I Consigli del Lunedì #33: The Years of Rice and Salt

The Years of Rice and SaltAutore: Kim Stanley Robinson
Titolo italiano: Gli anni del riso e del sale
Genere: Ucronia / Fantasy / Literary Fiction
Tipo: Romanzo

Anno: 2002
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 660 ca.

Difficoltà in inglese: **

A brave life, fought against the odds? Go back as a dog! A dogged life, persisting despite all? Go back as a mule, go back as a worm! That’s the way things work.

Tamerlano è vecchio e malato, ma ha posato i suoi occhi a ovest, verso l’Europa. Accampato a nord del Mar Nero, ha mandato in avanscoperta i suoi luogotenenti Bold e Psin con alcuni uomini, con l’ordine di non tornare prima di una settimana. Ma quando varcano i Carpazi, i due si trovano davanti uno spettacolo spaventoso: l’Europa è morta. Città deserte, scheletri nelle strade e nelle cattedrali, un silenzio assoluto; la peste si è portata via tutti i Cristiani. E adesso anche loro sono contagiati. E quanto Tamerlano dà l’ordine di ucciderli e bruciare tutte le loro cose, Bold è costretto a fuggire nell’unico luogo dove non sarà inseguito – in quel che rimane dell’Europa.
Ma gli altri continenti sono stati risparmiati dalla Peste Nera; e ora che gli europei non esistono più, il destino del mondo è nelle loro mani. Intrappolato nell’infinito ciclo delle reincarnazioni, alla disperata ricerca degli altri membri del suo jati e di un senso nell’esistenza, Bold assisterà vita dopo vita al futuro di questo mondo – all’espansione oceanica dell’Impero Cinese, al ripopolamento del Mediterraneo da parte degli stati musulmani del Nordafrica, alla nascita della scienza moderna, alle conquiste e alle guerre del futuro. Ma ogni volta, al termine della sua vita, Bold è ricondotto nel bardo, l’aldilà buddista, dove gli dèi giudicano la condotta di ogni uomo prima di indirizzarlo verso la sua nuova incarnazione. E il giudizio è sempre negativo…

The Years of Rice and Salt è un’opera mastodontica e descriverla non è facile. Si potrebbe dire innanzitutto che è un’ucronia, che parte da questa domanda: come sarebbe cambiata la Storia, se la grande peste del 1348 avesse spazzato via il 99% della popolazione europea e non solo un terzo? Partendo dal 1405, l’anno della morte di Tamerlano, il romanzo ci racconta attraverso dieci epoche successive  questa storia alternativa in cui gli Europei spariscono dal grande gioco della conquista del mondo. Ciascuna ha i propri personaggi ed è ambientata in un luogo e in una civiltà differente tra quelle rimaste a spartirsi il globo: l’Impero Cinese, l’India, i khanati dell’Asia centrale, i principati islamici dell’Ovest, il Nuovo Mondo.
Il filo conduttore delle varie storie è rappresentato da un manipolo di personaggi, identificati dalle stesse iniziali, che ad ogni epoca si reincarnano e tornano nel mondo. Appartengono alla stessa famiglia karmica – lo jati – e le loro vite sono destinate a intrecciarsi in ogni incarnazione. Ma chi approcciasse il libro di Robinson aspettandosi semplicemente un’ucronia potrebbe rimanere deluso, perché The Years of Rice and Salt è anche filosofia romanzata con un pesante tocco literary. Qual’è il senso della storia, come si può portare la giustizia nel mondo, si può creare un mondo migliore, come si può essere felici? Queste domande sono il nucleo del romanzo; domande a cui i membri dello jati tenteranno di rispondere, vita dopo vita, nella speranza che migliorando il mondo miglioreranno anche il loro karma.

Black Plague

Ehm…

Uno sguardo approfondito
Lo svantaggio proprio di romanzi con un arco narrativo di secoli è quello che, cambiando di continuo personaggi, setting e sottotrame, è più difficile affezionarsi ai protagonisti, e ad ogni nuovo episodio bisogna ricominciare da capo il processo di immersione. Robinson trova una soluzione efficace con l’idea delle reincarnazioni: l’eterno ritorno degli stessi personaggi, con le stesse iniziali e gli stessi tratti caratteriali di base, danno al lettore un elemento di immediata familiarità al lettore, qualcosa a cui aggrapparsi fin dalle prime righe di ogni nuova “epoca” del romanzo.
I personaggi identificati dalla B sono sempre dei sognatori, dal carattere mite e in armonia con il mondo; quelli identificati dalla K sono aggressivi, anarchici, dei leader nati; quelli identificati dalla I sono delle menti geniali, scienziati, medici, teologi; quelli identificati dalla S degli individui capricciosi e maligni; e così via. Diventa anche un gioco: scoprire ad ogni nuova fase narrativa chi sono B e K (uomo o donna? Ricchi o poveri? Cinesi, indiani o musulmani, o cosa? Eccetera), come faranno a incontrarsi, che tipo di rapporto costruiranno, se riusciranno a migliorare finalmente il loro destino.

