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La polemica su Gone Home

Gone HomeDefinire cosa sia un “gioco”, in modo da poter dire ‘questo è un gioco, questo non lo è’, è come voler definire cosa sia “arte”: un esercizio di masturbazione mentale di utilità limitata. Persone diverse cercano da un videogioco un tipo di appagamento diverso; ha quindi molto più senso capire a che tipo di persone possa piacere un determinato tipo di gioco, e se quel determinato gioco nello specifico soddisfi le sue promesse iniziali.
Giochi dall’interattività molto limitata e una componente narrativa molto forte, come The Stanley Parable o To The Moon, riaccendono sistematicamente la polemica se siano catalogabili come videogiochi o come (da dire rigorosamente con una smorfia e il mignolo alzato) dei “walking simulator”. Ma nessun titolo sembra aver polarizzato l’audience – anche, in parte, nei commenti a vecchi articoli del blog – come Gone Home.

In questo piccolo gioco indie del 2013 di The Fullbright Company, ambientato nei primi anni ’90, vestiamo i panni di una ragazza che nel cuore della notte, dopo un anno di assenza, torna nella casa dei genitori. Si aspetta di trovare mamma, papà e sorella minore ad accoglierla, ma la casa è vuota. Che è successo? Esplorando le varie stanze, analizzando gli oggetti, leggendo lettere e diari, il giocatore a poco a poco capirà come stiano le cose e quale rottura si sia consumata tra queste mura. E a quel punto, dopo circa due-quattro ore, il gioco finisce. That’s it. Non ci sono combattimenti, o enigmi, o prove di abilità di qualunque tipo – solo, si guida il proprio avatar nella graduale scoperta della trama.
E’ un videogioco? Un’esperienza interattiva? Non mi interessa. Più interessante è invece guardare alle diverse reazioni di chi l’ha provato: alcuni giocatori lo hanno amato alla follia, altri si sono annoiati dall’inizio alla fine, ad altri ancora è proprio girato il cazzo. Io stesso ho esitato a lungo prima di decidermi a provarlo (e poi aspettavo lo sconto su Steam!). Shamus Young, critico videoludico e programmatore a tempo perso, di cui seguo regolarmente il blog (che trovate anche nel Blogroll), alcuni mesi fa ha scritto un articolo per la sua rubrica sul sito The Escapist in cui cerca di far luce sulle diverse reazioni dietro Gone Home. Le sue conclusioni sono molto interessanti, e rispecchiano le sensazioni che ho avuto giocando.

Gone Home Family Screenshot

La famiglia felice protagonista di Gone Home. Mulino Bianco spostati.

Vi riporto lo stralcio più interessante dell’articolo (grassetto mio). Potete leggerlo per intero a questo link, ma fate attenzione se non avete mai provato Gone Home perché, soprattutto nella seconda pagina, la trama del gioco viene ampiamente spoilerata.

The gameplay consists of picking up objects and examining them. The game is filled with hundreds of exquisitely detailed curiosities from the past. As I played I was constantly sucked back to my teenage years, remembering things that I owned and used on a daily basis. Things that I haven’t seen or thought about in the two decades since. The game showed me all sorts of teenage artifacts. Not just inert objects, but precise re-creations that captured all the little details of an object. The way a cassette tape case flops open. The sound a locker makes when you shut it. The dog-eared edges of a book cover decorated with ball-point pens.

When we talk about a time period, we tend to focus on the big, obvious superficial details. If we were talking about the 80’s, then you can probably name all the fixtures of that time period even if you were born in the following decade: Big hair. New-wave music. Polo shirts with popped collars. Neon colors. But that’s not really “The 80’s”. That’s movie shorthand for “The 80’s”. That’s the Disney theme park version. Actually nailing down a time period in a way that resonates with people who remember it is supremely difficult, and Gone Home nails it with countless small details: Furniture, wallpaper, technology, calendar art, fridge magnets, fad-driven book genres, food packaging, carpeting, teenage lingo, lighting fixtures, kitchen appliances, and countless other things we don’t think of as being part of a time period until we see the old contrasted with the new.

[…] Gone Home blew my mind. I graduated from high school in 1990, so I’m just a little older than the protagonist of Gone Home. Half the objects in the game activated some gut-punch memory for me – some strange moment of temporal vertigo where I suddenly saw the past clearly while at the same time realizing just how far away it was.

This is why the sneering charge of “walking simulator” always rubbed me the wrong way. If I transported you back to the past and let you revisit your childhood bedroom, I hope that later you would have something more to say about it than, “I walked around a room.” The interactivity in this game was integral to the experience. Gone Home couldn’t work in any other medium. It would be torture to read page after page of detailed item descriptions, and even the best description couldn’t evoke the flood of memories the way Gone Home does when you pick up a random item and turn it over to see some forgotten detail on the base. All of that magic would be lost if you moved it to a passive media, for the same reason that watching vacation slideshows isn’t as stimulating as going on the vacation.

