con la merda), senza il quale la quest del protagonista di ritrovare la propria dignità sarebbe risultata decisamente depressiva. La figura di Schwarzy, che volta a volta assume le sembianze di uno dei personaggi dei suoi film, è carinissima; Chen, il cinese, è un personaggio assolutamente esilarante.
Certo, è un umorismo nero e spesso scurrile, che deve piacere. Come questa battuta che introduce il personaggio di Chen: “«Tu sta celcando belo uomo, eh?» Le labbra si allargarono in un sorriso: un incisivo d’oro spiccò in mezzo ai denti bianchi. «Tu volele vedele mio piseeeelo, eh?» Si sventolò l’orecchio.” O la viscida parlantina di Talenti, il capo di Nunzio: “Talenti si risedette alla scrivania e accarezzò le biglie di ferro con la delicatezza che si usa per i testicoli. «Esistono dei posti, Becchi, dove è possibile andare a sfogare quello che un mio caro amico di Roma chiama Er Pacciani. È dentro ogni uomo e noi dobbiamo tenerlo sotto controllo…“. Squisito. Ma soprattutto, prima di approcciarsi alla lettura bisogna essere preparati a essere letteralmente sommersi da un mare di merda. Leggete questo breve brano per palati raffinati e valutate da voi se manda in tilt il vostro personale disgustometro:

Il contenitore di plastica attendeva tra le sue gambe. Lo stomacò brontolò.
Dio, che situazione. Devo solo superare il provino e tutto sarà finito…
Nunzio si abbassò le mutande e si sollevò sui talloni. Allargò i piedi per trovare equilibrio e la stoffa si tese tra le caviglie. Lo scoppio di una scoreggia rimbombò nella cantina. Fece strisciare il contenitore sotto di sé e ci poggiò il sedere scoperto. Spinse e tirò su col naso del moccio freddo. Spinse ancora.
Alla puzza del primo peto seguì un concerto di flaccidi stronzi e virtuose pernacchie. L’orchestra si fermò. Nunzio strizzò gli occhi e contorse il viso in una smorfia.
Arriva il caricoooooo! Oddio mi scoppia il cuore!
Nunzio sentì come se un melone avesse abbandonato il suo stomaco.
Tre flatulenze secche e concise sancirono la fine dell’evento, come un arbitro che fischi la fine di un incontro di calcio.
Non ho nulla per pulirmi.
Fece spallucce e si tirò su i mutandoni.

Cacca di Arale

La cacca: la grande discriminata della letteratura mondiale. Sogno una società più consapevole e libertaria, che abbandoni i bigottismi del presente, dove la cacca sia ovunque. Viva la cacca.

Alieni coprofagi dallo spazio profondo è una delle storie più originali mai pubblicate da Vaporteppa, e in generale è una delle cose più divertenti che abbia letto nell’anno appena trascorso. Aldilà del titolo – che comunque è delizioso – il romanzo breve di Crescizz racconta, con tono scanzonato, una storia seria capace di commuovere. Grazie al suo ritmo e alla brevità, si può leggere in una serata o due. E il finale è assolutamente geniale. Solo, non aspettatevi una storia improntata sul sense of wonder o sulle idee – restereste delusi – ma piuttosto una storia di crescita personale.

Bizarro sì o no?
Resta da capire se Alieni coprofagi sia classificabile come Bizarro Fiction. Il Duca stesso, nell’articolo di Baionette Librarie dedicato al romanzo, si mostra scettico: “Qui potrei sbagliami, ma non credo che Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo sia Bizarro Fiction: conteggiando gli elementi direi che è Fantascienza umoristica classica. L’autore è concorde con me che non sia Bizarro.” A voler essere rigorosi, in base alla definizione del genere di Rose O’Keefe dovremmo poter individuare almeno tre elementi ‘weird’ indipendenti a formare il telaio della storia. Se uno è sicuramente l’idea che esista un traffico intergalattico di stronzi umani col potere di sballare gli alieni, un altro potrebbe essere il fatto che il protagonista ha un amico immaginario con le sembianze di Schwarznegger; ma dovremmo metterci di buzzo buono per trovare un terzo elemento. Inoltre, come ho già sottolineato, gli elementi bizzarri non sono il centro tematico della storia.
Al contempo, però, se andiamo a sfogliare il catalogo di Bizarro Central troveremo diversi romanzi catalogati come ‘Bizarro’ con altrettanta, o anche minore enfasi sul fantastico e l’assurdo. E se è vero che Alieni coprofagi non è così bizzarro, sicuramente tocca una serie di corde che tutte insieme in genere piacciono ai consumatori di Bizarro mentre rivoltano altri: la volgarità, l’amore per i liquidi corporei e le cose schifose, un approccio low-brow alla commedia nera, il citazionismo pop. Può quindi essere utile classificare il romanzo come tale, pur con tutti i caveat del caso.

Rose O'Keefe

Rose O’Keefe. Una tipa di cui ci si può fidare.

Meanwhile, on Vaporteppa…
L’ultima volta che abbiamo parlato di Vaporteppa era stato un annetto fa, quando ho raccolto una sintesi dei tre racconti italiani a tema Steampunk in occasione del mio Consiglio su Infernal Devices. Nel frattempo, nel corso del 2015 la collana del Duca ha pubblicato un po’ di roba interessante. Non ci dedicherò degli articoli appositi, ma vediamo molto brevemente di che si tratta:
BlestematBlestemat, inedito italiano di 120 pagine circa di Federico Russo (anche noto sul web come Taotor). È una storia semiseria e rocambolesca, che si svolge quasi tutta nel corso di un’unica, sventurata notte, e vuole rispondere alla domanda: cosa saresti disposto a fare per un po’ di figa? Uno studente fuoricorso, senza prospettive e cornificato dalla tipa, per tirarsi su di morale partecipa a un appuntamento al buio con due sexy slave; ovviamente, si ritroverà invischiato in una faida tra clan rumeni, tra magia nera, inseguimenti e demenza assortita. Divertente e ben scritto (anche se pure qui di sense of wonder ce n’è poco), sono contento che Taotor sia riuscito a pubblicare una sua storia!
Il Grande StrappoIl Grande Strappo, altro inedito italiano di poco meno di 300 pagine, dello stesso autore che a fine 2014 aveva pubblicato il romanzo d’esordio Abaddon, Giuseppe Menconi. Devo ancora leggerlo, ma avendo a suo tempo apprezzato il primo libro di Menconi, ho buone aspettative anche per questo. E poi sembra space opera militare, e di space opera militare non ne abbiamo mai abbastanza.

La Marcia CarnaleTre novelle e un romanzo di Mellick. Le novelle Marcia Carnale (The Handsome Squirm) e Pugni di Armadillo (Armadillo Fists) sono entrambe ottime; le ho lette in lingua originale e ne ho già parlato nella mia guida Mellick for Dummies. Non ho invece mai letto l’altra novella, I cannibali di Candyland (The Cannibals of Candyland… duh), né il romanzo breve Apocalisse Peluche (Cuddly Holocaust); non escluderei, a questo punto, di leggerli direttamente in traduzione.

Qualche estratto
Per i due brani in anteprima, ne ho scelto uno deprimente e uno divertente. Il primo ci mostra un episodio di vita quotidiana – e quotidiana umiliazione – di Nunzio; il secondo introduce lo splendido personaggio del cinese Chen mentre intavola una tirata da venditore degna di Mastrota.

1.
Cassa 5… donna… 6, donna… 7, un uomo!
Nunzio spinse il carrello vicino alla cassa sette. Calò le braccia nelle buste della spesa e poggiò cinque sacchetti di patatine al bacon, cinque pacchi di pop-corn per microonde, bastoncini di pesce, patatine fritte surgelate, cordon bleu, due secchielli di gelato gusto mou, bruschette surgelate, tre pacchi di biscotti al cacao, quattro bottiglie di succo di mela, ketchup piccante, maionese, salsa barbecue, salsa worcester, salsa rosa, tre pacchi di costine, due di hamburger, un merlot e un cabernet, tre salami, un pezzo di gorgonzola, un triangolo di grana padano, una boccetta di aglio in polvere, tre pesti e cinque sughi pronti, due burrate, tre pacchi di caramelle acide, sei spiedini, del succo di limone, un vaso di Nutella da 825 grammi, sette buste di risotti pronti, olio aromatizzato al rosmarino, quattro scatole di cereali al cioccolato, arachidi, burro di arachidi, cinque pacchi di caffè, quattro confezioni di budino alla vaniglia, tre pacchi di spaghetti, due di rigatoni, tre di pennette rigate, uno di fusilli, un kit per la preparazione dei burrito, due chili di burro, sciroppo d’acero, tre scatole di sofficini, olio per friggere, dentifricio e spazzolino, schiuma da barba e lamette, due pacchi maxi di carta igienica.
«Qu-qui ci sono due casse di birra.» Nunzio indicò nel carrello.
«Basta che mi passi una bottiglia. Amico, devi dare proprio una gran festa.» Il cassiere prese la birra e il blip! confermò la lettura.
«Già… una festa…»
Invece le tue colleghe lo sanno che sono uno sfigato e che mangerò tutto questo schifo solo come un cane!

2.
«Io no vedele te qui mai.» Chen incrociò le braccia, sembrava ancora più grosso così.
«È la prima v-volta e sarà l’ultima.» Sospirò.
«Tu volele peldele peso, volele questo.» Sfilò la canotta da dentro i jeans e mise in mostra addominali scolpiti sopra i quali Nunzio avrebbe potuto grattugiarci del grana padano.
«No-non potrò mai essere così.» Nunzio si risedette.
«Lamentale no selve, belo ciccione, io era come te…» Chen gli mise una mano sulla spalla e si sedette accanto a lui.
«I-impossibile.»
Chen infilò una mano nella tasca dei jeans e tolse il portafogli, lo aprì a metà, con un due dita a pinza sollevò una foto ingiallita di un bambino cinese obeso seduto in un prato.
«Io avele otto ani e ola gualda me.» Gonfiò un bicipite, le vene grosse come lombrichi. Lo baciò.
«Tu, davvero, pu-puoi aiutarmi? Mi a-allenerò ogni giorno.»
Chen si alzò e gli si piazzò davanti alla faccia. «Ehi, belo ciccione, io non vuole dile bugia, ma tu può fale tuto attlezzo di palestla che vuole, ma non potele mai avele questo.» Sollevò ancora la canotta e col pugno picchiò sui cubetti degli addominali. «Pel diventale come loccia dula te deve plendele medicina di Chen. Io ha in macchina se vuole vedele.»
«È doping?»
Chen scoppiò a ridere. «No dloga. Essele medicina olientale natulale, licetta segleta di Chen. Segui me.»
Nunzio si alzò e seguì le spalle larghe del cinese fino a una macchina sportiva gialla.
«Una Porsche Cayman che io avele pelchè tlasfolmo bei ciccioni come te in muscolosi come me.» Aggirò la vettura e aprì il bagagliaio.
[…] Chen rimise a posto la borraccia e sollevò la tuta di Nunzio scoprendo l’ombelico. Si aggrappò a un rotolo di ciccia e lo tirò. «Più massa tu avele e più muscolo glosso avele dopo. E quando tu avele muscolo glosso, può entlale in palestla Wolkout e fottele Gianna in culo.» Scoppiò a ridere e il dente d’oro mandò un bagliore. «Io scopale tanto-tanto con Gianna nelo spogliatoio e nela macchina.» Strizzò l’occhio a mandorla. «Plima venile muscoli glossi, poi belle donne e alla fine lispetto di tutti uomini.»

Tabella riassuntiva

Si prova sulla propria pelle cosa significa essere obesi. Evoluzione del protagonista troppo brusca.
Ottima resa del conflitto interiore del protagonista.  Gli alieni e tutto ciò che li riguarda rimane un po’ superficiale.
 Personaggi esilaranti e setting demente al punto giusto.
La cacca è bella. Vogliamo più storie sulla cacca.