Peccato che poi Robinson rovini tutto con la sua prosa raccontata e distante. Descrivere lo stile del romanzo non è facile, perché non rimane sempre uguale ma cambia a seconda dell’epoca in cui è ambientato. Ad esempio, la voce narrante della prima parte è un generico “noi”, e tutti i capitoli finiscono con frasi tipo questa: “We do not know which way Psin went, or what happened to him; but as for Bold, you can find out in the next chapter”, oppure: “We are as shocked as you are by this development, and don’t know what happened next, but no doubt the next chapter will tell us.” Alcune parti, come la prima o la sesta, frammischiano alla narrazione brani di poesia che fanno da commento all’azione. Una delle ultime parti del romanzo presenta periodi lunghi e spesso contorti, e una buona dose di surrealismo, nello stile di una certa tradizione modernista del primo Novecento.
In generale, si può dire che lo stile diventi più immersivo e mostrato mano a mano che dalle epoche passate ci si avvicina a quella contemporanea. O almeno, questo forse nelle intenzioni teoriche dell’autore – perché in realtà, aldilà di tutte queste variazioni, c’è una tendenza costante nella prosa di tutto il romanzo: l’abuso allucinante di raccontato. Il narratore di Robinson è un onnisciente che vede tutto da grande distanza; all’occorrenza si avvicina ai suoi personaggi e ci mostra delle scene che li coinvolgono, ma è anche in grado di andare avanti per cinque o dieci o più pagine consecutive a raccontare mesi o anni di storia di una persona o di un intero popolo. Interi capitoli possono essere anche dei puri raccontati con la telecamera molto distaccata dall’azione e dai protagonisti, magari nella forma di rapidi (e anestetici) riassunti di anni e anni di vita.

Firanja

WHAT THE FUCK?

Un sacco di queste pagine sono puramente dedicate al worldbuilding. Avete presente quegli scrittori di fantasy che si perdono, innamorati della loro ambientazione, a descriverci le catene montuose che torreggiano a nord e la ragnatela di fiumi che si allarga a est, nonché le complicate trame politiche che si intessono a ovest? Robinson ha il vantaggio di parlarci del mondo reale e di mostrarci un’evoluzione plausibile della Storia, ma in più occasioni la noia regna sovrana e viene da chiedersi quanto più bello sarebbe stato se tutto questo background ci fosse stato presentato attraverso i pov dei suoi abitanti. Alla fin fine interessa poco cosa abbiamo fatto le tribù afghane in un momento cruciale, o come un piccolo stato del sud dell’India possa riuscire ad acquisire l’egemonia sul subcontinente, se non abbiamo delle storie umane individuali su cui catalizzare la nostra attenzione le nostre emozioni. Alcune parti sembrano scritte di fretta, altre completamente inutili; in particolare i primi capitoli della seconda parte, The Haj in the Heart, potevano essere tranquillamente eliminati (o almeno, riscritti completamente), e metteranno a dura prova più di un lettore.
C’è anche una certa incongruenza nella gestione del punto di vista. Se da un lato troviamo una distinzione netta tra narratore e protagonisti di ogni arco narrativo, dall’altro la percezione di quello che accade è fortemente filtrata dalla loro cultura. Il mondo di Bold il mongolo è un universo che brulica di spiriti e di divinità; in più occasioni gli sembra di vedere gli asura, o dragoni che nuotano nell’acqua, e quando osserva qualcuno morire, vede lo spirito abbandonare il suo corpo. Tempeste e cataclismi sono il chiaro segnale di intervento divino. Sezioni successive del romanzo, invece, mostrano un approccio progressivamente più razionalista, e anche il bardo cambia aspetto e senso a seconda dell’epoca. Il che è molto carino; ma allora non si capisce perché Robinson non abbia utilizzato una narrazione più ancorata ai personaggi-pov.