The thing is, if you’re not part of the narrow age band that this game is dealing with, then none of this will mean anything to you. If you’re younger or older than me by more than a decade in either direction, then this stuff probably looks like random meaningless yard sale crap to you.

Gone Home screenshot

Se eravate giovani negli anni ’90, quel poster sulla sinistra vi scalderà il cuore.

Io sono parecchio più giovane di Shamus, e sono nato proprio alla fine degli anni ’80. Tuttavia, una buona metà degli oggetti rappresentati nel gioco mi parlavano. Le custodie trasparenti delle audiocassette vergini, con il titolo scritto con l’Uniposca nero su carta plastificata bianca, e quel loro modo di aprirsi e penzolare inerti (da piccolo adoravo registrare cassette, e il mio piccolo registratore portatile si sarebbe poi evoluto in una videocamera economica); il poster di X-Files (fra i dieci e i tredici anni ho sviluppato un ossessione per X-Files); le orribili copertine sbiadite dei libri del padre (Dio mio, le copertine dei libri negli anni ’80 e ’90… l’orrore, l’orrore); stringere in mano le cassettine dei giochi del Super Nintendo.
Non ho vissuto l’epifania di chi negli anni ’80 c’è cresciuto, eppure – vuoi perché molte cose sono arrivate in Italia anni dopo che negli States, vuoi perché casa mia era piena di reperti vintage che hanno in qualche modo colorato la mia infanzia – capisco cosa intende dire Shamus. Gone Home non è stata l’esperienza che è stata per lui, ma sono stato toccato da più di una scintilla di meraviglia e di nostalgia. In questo senso, Gone Home è un gioco sincero – e bisogna riconoscergli, prima ancora che la cura nel raccontare la sua storia, la maniacalità nella ricerca e riproduzione dei dettagli del suo mondo.

Rispetto al piccolo piacere di viaggiare indietro nel tempo ed essere circondati dalla nostra infanzia, la storia rimane in secondo piano. E’ una storia semplice, in sé abbastanza banale. Ma questo, ancora una volta, dimostra la vecchia teoria che non è tanto importante cosa si racconta – soprattutto nella narrativa mainstream, “slice-of-life” – quanto come lo si racconta: e la storia di Gone Home, che noi ricostruiamo passo a passo raccogliendo pezzi di diario (che attivano il voice-over della sorella), rinvenendo foto e oggetti di nostra sorella e dei nostri genitori, è raccontata molto bene.
Certo, noi arriviamo a conflitto già consumato, e tutto quello che è successo ci viene raccontato e non mostrato; ma la casa, gli oggetti, l’arredamento, tutto ci parla di questo conflitto e ci immerge nel suo mondo. Ne diventiamo partecipi, e finiamo per provare empatia per i vari personaggi della vicenda – a patto che entriamo in empatia con la casa (che appunto è l’unica cosa che ci è mostrata). Questo è a mio avviso il discrimine per godersi non solo l’esperienza di gioco in sé, ma la storia, i personaggi, l’atmosfera: se riusciamo a entrare in empatia con la casa, con il mondo di fine anni ’80 di Gone Home. Se questo meccanismo non si innesca, il gioco sarà vissuto come una noia mortale come una storia insulsa. Se funziona, si diventa come me, che sentivo il bisogno di rimettere ogni oggetto al suo posto dopo averlo analizzato perché se no era come “vandalizzare” la casa.

Gone Home screenshot

Ma vogliamo parlare delle cassettine NTSC del Super Nintendo? Da non confondersi con quelle PAL, che invece avevano i bordi lisci e gli angoli superiori smussati (e ovviamente un ingresso completamente diverso).

Questo gioco si rivolge a una specifica nicchia demografica.
Se sentite di farne parte – almeno parzialmente, come il sottoscritto – acquistatelo, magari aspettando un periodo di saldi; perché comprarlo a 7,99 Euro può comunque aiutare a entrare nel giusto stato d’animo rispetto a un acquisto a prezzo pieno (che è di 19,99 Euro!). Tutti gli altri, lascino perdere.
Ciò che rimane oggettivo, aldilà dell’appartenere o meno al target ideale dell’opera, è che Gone Home è un bel gioco, un gioco fatto bene, con un’anima e qualcosa da dire. Com’è oggettivo che Gone Home, assieme agli altri “walking simulator” di questa generazione, potrebbe stare aprendo il mondo dei giochi indie a nuove formule di gioco, a nuovi design. Un altro tassello che ci allontana dal purgatorio dei Call of Duty e degli Assassin’s CreedAnd that’s that.