Le fatine di Luca Tarenzi

Absinthe FairyA differenza di molti di coloro che si avvicinano al fantasy, non sono mai stato un grande appassionato di mitologia e folklore – le antiche credenze dei popoli mi sono sempre parsi poca cosa rispetto ai fatti della Storia e alle meraviglie della tecnica moderna, e i mondi alla Tolkien mi hanno sempre annoiato. Di conseguenza, tra le altre cose me ne ero sempre sbattuto delle fatine.
Finché nell’estate 2011 non è uscito Assault Fairies, il romanzo steam-fantasy di Gamberetta che immaginava un’Inghilterra vittoriana alternativa in cui il mondo degli uomini e quello delle fatine erano in comunicazione, e queste ultime svolgevano tutta una serie di incarichi particolarissimi per il governo britannico. Aldilà di tutti i suoi problemi, Assault Fairies aveva un worldbuilding veramente figo, ed era interessante vedere il modo in cui questi piccoli esserini petulanti interagivano con le cose del nostro mondo. Concettualmente, la fatina – oltre a essere indiscutibilmente sexy – pone al lettore un cambio di prospettiva che la maggior parte delle razze magiche della tradizione non vantano.
Purtroppo il romanzo è incompiuto. Con la promessa di poter leggere presto il seguito, abbiamo aspettato e aspettato, ma in quattro anni non è mai arrivato. Sicché – non so voi – ma a me un certo languore di fatine è rimasto. Peccato che sul mercato, nonostante abbiamo avuto vampiri, licantropi, angeli, zombie e tra un po’ pure ghoul innamorati, le fatine non siano mai diventate la next big thing. In assenza di Gamberetta, insomma, sono rimasto a bocca asciutta.

Finché, a fine 2014, un altro scrittore italiano ha deciso di cimentarsi nell’impresa: Luca Tarenzi con la serie di Poison Fairies. Tarenzi rimane fedele alla sua passione per l’urban fantasy, e a questo giro ci mostra la sorte delle fatine del folklore nel mondo moderno. La piccola Cruna, sorella del re, vive con tutta la sua tribù sulla collinetta di una discarica, dove i rifiuti degli uomini vengono riciclati per farne utensili per tutti i giorni. Ma la sopravvivenza della tribù è minacciata dalla vicinanza dei Boggart, fatine più grosse e meglio organizzate, e solo una tregua faticosamente negoziata da re Albedo li tiene al sicuro.
Un nuovo evento rischia però di rompere l’armistizio e trascinare le due tribù in una nuova guerra. La batteria di un auto è stata appena abbandonata sul fianco della collina controllata dai Boggart, vicino al confine tra i due territori – un’arma che potrebbe assicurare un netto vantaggio strategico a una delle due parti. Cruna è stata la prima ad accorgersene, e ora con i suoi compagni Verderame e Disgelo vuole appropriarsene. Ma per farlo dovrebbe invadere i territori nemici, rompendo i termini della tregua e rischiando di venire avvistata dai famelici gabbiani che pattugliano senza sosta la discarica… Le sue azioni impulsive cambieranno le sorti del suo popolo.

Poison Fairies

La copertina dell’edizione italiana di Poison Fairies – La guerra della discarica.

Aldilà della mia recente passione per le fatine, leggere Poison Fairies per me è come prendere due piccioni con una fava. Il primo motivo è l’autore: pur conoscendo il suo nome da anni, non ho mai letto nulla di Luca Tarenzi. I suoi urban fantasy alla American Gods, con angeli, demoni, spiriti e dèi che camminano tra di noi (Quando il diavolo ti accarezza, Godbreaker), mi sono sempre parsi roba vista e rivista e non ho mai avuto voglia di verificare. Al contrario, la discarica umana dove tribù di piccole fatine incattivite si sono accampate e si fanno la guerra sembra un setting dal sapore “fresco”.
Il secondo motivo è la casa editrice: Tarenzi ha infatti pubblicato con Acheron Books, un nuovo progetto editoriale molto insolito. Acheron pubblica esclusivamente in digitale, lo fa a dei prezzi onesti (il libro più costoso viene a 4,25 Euro, la media è tra i 3 e i 4 Euro), e – che io sappia – senza uso di DRM. Fin qui tutto bene. La cosa strana è che, pur essendo un progetto interamente italiano, Acheron pubblica tutti suoi i titoli simultaneamente in italiano e in inglese, e pare orientato principalmente al mercato internazionale: il sito è scritto in inglese, la currency impostata di default è il dollaro, e così via. La ragion d’essere di Acheron Books, infatti, pare proprio quella di esportare inediti italiani per far conoscere la nostra narrativa fantastica all’estero. Come riportato sul sito:

Acheron’s distinctive quality is that it selects the best speculative fiction written by Italian authors who take inspiration from the rich Italian historical and folkloristic tradition.

Sul piano teorico l’iniziativa è più che lodevole; resta da capire come potrà essere sostenuta economicamente. Far tradurre in inglese ogni opera del proprio catalogo costa, e al tempo stesso, il mercato anglosassone è un oceano gigantesco in cui farsi notare è molto difficile. Ci lamentiamo sempre che l’Italia è uno stagno e che gli italiani leggono poco, il che è vero – ma l’altra faccia della medaglia è che, poiché il bacino di narrativa fantastica in lingua italiana è più piccolo, risaltare in mezzo alla concorrenza diventa molto più facile. In un’intervista, il direttore editoriale di Acheron Books ha precisato di puntare a una nicchia specifica, ossia lettori non italiani alla ricerca di narrativa fantastica di sapore italiano: “Il presupposto di partenza è che se il meglio di questa produzione viene tradotta in inglese, può raggiungere una readership decisamente più ampia e con numeri che abbiano un senso economico. […] Contiamo anche sul fatto che la specificità dell’ambientazione e della storia italiane si rivelerà interessante, dato che l’Italia rimane un luogo ancora considerato affascinante per storia culturale e artistica a livello internazionale”.
Rimane da capire se questa nicchia di anglofoni appassionati di fantastico italiano non sia ancora più piccola e difficile da raggiungere di, poniamo, i malati di Bizarro Fiction (tipo me). Il fatto che il direttore in questione sia Adriano Barone – un uomo che ha all’attivo una brutta raccolta di racconti, Carni (e)strane(e), e un brutto romanzo, Il ghigno di Arlecchino – non mi fa esattamente ben sperare sui criteri di selezione e di editing. Il fatto che tra i primi autori pubblicati ci sia Davide Mana, persona che – esattamente come Girola – ha più e più volte sostenuto che le regole in narrativa sono un ostacolo e una ‘vivisezione’ delle opere letterarie, rinforza questa sensazione.

Acheron Books

Il banner della pagina FB di Acheron Books.

Ma cerchiamo di essere liberi dai pregiudizi.
Di tutto il catalogo di Acheron Books – che al momento in cui scrivo conta sei titoli – Luca Tarenzi è sicuramente il nome più conosciuto, e l’unico ad aver pubblicato con case editrici di medio-grandi dimensioni. Due sono i libri che ha pubblicato con Acheron: Poison Fairies, per l’appunto, e il thriller fanta-storico in odore di serialità Demon Hunter Severian (sotto lo pseudonimo di Giovanni Anastasi). La lettura di Poison Fairies può essere quindi il banco di prova per capire, se non altro, la qualità dell’offerta di Acheron Books e la serietà del progetto editoriale.

Prime impressioni
Nei giorni scorsi mi sono scaricato da Amazon l’anteprima del libro – tutto il primo capitolo e una parte del secondo, per un totale di 20 pagine circa – e me la sono letta. E devo dire che le mie speranze sono state realizzate: Tarenzi scrive bene. Il libro comincia in medias res, con le fatine protagoniste che pattugliano il confine tra le due tribù rivali e meditano il furto della batteria, il McGuffin che metterà in moto la vicenda. Il mondo della discarica, il rapporto che le fatine hanno con i rifiuti degli esseri umani non è infodumpato al lettore ma emerge a poco dalle osservazioni, dai dialoghi, dai gesti dei personaggi. Le stesse dimensioni del piccolo popolo sono mostrate al lettore in modo naturale da uno scambio di due personaggi, a poche righe dall’inizio del capitolo:

“Sono sceso fino al torrente. Non è profondo: cinque o sei centimetri al massimo”.
Verderame mandò un sibilo. “Basta anche meno per annegarci”.

Certo, ogni tanto un accesso di pigrizia si fa largo nel mostrato di Tarenzi e qualche infodump poco elegante ce lo becchiamo: “Cruna fissò di nuovo la montagna e poi i gabbiani. Tecnicamente quello era territorio dei Boggart, la tribù rivale. Il confine passava proprio nella valle tra le due pareti di spazzatura, due metri e mezzo sotto di lei […]. E questo piazzava in territorio nemico la ragione per cui lei e i suoi compagni erano venuti di nascosto fin lì: la batteria.”
Altre volte la pigrizia danneggia anche le scene d’azione (grassetto mio): “Con un grugnito il Boggart si voltò e le scaricò addosso una tempesta di colpi che Cruna parò con la velocità della disperazione, finché un fendente centrò di taglio la spada e la spezzò in due.” Ma questi passaggi non sono la norma, e il grosso della narrazione procede con un solido mostrato. Lo stesso combattimento che conclude il primo capitolo è dinamico, non è cliché e si conclude in modo interessante.

Fatina anime

Le fatine non sono tutte delle creaturine pucciose (o delle allusioni sessuali semoventi) come vogliono farci credere i giappi…

Il problema principale del libro è forse la gestione del pov. La storia è raccontata in terza persona dal punto di vista di Cruna, la sorella del re della tribù di fatine; è lei la vera protagonista di Poison Fairies. Tuttavia, il tono neutro della voce narrante e una telecamera un po’ vacillante fanno sì che all’inizio, quando le fatine sono tutte insieme, non si capisca bene dal punto di vista di chi si stia guardando la vicenda. Il problema si risolve in fretta dopo le prime pagine, quando le protagoniste si dividono e continuiamo a seguire solo Cruna; ma all’inizio, quando non si conoscono ancora bene i personaggi e non si sa bene chi faccia cosa o chi sia il protagonista, questo approccio può essere un problema per l’immersione. Io stesso ci ho messo un po’ prima di imparare a distinguere Cruna, Verderame e Disgelo – nomi e azioni dei personaggi mi si mischiavano insieme.
Prese come razza, le fatine di Tarenzi sono molto interessanti. Come le fatine di Gamberetta sono brutali e short-tempered, ma a differenza di quelle di Assault Fairies appaiono meno civilizzate, più animalesche – più vicine in questo alla tradizione. Il glamour è un alone magico che le circonda e che possono concentrare attorno a sé per celarsi alle creature non fatate – come i terribili gabbiani che volteggiano sopra la discarica – oppure concentrare in parti specifiche del proprio corpo per potenziarne le prestazioni o per attutire i colpi. Ma la cosa che più ho gradito di queste fatine, è il modo in cui – vivendo nella discarica – si sono appropriati dei rifiuti del nostro mondo per farne gli strumenti della loro vita, dai pezzi di lamiera che diventano spade, ai cassetti che diventano slitte, alle scarpe da bimbo che diventano divani.