La qualità dei personaggi è variabile. Alcune parti dedicano molto spazio ai rispettivi protagonisti: nella prima, il rapporto misto di fiducia e incomprensione tra il fuggiasco e pacato Bold e lo spietato negretto Kyu, che dopo essere stato evirato su ordine del grand’ammiraglio Zheng He per farne un eunuco giura eterna vendetta contro l’Impero Cinese; nella quarta, l’empatia tra l’alchimista Khalid e l’ottico Iwang, tra le fucine di Samarcanda, nella comune ricerca della verità che li porterà a scoprire le leggi della caduta dei gravi e molto altro ancora; nella nona, il desiderio di emancipazione della giovane Budur, che fugge dall’harem familiare per studiare in una grande città universitaria ed entra nell’orbita della fervente femminista Kirana. Altre parti pongono invece i personaggi in secondo piano, e li usano chiaramente come scusa per mostrare l’ambientazione. Le prime sono sicuramente le sezioni del libro più riuscite e piacevoli da leggere; ma anche in queste non ci si deve aspettare una grande evoluzione dei personaggi o una vera tridimensionalità. Anzi, il fatto che i tratti psicologici essenziali dei protagonisti rimangano immutati attraverso le epoche è una delle pietre angolari del romanzo – ciò che muta ed evolve è la Storia attorno a loro.
Insomma, è molto chiaro che questo libro è orientato a un certo tipo di lettori, quelli che amano la storia e vedere come e perché le civiltà umane si trasformino nel corso dei secoli. In questo senso The Years of Rice and Salt regala veri orgasmi concettuali, mostrando un interplay tra le potenze mondiali completamente diverso da quello che c’è stato nella nostra realtà ma che appare comunque credibile. Questa grande varietà di archi narrativi permette inoltre a Robinson di scrivere tante storie diverse: c’è la storia d’avventura esotica, con il valoroso capitano che scopre il Nuovo Mondo ma deve tornare per raccontarlo; la storia di ricerca spirituale, con protagonista un sufi che viaggia per il mondo alla ricerca del suo posto ideale; e poi la storia della nascita del metodo scientifico, dominata da invenzioni e intuizioni geniali, e il romanzo di guerra in trincea, pervaso di pessimismo e rassegnazione, e il romanzo di formazione studentesco, e così via.

Allah-u-snackbar

E se il mondo fosse dominato da loro?

Si vede che Robinson ha studiato per anni le cose di cui parla; ed è davvero impressionante vedere la mole di roba su cui si è documentato, dato che nel corso del romanzo si passa con nonchalance dalle scuole buddiste tibetane alla storia dinastica cinese, dal sufismo sotto l’Impero Mogol alle scoperte seicentesce sull’ottica e la meccanica, dal Corano e gli hadit al linguaggio di alcune tribù dei laghi dei nativi americani.
Forse troppo – in effetti, Robinson tanto sembra preparato sulla storia e sulle culture del passato, quanto impreparato sui principi dell’economia e della politica moderna. Mi sembra che emerga, soprattutto nelle ultime parti del romanzo, una certa ingenuità, una certa visione idealistica della Storia, come se i rapporti tra le nazioni e le forme di governo dipendessero dagli ideali, dalla cultura, dalle passioni (di espansione e dominio, piuttosto che di solidarietà, o di sete di conoscenza). La storia di Robinson è largamente fatta da politici, diplomatici, filosofi e scienziati; mentre vengono lasciate parecchio in ombra (se non per occasionali riferimenti raccontati) le industrie, le banche, le multinazionali, insomma tutte quelle forze che muovono i soldi nella società moderna.
Sicché non ho potuto fare a meno di leggere le ultime parti del libro con sopracciglia progressivamente inarcate. Robinson non commette veri e propri errori di buonismo, e in effetti il mondo che si presenta alla fine del romanzo ha una sua plausibilità e si sarebbe davvero potuto realizzare – ma sembra che l’autore adduca tutte le ragioni sbagliate.

A questo errore nella visione della Storia, che è oggettivo (anche se se ne potrebbe discutere), si aggiunge un piccolo fastidio personale. In The Years of Rice and Salt c’è una forte tensione morale; il filo conduttore dell’opera è il tentativo dei membri dello jati protagonista di migliorare il mondo in cui vivono, per poter in questo modo migliorare la loro stessa esistenza e il loro karma. Dalla prima all’ultima epoca, la loro è una lotta costante (e più o meno consapevole, a seconda dei momenti) per diventare padroni delle loro vite e non schiavi, per smettere di soffrire vita dopo vita portare finalmente un po’ di giustizia in un mondo che sembra non averne.
In teoria questa sarebbe una figata di filo conduttore, ma in realtà riduce di molto la varietà delle situazioni del romanzo: si tratta quasi sempre di persone che vogliono fare del bene, che ricercano la strada giusta, l’illuminazione, eccetera. Il contesto cambia, ma il nocciolo della faccenda è spesso lo stesso. E le possibilità di conflitto e di ambiguità morale sono ridotte drasticamente. L’ultima parte del romanzo, in particolare, nel suo tentativo di tirare le somme è banale, noiosotta e priva di tensione o anche solo azione. Peccato – perché altre sezioni del romanzo sono davvero spettacolari.

Buddha cat

L’aspirazione finale dei protagonisti del romanzo.

