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The Man in the Amazon Studios

Stendardo Greater Nazi ReichAvete pensato a quanto sia difficile scrivere un’ucronia? E’ uno sbatti assurdo.
Non soltanto bisogna documentarsi molto bene sul periodo storico in cui avviene il what if, ma bisogna anche avere abbastanza immaginazione e comprensione della Storia da creare un mondo alternativo credibile: da quel singolo avvenimento, o serie di avvenimenti che sono andati diversamente, costruire una catena di cause ed effetti verosimili che portino il mondo al presente della narrazione. E dove va a finire, questa mole incredibile di documentazione e worldbuilding faticosamente messi insieme? Al 90% rimane nella testa dello scrittore, fondamenta invisibile della storia particolare che decide di raccontare, secondo il principio dell’iceberg di Hemingway.
Non sorprende quindi che ci siano così pochi romanzi ucronici in circolazione, nonostante la domanda non manchi. Né stupisce che gli scrittori, quando ne trovano una, cerchino spesso di minarla fino alla totale esaustione con trilogie, saghe e universi espansi. Turtledove ha scritto due saghe per un totale di otto romanzi per la sua ambientazione Worldwar (Ciclo dell’Invasione in italiano), in cui gli alieni attaccano il nostro pianeta in piena Seconda Guerra Mondiale e sparigliano le carte; e la bellezza di undici romanzi nel suo ciclo Southern Victory, in cui immagina una diversa risoluzione della Guerra di Secessione americana. Harry Harrison ha scritto due seguiti di West of Eden, la sua ucronia preistorica – da me recensita qui – in cui un ceppo di rettili intelligenti evolve indipendentemente dall’essere umano.

Anche Dick aveva più volte provato a scrivere un seguito di The Man in the High Castle, e continuare così la sua esplorazione di un mondo in cui Germania e Giappone si sono spartiti il mondo dopo aver vinto la Seconda Guerra Mondiale. Le idee non gli mancavano. The Ganymede Takeover, romanzo minore scritto a quattro mani con Ray Nelson, era nato come un sequel in cui l’impero giapponese lanciava un’offensiva di occupazione degli interi Stati Uniti come strategia preventiva anti-nazista. Un altro tentativo abortito, Ring of Fire, vedeva gli ufficiali nazisti aprire uno squarcio con una dimensione parallela (la nostra?) in cui il Reich era caduto ma esisteva l’atomica, e cercare di trafugare la preziosa tecnologia nel mondo del romanzo. Anche lo stranissimo romanzo VALIS era nato come seguito di High Castle: la divinità in questo caso non si metteva in contatto con un alter ego di Dick, ma con Hawthorne Abendsen – l’uomo nell’alto castello himself – per proteggerlo dai nazisti che venivano a prenderlo.
Per più di vent’anni dalla pubblicazione del romanzo originale, insomma, Dick ha tentato di tornare a quel mondo, farlo rivivere ed espanderlo. Magari farci scoprire come andava a finire. Ma Dick era anche un uomo dalla salute mentale altalenante, e la repulsione verso la mentalità nazista era troppo forte per più di brevi incursioni nella terribile ucronia che aveva creato. Morì senza mai regalarci un’immagine della New York sotto occupazione nazista, o la Berlino sotto il pugno di Bormann o Goebbels o Heydrich. Il grosso del romanzo originale, infatti, si svolge nella San Francisco colonizzata dai giapponesi e nello stato cuscinetto delle Montagne Rocciose dove Abendsen si nasconde; tutto quello che sappiamo dello strano mondo là fuori, lo ricostruiamo attraverso i dialoghi e i monologhi interiori dei protagonisti (e già Dick abusa dell’infodump, ansioso di farci sapere cosa i suoi nazisti abbiano combinato nel Mediterraneo, piuttosto che in Africa, o i giapponesi in Sudamerica!). Potete quindi immaginare quanto fossi gasato quando, a Gennaio 2015, è arrivata la notizia che Amazon Studios si stava impegnando a sviluppare una serie tv ispirata al romanzo.

Nazi Times Square

La vista di una gigantesca svastica che occhieggia dai maxischermi di Times Square è qualcosa di impagabile. Dal primo episodio della serie tv.