Il pretesto che mette in moto la vicenda, per contro, mi sembra un po’ debole. Cruna e le sue compagne violano espressamente l’ordine di re Albedo, violando la tregua e mettendo a repentaglio il destino della loro gente, per rubare una batteria e l’acido solforico al suo interno. Pare insomma un oggetto di importanza inestimabile. E per farne che? Veleno con cui intingere le proprie armi bianche: “Quanto veleno si poteva distillare da lì? Cruna strinse le labbra. Tanto da avvelenare almeno cento armi Goblin. Tanto da vincere solo con quello una battaglia. E non una piccola.” Tutto qui? Un po’ debole come ragione per mettere in moto una guerra, soprattutto considerando – come spiega Cruna nel capitolo successivo – che il vantaggio strategico che la tribù nemica sta guadagnando su di loro (più territorio, più uomini, più risorse) difficilmente potrà essere controbilanciata dall’avere armi avvelenate.1
Ora, a questo punto della storia non possiamo sapere che ruolo rivestirà l’acido della batteria per le sorti del conflitto – e certo io, avendo letto solo l’estratto, non posso sbilanciarmi in quel senso. Qui però il punto è un altro, ossia la capacità dell’autore di persuadere il lettore dell’importanza cruciale dell’evento. Tarenzi mi deve convincere che questa batteria, se davvero è ciò che mette in moto le azioni del protagonista, sia la cosa più importante mai accaduta dalla crocifissione di Gesù. Non è lo strumento che aiuterà a vincere una battaglia ‘non piccola’; dev’essere la chiave per vincere la guerra, per ribaltare le sorti tra fatine e Boggart. Tarenzi stesso, a giudicare dalla costruzione della frase, non sembra del tutto convinto dell’escamotage che ha orchestrato per iniziare il romanzo. Ma se l’autore non è convinto, allora trovare una situazione iniziale alternativa che gli funzioni meglio e che sia poi in grado di venderci.

Car Battery

Può cambiare le sorti di una guerra. O quantomeno di una battaglia non piccola.

Al netto di tutte queste considerazioni, comunque, l’inizio di Poison Fairies sembra promettere un bel romanzo. E lo stile di Tarenzi è decisamente sopra la media degli scrittori italiani di fantastico. Come mai allora non mi sono fiondato a leggere il resto del romanzo? Perché come per Assault Fairies, anche Poison Fairies – La guerra della discarica è solo la prima parte di una storia più ampia; il progetto completo sarà una trilogia di cui il secondo e il terzo libro devono ancora uscire. Insomma – per il momento mi dovrei accontentare anche questa volta di una storia incompiuta; come infatti sembrano precisare le recensioni su Amazon, è che La guerra della discarica sembrerebbe terminare con un cliffhanger, lasciando la storia tronca.2 E i miei dubbi sulla solvibilità futura di Acheron Books non mi tranquillizzano di certo.
Rimango fedele alla mia politica di non iniziare una saga fino a che non sia compiuta (saggia idea che mi ha tenuto alla larga dalla Ruota di Jordan e dalla Song di Martin, che probabilmente rimarrà incompiuta, almeno nella versione cartacea). Leggerò Poison Fairies solo quando e se uscirà l’ultimo capitolo della trilogia.

Quel che è certo, è che ho voglia di leggere Poison Fairies. Tarenzi è bravo, e con questo ciclo sembra aver trovato un’ambientazione originale e ricca di possibilità. Incrociamo le dita.3

Luca Tarenzi

Luca Tarenzi: una piacevole sorpresa.


(1) Tra l’altro, la sinossi su Amazon dice qualcos’altro: “…Ma Cruna ha deciso che le cose devono cambiare: convince i suoi amici Verderame e Disgelo a rubare la batteria di una macchina, in modo che il suo acido possa fornire energia alla sua gente, visto che l’inverno è alle porte.”
Mettetevi d’accordo.Torna su


(2) “La trama, invece, mi ha colpito meno del resto non perché non sia buona, anzi, ma perché è tronca. Pur sviluppandosi attorno a una vicenda che vede un inizio e una fine la maggior parte delle premesse e il grosso degli eventi, appassionanti, che vengono messi in moto troveranno continuazione solo nel libro successivo lasciando il lettore con quel misto di attesa e delusione a fine lettura da “E adesso?”
(dalla recensione di Marco Parini)

“Se proprio devo trovare un difetto a questo romanzo è la sua brevità (I want more pages! Give me more!) e il fatto che non si concluda. Si chiude con un bel cliffhanger che mi ha fatta indispettire, lo ammetto, ma mi è piaciuto talmente tanto il romanzo che glielo perdono.”
(dalla recensione di Angharad)

Il concetto è ribadito anche da altre recensioni, questi sono solo due esempi.Torna su


(3) EDIT: Segnalo un errata corrige. Nei commenti all’articolo ho scritto che tutti i libri presenti nel catalogo di Acheron Books sono unicamente i sei pubblicati al momento del lancio. Sono però stato informato da Acheron Books dell’esistenza di un settimo libro, Eternal War – La guerra dei santi di Livio Gambarini, pubblicato il 2 Giugno. Potete vedere la pagina del libro qui su Amazon.
Il mio è stato comunque un errore in buona fede, dato che, “per precisa strategia editoriale”, il romanzo di Gambarini non è presente sul sito di Acheron Books (è invece presente un box dedicato a Gambarini nella sezione Authors, ma sotto la sua bio sono segnalati “0 ebooks“). Riporto a proposito uno stralcio del commento di Lorenzo dello staff di Acheron:

Eternal War, per precisa strategia editoriale, per ora è pubblicata solo su Amazon Italia. Seguirà a breve pubblicazione sul sito, sugli altri stores, e in pod. E’ per questo che non la si vede ancora sul sito di Acheron.

Eternal War - Livio Gambarini

La copertina di Eternal War – Gli eserciti dei santi

Ringrazio Lorenzo per l’informazione e la correttezza.
Non posso purtroppo dire lo stesso delle conversazioni apparse sulla pagina FB di Tarenzi,  ma uno giustamente sulla propria pagina può fare quello che vuole. Spero solo che Tarenzi si renda prima o poi conto che quanto ho scritto era privo di cattiveria (per cosa poi?) e riportava semplicemente le mie reazioni di lettore; se i miei post gli facciano vendere più o meno copie non mi riguarda, è la qualità del suo lavoro che deve fargli vendere copie.Torna su

Gli Italiani #10: Tripletta di racconti steampunk

Steampunk BatmanNon ho mai avuto un amore particolare per lo steampunk; era solo un’ambientazione tra le tante. E’ quindi merito del Duca se negli ultimi anni è riuscito a farmi appassionare a tante opere di questo genere. Ho conosciuto grazie a lui l’opera di K.W. Jeter e il suo classico Infernal Devices, di cui vi ho parlato lunedì scorso; così come è grazie a lui se esistono sul mercato i tre racconti di cui vi parlerò oggi.
Tra Maggio e Settembre 2014, su Vaporteppa sono stati pubblicati tre inediti italiani. Altro non sono che le versioni riviste e corrette di tre dei quattro racconti finalisti del famoso concorso steampunk indetto dal Duca nel lontano 2010: L1L0, La maschera di Bali e Piloti e nobiltà. Ho monitorato per anni il destino di quei racconti – che nelle intenzioni originali del Duca, prima della nascita di Vaporteppa, avrebbero dovuti essere editati e raccolti in un’antologia autopubblicata – e mi ero ripromesso di parlarne una volta usciti. Ammetto di essere arrivato in ritardo: dall’uscita dell’ultimo dei tre sono passati alcuni mesi, e altri – come Taotor e Tenger – ci hanno già speso sopra degli articoli.

Ma una promessa è una promessa, e se posso aggiungere un minimo di pubblicità a qualcosa di bello sono più che contento. I tre racconti che seguono sono acquistabili gratuitamente su Amazon o Ultima Books.

L1L0
L1L0Autore: Pippo Abrami
Genere: Science-Fantasy / Steampunk
Tipo: Racconto

Anno: 2014
Pagine: 34 pg.
Editore: Antonio Tombolini Editore
Collana: Vaporteppa

L1L0 è un automa senziente, e ha una missione: irrompere in una caserma tedesca e salvare la figlia del suo geniale creatore, il dottor Loew, dalle grinfie dei soldati. Fin qui niente di nuovo, giusto? Se non fosse che L1L0 è l’automa più retard che si sia mai visto – composto da un bollitore e tre cervelli di scimmia, due tubi montati sulla testa che lo fanno sembrare un coniglio, l’unico motivo per cui non si è ancora suicidato dalla tristezza è che il dottore l’ha dotato del witz, l’umorismo fatalista ebraico. Riuscirà a mettersi in pace con sé stesso e completare la missione?
L1L0 è il racconto vincitore del concorso steampunk del Duca, e il primo dei tre finalisti ad essere pubblicato su Vaporteppa. Ridotto all’osso, il racconto di Abrami è una storia d’azione lineare, dal canovaccio visto mille volte: il protagonista deve irrompere in una base nemica, menare gli automi di guardia, portare in salvo la bambina e tornare indietro tutto intero. L’unica cosa che distingue L1L0 da altri cento racconti, è il protagonista, nonché voce narrante in prima persona. Ed è qui che Abrami ha fatto centro.

L’idea dietro il personaggio di L1L0, infatti, è talmente retard da essere geniale: un automa così atroce che si autodistruggerebbe piuttosto che contemplare la propria bruttezza, e l’umorismo giudaico utilizzato come strumento di sopravvivenza. Hmm, makes sense. Filtrato dal suo timbro vocale sarcastico e autoironico, tutto il racconto scorre in modo divertente senza veri momenti di noia. A questa idea si aggiungono tanti altri piccoli tocchi di classe, come il sistema gerarchico che governa i tre cervelli di scimmia, o il fatto che l’automa non abbia corde vocali, ma parli sputando strisce di carta con su stampate le sue risposte in CAPS LOCK.
Le parti dialogate, e in particolare gli scambi col dottor Loew, sono i momenti migliori del racconto; le battute di L1L0 non sono al livello di un Woody Allen, ma si lasciano leggere. Per contro la seconda metà del racconto, con i suoi combattimenti, è molto meno memorabile. La narrazione si fa più seria, scompaiono perlopiù le battute sarcastiche che erano il sale di questa storia; gli automi nemici tendono a sprofondare nell’anonimato, e la storia segue talmente il canovaccio collaudato delle trame d’azione che possiamo anticipare cosa succederà.
Peccato: se la componente d’azione fosse stata altrettanto originale e sopra le righe delle premesse, questo racconto sarebbe stato un piccolo capolavoro e il migliore dei tre. Anche così, comunque, è un close second; e vale sicuramente il tempo speso per leggerlo.

La Maschera di Bali
La Maschera di BaliAutore: Francesco Durigon
Genere: Fantasy / Horror / Steampunk
Tipo: Racconto

Anno: 2014
Pagine: 41 pg.
Editore: Antonio Tombolini Editore
Collana: Vaporteppa

Siamo nella Londra vittoriana, e il Dipartimento per le Scienze Oscure svolge degli esperimenti segreti con delle maschere tribali che pare abbiano poteri magici. Tutto procedere per il meglio, finché i ricercatori costringono un prigioniero a indossare la maschera della divinità Rangda: perché la maschera prende vita, trasformando l’uomo in un orribile demone divorauomini! Nel giro di poche ore, Londra è letteralmente invasa da orde di demoni e l’apocalisse sembra imminente. Ma chi può salvare la città dal totale annientamento? La veggente Abigail Murray, a cui i tarocchi hanno parlato: dovrà trovare un soldato, un automa e un vecchio lord, e solo allora avranno una speranza…
Dei tre racconti, questo è quello con la trama meno originale. La maschera di Bali si sviluppa come un horror d’azione, con il nostro pugno di eroi che deve mettersi in salvo dai mostri e trovare il modo di fermare l’invasione. Il racconto è narrato in terza persona con due POV che si alternano, quello di Abigal e quello di John Plye, soldato d’élite; ogni cambio di punto di vista coincide con un cambio di paragrafo, quindi non c’è mai il rischio di fare confusione, benché le due voci narranti tendano a parlare nello stesso modo.