Mi viene naturale confrontare questo romanzo con gli altri due romanzi sulla Storia e l’evoluzione della società di cui ho parlato nel blog, Last and First Men di Stapledon e A Canticle for Leibowitz di Miller. Tutti e tre sono romanzi che parlano dell’umanità, e tutti e tre sono romanzi con una forte carica morale. The Years of Rice and Salt è sicuramente meglio del primo: benché meno ambizioso nelle premesse (un migliaio d’anni di storia alternativa invece che due miliardi di anni di storia futura), è più creativo e vario nelle situazioni, e appassiona di più, perché filtra almeno in parte la sua ‘grande storia’ attraverso scene, personaggi e vicende individuali. A mio avviso rimane però nettamente inferiore al secondo: è scritto peggio – soprattutto per la mole estrema di raccontato – i suoi personaggi sono meno ambigui e meno vividi rispetto a quelli di Miller.
The Years of Rice and Salt è un romanzo grandioso, fitto di sense of wonder ucronico e unico nel suo genere. Non ho mai letto un’alternative history così vasta, sia spazialmente che temporalmente. Dico solo che avrebbe potuto essere strutturata e scritta molto meglio, e allora sarebbe forse diventato il mio libro preferito in assoluto. Rimane una lettura che ricorderò per sempre, e che è degna di entrare a giusto titolo nella mia Top 20. Gli appassionati di Storia gli diano almeno una chance.

Dove si trova?
The Years of Rice and Salt si trova in lingua originale sia su BookFinder che su Library Genesis (ma in questo caso bisogna digitare “Years of Rice and Salt”, senza l’articolo). In italiano non mi risulta sia mai stato tradotto.

Chi devo ringraziare?
Ho sentito parlare per la prima volta di Stanley Robinson da Giovanni, assiduo commentatore del blog, che diversi anni fa mi piantò davanti agli occhi Red Mars (il primo capitolo della famosa Mars Trilogy, che non ho ancora letto). All’epoca non degnai il libro di più di uno sguardo, ma quando da qualche parte su questo stesso blog si è citato di nuovo Robinson la scena mi si è riaffacciata alla memoria. Da lì mi sono informato sull’autore e mi sono imbattuto in The Years of Rice and Salt: è stato amore a prima vista.
E naturalmente devo ringraziare la dolce Siò, che ancora una volta mi ha fatto da beta-tester leggendo il libro prima di me…

Bardo

No, non quel bardo. L’altro.

Qualche estratto
Considerata la mole e l’estrema varietà di situazioni di questo romanzo, ho scelto – non odiatemi – la bellezza di quattro estratti (d’altronde mica siete costretti a leggerli). Non sono inseriti in ordine cronologico ma piuttosto “tematico”.
I primi due sono esempi del mostrato di Stanley Robinson e di pov abbastanza vicino al protagonista della scena: il primo estratto viene da una delle scene iniziali del libro e mostra l’avanguardia timuride che penetra nell’Europa desertificata dalla peste; il secondo, molto più avanti, mostra i tentativi dell’alchimista-scienziato kazako Khalid mentre tenta di compiacere il Khan suo signore con le più recenti scoperte belliche. La differenza stilistica dei due brani dà anche un’idea del graduale cambiamento che c’è nella prosa di Robinson man mano che si avanza di epoca.
Il terzo estratto, ancora più avanti nella storia, è un tipico esempio di pessimo raccontato di Robinson, con un secolo circa di storia politica del subcontinente indiano riassunto in pochi paragrafi e messo in bocca al Kerala di Travancore. L’ultimo estratto, infine, mostra l’anima più fantasy e literary dell’opera: è una delle scene di “chiusura sezione” ambientate nel mondo dell’aldilà, il bardo.

1.
They came to an empty bridge and crossed it, hooves thwocking the planks. Now they came upon some wooden buildings with thatched roofs. But no fires, no lantern light. They moved on. More buildings appeared through the trees, but still no people. The dark land was empty.
Psin urged them on, and more buildings stood on each side of the widening road. They followed a turn out of the hills onto a plain, and before them lay a black silent city. No lights, no voices; only the wind, rubbing branches together over sheeting surfaces of the big black flowing river. The city was empty.
Of course we are reborn many times. We fill our bodies like air in bubbles, and when the bubbles pop we puff away into the bardo, wandering until we are blown into some new life, somewhere back in the world. This knowledge had often been a comfort to Bold as he stumbled exhausted over battlefields in the aftermath, the ground littered with broken bodies like empty coats.
But it was different to come on a town where there had been no battle, and find everyone there already dead. Long dead; bodies dried; in the dusk and moonlight they could see the gleam of exposed bones, scattered by wolves and crows. Bold repeated the Heart Sutra to himself. “Form is emptiness, emptiness form. Gone, gone, gone beyond, gone altogether beyond. O, what an Awakening! All hail!”
[…]
They came into a paved central square near the river, and stopped before the great stone building. It was huge. Many of the local people had come to it to die. Their lamasery, no doubt, but roofless, open to the sky—unfinished business. As if these people had only come to religion in their last days; but too late; the place was a boneyard. Gone, gone, gone beyond, gone altogether beyond. Nothing moved, and it occurred to Bold that the pass in the mountains they had ridden through had perhaps been the wrong one, the one to that other west which is the land of the dead. For an instant he remembered something, a brief glimpse of another life—a town much smaller than this one, a village wiped out by some great rush over their heads, sending them all to the bardo together. Hours in a room, waiting for death; this was why he so often felt he recognized the people he met. Their existences were a shared fate.
“Plague,” Psin said. “Let’s get out of here.”
His eyes glinted as he looked at Bold, his face was hard; he looked like one of the stone officers in the imperial tombs.
Bold shuddered. “I wonder why they didn’t leave,” he said.
“Maybe there was nowhere to go.”