Amazon Studios è una creatura interessante. Nato nel 2010 da una costola del gigante della distribuzione digitale, è una casa di produzione di film e serie tv originali che vengono poi distribuite in streaming su canali proprietari sul modello di Netflix. Come Netflix, le stagioni dei serial vengono girate e poi pubblicate in blocco; ma a differenza di Netflix, il modo in cui queste serie vengono selezionate e prodotte coinvolge gli utenti molto più di quello a cui siamo abituati. In specifici momenti dell’anno, vengono pubblicati gli episodi pilota di differenti soggetti, ed è in base ai feedback degli spettatori, con il loro numero di visualizzazioni, le valutazioni positive, le recensioni, che viene deciso quali portare avanti e quali cancellare. Inutile dire che The Man in the High Castle è stato il pilota che ha ricevuto più consensi di tutta la stagione.
L’ambientazione di The Man in the High Castle sembrava quasi implorare che qualcuno la prendesse per espanderla. C’è un sacco di spazio libero per creare nuove storie, approfondire personaggi ed eventi, e insomma arricchire quel mondo poco più che abbozzato da Dick. E con al comando Frank Spotnitz, uno dei più importanti registi e autori di X-Files, e Ridley Scott come produttore esecutivo, i numeri per fare qualcosa di interessante c’erano tutti. Il pilot è uscito su Amazon Prime il 15 Gennaio 2015; un mese dopo, la serie era stata selezionata per la produzione di una stagione da 10 episodi. La stagione completa è uscita il 20 Novembre ed è già stato opzionato il rinnovo per una seconda.
Ora, conoscete bene la mia insofferenza verso le opere incompiute e come in genere mi tenga alla larga da qualsiasi serie finché non è stata – o sta per essere – scritta la parola fine. Ma anch’io ho le mie debolezze – e per The Man in the High Castle ho fatto un’eccezione. Dopo aver recensito il romanzo, vediamo quindi cosa ne penso della serie tv.

The Man  in the High Castle
The Man in the High Castle (tv series)Autore: Frank Spotnitz
Produttore esecutivo: Ridley Scott, Frank Spotnitz
Genere: Ucronia / Thriller / Politico

Stagioni: 1  (ongoing)
Episodi: 10

Paese: U.S.
Anno: 2015

Da quando è nata, Juliana Crain vive con la testa bassa. Le sue giornate trascorrono tutte uguali tra gli allenamenti al dojo, dove pratica aikido con i giapponesi, e le serate col suo malinconico ragazzo Frank, saldatore che nasconde le proprie origini ebraiche. Ma la sua vita a San Francisco cambia per sempre il giorno in cui riappare Trudy, la sua sorella scomparsa, e le affida con fare misterioso una pellicola dal titolo enigmatico: The Grasshopper Lies Heavy. Poco dopo la Kempeitai, la polizia militare giapponese, la uccide a sangue freddo. L’orrore di Juliana si mischia alla sorpresa nel momento in cui, rifugiatasi a casa, mette la pellicola nel proiettore e si trova di fronte le immagini in bianco e nero di un cinegiornale estremamente realistico, che mostrano Berlino abbattuta, gli americani vincere la Seconda Guerra Mondiale e tornare a casa vittoriosi. Trudy era in realtà membro di una segreta Resistenza alle forze di occupazione, con il compito di consegnare la pellicola al misterioso leader rivoluzionario chiamato l’Uomo nell’Alto Castello.
E mentre Juliana, di nascosto da tutti, decide di prendere il posto della sorella e imbarcarsi per Canon City, l’anonima città della Zona Neutrale dove si dice che viva l’Uomo nell’Alto Castello, nella New York occupata dal Reich un giovane di nome Joe Blake entra in contatto con la locale cellula della Resistenza. Anche a lui viene affidata una pellicola e il compito di entrare di nascosto nella Zona Neutrale, ma il ragazzo fa appena in tempo a fuggire prima che un blitz nazista sgomini la cellula. Ora Juliana e Joe sono due uomini in fuga, due traditori invischiati in un gioco più grande di loro. Ma in gioco c’è molto di più degli equilibri politici del loro mondo.

