Archivi del mese: aprile 2013

Il Cyberpunk era ieri

Google GlassQualche giorno fa, Google ha annunciato le specifiche tecniche del suo nuovo gioiellino, Google Glass.
Se qualcuno di voi non sapesse di cosa sto parlando, visualizzate questa immagine: uno smartphone che si indossa come un paio di occhiali. Definizione approssimata e un po’ imprecisa, ma rende l’idea. Google Glass funziona a comando vocale – attraverso istruzioni introdotte dalla frase “ok, glass”, come: “ok, glass, take a photo” – e permette di scattare foto o registrare video e condividerli immediatamente con i propri contatti, ma anche essere informati istantaneamente sul meteo o sugli orari degli aerei, o può fungere da GPS, e così via. Il tutto, concentrato in un dispositivo posto sopra e a lato dell’occhio.
Il Google Glass non è certo il primo tentativo di “computer oculare”; uno dei suoi illustri predecessori, l’EyeTap, risale nella sua prima versione addirittura ai primi anni ’80. Ma c’è una differenza. Il Google Glass non è solo roba sperimentale, per addetti ai lavori; è un prodotto per il mass market. L’uscita per il grande pubblico è prevista per la fine del 2013 o l’inizio del 2014, ma un numero limitato di Google Glass sarà consegnato a una cerchia selezionata di early adopters già in questi mesi. Molti di questi fortunati sono essi stessi sviluppatori, appositamente invitati da Google a provare il prodotto per poi pensare e realizzare delle app dedicate.

Insomma, di qui a poco il Google Glass dovrebbe entrare nelle nostre vite, che lo vogliamo o no. C’è già chi comincia a preoccuparsi dei pericoli per la privacy, come questo locale di Seattle; altri pensano che, nonostante le prime rassicurazioni di Google a riguardo, un giorno non lontano ci troveremo tempestati di banner pubblicitari agli angoli del campo visivo. Quanto a me, la prima e unica cosa che ho pensato la prima volta che ho sentito parlare, è stato: “Siamo nel cyberpunk!”. Conseguente scarica di adrenalina.


Un video vale più di mille parole.
Notare le furbizie da markettari, che mostrano per pochi secondi l’utilità del Glass in situazioni cruciali: il ciclista che dribbla il traffico, i ragazzi che stanno per perdere l’aereo, il padre con la figlia distante e le mani occupate dalla torta…

Pensiero ingenuo, certo. Me ne sono accorto poco dopo.
Perché se è vero che l’idea di un computer che interagisce con l’occhio è particolarmente iconica e ‘trasuda cyberpunk’ da ogni poro, è anche vero che è parecchio, ormai, che viviamo nel cyberpunk. Non saprei dire quando è cominciato. A istinto, direi che abbiamo iniziato a entrarci alla fine degli anni ’90, quando Internet e il 56k entravano nelle nostre case. Guardiamo Neuromante. Per quanto il romanzo sia molto bello, per quanto le sue atmosfere noir siano coinvolgenti, e molti dei concetti coinvolti fighi, quando si viene alla descrizione di Gibson della Rete, del cyberpsazio, viene da ridere. Quell’ambiente virtuale fatto di cubi, piramidi e filamenti di luce, in cui i navigatori si muovono con una sorta di corpo, oggi suona datato, ingenuo e improbabile. Internet è stato, credo, il primo ‘concetto’ in cui la realtà ha superato il cyberpunk.
E cos’è oggi un qualsiasi fighetto con lo smartphone e l’abbonamento Internet a 10 Euro al mese, se non un net-runner? Sempre connesso, capace di accedere all’istante a quasi qualsiasi informazione abbia bisogno. Anche il clima economico e sociale, dal 2008 in poi, sembra diventare sempre di più quello cinico e senza speranza, dominato da banche e supercorporation, del primo cyberpunk. Non siamo ancora arrivati a intonare inni aziendali o a chiudere i nostri dipendenti migliori in dei bunker, ma la dedizione e lo spirito di sacrificio richiesti agli aziendalisti verso la corporation ormai quasi ovunque ci si avvicinano molto.

Certo, non abbiamo ancora la modificazione biomeccanica di massa, né le cose più esotiche (lame che escono dalle braccia? Un mitragliatore al posto della mano?), ma la sensazione è che potremmo, se solo fosse legale e se ci fosse un mercato – guardate le protesi che siamo in grado di fare oggi. In generale, la tecnologia è stata meno invasiva e concettualmente ‘ambigua’ di come era stata dipinta dalla fantascienza – niente chip innestati nel cervello, ‘solo’ una stanghetta con le lenti finte che si appoggia sul naso – ma a livello di funzioni ci siamo arrivati. E dove non siamo arrivati, ci stiamo arrivando.
Senza dubbio il cyberpunk ha perso, almeno in parte, la sua magia; la magia di farti assaggiare cose che sono molto di là da venire. Quelle cose oggi non sono più il futuro, sono il presente, e in qualche caso – come l’Internet di Gibson – il passato.  E’ una cosa che abbiamo già visto accadere a larga parte dell’Hard SF della Golden Age – quella che ti racconta come l’umanità abbia fondato colonie pure sulle lune di Giove, ma poi interagisca con computer grandi come un hangar attraverso schede perforate. Oggi, con l’eccezione di pochi titoli selezionatissimi, ormai quella vecchia fantascienza non si legge più. Non c’è più motivo per leggerla.

Google Glass

Scopri nuovi modi di perseguitare i tuoi amici: con Google Glass.