Il grosso del racconto è occupato dai combattimenti contro le creature demoniache. La forza e la ferocia dei nemici sono rese molto bene – spesso l’unica speranza di salvezza durante uno scontro è la fuga – e i protagonisti appaiono qui molto più vulnerabili rispetto alla media delle storie d’azione. Alcune scene sono particolarmente adrenaliniche, come lo scontro sul vagone ferroviario. Tuttavia, dopo un po’ la formula diventa ripetitiva: in fondo questi mostri sono tutti uguali, un oceano di anonimi expendables, e l’investimento emotivo tende a calare mano a mano che si procede nella storia. Alcune scelte infelici nella gestione dei destini “individuali” dei personaggi completano il quadro.
Il plot twist che chiude la storia è piacevole e richiede un minimo sforzo intellettivo per essere colto. Tuttavia, quando si chiude La maschera di Bali, il finale intelligente non cambia l’impressione globale: ossia che non rimane molto, di quello che si è letto. Nessuna idea forte, nessun concetto o personaggio memorabile. Solo un pezzo di bravura sul tema dell’invasione mostruosa. Il racconto di Durigon è piacevole e adrenalinico, ma certamente è il più debole dei tre finalisti.

Piloti e Nobiltà
Piloti e NobiltàAutore: Diego Ferrara
Genere: Science-Fantasy / Steampunk
Tipo: Racconto

Anno: 2014
Pagine: 35 pg.
Editore: Antonio Tombolini Editore
Collana: Vaporteppa

Elsa è una pilota donna in un mondo di uomini. E se difendere le sue capacità non fosse già abbastanza difficile tutti i giorni, oggi il cavalier Sinisa ha portato a bordo del suo eligibile un gruppetto di tronfi nobili, per mostrar loro le doti del mezzo e sperare di vendere un po’ di pezzi. Ma per costoro, rimettere la propria vita nelle mani di una donna, anche solo per un giorno, sembra un affronto intollerabile. Riuscirà Elsa a farli arrivare sani e salvi alla fine della giornata, o la faranno uscire di testa prima?
Piloti e nobiltà era a mio avviso il migliore dei racconti del concorso già prima della revisione, e lo è ancora. La storia, narrata in prima persona da Elsa, è un concentrato di humour nero, tutto giocato sul conflitto tra la protagonista e i suoi insopportabili passeggeri. Da una parte, i nobili che deve scarrozzare in giro mostrano aperto scetticismo e un certo disprezzo all’idea che sia una donna alla guida; dall’altro, lei non fa molto per rendersi simpatica. In un’escalation di richieste assurde, insulti e sabotaggi involontari, la situazione precipiterà fino alla cinica – ma spassosa – conclusione.

Il racconto di Diego Ferrara ha tutto: ritmo – succede qualcosa di nuovo ogni poche righe – personaggi divertenti – i nobili passeggeri sono tutti delle macchiette, e anche Elsa non è certo una santa – conflitto. Si legge che è un piacere, senza mai sentire il bisogno di posarlo.
Ma sono soprattutto due i motivi per cui lo amo. Primo, a differenza degli altri due racconti, non serve un canovaccio convenzionale da storia d’azione: a tutti gli effetti, non si riesce a prevedere cosa succederà dopo o come andrà a finire. Secondo: non ci sono buoni o cattivi, non c’è un antagonista se non la stupidità umana. Il crescendo di disastri che travolgerà la gita in eligibile è il risultato di una serie di persone che fanno cose idiote piuttosto che un atto di malizia deliberata, e quindi è tanto più simile alla vita reale. A questo si aggiungono poi una serie di belle idee, come il sistema di alimentazione dell’eligibile.
L’autore, Diego Ferrara, è una vecchia conoscenza per chi segue Tapirullanza: avevo già dedicato un articolo al suo Soldati a vapore, novella ucronica steampunk autopubblicata, ed edita dal Duca ai tempi in cui Vaporteppa non esisteva manco sulla carta. La novella era piacevole, ma la compattezza e il ritmo di questo racconto lo rendono il migliore dei due. Un paio di riferimenti inseriti in Piloti e nobiltà, comunque, mi fanno pensare che racconto e novella condividano la stessa ambientazione ucronica; a questo punto spero che Ferrara faccia trentuno e scriva un vero e proprio romanzo ambientato in questo universo, o magari espanda l’originale Soldati a vapore.

Donna pilota

Questa è follia!

Dei tre, Diego Ferrara è di sicuro l’autore più completo, e a mio avviso potrebbe tranquillamente buttarsi a capofitto in un romanzo, mentre Durigon è quello più acerbo; ma tutti e tre i racconti valgono la pena di essere letti. Sommati assieme fanno poco più di un centinaio di pagine (e sto contando note dell’autore e tutto il resto!): vuol dire che si possono leggere tutti e tre nell’arco di un pomeriggio.
Oppure no. Ci sono tante cose che si possono fare in un pomeriggio. Come guardarsi in loop per sei ore Serbia Strong in versione ragtime. Ora che ci penso… quali modi migliori ci sono mai al mondo per occupare un pomeriggio?

Che poi il ragtime è stato inventato alla fine dell’Ottocento, quindi con lo steampunk ci sta pure bene.

Qualche estratto
Ho selezionato un brano per ciascuno dei tre racconti; li metto tutti in fondo per evitare confusione nel corpo dell’articolo. Have fun!

L1L0
Stiamo costeggiando il fiume, anche se non possiamo vederlo: una fila interminabile di mulini generatori ne precludono la visuale. La lanterna di uno scambio si avvicina. Doc Loew diminuisce la velocità e si sporge con l’arpione da manovra. Non ho bisogno di leggere il cartello per sapere di che bivio si tratta.
Scambio N.41: direzione Lhotka, Kamyk e Libus.
Il Nucleo possiede a memoria tutta la ragnatela ferroviaria di Praga e dintorni.
“HAI RIEMPITO LE SCIMMIE DI NOTIZIE INUTILI, DOC.”
La Fornarina prende la via sulla sinistra, ci allontaniamo dal fiume.
«Prima di mesmerizzare la tua personalità e il registro tattico dovevo prendere confidenza col suggestore ipnotico: ho fatto pratica con i testi che avevo sottomano.»
“IL COMPENDIO ENCICLOPEDICO IMPERIALE?”
«Solo i volumi dal primo al nono… tranne il numero sette. Il settimo volume l’ho prestato mesi fa e non è più tornato. Però l’ho rimpiazzato col catalogo postale Trocéro-Printemps, dovevo testare la tua capacità di calcolo.»
Fantastico. Ho stipato nel Nucleo circa novantamila pagine di cultura generale con i relativi prezzi (spedizione inclusa sopra le venti corone), l’equipaggiamento indispensabile per ogni macchina assassina. Sto per assaltare un comando operativo dell’esercito prussiano armato di consigli per gli acquisti.
Strano, la cosa non mi disturba quanto dovrebbe.
“PERCHÉ TUTTO QUESTO MI SEMBRA SOLO UN PESSIMO SCHERZO?”
Doc Loew si alza in piedi, si massaggia una tempia, passeggia nella cabina della locomotrice. Impiega quasi un minuto a trovare le parole.
«È… è il Witz, l’umorismo ebraico…»
Visto le parole che trova, poteva sforzarsi un po’ di più.
«Il Witz è il fondamento della tua personalità indotta. Impregna ogni tuo processo mentale e… ogni tuo messaggio. Purtroppo.»
“MI HAI FATTO IRONICO E FATALISTA?”
Doc Loew si guarda le scarpe.
«Una definizione corretta…»
Si gratta dietro un orecchio.
«Era l’unico archetipo caratteriale che poteva accettare la tua condizione esistenziale senza… senza…»
“DAR FUORI DI MATTO?”
«Porre fine volontariamente alla propria situazione… in maniera irreversibile.»
Credo di capire: quando uno scopre di essere composto da tre cervelli di scimmia e un bollitore, deve poterla buttare sul ridere, o il primo istinto che avrà sarà quello di farsi saltare il Nucleo con un colpo di moschetto.

La maschera di Bali
Lord Fairfax […] infilò la maschera sul volto insanguinato del soggetto, calcandola per bene con il palmo della mano.
Il Soggetto 37 cadde a peso morto, sorretto dalle catene ai polsi. Il pianto cessò con un sibilo aspirato, la luce delle lampade a gas s’affievolì tremando.
Abigail trattenne il fiato.
Qualcosa è fuori posto.
Nella penombra Lord Fairfax passò con gli occhi da Abigail al soldato Parson, la fronte corrugata.
La pendola a muro scandì l’una di pomeriggio. Il suono riecheggiò sordo nella stanza, come rallentato.
La luce tornò stabile.
Lord Fairfax si lisciò i capelli all’indietro e aggiustò il panciotto tirandolo da sotto. «Bene.» Tossì imbarazzato. «Possiamo riprend—»
Il Soggetto 37 scoppiò a ridere, la risata stridula di una vecchia. Alzò la testa di scatto e il corpo si sollevò da terra, fluttuando a mezz’aria.
Abigail si portò una mano al petto. Mio Dio!
Lord Fairfax arretrò di un passo, le braccia a schermare il volto.
La pelle ai lati della maschera si sciolse come cera e colò a terra, sostituita da una rete di vene blu. Il volto di legno penetrò nella faccia col sibilo della carne che brucia. Gli occhi si spalancarono, piansero sangue. La bocca scattò in un ghigno divertito e i capelli crebbero lunghi e folti, ondeggiando assieme al corpo sospeso in aria. Tra le fauci si srotolò una lingua blu, lunga fino al petto.
Lord Fairfax si avventò sul Soggetto 37 e gli strinse le mani ai lati della maschera. Il mostro lo spinse via, mandandolo a sbattere di testa contro la gabbia.
«Milord!»
Lord Fairfax si aggrappò alle sbarre, le palpebre socchiuse percorse da un tremolio, e si accasciò sul pavimento.
Parson fece fuoco tre volte col revolver. Il mostro tornò con i piedi per terra, le ferite in pieno petto che chiazzavano a malapena la camicia a righe bianche e nere. Afferrò le catene che lo imprigionavano e le strappò dalle sbarre della gabbia. Parson tremava. Il revolver gli scivolò di mano e cadde a terra. Il mostro si strappò le catene dai piedi, raggiunse il soldato con un balzo e gli trafisse lo stomaco con una mano artigliata.
Lo fissò.
Rise.
Inclinò la testa e gli soffiò del fumo viola sul volto.
Abigail afferrò la borsa e si fiondò fuori dalla stanza.
La creatura scoppiò di nuovo a ridere, la risata di una vecchia strega. Nel corridoio Abigail premette le mani sulle orecchie e gridò a pieni polmoni.

Piloti e nobiltà
«In questa bara non c’è nemmeno un finestrino. Come diavolo facciamo a vedere qualcosa?»
La voce proveniva dall’interfono di collegamento con il vano posteriore. Elsa e Cesare si scambiarono un’occhiata.
«Signori, vi prego.» Questa era la voce di Sinisa. Attraverso la distorsione dell’interfono suonava ancora più untuosa. «Vi ricordo che questo apparecchio è solo un prototipo. Il progetto di prima generazione prevedeva un impiego militare. Voi sedete in effetti nell’alloggiamento che doveva ospitare una squadra di fanti di marina, è normale che non ci siano finestre. Ma i modelli ad uso civile sono tutti dotati di oblò panoramici.»
«Comunque a me sembra più un carro bestiame che un velivolo,» disse un’altra voce, «inoltre non pensi che mi sia scordato chi c’è di là ai comandi, Cavaliere.» Una breve pausa, come per prendere fiato. «Io ho combattuto quei dannati austriaci a Sommacampagna. Abbiamo respinto per un giorno intero quei maledetti Krebs e tutte le diavolerie che ci tiravano addosso. E non ricordo che ci fosse una sola donna nel mio reparto. Non una!»
«Ecco… tecnicamente questo non è più un velivolo militare, signor Conte. Appartiene all’aviazione civile, e—»
«Me ne frego! Nessuna donna può pilotare una macchina volante. È contro natura!»
Qualcuno pronunciò delle parole in una lingua straniera.
«Sua Eccellenza el Marqués domanda quando sarà possibile vedere qualcosa,» tradusse una voce dall’accento marcato, «o se passeremo tutto il viaggio rinchiusi aquì.»
«Ma certo che no. Dica a Sua Eccellenza che lo condurrò in cabina di pilotaggio tra un minuto, in modo che possa ammirare uno scorcio della nostra meravigliosa città.»
Elsa alzò gli occhi al soffitto.