Spotnitz e gli altri creatori della serie avevano a disposizione più modi per sviluppare il materiale originale. Potevano replicare in modo fedele la trama del romanzo (soluzione pigra), oppure esplorare nuovi territori del mondo immaginato da Dick, con nuove situazioni e nuovi personaggi, momenti storici differenti (soluzione più coraggiosa e affascinante). Gli autori hanno optato per una sana via di mezzo: re-immaginare la trama originale, prendendosi la libertà di espanderla e modificarla a piacimento. Il risultato è un thriller ucronico a tratti molto vicino e a tratti molto lontano da The Man in the High Castle.
Trattandosi di una produzione ad alto budget, Spotniz dà alla serie un taglio molto diverso rispetto all’opera originale. Il libro di Dick, lo abbiamo visto, è fondamentalmente un mainstream che mostra le vite parallele di tanti piccoli personaggi in un mondo più grande di loro – con il rischio di annoiare o perdere per strada i lettori. La serie tv mette invece al centro la lotta della Resistenza americana contro gli occupanti, e prende quindi la forma più convenzionale di un thriller politico orientato all’azione. Si ottiene, così, il doppio risultato di dare ritmo e una direzione alla storia – due elementi che il romanzo di Dick non aveva, o aveva in modo carente – e di inserirla in un archetipo ben riconoscibile dallo spettatore, quello dei ribelli in lotta contro la dittatura.

Il trailer ufficiale di The Man in the High Castle

I protagonisti dell’opera originale ritornano più o meno tutti, anche se in una versione ‘ingentilita’ e meno ambigua. Juliana – una dei due protagonisti veri e propri della serie – è, come nel romanzo di Dick, una donna forte, testarda e votatata all’azione, e come nel romanzo si mette alla ricerca dell’uomo nell’alto castello. Ma nell’opera originale aveva anche tutta una serie di caratteristiche che la rendevano più complessa e meno amabile: era egocentrica, priva di empatia, dall’intelligenza quasi animalesca nel suo curarsi solamente del presente e degli impulsi del momento. Era una donna che senza volerlo faceva soffrire le persone che la circondavano, e aveva lasciato Frank perché non riusciva più ad amarlo. Ma una simile figura femminile si alienerebbe le simpatie del pubblico; ed ecco quindi che la nuova Juliana è una donna di nobili ideali che si preoccupa degli altri. Lei e Frank stanno ancora insieme e, pur con i loro alti e bassi, sono una coppia innamorata.
Joe Blake, l’altro protagonista, è la rilettura in chiave americana di un personaggio minore del romanzo, il camionista italiano e fascista Joe Cinnadella. Il conflitto centrale di questo personaggio – lealtà al Partito o lealtà alla donna amata? – è molto affascinante, e mette in gioco concetti potenti come quelli di fedeltà, onore, obbedienza, patriottismo. Tuttavia si è voluto fare anche di Blake un personaggio facile da inquadrare, e si capisce subito che in fondo è il classico ragazzone dall’animo nobile e gli ideali un po’ confusi. Frank Frink – col suo carattere malinconico e riflessivo – e l’ambasciatore Nobusuke Tagomi – con le sue maniere posate e il suo spiritualismo – sono forse i personaggi che rimangono più aderenti al romanzo originale. Ma la scelta “facile” della serie si vede soprattutto nell’assenza tra i personaggi principali del più sfaccettato e ambiguo dei protagonisti del libro di Dick, l’antiquario Robert Childan, con la sua ammirazione per i nazisti e il suo rapporto di morboso amore-odio verso i dominatori giapponesi. Childan c’è nella serie di Spotnitz, ma relegato a un ruolo minore e trasformato in “macchietta” di commerciante furbetto.

Considerato però che si vuole raggiungere un pubblico vasto, e che i personaggi devono fare da punto di ancoraggio dello spettatore per esplorare un complicato mondo distopico, creare dei protagonisti stereotipici non è di per sé sbagliato. Il focus è altrove: sulla società, sulla politica, sull’azione.
Problema: stai comunque raccontando la storia di (prevalentemente) piccoli individui senza potere politico. Fin dagli anni ’40 del secolo scorso, Brave New World e 1984 ci hanno insegnato che i protagonisti delle distopie non solo perdono sempre, ma non hanno mai avuto neanche una chance. Anche il romanzo di Dick, nonostante tutto, si inseriva in questo filone: gli “uomini comuni” al centro del libro non possono e non cambieranno la storia. Come fai quindi a dare agency ai tuoi protagonisti? Ed è qui che arriva la botta di genio di Spotnitz, che prende un’idea dell’opera originale – il romanzo-nel-romanzo The Grasshopper Lies Heavy – e la trasforma in qualcosa di nuovo, una serie di pellicole di footage in bianco e nero che sembrano mostrare squarci di un mondo che non è il nostro.
La trovata ottiene due risultati. In primo luogo, una pellicola funziona molto meglio di un libro all’interno di una serie tv; la vediamo anche noi assieme alla protagonista, e ci emozioniamo con lei, mentre se avessero mostrato un romanzo sarebbe stato molto più complicato far arrivare allo spettatore cosa c’era dentro e perché fosse importante (oltre che essere estremamente lame). In secondo luogo, i film diventano un eccellente McGuffin per motivare le azioni dei personaggi e farli muovere in giro per l’universo narrativo. Non sappiamo esattamente a cosa servano o perché siano così importanti, ma il solo fatto che Hitler li cerchi disperatamente e che ci siano stuoli di cattivi sulle loro tracce è motivo sufficiente per farli apparire importanti e giustificare tutte le azioni dei protagonisti. Quello che fanno i nostri eroi, benché apparentemente insensato, di colpo diventa qualcosa capace di cambiare il mondo.