2.
“Now see, we have determined that at the distances a gun can cast a ball, it cannot shoot straight. The balls are tumbling through the air, and they can spin off in any direction, and they do.”
“Surely air cannot offer any significant resistance to iron,” Nadir said, sweeping a hand in illustration.
“Only a little resistance, it is true, but consider that the ball passes through more than two li of air. Think of air as a kind of thinned water. It certainly has an effect. We can see this better with light wooden balls of the same size, thrown by hand so you can still see their movement. We will throw into the wind, and you can see how the balls dart this way and that.”
Bahram and Paxtakor palmed the light wooden balls off, and they veered into the wind like bats.
“But this is absurd!” the Khan said. “Cannonballs are much heavier, they cut through the wind like knives through butter!”
Khalid nodded. “Very true, great Khan. We only use these wooden balls to exaggerate an effect that must act on any object, be it heavy as lead.”
“Or gold,” Sayyed Abdul Aziz joked.
“Or gold. In that case the cannonballs veer only slightly, but over the great distances they are cast, it becomes significant. And so one can never say exactly what the balls will hit.”
“This must ever be true,” Nadir said.
Khalid waved his stump, oblivious for the moment of how it looked. “We can reduce the effect quite a great deal. See how the wooden balls fly if they are cast with a spin to them.”
Bahram and Paxtakor threw the balsam balls with a final pull of the fingertips to impart a spin to them. Though some of these balls curved in flight, they went farther and faster than the palmed balls had. Bahram hit an archery target with five throws in a row, which pleased him greatly.
“The spin stabilizes their flight through the wind,” Khalid explained. “They are still pushed by the wind, of course. That cannot be avoided. But they no longer dart unexpectedly when they are caught on the face by a wind. It is the same effect you get by fletching arrows to spin.”
“So you propose to fletch cannonballs?” the Khan inquired with a guffaw.
“Not exactly, your Highness, but yes, in effect. To try to get the same kind of spin. We have tried two different methods to achieve this. One is to cut grooves into the balls. But this means the balls fly much less far. Another is to cut the grooves into the inside of the gun barrel, making a long spiral down the barrel, only a turn or a bit less down the whole barrel’s length. This makes the balls leave the gun with a spin.”
Khalid had his men drag out a smaller cannon. A ball was fired from it, and the ball tracked down by the helpers standing by, then marked with a red flag. It was farther away than the bigger gun’s ball, though not by much.
” It is not distance so much as accuracy that would be improved,” Khalid explained. “The balls would always fly straight. We are working up tables that would enable one to choose the gunpowder by type and weight, and weigh the balls, and thus, with the same cannons, of course, always send the balls precisely where one wanted to.”
“Interesting,” Nadir said.
Sayyed Abdul Aziz Khan called Nadir to his side. “We’re going back to the palace,” said, and led his retinue to the horses.
“But not that interesting,” Nadir said to Khalid. “Try again.”

The Scientific Method

La scoperta del metodo scientifico.