Gli Italiani #09: Lo Specchio di Atlante

Lo Specchio di AtlanteAutore: Bernardo Cicchetti
Genere: Fantasy
Tipo: Romanzo

Anno: 2014
Pagine: 150 ca.
Editore: Vaporteppa

Atlante è malato. Questo è un bel problema, dato che Atlante, la statua colossale al centro del bosco di eucalipti, è ciò che regge il mondo e le sue leggi. Strani eventi cominciano a moltiplicarsi: bambini che nascono con un piede caprino, boschi che diventano carnivori, buchi nel cielo, ratti che creano degli eserciti. Zephiro, l’anziano Mago di Maniero, studia da settimane il problema, analizzando gli ambigui versi del Libro dei Se e chiudendosi in meditazione – e finalmente ha scoperto l’origine del problema. La ghiandola pineale del gigante di pietra è consumata dall’usura, e va sostituita al più presto.
Ma come fare, come crearne una nuova? La ghiandola pineale è fatta di drimite, rarissimo metallo, ma per costruire quella attuale è già stata impiegata tutta la drimite del mondo! Zephiro convoca all’istante i suoi due Apprendisti, Heron e Kalamon, e rivela loro il suo piano: se non c’è più drimite in questo mondo, bisognerà andare a prenderla in altri mondi. Per Heron e Kalamon è l’inizio del viaggio – nei mondi dei sogni e nei mondi dietro gli specchi, prima che sotto l’azione della malattia Atlante si sfaldi e il tessuto stesso della realtà si distrugga per sempre. Ma che succede se anche negli altri mondi c’è un Atlante malato, e un altro Zephiro, un altro Heron e un altro Kalamon alla disperata ricerca di una nuova ghiandola?

Lo Specchio di Atlante è un tipo di Fantasy come in circolazione ce ne sono molti pochi. Il setting è completamente fiabesco e lontano dalla nostra realtà; la struttura è quella del rompicapo, del gioco intellettuale. Immaginiamo un mondo ‘semplificato’, con al centro un Maniero medievaleggiante abitato da maghi che studiano la realtà e le sue leggi. Immaginiamo ora che questo mondo sia adiacente ad altri mondi – alcuni simmetrici, altri gerarchicamente superiori o inferiori in un rapporto di causa ed effetto – tutti con lo stesso Maniero (o una sottile variazione dello stesso) e gli stessi abitanti (o sottili variazioni degli stessi). Immaginiamo, infine: cosa succederebbe se questi mondi, separati ma condizionati uno dall’altro, si trovassero a interagire?
E’ questo il “gioco” che costruisce Bernardo Cicchetti, e il tema del suo romanzo è sviluppare tutte le possibili implicazioni di queste premesse di wordbuilding. Attraverso gli occhi del protagonista, l’Apprendista Heron, del suo collega e rivale Kalamon, e del loro maestro, il Mago Zephiro, viaggeremo attraverso cinque-sei mondi differenti alla scoperta della strana architettura ricorsiva di questo universo, pungolati dal lento sfaldarsi per malattia dell’intero Universo.

La soundtrack di accompagnamento a questo articolo è la bellissima “Maenam” di Jami Sieber, main theme del gioco indie Braid. Come Lo Specchio di Atlante, Braid è un rompicapo sulla simmetria, la ricorsività, il tempo, l’alchimia. Ne parlerò in futuro.

A differenza delle altre opere di Vaporteppa, la collana di narrativa del Duca, Lo Specchio di Atlante non è un’opera inedita di una giovane promessa italiana, né una traduzione di un autore americano. E’ invece il “recupero” di un romanzo italiano uscito nel lontano 1991, pubblicato da Fanucci ma passato abbastanza inosservato, e oggi fuori stampa. Io ne feci la conoscenza nel 2009, quando Gamberetta lo recensì positivamente su Gamberi Fantasy, ma all’epoca non lo lessi. Lo lesse invece il Duca, e dev’esserne rimasto abbastanza affascinato da mettersi in contatto con l’autore per riproporlo.
Lo Specchio di Atlante è uscito su Vaporteppa lunedì scorso, in una nuova edizione rivista e corretta che migliora la qualità della prosa, ma che non altera lo stile di Cicchetti né tantomeno i contenuti dell’opera. Non posso che essere contento di questo recupero, che dimostra che in Italia è esistita una narrativa fantastica al di fuori dei cloni di Tolkien, dei master D&D che si scoprono scrittori e dei soliti Nomi Ufficiali (Calvino, Buzzati…). Ma a questo punto la domanda è: Lo Specchio di Atlante sarà all’altezza dei colleghi pubblicati su Vaporteppa, o l’opera di Cicchetti sfigurerà di fronte agli standard elevati del Duca?

Uno sguardo approfondito
Uno dei principali lavori di correzione per la nuova edizione de Lo Specchio di Atlante ha probabilmente riguardato la gestione dei pov. Dopo un breve prologo di poche pagine, in cui guardiamo con pov onnisciente la statua di Atlante malato e la spirale di corruzione che da esso si allarga, e veniamo introdotti ai tre personaggi principali – il vecchio Mago e i due Apprendisti – con un breve paragrafo dedicato a ciascuno di essi, il romanzo ci pianta solidamente nel punto di vista di Heron. Nel corso del romanzo incontreremo una serie di altri pov ricorrenti – Zephiro, Kalamon, l’omuncolo di Heron – più una manciata di pov usa e getta, ma Heron rimane chiaramente il protagonista della storia.
Ogni cambio di punto di vista coincide inoltre con un cambio di paragrafo; ogni scena ha quindi un unico pov, e non si ha mai difficoltà a capire chi stia facendo cosa. Un paio di pov usa e getta si sarebbero potuti evitare senza grosse difficoltà né perdita di informazione, ma si tratta tutto sommato di dettagli trascurabili in un romanzo che scorre molto bene.

Atlante Farnese

L’Atlante Farnese. A furia di stare così te credo che ti si sputtana la ghiandola pineale.

Discorso differente per la caratterizzazione dei personaggi.
Tutti i protagonisti sono dotati di connotati di base che li rendono ben riconoscibili: Heron, ambizioso sognatore con attitudini da filosofo; il sarcastico Kalamon, mosso nei suoi rapporti sociali da un’invidia dominata a fatica e un forte senso della competizione; Zephiro, bisbetico e brontolone nella maniera innocua di un cartone animato. Alla base del protagonista Heron troviamo anche un interessante conflitto interiore che si sviluppa coerentemente nel corso del romanzo, ossia la lotta tra la sua ambizione a primeggiare e superare il suo maestro, e il bisogno di essere e restare un “bravo ragazzo” che non fa né pensa certe cose. Questo conflitto – che peraltro non si vede molto spesso nella narrativa di genere – non fa solo “colore”, ma motiva le decisioni di Heron e diventa un tassello fondamentale della trama del romanzo.
Insomma, siamo già un passo avanti rispetto ai grigi burattini di tante storie di Clarke o Poul Anderson. Al tempo stesso, però, i personaggi di Cicchetti suonano molto poco umani. I loro dialoghi sono brillanti, sagaci e a volte anche divertenti, ma suonano spesso molto artefatti 1; la loro gestualità è roboante e improbabile (guardate come agitano quei pugni); possono essere presi dalla paura o dall’emozione un momento, e dimenticarsene l’istante dopo per riprendere a parlare e comportarsi come nulla fosse. Heron gestisce il proprio conflitto tutto sommato con distacco e tranquillità, quasi come se fosse un problema accademico (“toh guarda! Sono fatto così e così…”).

Questa approssimazione nel tratteggiare la psicologia dei personaggi sfocia a volte nell’incoerenza. I personaggi si lanciano l’un l’altro frecciatine velenose o anche vere e proprie accuse, per poi tornare – in tutta sincerità, non con ipocrisia! – amici come prima nella scena dopo, quasi non fosse successo nulla.2 La stessa lotta contro il tempo della malattia di Atlante, che in teoria dovrebbe suscitare nel lettore un rush di adrenalina attraverso tutto il romanzo (la realtà potrebbe collassare da un momento all’altro!), è in realtà resa da Cicchetti con una tale tranquillità, che non avvertiamo alcuna fretta. Tutto il libro, in effetti, è dominato da un’atmosfera di generale serenità e giocosità. Guarire Atlante è semplicemente un altro rompicapo da risolvere.
Gli stessi personaggi, in fondo, non sono che altrettante pedine sulla scacchiera del romanzo, che Cicchetti muove in giro per complicare la trama prima, e risolverla poi. L’analogia narrativa più vicina che mi viene in mente, per capirci al volo, è The End of Eternity di Asimov: altro romanzo-rompicapo con un protagonista ben caratterizzato in teoria, ma scarno nella pratica. Sul piano emotivo, Lo Specchio di Atlante trasmette poco: immedesimarsi in questi personaggi è impossibile, e tutte le loro disavventure ci arrivano con un certo distacco.
Un fallimento, quindi? Niente affatto: perché, come accennavo prima, dove invece il romanzo lavora molto bene è sul piano del gioco intellettuale.

Atlas Shrugged Ayn Rand

Quando Atlante si incazza, si incazza! L’opera di Cicchetti sottile specchio deformante, abrasiva critica sociale mascherata da fantasy per ragazzi?

Nel corso del romanzo visiteremo infatti cinque mondi differenti (più uno sguardo gettato a un altro paio di mondi) 3, ciascuno dei quali è costruito con una serie di simmetrie rispetto agli altri, creando così un complicatissimo gioco di rimandi. L’intelaiatura del mondo di Cicchetti è molto complessa, ed è notevole come l’autore riesca a tenere insieme tutti i fili senza cadere in contraddizione o perdersi dei pezzi per strada. Al contrario, quando si arriva alla risoluzione dei vari enigmi (perché non c’è un solo problema né un solo antagonista, ma più casini che si intrecciano!) ci si rende conto che tutti gli elementi erano già lì, a disposizione del lettore. Cicchetti riprende anche alcuni stilemi classici del giallo a enigma, come il monologo dell’investigatore che di fronte a una platea “smaschera” il colpevole (o i colpevoli) e scioglie i nodi di trama, con grande soddisfazione del lettore. Né l’architettura del mondo è l’unico elemento di sense of wonder del romanzo: Lo Specchio di Atlante trabocca di piccole idee affascinanti, come il ciclo di vita degli omuncoli o il camaleonte che comunica cambiando colore.
Aiuta a camuffare i limiti stilistici e a mettere in luce i pregi del romanzo la prosa secca e concisa di Cicchetti. Lo Specchio di Atlante è fortemente plot-driven: le descrizioni sono ridotte all’osso – tanto che gli ambienti principali in cui si muove il romanzo sono appena abbozzati – i personaggi agiscono, agiscono e agiscono, e tutto ciò che non sviluppa la trama semplicemente non esiste. Questo trasmette al romanzo un ritmo incredibile: non ci sono punti morti, e ad avere un’intera giornata libera a disposizione lo si potrebbe leggere tutto d’un fiato. Né l’ambientazione risente delle descrizioni scarne: il worldbuilding a monte è talmente ben fatto, che il lettore non ha problemi a orientarsi e a crearsi una mappa mentale dell’universo narrativo.