The Grasshopper Lies Heavy

La pellicola che può cambiare il mondo. Anche tu, comune cittadino, sentiti importante!

Ma c’è un limite a quanto puoi mandare in giro i tuoi personaggi all’inseguimento di un misterioso McGuffin, prima che la cosa diventi ridicola. E purtroppo Spotnitz e i suoi sgherri questo limite lo superano abbondantemente. Sullo sfondo di un worldbuilding dannatamente interessante, ciò a cui assistiamo per dieci puntate è fondamentalmente una serie di burattini impazziti che si inseguono e si sfuggono e vanno in giro un casino e alla fine non combinano niente. La caccia all’oggetto diventa più importante dell’affresco ucronico di giapponesi e nazisti al potere.
Il tutto non privo di una serie di idee del tutto illogiche. Quello che nel romanzo di Dick era uno stato cuscinetto di medie dimensioni tra i territori occupati da giapponesi e nazisti – gli Stati Uniti delle Montagne Rocciose – una nazione debole e innocua ma funzionante, nel film diventa una terra di nessuno, senza governo, senza legge, e lasciata in mano a signorotti della guerra e giustizieri nazistoidi che fanno quello che vogliono – un affresco improbabile che sembra preso di peso da un brutto western. Assistiamo increduli a questo cacciatore di ebrei fuori di testa che impicca la gente nella pubblica piazza e fa il bello e il cattivo tempo, e non si capisce bene perché gli abitanti del posto non si organizzino per linciarlo (e per darsi un autogoverno, già che ci sono). Suppongo perché sì, perché fa nazisti cattivi. Né mancano altri momenti di follia messi giusto per fare conflitto e mandare avanti la trama, come il trattamento disumano oltre ogni regola che la polizia giapponese riserva alla famiglia ebrea di Frank (che fa angst!) o il ghiribizzo di quest’ultimo di assassinare il principe giapponese in visita (che fa dramah!).

Ed è un peccato, perché a livello visivo The Man in the High Castle è una gioia per gli occhi. Vedere le svastiche che penzolano dalle villette a schiera della periferia newyorkese, gli ideogrammi al neon nei quartieri fumosi di San Francisco, ufficiali giapponesi che fanno seppuku in una piazza riparata per fare ammenda del loro fallimento, quiz televisivi con gerarchi delle SS come concorrenti, salette nascoste nelle ambasciate dove decine di agenti dei servizi segreti se ne stanno chini su apparecchi radio a decodificare intercettazioni radiofoniche del nemico. Certe scene fanno venire i brividi, come i tesi incontri fra dignitari giapponesi e nazisti negli edifici governativi, con le bandiere dei due membri dell’Asse fianco a fianco mentre i diplomatici si studiano a vicenda. Il contrasto tra la cerimoniosità studiata dei giapponesi e il pragmatismo scientifico teutonico è reso benissimo.
Né mancano trovate ben riuscite e miglioramenti rispetto all’opera originale. La conoscenza che oggi abbiamo del Giappone e della sua cultura fa sì che i giapponesi ritratti nella serie tv siano molto più credibili di quelli di Dick, che con il loro misticismo e la loro pacatezza finivano col diventare macchiette di sé stessi. L’imminente visita del principe ereditario dell’impero giapponese a San Francisco crea nelle prime puntate un punto di ancoraggio importante per lo spettatore, dando maggiore concretezza allo scorrere del tempo e un obiettivo verso cui molti dei personaggi – Tagomi su tutti – tendono. E proprio di punti di ancoraggio nel tempo era carente il romanzo originale. Ancora: John Smith, l’alto gerarca nazista al comando delle SS di New York, nonché creazione originale di Spotnitz, è il più articolato e coerente tra i personaggi principali della serie tv, e le scene che lo coinvolgono sono tra le migliori. Il contrasto tra le sue azioni spietate e i suoi principi morali crudeli da una parte, e la sua convinzione di stare facendo la cosa giusta, per il bene della sua famiglia e dei suoi figli, ci fanno provare contemporaneamente attrazione e repulsione nei suoi confronti. Attraverso di lui possiamo assistere da un punto di vista interno al lato umano dei nazisti. E il fatto che Smith sia un americano, uno yankee nato e cresciuto nell’America libera degli anni ’30, prima della guerra e dell’occupazione straniera, un uomo quindi che ha scelto di preferire il nazismo alla sua cultura nativa, lo rende ancora più terribile.