3.
Later, over tea scented with delicate perfumes, the Kerala sat in repose and spoke with Ismail. He heard all Ismail could tell him of Sultan Selim the Third, and then he told Ismail the history of Travancore, his eyes never leaving Ismail’s face.
“Our struggle to throw off the yoke of the Mughals began long ago with Shivaji, who called himself Lord of the Universe, and invented modern warfare. Shivaji used every method possible to free India. Once he called the aid of a giant Deccan lizard to help him climb the cliffs guarding the Fortress of the Lion. Another time he was surrounded by the Bijapuri army, commanded by the great Mughal general Afzal Khan, and after a siege Shivaji offered to surrender to Afzal Khan in person, and appeared before that man clad only in a cloth shirt, that nevertheless concealed a scorpion tail dagger; and the fingers of his hidden left hand were sheathed in razor-edged tiger claws. When he embraced Afzal Khan he slashed him to death before all, and on that signal his army set on the Mughals and defeated them.
“After that Alamgir attacked in earnest, and spent the last quarter century of his life reconquering the Deccan, at a cost of a hundred thousand lives per year. By the time he subdued the Deccan his empire was hollowed. Meanwhile there were other revolts against the Mughals to the northwest, among Sikhs, Afghans and the Safavid empire’s eastern subjects, as well as Rajputs, Bengalis, Tamils and so forth, all over India. They all had some success, and the Mughals, who had overtaxed for years, suffered a revolt of their own zamindars, and a general breakdown of their finances. Once Marathas and Rajputs and Sikhs were successfully established, they all instituted tax systems of their own, you see, and the Mughals got no more money from them, even if they still swore allegiance to Delhi.
“So things went poorly for the Mughals, especially here in the south. But even though the Marathas and Rajputs were both Hindu, they spoke different languages, and hardly knew each other, so they developed as rivals, and this lengthened the Mughals’ hold on mother India. In these end days the Nazim became premier to a khan completely lost to his harem and hookah, and this Nazim went south to form the principality that inspired our development of Travancore on a similar system.
“Then Nadir Shah crossed the Indus at the same ford used by Alexander the Great, and sacked Delhi, slaughtering thirty thousand and taking home a billion rupees of gold and jewels, and the Peacock Throne. With that the Mughals were finished.
“Marathas have been expanding their territory ever since, all the way into Bengal. But the Afghans freed themselves from the Safavids, and surged east all the way to Delhi, which they sacked also. When they withdrew the Sikhs were given control of the Punjab, for a tax of one-fifth of the harvests. After that the Pathans sacked Delhi yet once more, rampaging for an entire month in a city become nightmare. The last emperor with a Mughal title was blinded by a minor Afghan chieftain.
“After that a Marathan cavalry of thirty thousand marched on Delhi, picking up two hundred thousand Rajput volunteers as they moved north, and on the fateful field of Panipat, where India’s fate has so often been decided, they met an army of Afghan and ex-Mughal troops, in full jihad against the Hindus. The Muslims had the support of the local populace, and the great general Shah Abdali at their head, and in the battle a hundred thousand Marathas died, and thirty thousand were captured for ransom. But afterwards the Afghan soldiers tired of Delhi, and forced their khan to return to Kabul.
“The Marathas, however, were likewise broken. The Nazim’s successors secured the south, and the Sikhs took the Punjab, and the Bengalese Bengal and Assam. Down here we found the Sikhs to be our best allies. Their final guru declared their sacred writings to be the embodiment of the guru from that point on, and after that they prospered greatly, creating in effect a mighty wall between us and Islam. And the Sikhs taught us as well. They are a kind of mix of Hindu and Muslim, unusual in Indian history, and instructive. So they prospered, and learning from them, coordinating our efforts with them, we have prospered too.
“Then in my grandfather’s time a number of refugees from the Chinese conquest of Japan arrived in this region, Buddhists drawn to Lanka, the heart of Buddhism. Samurai, monks and sailors, very good sailors—they had sailed the great eastern ocean that they call the Dahai, in fact they sailed to us both by heading cast and by heading west.”
“Around the world?”
“Around. And they taught our shipbuilders much, and the Buddhist monasteries here were already centres of metalworking and mechanics, and ceramics. The local mathematicians brought calculation to full flower for use in navigation, gunnery and mechanics. All came together here in the great shipyards, and in our merchant and naval fleets were soon greater even than China’s. Which is a good thing, as the Chinese empire subdues more and more of the world—Korea, Japan, Mongolia, Turkestan, Annam and Siam, the islands in the Malay chain—the region we used to called Greater India, in fact. So we need our ships to protect us from that power. By sea we are safe, and down here, below the gnarled wildlands of the Deccan, we are not easily conquered by land. And Islam seems to have had its day in India, if not the whole of the west.”