Certo, nonostante la terapia d’urto ducale, diverse bizzarrie stilistiche rimangono. Cicchetti ha chiaramente un amore morboso per gli avverbi e gli epiteti, tanto che ce li ficca più o meno ovunque. Se ci aggiungiamo un gusto per i termini inconsueti e gli accostamenti bizzarri, non dovremmo stupirci di imbatterci in “rovi ostinati” o “anomalie vegetali” o “mostruose infiorescenze” o una “barba antica”. Né mancano passaggi di estrema vaghezza. Proprio nell’incipit, della manifestazione della malattia di Atlante si dice: “regrediva, poi, a mano a mano che ci si allontanava. In cerchi di sempre minore morbosità, di sempre crescente normalità. Al limite dello sguardo di Atlante, il male persisteva ancora. In modo meno acuto, ma sensibile.” Boh?
Più fastidiosa è la tendenza dell’autore di abbandonarsi a lunghi riassuntoni per raccontare le parti meno importanti della trama. Cicchetti impiega infatti questa tecnica soprattutto nei punti di raccordo del romanzo – ad esempio tra la fine della prima parte e l’inizio della seconda, o nella parte conclusiva della seconda parte. Nonostante vi si descrivano fatti di per sé interessanti e che ampliano il worldbuilding (come alcune manifestazioni della malattia di Atlante, e la lotta degli abitanti di Maniero contro di esse), sono scritte in un raccontato talmente sciatto e sbrigativo che quasi si sarebbe fatto meglio a ometterle: “L’assedio durò tre giorni. In più di un’occasione Maniero rischiò la disfatta. Poi…”. E dire che sarebbe bastato mostrare qualche episodio chiave, dedicandogli non più di un paio di pagine, per rendere quegli stessi passaggi in un modo molto più piacevole e senza perdere informatività!

Multiverse meme

Le teorie sul multiverso sono sempre un casino.

Il romanzo si richiama esplicitamente all’Alice di Carroll, ma se dovessi citare i cugini più prossimi del romanzo di Cicchetti, mi verrebbero in mente invece due correnti letterarie del primo Novecento. La prima è quella dei racconti fantasy-onirici della generazione di Weird Tales, come quelli di Clark Ashton Smith e dello stesso Lovecraft (The Dream-Quest of Unknown Kadath, The Doom that Came to Sarnath…), con i loro mondi irreali dalle regole tutte loro. La seconda è quella del racconto-rompicapo argentino stile Cortazar, Bioy Casares e soprattutto Borges; in particolare due racconti di quest’ultimo, La biblioteca di Babele e Il giardino dei sentieri che si biforcano – entrambi contenuti in Finzioni – mi sono venuti in mente più e più volte leggendo il libro di Cicchetti. Il tutto immerso in un’atmosfera da rinascimento magico crepuscolare alla Jack Vance, con tanto di maghi sornioni e scambi di battute pungenti.
Non ce ne sono molti in giro, di libri così. Lo Specchio di Atlante è un’opera veramente sui generis, che va a coprire una nicchia della narrativa fantastica abbastanza scoperta. Se vi piacciono le storie a enigma o i paradossi logici, amerete questo libro. Andando a gusto personale, posso dire che al momento Lo Specchio di Atlante è il miglior cavallo della scuderia di Vaporteppa. Alcuni preferiranno la caratterizzazione dei personaggi di Caligo (o le tettone della protagonista…), altri l’escalation di catastrofi de Gli Dei di Mosca, altri ancora la follia delle novelle di Mellick, ma in ogni caso credo che l’opera di Cicchetti non vi lascerà indifferenti. Provatela! E bravo Duca che l’ha rimessa in commercio in veste migliorata!

E a proposito di Vaporteppa…
E’ passato un po’ di tempo dall’ultima volta che abbiamo parlato di Vaporteppa; per la precisione, dall’articolo dedicato a Caligo di Alessandro Scalzo, e nel frattempo di cose ne sono successe parecchie. Ci sono un paio d’articoli che m’ero ripromesso di finire a proposito delle opere pubblicate dal Duca, e che di sicuro vedrete nelle prossime settimane, magari proprio nelle prime dell’anno nuovo:
– Un piccolo post dedicato ai tre racconti del concorso Steampunk rieditati e pubblicati gratuitamente, ossia L1L0, La maschera di Bali e Piloti e nobiltà. Sono racconti che meritano e mi dispiace di non aver ancora trovato il tempo per dire la mia.
– Un corposo post riepilogativo dell’opera di Mellick, in cui voglio ordinare i miei pensieri sulla quasi trentina di opere sue che ho letto, in vista della lodevole iniziativa del Duca di portarlo in Italia un pezzetto alla volta. Anche questo, era un articolo che avevo promesso già quest’estate – e che in effetti è per oltre metà già scritto – quindi non posso tirarmi indietro.
Infine, proprio ieri è uscito un nuovo romanzo di Vaporteppa, questa volta un inedito: Abaddon di Giuseppe Menconi. Me lo leggerò probabilmente durante le vacanze di Natale; vedrò poi di farvi sapere che ne penso!

Lo Specchio di Atlante Fanucci

La copertina dell’edizione Fanucci del 1991. La nuova copertina è molto più figa.

Qualche estratto
Dato che non voglio rovinarvi il piacere di scoprire da soli l’architettura a più mondi del romanzo, entrambi i brani sono presi dall’inizio del libro. Il primo viene dal prologo ed è la descrizione, con pov del mago Zephiro, degli effetti nefasti della malattia di Atlante; il secondo invece è il bellissimo dialogo tra Heron e il suo omuncolo nel momento di dirsi addio.

1.
Il Mago Zephiro, come ogni notte, chiuse gli occhi e abbandonò il proprio corpo.
La sua emanazione astrale veleggiò, ansiosa di valutare l’evolversi della malattia.
Un bosco di olmi diventato carnivoro.
L’ultimo figlio di un contadino nato con un piede caprino.
Il corso di un fiume deviato verso la sorgente, in un assurdo anello fluente.
Un vecchio sopravvissuto alla propria morte, che perseguitava la famiglia.
Un foro di tenebra apparso nel cielo del mattino.
Follia e assurdità, dove prima erano ordine e logica.
Scosse la testa: il male incalzava. Era necessario curare il gigante.
Atlante doveva guarire.
Zephiro levitò, affidandosi a una corrente stratosferica. Si librò oltre le montagne, sulla piana malata. Superò il bosco di eucalipti e sfiorò il cranio calvo di Dio.
Incrociò uno dei due Messaggeri, che volteggiò intorno al titano di granito. La creatura alata non poteva vederlo ma, in qualche modo, ne intuì la presenza. Stridette un messaggio ed espulse un grumo di guano sul naso poderoso di Atlante. Poi, volò via.
Il Mago virò, seguendone la scia. Rimase per un po’ dietro, quindi la superò e planò su Maniero. Scivolò attraverso la finestra della Torre Più Alta e rientrò nel proprio corpo.
E per evadere dalla follia del suo Mondo, si immerse nel mondo meno folle dei sogni.

2.
L’omuncolo era seduto sul cuscino, faceva girare i pollici e aspettava che l’ira del suo padrone sbollisse.
[…] «Dovevi proprio svegliarmi?» sbottò Heron, e si grattò la testa per scacciare la nebbia del sonno e l’orrore del sogno.
Il minuscolo, vecchio Heron sorrise con gli occhi. Il volto rugoso e la lunga barba candida erano gli stessi che sarebbero stati del padrone a novant’anni.
«Il mio tempo è finito,» disse con la voce sottile.
«È già trascorso un mese,» sussurrò Heron. Gli si strinse il cuore. Una stretta lieve e consueta, ormai.
Questo era il terzo sé stesso che lo lasciava. Sia maledetta l’insensibilità di Zephiro. Perché imporre agli Apprendisti di dare agli omuncoli il loro aspetto? Assistere al proprio decadimento fisico era una lezione di saggezza o di cinismo?
Il piccolo vecchio doveva aver seguito il corso dei suoi pensieri.
«Non rattristarti. La mia vita è stata lunga e intensa. Se ti ho servito bene, ne sono soddisfatto.»
Heron fece un sorriso un po’ storto.
«È più di quello che dirò io a novant’anni,» sospirò. «Scusa.»
«Perché?»
«Per prima. Per essermi adirato. Non potevi sapere che ero nel mio sogno.»
«Lo sapevo.»
Heron aggrottò le sopracciglia.
«Perché mi hai svegliato, allora? Tu non immagini quali possono essere le conseguenze del tuo atto.»
«Non angustiarti troppo per questo.»
«Ma Ilina—»
L’omuncolo sollevò una mano.
«Non si possono calzare due scarpe con un piede solo. E non si possono vivere due realtà. Prendi una decisione. Scegli la tua. Sia questa o il tuo sogno, non ha importanza. Ma scegli.»
Heron sbuffò.
«La cosa più irritante di voi omuncoli è che alla fine diventate tutti filosofi.»
Il volto del vecchio, che un giorno sarebbe stato il suo, era privo di espressione.
Anch’io so essere insensibile, a quanto pare. «Scusa…»
L’omuncolo scrollò le spalle.
«Zephiro vuole vederti.»
Cominciò a scendere dal letto, afferrandosi a fatica alle pieghe della coperta.
Heron fece per aiutarlo ma il piccolo scosse la testa.
«Vai via?» Gli venne un nodo alla gola, ma si sforzò di scioglierlo.
«Sì.» Il vecchio si fermò sull’uscio, più piccolo e grinzoso che mai. «Abbi cura di te.» E uscì.
Nessuno sapeva dove andassero a morire gli omuncoli.

Tabella riassuntiva

Un rompicapo affascinante su mondi paralleli che si intrecciano. Prosa discutibile tra avverbi a pioggia e riassuntoni.
Trama articolatissima e risoluzione degna del miglior giallo. Personaggi poco caratterizzati e non sempre coerenti.
Prosa concisa e ritmo serrato, non si riesce a smettere di leggerlo! Non si avverte la tensione della malattia di Atlante che avanza.
Sense of wonder a badilate.


(1) Ci sono delle importanti eccezioni.
Il dialogo tra Heron e il suo omuncolo all’inizio del primo capitolo è praticamente perfetto. Non solo ci mostra in poche righe tutto degli omuncoli e del loro rapporto coi loro creatori; è anche toccante e incredibilmente umano. L’omuncolo di Heron è tenerissimo e mette tristezza.
Un altro episodio che tocca le corde giuste è invece alla fine del romanzo: il dialogo tra Heron e l’altro Heron nella stanza degli specchi, in cui si decide il destino dei due mondi.Torna su


(2) Il caso più emblematico è durante il processo a Heron, verso la fine del romanzo. Heron accusa in tutta serenità Kalamon (in realtà l’altro Kalamon, ma lui non lo sa!), suo amico-rivale di una vita, di essere un assassino e un manipolatore senza scrupoli. Dopodiché, quando si scopre che Kalamon era innocente, non lo troviamo roso dal senso di colpa e la sensazione di essere uno stronzo (stava mandando a morte un innocente, e suo amico per giunta!). Nella scena successiva, quando Heron è diventato Maestro, lui e Kalamon sono nel migliore dei rapporti, nonostante ormai, tra due persone reali in circostanze analoghe, si sarebbe creata una tale spirale di diffidenza e risentimenti da rendere impossibile alcuna relazione normale.Torna su


(3) I cinque mondi principali sono: quello nativo dei protagonisti, quello sognato da Heron, il mondo dietro lo specchio, il mondo “malvagio” dietro lo specchio e il mondo tecnologico (il nostro?). In più, si gettano sguardi fugaci ad almeno altri due mondi: il mondo di Atlante alla fine del romanzo (attraverso il pov dell’altro Heron), e il mondo di sogno descritto da Kalamon/Kalem nella prima parte. Ora, si potrebbe obiettare che quest’ultima sia un’invenzione di sana pianta di Kalem, ma pensando a come viene descritto – una versione “malvagia” del sogno di Heron, quindi in linea con quello che potrebbero sognare gli abitanti del mondo “malvagio” – si può anche pensare che sia una descrizione sincera di un altro mondo.Torna su

Gli Italiani #08: Caligo

CaligoAutore: Alessandro Scalzo (Angra)
Genere: Science Fiction / Ucronia / Steampunk
Tipo: Romanzo

Anno: 2014
Pagine: 210 ca.
Editore: Vaporteppa

Barbara Ann Axelrod, giovane rampolla dell’aristocrazia europea, nonché figlia del primo uomo a mettere piede su Marte, sta tornando a Genova per la prima volta dopo tre anni. Tutto, nella Repubblica di Zena, sembra rimasto come l’aveva lasciato: i fumi che appestano la città bassa, il collegio di suore che le dà vitto e alloggio, lo zio Watson che si prende cura di lei. Nulla di più sbagliato.
C’è un assassino a piede libero in città, un tizio soprannominato il Cannibale che va in giro a mangiare la faccia di giovani ragazze. Gruppi insurrezionalisti si danno convegno la notte inneggiando alla rivolta e al ritorno del Vero Re. I livelli di onde Z nell’aria continuano a salire. E come se non bastasse, da un po’ di tempo Barbara Ann è perseguitata da una brutta emicrania e dalle allucinazioni – attacchi così forti che nemmeno i Massaggi Medico-igienici per Signorine riescono a darle un duraturo sollievo! Che abbia a che fare con l’ossessione che assalì suo padre di ritorno da Marte, e che lo spinse a girare i quattro angoli del pianeta fino a che non scomparve in un tragico incidente? Barbara Ann ancora non lo sa, ma stanno per succedere delle cose, a Zena, che sconvolgeranno la sua vita – e non solo la sua – per sempre.