The Man in the High Castle series Map

La divisione politica degli U.S. nella serie tv. Confrontatela con quella del romanzo.

Cos’è andato storto, allora? Perché tutto questo potenziale, questi buoni spunti di worldbuilding non si concretizzano in un grande racconto? E’ solo un’ipotesi, ma The Man in the High Castle sembra costruito come venivano realizzate la maggior parte delle serie tv fino agli anni 2000, fino a prima della cosiddetta golden age dei serial: un’architettura che privilegiava il voler stupire e costruire dei climax a ogni episodio, a spese della coerenza interna e della realizzazione di veri archi narrativi. Con l’obiettivo strategico di fare quante più stagioni possibili.
Il risultato, quindi, è che emergono singole scene – o anche interi episodi – straordinari o singoli personaggi interessanti, ma questi elementi rimangono isolati; sono belli di per sé ma non si aggregano in un qualcosa che abbia significato o valore. Protagonisti che in un episodio si comportano in un modo, l’episodio dopo si comportano in un altro che lo contraddice; obiettivi che vengono raggiunti in una puntata vengono vanificati in quella successiva; personaggi fuggono da San Francisco verso le Montagne Rocciose per poi tornare a San Francisco qualche episodio dopo senza aver concluso nulla, eventi che sembrano importantissimi la puntata prima escono dai radar quella dopo. Lo spettatore non riesce più a distinguere cosa sia realmente importante per la storia e cosa sia invece filler, e la verità è che probabilmente a un certo punto non lo sanno più neanche gli sceneggiatori. “Dove vogliono andare a parare?” si chiede, ma non vogliono andare a parare da nessuna parte – vogliono solo farti saltare sulla sedia una volta di più.

Mentre le serie tv evolvono e diventano strumenti narrativi più complessi, o perché raccontano grandi archi dove ogni stagione è come un atto di una storia più grande – Breaking Bad, House of Cards – o addirittura arrivando al formato antologico, in cui ogni stagione è una storia autoconclusiva costruita interamente a tavolino – American Horror Story, True Detective, Fargo – è come se The Man in the High Castle fosse rimasto indietro. E’ vero, poter vedere l’ucronia che Dick ci aveva solo lasciato immagine è suggestivo, e la serie tv riesce effettivamente a espandere quel mondo, mostrandoci la New York nazista piuttosto che il castello di Kransberg tramutato in residenza permanente del Fuhrer – ma non è abbastanza, senza una solida trama dietro.
Forse le stagioni successive correggeranno il tiro e daranno una direzione a questo magma narrativo. Per ora, The Man in the High Castle è una serie tv senza infamia e senza lode, con un potenziale straordinario che sta sottosfruttando terribilmente.

Nazisti e giapponesi

Cose belle.

Dove si trova
A differenza di Netflix, sbarcato in Italia lo scorso autunno, i servizi di Amazon Studios non sono ancora disponibili nel nostro Paese. Che io sappia, dunque, non ci sono metodi del tutto legali per vedere The Man in the High Castle. Ma Torrentz è vostro amico; se non avete problemi a leggere in inglese, questo file contenente tutta la prima stagione hardsubbed in inglese è fatto molto bene:

The.Man.in.the.High.Castle.Season.1.Complete.720p.WEBRip.EN-SUB.x264-[MULVAcoded]

Tabella riassuntiva

L’ucronia giappo-nazista finalmente espansa! Una trama che non va da nessuna parte
Scenografie suggestive e fotografia stupenda Personaggi che cambiano obiettivi di puntata in puntata
Il personaggio di John Smith e i conflitti che lo riguardano L’ucronia si trasforma in un thriller generico di ‘caccia al McGuffin’