4.
He blinked, or slept, and then he was in a vast court of judgment. The dais of the judge was on a broad deck, a plateau in a sea of clouds. The judge was a huge black-faced deity, sitting potbellied on the dais. Its hair was fire, burning wildly on its head. Behind it a black man held a pagoda roof that might have come straight out of the palace in Beijing. Above the roof floated a little seated Buddha, radiating calm. To his left and right were peaceful deities, standing with gifts in their arms; but these were all a great distance away, and not for him. The righteous dead were climbing long flying roads up to these gods. On the deck surrounding the dais, less fortunate dead were being hacked to pieces by demons, demons as black as the Lord of Death, but smaller and more agile. Below the deck more demons were torturing yet more souls. It was a busy scene and Kyu was annoyed. This is my judgment, and it’s like a morning abattoir! How am I supposed to concentrate?
A creature like a monkey approached him and raised a hand: “Judgment,” it said in a deep voice.
Bold’s prayer sounded in his mind, and Kyu realized that Bold and this monkey were related somehow. “Remember, whatever you suffer now is the result of your own karma,” Bold was saying. “It’s yours and no one else’s. Pray for mercy. A little white god and a little black demon will appear, and count out the white and black pebbles of your good and evil deeds.”
Indeed it was so. The white imp was pale as an egg, the black imp like onyx; and they were hoeing great piles of white and black stones into heaps, which to Kyu’s surprise appeared about equal in size. He could not remember doing any good deeds.
“You will be frightened, awed, terrified.”
I will not! These prayers were for a different kind of dead, for people like Bold.
“You will attempt to tell lies, saying I have not committed any evil deed.”
I will not say any such ridiculous thing.
Then the Lord of Death, up on its throne, suddenly took notice of Kyu, and despite himself Kyu flinched.
“Bring the mirror of karma,” the god said, grinning horribly. Its eyes were burning coals.
“Don’t be frightened,” Bold’s voice said inside him. “Don’t tell any lies, don’t be terrified, don’t fear the Lord of Death. The body you’re in now is only a mental body. You can’t die in the bardo, even if they hack you to pieces.”
Thanks, Kyu thought uneasily. That is such a comfort.
“Now comes the moment of judgment. Hold fast, think good thoughts; remember, all these events are your own hallucinations, and what life comes next depends on your thoughts now. In a single moment of time a great difference is created. Don’t be distracted when the six lights appear. Regard them all with compassion. Face the Lord of Death without fear.”
The black god held a mirror up with such practised accuracy that Kyu saw in the glass his own face, dark as the god’s. He saw that the face is the naked soul itself, always, and that his was as dark and dire as the Lord of Death’s. This was the moment of truth! And he had to concentrate on it, as Bold kept reminding him. And yet all the while the whole antic festival shouted and shrieked and clanged around him, every possible punishment or reward given out at once, and he couldn’t help it, he was annoyed.
[…] The white Arab face in the black forehead laughed and squeaked, “Condemned!” and the huge black face of the Lord of Death roared, “Condemned to hell!” It threw a rope around Kyu’s neck and dragged him off the dais. It cut off Kyu’s head, tore out his heart, pulled out his entrails, drank his blood, gnawed his bones; yet Kyu did not die. Body hacked to pieces, yet it revived. And it all began again. Intense pain throughout. Tortured by reality. Life is a thing of extreme reality; death also.
Ideas are planted in the mind of the child like seeds, and may grow to dominate the life completely.
The plea: I have done no evil.

Tabella riassuntiva

Mille anni di storia alternativa! Narratore onnisciente e “raccontato” a chili.
Grandissima varietà di storie, ambientazioni, culture. Ritmo altalenante e alcune parti inutili.
Un unico filo conduttore lungo tutti gli archi narrativi. Visione della Storia idealista e un po’ ingenua.
Alcuni personaggi sono molto affascinanti.

14 risposte a “I Consigli del Lunedì #33: The Years of Rice and Salt

  1. Mah, resto perplessa. Sembra molto interessante, ma ho un’idiosincrasia per la morale in narrativa. Credo che lo leggerò di sicuro, prima o poi, ma non presto. Magari tra qualche mese, quando avrò ripreso fiato @_@

    Piccola svista:
    >>Se da troviamo una distinzione netta tra narratore e protagonisti di ogni arco narrativo
    Se da UN LATO 😉

  2. Sono passati circa quattro o cinque anni da quando lessi Red Mars di Robinson, per cui potrei ricordarmi male, ma mi sembra che quel libro non condividesse i difetti di TYORAS segnalati in questa recensione – anzi. La storia s’impernia proprio sul conflitto che emerge tra gli idealisti che sognano di creare su Marte un mondo armonioso come la Terra non è mai stata, e altri “realisti” che vedono Marte come una colonia da sfruttare. Il narratore è in terza persona ma saldamente ancorato ai personaggi protagonisti delle varie sezioni. Parte del fascino del libro sta anche nella capacità di presentare man mano punti di vista discordanti, cosicché anche i “cattivi” diventano dei personaggi complessi le cui scelte possono apparire condivisibili. Ciò che mi ricordo di negativo era una parte esplorativa dedicata alla descrizione dei canyon marziani che mi aveva ricordato certi passaggi pallosi di Tolkien, e il personaggio dello psicologo secondo me pensato male. Su Green e Blue Mars non mi esprimo perché non li ho letti.
    Per chi fosse interessato, la Mars Trilogy è disponibile in formato ebook su Amazon dal mese scorso.