Ho comprato Caligo il giorno stesso che è uscito. Tre i motivi. E’ il primo romanzo italiano inedito pubblicato da Vaporteppa, quindi un banco di prova importante per valutare la qualità della neonata collana del Duca. E’ la seconda opera di Alessandro Scalzo (aka Angra), di cui avevo letto e recensito un paio di anni fa il bel Marstenheim: ero quindi curioso di vedere se fosse migliorato. Infine, è un raro esempio di romanzo steampunk italiano, sponsorizzato tra l’altro da uno – il Duca medesimo – che ne sa a palate.
Caligo è un’ucronia ambientata in un 1912 in cui l’Italia non è mai diventata una nazione unita. Gran parte del Nord Italia è ancora una provincia dell’Austria, il Piemonte è rimasto un piccolo regno e la Gran Bretagna, prima potenza europea, ha fatto della Repubblica di Zena (Genova in dialetto genovese) un suo protettorato. Si viaggia in aeronave, gli eserciti europei hanno in dotazione mech da combattimento e l’uomo ha già posato i piedi sul suolo marziano. Il romanzo si sviluppa come una storia d’investigazione strutturata in giornate – ogni giornata è un capitolo – in cui a poco a poco Barbara Ann porterà alla luce cosa c’è di marcio sotto la patina (già marcia) della città di Zena. Intrighi internazionali, sovrannaturale, copie di contrabbando di Superomo – non manca niente. Finalmente anche noi italiani abbiamo un romanzo steampunk degno di questo nome?1

Steampunk goggles cat

Ecco: di questi ne abbiamo avuti pure troppi.

Uno sguardo approfondito
Da un’opera brandizzata Duchino, ci si aspetta prima di tutto che ponga molta cura nello stile; che sia scorrevole, immersivo e vivido – e Caligo non delude. La storia è narrata in prima persona al tempo presente dal pov di Barbara Ann. Il romanzo si sviluppa nell’arco di una settimana in cui, attraverso gli occhi della bella italo-britannica, scorrazziamo in giro per la città di Zena (e non solo) e scopriamo a poco a poco lo strano 1912 steampunk immaginato da Angra. La densa coltre di smog che appesta la città bassa, e che obbliga la gente a spostarsi con una maschera antigas addosso; le brutte isole galleggianti al largo della costa genovese, dove si ergono i grigi casermoni dei condomini dei proletari che non possono permettersi una casa sulla terraferma, e che Barbara vede dall’alto dell’aeronave mentre si appresta ad atterrare; le piccole pasticcerie artigianali dai nomi tradizionali, dove comprare un sacchettino di sfogliatelle alla crema al whisky: tutti questi dettagli concreti arrivano al lettore attraverso le peregrinazioni di Barbara Ann e compongono pezzo per pezzo il puzzle che è l’ambientazione di Caligo.
Oltre a essere immersivo e ridurre al minimo i filtri tra noi e la storia, l’uso della prima persona ha un altro importante vantaggio: la gestione degli infodump. Come ho già ricordato altre volte, un’ambientazione ucronica è problematica da gestire, perché bisogna dare al lettore molte informazioni solo perché riesca a orientarsi, ma al tempo stesso bisogna resistere alla tentazione di spiattellare nozioni con un brutto raccontato. Ma usando la prima persona, si può far passare un piccolo infodump come un ricordo o una riflessione della protagonista, risvegliato da un avvenimento presente. Barbara Ann torna al collegio delle orsoline dopo tanti anni, e ricorda la sua infanzia e gli insegnamenti delle suore; rilegge uno stralcio dei diari di suo padre, e ripensa alla sua vita e alle sue ossessioni, permettendo anche a noi di imparare qualcosa del colonnello Axelrod. Altri elementi dell’ambientazione non sono mai spiegati, ma si capiscono dal contesto, come le misteriose Onde Z che piagano la Repubblica di Zena e i suoi abitanti: niente “As you know, Bob” e niente “Le onde Z sono…”; semplicemente, vediamo cosa succede alla gente quando i livelli di onde Z nell’aria diventano troppo alti. Perché le uniche informazioni che servono al lettore sono quelle che fanno accadere le cose, sono quelle che impattano direttamente sulla trama.

Da ultimo, è bello essere nella testa di quella matta di Barbara Ann. Inizialmente ero un po’ preoccupato: la protagonista di Caligo pareva un concentrato di fanservice ambulante. Minorenne, bellissima, tette enormi, bisessuale, trombate come merce di scambio, devota seguace della scuola del Dr. Herzog e dei suoi massaggi medico-igienici per signorine per bene: divertente, per carità, e a tratti squisitamente retard, ma pareva uscito dalla mente di un ciccionerd che non vede una figa dall’anno in cui è uscito Pong. E invece Barbara Ann è un ottimo protagonista.
Innanzitutto, è un’eroina forte e attiva. Nel corso di tutto il romanzo, la maggior parte delle sue azioni sono frutto di decisioni personali, di una propria agenda; Angra evita l’espediente pigro – comune soprattutto tra scrittori alle prime armi – di fare del proprio protagonista un semplice esecutore delle decisioni di qualcun altro (sia esso un mentore, maestro, amico, superiore, e via dicendo). Campionessa di scherma fin da piccola, Barbara Ann non è una ragazza normale che d’improvviso si scopre guerriera – fin dalle prime pagine è stabilito che è una tipa superatletica e incline all’azione.

Fanservice

Nonostante la sua vacuità di facciata, inoltre, Barbara Ann è un personaggio complesso. Apparentemente progressista (si fa uomini e donne, studia matematica, da grande vorrebbe fare la pilota di mech), è pur sempre il frutto del suo rango sociale e della sua educazione: condivide le opinioni sulla superiorità razziale dei bianchi propria della sua epoca, rimane inorridita di fronte a un gendarme che la tratta come una plebea qualsiasi, e non può fare a meno di guardare dall’alto in basso un operaio che vive nella merda. Ipocrita nel midollo – come la classe sociale da cui proviene – vive il sesso con nonchalance ma non si concede orgasmi perché non è per bene. Insomma, in lei troviamo tutte le ambiguità e contraddizioni della gente reale.
Nell’analizzare la protagonista, tra l’altro, ci imbattiamo in un altro interessante corollario dello show don’t tell. Benché la narrazione sia in prima persona, noi abbiamo accesso solamente ai pensieri più superficiali del personaggio pov: quello che percepisce e fa qui ed ora, ed eventuali ricordi o associazioni di idee che qui ed ora le risveglia. Il personaggio non sta a psicanalizzarsi per il nostro beneficio (come non lo fanno le persone reali, a meno di averne una naturale inclinazione), né l’autore si mette a spiegarci il personaggio. Sta a noi capire le sue motivazioni profonde, in base a ciò che dice, fa, e pensa superficialmente; in base al non detto e alle contraddizioni tra pensiero e azione. Ad alcuni Barbara Ann è risultata un protagonista piatto e poco caratterizzato, ma è perché sono stati disattenti: in realtà è un personaggio molto affascinante, ed è indubbio merito di Angra essere riuscito a renderla tale senza spiattellarci in faccia il suo subconscio.
A fronte di tutto questo, le scene di pornaccio di serie c – che non mancano – il tripudio di tettone, ditalini, numeri di Superomo e monster cockz ci stanno e alla grande. E sono un piacevole diversivo rispetto alle investigazioni e agli scontri che costituiscono il cuore del romanzo.

Certo: aver scelto una protagonista altolocata e dalla vita facile come Barbara Ann ha anche i suoi problemi. Per gran parte del romanzo il livello di conflitto percepito e la tensione rimangono bassi, e questo perché non sentiamo che la vita della protagonista sia davvero in pericolo, o che lei stia rischiando davvero grosso. Quando Barbara Ann all’inizio del romanzo si mette sulle tracce del Cannibale, esponendosi così al rischio di farsi mangiare la faccia, è lei che prende questa decisione – e per nessuna motivazione più impellente del mettersi in gioco e dimostrare agli altri di che pasta è fatta. Si ha sempre l’impressione che in qualsiasi momento potrebbe “uscire dal gioco”, tornare nella sua stanza e non le sarebbe torto un capello. Siamo lontani anni luce dal senso di angoscia che si prova, per esempio, con Jason Taverner di Flow My Tears, diventato una non-persona e braccato dalla polizia internazionale; o con i bambini di Ship Breakers, che morirebbero di stenti se smettessero di scavare pezzi di rame dai rottami delle navi spiaggiate; o nel conflitto tra umani e yilané in West of Eden, dove la posta in gioco è l’estinzione di una delle due razze. In Caligo, la posta si alza veramente solamente verso la metà del romanzo; e solo negli ultimi capitoli si fa strada quella sana sensazione di ineluttabilità che ti spinge a divorare le pagine successive per sapere se la tua eroina ce la farà o meno.
Senza questo senso di urgenza, i primi capitoli mantengono un ritmo molto lento ed è facile posare il libro. Nelle prime giornate, Barbara Ann vive una serie di episodi perlopiù slegati tra loro (l’indagine sul Cannibale, l’investigazione dei moti insurrezionalisti, l’appuntamento con la bella hostess elvetica, l’esame del cervello alla clinica austriaca). Il lettore, che sa di stare leggendo un romanzo, fa un atto di fede e si aspetta che prima o poi tutti i tasselli formino un unico mosaico e che nessun episodio sia inutile; ma appunto, è una riflessione meta-narrativa. E a trasmettere questa sensazione di lentezza contribuiscono alcuni dialoghi legnosi – soprattutto quelli con lo zio Watson – che si trascinano senza energia per un sacco di pagine e passano in modo poco naturale da un argomento all’altro in stile lista della spesa. A volte, a leggere questi scambi, mi immaginavo l’autore che spuntava voci da una checklist mentale: “Ok, devono parlare di questo, questo, e questo… fatto, fatto, fatto…”. La funzione di questi dialoghi è informativa, ma il modo meccanico in cui le informazioni vengono trasmesse e la quasi totale assenza di conflitto li rendono poco scorrevoli.

All the fucks I give

Alcuni dialoghi suscitano questa reazione.