Abituarsi a Calibre e Sigil: Guida alla personalizzazione degli e-book

CalibreGli e-book sono fighi, ma possono dare delle belle grattate di capo. Se si ha la fortuna di avere a che fare con editori in gamba, che ti mettono a disposizione il libro in diversi formati ed editati bene, tutto ok, lo si può buttare direttamente sull’e-reader. Ma se ci si affida a case editrici che impaginano e-book a minchia o ci si rivolge ai circuiti pirata – dove non puoi stare troppo a far lo schizzinoso – il libro che ci si ritrova tra le mani può andare dall’irritante all’illeggibile.
Calibre e Sigil sono i due programmi fondamentali per costruire il proprio e-book su misura pur partendo da un file di merda. Era da tempo che volevo pubblicare una mini-guida essenziale all’uso di entrambi, e finalmente grazie a Siobhàn ciò è stato possibile. L’articolo che segue è stato scritto al 90% da lei. Non si tratta di una guida passo passo ma di una panoramica sulle funzionalità principali dei due programmi e come utilizzarle; sono programmi troppo vasti – Calibre soprattutto – per scrivere nei particolari tutto quel che ci si può fare. In futuro, potremo pensare di espandere questo o quell’argomento ed entrare più nel dettaglio, a seconda delle richieste.

1. Calibre: la conversione degli e-book
Ognuno di noi ha almeno un amico smanettone. Conosco una persona (non io, giuro! È un’amica di mia cugina. Che poi è morta) che una volta ha chiesto al suo amico smanettone di installarle Photoshop 3 anche sul computer nuovo, perché ogni tanto le piaceva usarlo per ritagliare le immagini o ritoccare le foto delle vacanze. Lui le ha installato la versione CS5 Professional in inglese, con tutte le barre degli strumenti talmente ultramoderne, che non riusciva più nemmeno a trovare il pennello. La mia prima impressione di Calibre è stata un po’ così: caos puro.
Quando qualcuno compra un e-reader, tra le prime cose di cui ha bisogno, oltre a degli ebook, c’è anche un programma per convertirli da un formato all’altro. E visto che Calibre è il programma in grado di gestire il maggior numero di formati diversi in circolazione (oltre ad avere funzionalità aggiuntive come la rimozione dei DRM), di solito gli viene consigliato quello. Io stessa ho iniziato con Calibre. E fin da subito ho provato un grande fastidio nei suoi confronti.

Libreria di Calibre

Cosa sono tutte ‘ste opzioni, io volevo un programma che mi convertisse gli ebook!

Calibre è un programma gratuito e open source per la conversione e la gestione degli ebook; se non lo conoscete potete scaricarlo qui. Ha una sua libreria, in cui conserva tutti i libri che avete convertito, in tutti i formati. Se si collega l’e-reader al computer può comunicare direttamente con esso, visualizzando gli ebook che contiene, o mandandogli quelli appena convertiti.
Ma data la vastità delle opzioni e la caoticità dell’interfaccia, possono passare settimane prima che vi accorgiate delle sue reali potenzialità. O anche solo a farlo funzionare decentemente. Diamo quindi un’occhiata alle sue funzioni principali, dall’acquisizione dell’e-book al micro-management della vostra libreria.

1-1. Importazione in Calibre e rimozione (eventuale) del DRM
Poniamo caso che avete appena acquistato un e-book da Amazon e l’avete scaricato sul vostro Kindle for PC (o Kindle for Mac se usate un Mac). Una volta scaricati, i file appariranno nella cartella in cui vengono archiviati tutti i file del Kindle – su Windows 7, ad esempio, si trova in Documenti/My Kindle Content. Potrebbe essere un po’ ostico trovare il libro che volete, perché i file hanno come nome una stringa di lettere e numeri apparentemente senza senso, ma se li mettete in ordine per ultima modifica il libro che cercate dovrebbe essere il file AZW o AZW3 più recente. Apritelo con Calibre per importarlo automaticamente.
Ora, il libro in questione potrebbe avere un DRM. Se non sapete di cosa stia parlando, la sigla significa Digital Rights Management e indica dei programmi di protezione che di fatto – semplificando – impediscono la modifica e la duplicazione dell’e-book. I DRM sono una seccatura, e la prima cosa che vorrete fare quando ne beccherete uno sarà di levarlo subito. In questa pagina il Duca spiegava come togliere i DRM dagli ebook. Questo tutorial ormai ha quasi quattro anni, ed è un po’ complesso da eseguire; già nei primi commenti si proponevano sistemi più semplici per farlo, e i plugin di Calibre sono quello che ho trovato più comodi. Uno dei vantaggi dell’open source infatti è che gli utenti possono creare delle estensioni di un programma per aumentarne le funzioni, ed è proprio quanto viene fatto con Calibre. Questi plugin si possono scaricare qui, e qui invece si trovano le istruzioni (in inglese, accontentatevi, sono facili) su come installarli.