  3. Ho letto sia Years of Rice and Salt che l’intera Mars Trilogy di Robinson. Che dire, confermo in pieno la recensione, a malincuore anche le critiche, anche se il mio amore spassionato per questo libro ogni tanto tende a farmele sorvolare. La trilogia di Marte è, se possibile, ancora più grandiosa. C’è da dire che lo stile di Robinson (il raccontato, le 35 pagine di descrizione dalla montagna marziana etc.) si nota anche lì, ma credo in maniera molto meno esasperante di Years. C’è il vantaggio inoltre di avere personaggi e ambientazioni ricorrenti per tutti e tre i libri, eliminando la ‘noia’ da cambio di setting di cui si parlava. E si, anche lì si va verso una visione della storia futura molto idealistica, con Marte ‘giardino paradisiaco’ dove l’umanità riesce a eliminare le noie di una cultura Terrestre dedita non al proprio benessere, ma all’autodistruzione. Ma la grandezza dell’opera, e la capacità di quest’uomo di gestire argomenti così massivi, fanno a mio avviso cadere ogni critica. Sia Years che la trilogia sono da leggere. Prossimamente mi procurerò gli altri suoi libri, soprattutto il nuovo 2132 ambientato nello stesso universo ‘sci-fi’ della trilogia di Marte 🙂

  4. Nota informativa: “Gli anni del riso e del sale” è stato tradotto e ora riposa nella collana “Nuova Narrativa Newton”.

  5. @Tengi:

    Sembra molto interessante, ma ho un’idiosincrasia per la morale in narrativa.

    A chi lo dici.

    Piccola svista:
    >>Se da troviamo una distinzione netta tra narratore e protagonisti di ogni arco narrativo
    Se da UN LATO

    Thx, correggo!

    @Giovanni: La Mars Trilogy voglio leggerla di sicuro, ma considerato che la mole di ogni capitolo della trilogia è poco meno dell’intero Years of Rice and Salt, penso che aspetterò un po’ prima di provarmici^^’

    @Emanuele:

    Prossimamente mi procurerò gli altri suoi libri, soprattutto il nuovo 2132 ambientato nello stesso universo ‘sci-fi’ della trilogia di Marte

    Mh, dell’ultimo non ho sentito parlare particolarmente bene. Mi incuriosisce di più quello su Galileo… ma ne riparleremo dopo che avrò letto la trilogia di Marte.

    @Uriel:

    Nota informativa: “Gli anni del riso e del sale” è stato tradotto e ora riposa nella collana “Nuova Narrativa Newton”.

    Grazie dell’info!
    Ma con “riposa” intendi dire che riposa in pace? Perché l’edizione sembra essere stata pubblicata nel 2007 e né su Amazon né su IBS è attualmente disponibile. Temo che abbia fatto una brutta fine (tanto per cambiare).
    Comunque, quando sarò a Milano controllerò su Emule se si trova una versione piratata.

  6. Codesto è un libro dell’orrore. Un mondo dominato da negri, musulmani e cinesi è un mondo che merita di essere centrato in pieno da un asteroide grande come la luna.

  7. next! questo ha tutta l’aria di un mattone 😉

  8. @Zwe:

    Codesto è un libro dell’orrore. Un mondo dominato da negri, musulmani e cinesi è un mondo che merita di essere centrato in pieno da un asteroide grande come la luna.

    Sapevo che ti sarebbe piaciuto ^-^

  9. Non posso che concordare con il giudizio di Tapiroulant sullo stile di scrittura di Robinson e di questo libro in particolare. Sicuramente avrebbe potuto essere molto migliore, ma a me e’ comunque piaciuto molto, anche con i suoi difetti. Il perche’ lo avevo detto a suo tempo qui:

    http://www.webalice.it/michele.castellano/SF_Fantasy/mese/Maggio2007.html

  10. Ah, che bel libro *W* Rispetto a te sono meno drastica sulle critiche, sarà che a me un po’di raccontato non dispiace (tantopiù che io volevo sapere come si fosse arrivati alle situazioni politiche descritte).
    Secondo me sfiora il livello di Leibowitz (che è uno dei miei libri preferiti in assoluto!).
    Ovviamente ho downloaddato il ciclo di marte, anche se non trovo quello blu.

  11. @Coniglietto:

    Rispetto a te sono meno drastica sulle critiche, sarà che a me un po’di raccontato non dispiace (tantopiù che io volevo sapere come si fosse arrivati alle situazioni politiche descritte).

    Be’, non è mica necessario usare il raccontato per illustrare la situazione politica presente o quella passata… Certo, l’autore deve ingegnarsi di più e trovare qualche escamotage, ma le possibilità sono tantissime.
    Gli infodumponi sono la scelta dei pigri o degli ignoranti (dei trucchi della scrittura). Tutto ciò che c’è nel libro poteva essere introdotto in modi migliori, solo che Robinson non lo sapeva o non c’aveva voglia.

    Il che non toglie che spesso il materiale sia talmente interessante che ci si passa sopra.

    Secondo me sfiora il livello di Leibowitz (che è uno dei miei libri preferiti in assoluto!).

    Anche uno dei miei! ^-^

    Ovviamente ho downloaddato il ciclo di marte, anche se non trovo quello blu.

    Over here.

  12. bene, annuncio ufficialmente che ho cominciato a leggerlo e…

    rullo di tamburi

    non pare nemmeno tanto male, per intanto. Vediamo come prosegue.

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