Ma sono difetti passeggeri, e si dimenticano in fretta se ci si sofferma a godere l’ambientazione costruita da Angra. Dagli elementi più corposi (la proliferazione di condomini galleggianti per poveracci come conseguenza della conformazione di Genova, stretta tra il mare e le montagne) ai dettagli più piccoli (la pubblicità dell’eroina San Pellegrino!), tutto testimonia di una grande cura. Le trovate bizzarre abbondano, ma non sono mai gratuite – risultano sempre giustificate e coerenti col contesto. E nel descrivere molti macchinari, dai mech in dotazione all’esercito agli scafandri, l’autore mostra una precisione e una padronanza della terminologia davvero buona – del resto Angra è ingegnere – e al contempo mi convince che io (che una formazione scientifica degna di questo nome non ce l’ho) non potrei mai scrivere steampunk.
Insomma, in Caligo non ci sono forse quelli che Gamberetta chiamava gli WOW maiuscoli, quel sense of wonder cosmico che ti fa vedere la realtà sotto una nuova prospettiva; ma tutta una costellazione di piccoli “wow” fantascientifici. Io stesso, che in genere rimango abbastanza freddino di fronte alle scene di esperimenti scientifici all’opera, sono rimasto deliziato dalla descrizione della macchina che realizza riproduzioni in caramello del cervello del paziente. Dallo scafandro protettivo indossato dalla dottoressa agli elettrodi all’uso stesso del caramello per fare il calco, tutta la scena è geniale e trasuda sense of wonder.
Nessuna menzione particolare, invece, per i personaggi secondari. Il punto di vista saldamente ancorato su Barbara Ann impedisce di approfondirli più di tanto, e la maggior parte di essi non si distacca dal loro ruolo funzionale e dallo stereotipo. Rimane in testa qualche personaggio più variopinto, come Armando, fotografo di nudi e rivoluzionario, dai baffi a manubrio e il membro equino; o Gallo, classico teppista di strada senza prospettive su cui però Angra ha innestato una bella storyline.

Mi viene spontaneo paragonare Caligo a un’altra grande opera steampunk incontrata sulle pagine di Tapirullanza: The Difference Engine di Gibson e Sterling. Anche dietro quel romanzo c’era un lavoro di documentazione enorme e una cura quasi maniacale nei dettagli. Ma laddove The Difference Engine era pretenzioso, pesante, prolisso, il romanzo di Angra è scanzonato, ironico, plot-driven. Sa quando deve essere drammatico e cupo, e quando non prendersi troppo sul serio e infilare un aneddoto sulle suore. E una volta che ingrana, il ritmo diventa frenetico – ho divorato le ultime ottanta pagine una dietro l’altra. La protagonista, anche, evolve nel corso della storia ed esce trasformata dall’avventura: ragazza viziata e un po’ naif (nel suo modo sveglio e paraculo di esserlo) all’inizio del libro, ne passerà talmente tante che alla fine della storia la troveremo diversa.
Quanto al finale, devo ammetterlo, mi ha lasciato un certo senso di insoddisfazione. Benché l’arco narrativo del romanzo si chiuda e tutte le domande principali trovino risposta, diversi interrogativi minori (sul destino di personaggi secondari, sul futuro di Zena and so on) rimangono aperti; soprattutto, è un finale che non allenta – non del tutto – la tensione accumulata nelle sequenze finali, e che ti lascia che ne vorresti ancora. Tutto sembra preludere, insomma, a un secondo romanzo che continui le avventure della nostra eroina (non vi sarà sfuggita la dicitura “La prima avventura di Barbara Ann” sotto al titolo), magari da maggiorenne e vaccinata. Angra si trova tra le mani un’ambientazione con un potenziale enorme e ancora largamente inespresso, quindi non penso proprio che si lascerà sfuggire l’occasione.

Baffi a manubrio

Baffi a manubrio. So sexy…

Insomma, spero di poter leggere in futuro un secondo romanzo ambientato nel mondi di Caligo. Nel frattempo, posso dire che l’esperimento è pienamente riuscito, e che ci troviamo tra le mani un ottimo romanzo ucronico. Posso dire tranquillamente che, tra le opere recensite fino adesso in questa rubrica – che si chiamava “Gli Autopubblicati” e ora si chiama “Gli Italiani” – è senza dubbio la migliore. Non che ci fossero molti dubbi: come si può non adorare un romanzo con scritte frasi di questo tenore?

Il Signor Armando mi stantuffa con la foga di un ciclista in fuga, di un rematore olimpionico a poche lunghezze dal traguardo e dalla medaglia d’oro.

Vaporteppa non poteva cominciare la sua pubblicazione di inediti italiani meglio di così.

Dove si trova?
A questa pagina del sito di Vaporteppa troverete la scheda del libro. Potete comprare l’ePub del romanzo su Ultima Books; altrimenti, se siete possessori di kindle, rivolgetevi ad Amazon per il mobi. Il prezzo è un onesto 4,99 Euro.

E già che parliamo di Vaporteppa…
La notizia dell’ultima ora è che proprio oggi Vaporteppa ha pubblicato una nuova opera a pagamento. La rivelazione è fonte di grande giubilo per questo blog, perché il libro in questione altro non è che la traduzione in italiano di War Slut di Carlton Mellick III, decano della Bizarro Fiction. Potete leggere l’annuncio qui su Vaporteppa, oppure andare immediatamente a comprare la vostra copia di Puttana da Guerra su Amazon o Ultima Books.
War Slut non è che la prima di tre opere che saranno portate in Italia da Vaporteppa nelle settimane a venire. Gli altri due titoli che potremo vedere in futuro nella nostra lingua sono The Morbidly Obese Ninja e The Haunted Vagina.

Puttana da Guerra

La copertina dell’edizione italiana di War Slut.

Qualche estratto
Dato che la protagonista è una parte così importante del romanzo, ho scelto due brani che ne mettessero in luce alcune delle caratteristiche più interessanti. Il primo mostra il suo primo ‘incontro’ con gli insurrezionalisti di Zena e le loro idee complottiste; il secondo, una scena di sesso.

1.
Davanti alla sala scommesse di Via Fratelli Bufera, due gendarmi di quartiere scherzano con uno storpio. Uno lo tiene per il naso, l’altro gli batte il manganello sulla gobba. Il primo gendarme lascia andare il malcapitato, e indica all’altro qualcosa avanti lungo la strada.
Un ragazzo in salopette blu e camicia grigia sta spennellando colla su un manifestino, appiccicato a fianco della vetrina della Pasticceria Sorelle Berardengo. Il secondo gendarme porta il fischietto alla valvola di sfiato della maschera antismog e fischia. Il ragazzo si volta di scatto, li vede. Getta via il pennello e un rotolo di manifestini e si dà alla fuga, nel vicolo a sinistra.
I gendarmi si lanciano all’inseguimento, sfollagente alla mano, spariscono anche loro nel vicolo. Il ragazzo schizza fuori di nuovo, e loro dietro. Corre dalla mia parte. È magro, con un ciuffo di capelli neri che spunta da sotto il cappello floscio. Sfrecciandomi accanto mi getta un’occhiata, sgrana i suoi occhi azzurri come se avesse appena avuto un’apparizione mistica. Lo seguo allontanarsi con lo sguardo.
I due gendarmi ne hanno avuto abbastanza di inciampare nei pastrani. Il primo si mette a strappare il manifestino dal muro, l’altro raccoglie quelli caduti. Li raggiungo, cerco di sbirciare. Quello intento a staccare il manifestino si volta, e mi agita il manganello davanti al naso.
«Via, via, non c’è niente da vedere! Circolare!»
Minacciarmi con il manganello, a me! Razza di carogna infame, ai tempi del mio bisnonno il Duca Pallavicini ti avrebbero bastonato a morte per quest’affronto, e lasciato a crepare con la testa infilata in una latrina, ché a ficcarti la punta del fioretto nel cuore sarebbe stato farti troppo onore!
Per sbollire la rabbia mi infilo nella pasticceria delle Sorelle Berardengo. Il profumo zuccheroso dei babà al rum e delle tortine all’arancia mi calma un po’. Ma domani presenterò senz’altro un esposto al Viceré britannico, ché questi sbirri italiani delle colonie non dovrebbero esser mandati di ronda senza un vero bianco a comandarli, o perlomeno non dovrebbero aver giurisdizione sui cittadini britannici, che diamine.
Esco con un sacchetto di sfogliatelle alla crema al whisky, sapendo già che poi mi pentirò scoprendo che la circonferenza del petto mi è aumentata di un altro pollice, ché da un po’ di tempo a questa parte sembra che tutto ciò che mangio vada a finire solo lì e basta.
Un manifestino è finito tra il cassone dell’immondizia e il bordo del marciapiede. Faccio un rapido controllo, i gendarmi non sono più in vista. Con discrezione mi chino e lo raccolgo, e lo nascondo nella borsetta. Mi allontano un po’ prima di ritirarlo fuori.

Svegliati Zena, apri gli occhi…
*** NESSUN UOMO È MAI ***
** STATO SU MARTE! **
Rigetta le sue menzogne in faccia
all’invasore britannico!
Boicotta l’Expo 1912!
È il Vero Re che te lo chiede!

Ohibò, questa poi è proprio bella. E mio padre allora, che fu il primo uomo a posare il piede sulle sabbie marziane nel 1894, un anno prima che io nascessi?

Oh ma non vedete che l’uomo non è mai stato sulla Luna Marte? SVEGLIAAA!

2.
Col grembiule tirato su a scoprirgli la pancia tonda, che trema come gelatina, il Signor Luciano mugola accompagnato dai gemiti del nastro trasportatore. Lo cavalco quasi nuda, con indosso solo le mie calze alla parigina, lui mi accarezza le cosce appena più su della calza. Il nastro ci trascina lungo le guide per tutto il perimetro della fabbrica, lui steso supino e io sopra a cavalcioni. Un paio di varianti nel percorso vanno a formare due grandi otto sbilenchi.
Ho la pelle d’oca, e il petto imperlato di sudore nonostante l’aria gelida che soffia dai bocchettoni refrigeranti. Gli scossoni del nastro mi fanno ballonzolare i seni. I miei capezzoli guardano in avanti, un po’ verso l’alto, tondi e duri come caramelle. Il Signor Luciano solleva le mani callose unte di grasso, mi afferra le mammelle e me le strizza forte.
Il nastro scorre fra le postazioni di lavorazione del tonno sott’olio come il trenino della Piccola Fabbrica degli Orrori al Luna Park. Ganci, pinze, ugelli, bracci meccanici, seghe a nastro. Tutto è immobile, ma gli sbuffi di vapore che ci investono al passaggio fanno capire che le macchine sono solo addormentate. Mi preoccupa l’idea che uno dei bracci articolati si rianimi all’improvviso e mi infili un uncino in un occhio. Il ronzio elettrico dei generatori vibra nel capannone di lamiera come uno sciame di calabroni impazziti, il motore a vapore principale copre i miei ansiti e i versi da tricheco del Signor Luciano, che sta aggrappato al nastro di gomma e ha gli occhi girati all’insù.
Il Signor Luciano non somiglia per niente a Padre Mizzi, che era giovane e bello come un Apollo e ci faceva stare nude inginocchiate sui ceci durante il sacramento della confessione, perché, diceva, “la nostra anima deve essere nuda dinnanzi al Signore”. Però, anche se è vecchio e grasso e peloso, il Signor Luciano ha un pene che è quasi due volte quello di Padre Mizzi. Dopo un quarto d’ora che lo cavalco devo pensare a qualcosa per distrarmi, altrimenti rischio di godere, e sai che figuraccia da sgualdrina?

Tabella riassuntiva

Ottima protagonista: tettona ma al contempo eroica e complessa. Inizio lento e dalla natura troppo ‘episodica’.
Ambientazione steampunk diversa dal solito e piena di trovate Nella prima parte del libro Barbara Ann non sembra davvero in pericolo.
Pov immersivo e prosa ‘mostrata’.
Rigore scientifico ovunque possibile.


(1) Ci sarebbe, a dire il vero, anche Assault Fairies di Gamberetta, di cui era stata autopubblicata la prima parte già nel lontano 2011. Ma ad oggi, Assault Fairies è – ahimé – ancora incompiuto. Spero che Gamebretta riesca prima o poi a finirlo perché era veramente figo.Torna su