Consiglio per i niubbi: quando scaricate fil da siti del genere state attenti che questa casellina NON sia barrata, o vi si impesta il browser.

Una volta installati basta aprire un file con Calibre e, se tutto funziona come si deve, il plugin lo pulirà direttamente da tutti i DRM. Non dovrete fare nient’altro.
Con il tempo i DRM vengono modificati per resistere ai pirati, ma anche gli strumenti contro i DRM vengono man mano aggiornati per aggirare le nuove protezioni. Se un plugin non vi funziona controllate di aver installato l’ultima versione disponibile in giro – quella che è linkata risale all’ottobre 2013.

1-2. Conversione in altri formati
Ora che il file è dentro Calibre ed è stato ‘ripulito’ di eventuali DRM, potrete convertirlo in tutti i formati che volete. Ma è proprio questa parte gestionale a ricordarmi dell’amico smanettone: se si vuole convertire un ebook da un formato a un altro, bisogna seguire tutta una serie di passaggi obbligati che moltiplicheranno il numero di file in circolazione. Riprendendo l’esempio iniziale, diciamo che abbiamo un AZW o AZW3 (il comune formato dei file Kindle) e di volerlo convertire in ePub. I passaggi sono i seguenti:
– Quando si apre il file con Calibre e il programma importa il file nella sua libreria, di fatto lo copia da un’altra parte (numero di file per lo stesso libro: 2).
– Poi si converte il file nel formato desiderato con l’omonima funzione nel menu orizzontale, Convert Books (numero di file per lo stesso libro: 3). La conversione stessa non è proprio immediata, ci sono un sacco di opzioni che non si capisce bene cosa facciano. Io uso solo Metadati, Visualizzazione e Imposta pagina.

La funzione Metadati è importante, perché nell’e-reader il vostro ebook verrà classificato in base a quelli e non in base al nome del file che leggete nel computer. Assicuratevi quindi che almeno titolo e autore siano corretti, e se non c’è una copertina magari aggiungetela.

Dettaglio della conversione di un file. Se si salta questo passaggio si rischia che i caratteri non si ridimensionino come si deve.

Screenshot della funzione Visualizzazione, questa finestra serve per decidere le dimensioni dei caratteri.

La funzione Visualizzazione permette di impostare le varie dimensioni di carattere che si vedranno nell’ebook; se non li impostate, non potrete ingrandire i caratteri una volta aperto il file nell’ereader. Per impostare i valori standard cliccate sulla bacchetta magica e poi nel riquadro “usare valori predefiniti”.
Infine conviene anche personalizzare il formato di input e di output con la funzione Imposta Pagina: ci sono vari modelli di e-reader disponibili, basta scegliere il vostro nella finestra in alto e quello di origine in quella in basso.

Dopo aver convertito il file, per poterlo utilizzare bisogna poi cercarlo nella libreria di Calibre (nel mio computer, per esempio, si trova nei Documenti).
Oppure lo si può esportare da Calibre, che quindi farà un’altra copia del libro in entrambi i formati, creando una cartella per l’autore che contiene tutti i formati che possiede, e la copertina (numero di file per lo stesso libro: 5). Oppure si può esportarlo direttamente nell’e-reader, se è collegato (numero di file per lo stesso libro: 4).
Certo, non costa poi molta fatica cancellare tutti i file in più, ma un programma non invasivo non mi costringerebbe a fare tutte queste copie fin dall’inizio.

Screenshot04 Metadati

Per questo una volta usavo questo programma per convertire gli ebook

1-3. Gestione degli e-book
Cosa succede se invece si accetta che Calibre gestisca tutti i libri? Succede che se si vuole ritrovare un libro nel ciarpame bisogna modificare i metadati di quasi tutti i libri che si possiedono. Alcuni libri infatti hanno i tag messi a caso, alcuni hanno l’autore con il cognome prima del nome (e quindi verranno classificati separatamente da quelli con il nome prima del cognome); alcuni hanno già delle valutazioni (in stelline) nei metadati, valutazioni con cui ovviamente non concordi; quelli peggiori sono quelli piratati male, che non hanno nei metadati nemmeno titolo e autore.
Io per anni sono stata incostante: a volte ho messo i libri su Calibre, a volte li ho catalogati in cartelle divise per genere letterario, altre ancora li ho messi sull’e-reader, cancellandoli dal computer. Vi lascio immaginare com’era facile trovarne uno quando mi serviva.

Però ho deciso di diventare una persona meglio. Mi sono messa d’impegno e ho messo in ordine tutti i metadati dei libri che avevo dentro Calibre, sull’e-reader e sul computer.
Alla fine ci ho messo solo qualche ora (che avrei dovuto usare per scrivere questo articolo, ma la strada per la personameglità è davvero molto lunga e perigliosa!). Ho anche scoperto che il mio e-reader Sony creava delle collezioni in base ai tag messi nei metadati del libro. Ordinando i metadati dei libri su Calibre mi sono trovata con dei libri ordinati anche nell’e-reader, chi l’avrebbe mai detto!

Ecco tutto ordinato come si deve. Ci ho messo soli mille anni.

Ecco tutto ordinato come si deve. Ci ho messo solo mille anni.

Oltre al fatto che se ti decidi a usarlo per mettere in ordine i libri funziona davvero, Calibre sa fare tante altre cose. Alcune funzionalità sono state implementate solo di recente, altre sono sempre state lì, ma non ho mai saputo di poterle usare…

2. Sigil e Calibre: Editing di ePub e AZW3
Sigil è il fratellino di Calibre. E’ un editor che lavora esclusivamente su ePub, e permette di modificarne il codice per dargli l’impaginazione che si preferisce. Come Calibre, è gratis e opensource; si può scaricare qui.
Tradizionalmente, si convertiva l’e-book originale in ePub con Calibre e quindi lo si apriva con Sigil per editarlo. Dalla versione 1.15 (rilasciata a Dicembre 2013), tuttavia, è presente in Calibre un editor simile a quello di Sigil, che rende di fatto il secondo programma superfluo. Inoltre, se Sigil si occupava solo del formato ePub, Calibre lavora sia con ePub che con AZW3, il formato Kindle.
Entrambi i programmi permettono di modificare direttamente il file, anche nelle parti più da smanettoni come la TOC (Table Of Contents, l’indice dell’ebook) e il css. Sia gli ePub che gli AZW3 sono praticamente dei file html un po’ complessi: se si conoscono i codici html e css, anche solo a grandi linee, con questi editor si possono modificare gli ebook in grande dettaglio.

Sigil, comunque, ha per il momento ancora un paio di vantaggi su Calibre.
Anche se non si conoscono html e css, con Sigil si può interagire direttamente con l’anteprima del testo, e usare gli strumenti dell’editor per modificare buona parte dell’ebook andando ‘a occhio’. L’editor di Calibre, invece, al momento permette solo modifiche al codice, non fa toccare direttamente l’anteprima. Obbiettivamente è un difetto, spero che in futuro implementino anche quest’opzione.
Sigil inoltre non è un programma invasivo come Calibre, edita i file ePub senza creare duplicati o copie: apri, modifichi, salvi, chiudi. Mi piace molto il modo pulito in cui funziona, una volta usavo solo questo programma come editor degli ePub. Anche perché era l’unico.

Paragone-Calibre-Sigil

Screenshot di Sigil, sopra, e dell’editor di Calibre, sotto.

Questo invece è come funziona l'editor di Calibre con lo stesso libro, ma in formato AZW3, per il Kindle. È luuungo, ma a parte questo non noto differenze.

Questo invece è come funziona l’editor di Calibre con lo stesso libro, ma in formato AZW3, per il Kindle. Oltre al fatto che è luuuuuungo, non noto particolari differenze.

Purtroppo questo febbraio nel blog del programmatore di Sigil è apparsa la notizia che il programma non verrà più aggiornato. Non sto dicendo che Sigil sia improvvisamente morto – per ora funziona ancora bene – ma che è destinato a rimanere indietro, mentre la comunità dietro Calibre continuerà a migliorare il servizio negli anni a venire. Stando così le cose, probabilmente in futuro mi abituerò a usare Calibre anche per questo.
Questo post fa parte della categoria “Risorse”, e come tale sarà inserito nell’omonimo menu sulla destra, così che all’occorrenza possiate trovarlo subito.

Tabella riassuntiva: Calibre

Calibre fa un sacco di cose! Ma non è molto intuitivo da usare.
Permette di catalogare gli ebook secondo molti criteri. Se non si sta attenti crea un sacco di doppioni.
Ha dei plugin per togliere i DRM.
Ha un editor diretto per i file epub.
Ha un editor diretto per i file AZW3.