Prendiamo Prelude to Space, del 1947. L’autore non è esattamente l’ultimo dei mongoloidi: è Arthur C. Clarke, uno dei Big Three della Golden Age, e in generale un genio visionario che ha popolato sia la narrativa fantastica che l’ingegneria spaziale e aeronautica di idee brillanti. Prelude to Space racconta, con un approccio quasi documentaristico e un po’ lirico, della preparazione del lancio del primo razzo che dovrà andare sulla Luna. Clarke racconta nel dettaglio come sia fatto questo razzo, come funzionino i suoi motori, come è stato pianificato il viaggio; le speranze di scienziati e ingegneri che lavorano al progetto, gli ostacoli sul loro cammino, fino al decollo della navicella.
Alla fine degli anni ’40, il progetto Apollo non esisteva nemmeno, e una cospicua parte della comunità scientifica era scettica circa la possibilità di andare sulla Luna. In quegli anni, un romanzo come Prelude to Space doveva essere qualcosa che faceva brillare gli occhi. Il libro riscosse anche grande successo di critica (la critica del settore, ovviamente). Ma oggi – oggi chi se lo incula più? Childhood’s End, Rendezvous with Rama, 2001: A Space Odyssey, questi sono i romanzi di Clarke che leggiamo ancora, e curiosamente sono quelli meno Hard e più fantasy. The Fountains of Paradise, anche, perché un ascensore orbitale ancora non ce l’abbiamo e forse non ce l’avremo mai. Che interesse può avere invece – se non un interesse storico, o da collezionista di Clarke – una storia tutta incentrata su come si fa a portare un razzo sulla Luna, se noi quel razzo ce l’abbiamo già portato?

Costruire un romanzo su nient’altro che un concetto o, ancora peggio, un’invenzione, è una delle strade più sicure per mettergli sopra una data di scadenza. Il che può anche andare bene, se uno sa cosa sta facendo, e soprattutto se non ha la fissa di vivere in eterno tipica dell’artista. Prendiamo Charles Stross e il suo Accelerando, un fix-up di racconti che immagina la storia futura dell’umanità a partire dal verificarsi (nella nostra epoca) di una singolarità tecnologica. L’argomento è affascinante e l’oggetto del libro di là da venire, eppure lo stile di Stross è un pout-pourri di slang contemporaneo e neologismi modellati su quest’ultimo:

Manfred holds out a hand, and they shake. His PDA discreetly swaps digital fingerprints, confirming that the hand belongs to Bob Franklin, a Research Triangle startup monkey with a VC track record, lately moving into micromachining and space technology. Franklin made his first million two decades ago, and now he’s a specialist in extropian investment fields.
Operating exclusively overseas these past five years, ever since the IRS got medieval about trying to suture the sucking chest wound of the federal budget deficit.

PDA, VC, blog, per non parlare di altri termini che alludono ai sistemi cloud, e via dicendo. Stross non parla semplicemente di queste cose, usa proprio i loro nomi. Ma se le cose restano, i nomi cambiano; e tra dieci anni chissà se sapremo ancora cos’è un PDA, o se FedEx ci sarà ancora, o se diremo ancora la parola “blog”. E la faccenda si fa particolarmente divertente se consideriamo la parola PDA, che indicava i vecchi “palmari” e che già oggi è considerata piuttosto obsoleta, sorpassata dalle ultime generazioni di smartphone. Un romanzo che parla di futuro e di singolarità, che utilizza terminologie che già oggi sono vecchie: fa ridere.
Eppure Stross lo sapeva. Secondo Stross, una storia di fantascienza (o almeno, le sue storie) dev’essere scritta per l’oggi, deve essere goduta negli anni in cui è stata pubblicata, e avrà necessariamente una life-span breve, diciamo di una decina d’anni. Non è pensata per durare di più, men che meno in eterno. Dal 2005 ad oggi ne sono passati otto, e infatti Accelerando è già visibilmente invecchiato.

Singolarità tecnologica

Se ci pensate, la singolarità tecnologica è l’unica cosa che potrebbe sconfiggere il komunismo. Riflettiamo.

I casi di Prelude to Space e Accelerando ci dicono però qualcosa. Il fatto che il romanzo di Clarke parli di qualcosa di sorpassato è solo una faccia della medaglia. L’altra è che Clarke – l’ho detto più e più volte – scrive da cani. La debolezza del suo stile, dei suoi personaggi, del ritmo delle sue storie, sono fatti su cui critici e appassionati sono d’accordo in modo abbastanza unanime. I romanzi di Clarke si reggono unicamente sull’idea, sull’elemento speculativo, e sul sense of wonder che questo genera; il che significa che una volta che l’idea non ha più appeal, una volta che sulla Luna ci siamo andati davvero, la sua storia non ha più valore.
Allo stesso modo, Accelerando prende idee ancora oggi pregne di sense of wonder ma le affoga in un gergo che è prepotentemente ancorato a un’epoca, un’epoca che se ne sta andando. E questo stridore ci butta fuori dalla storia, e renderà Accelerando, forse, del tutto illeggibile tra cinque o dieci anni (già adesso è un bel pugno in faccia, e non solo per il gergo).

Una dimostrazione? Prendiamo un terzo romanzo – Make Room! Make Room! di Harry Harrison1. L’ho scelto proprio per l’assurdità, oggi manifesta, della sua premessa. Harrison, che scrive nel 1966, parte da questa considerazione: se il genere umano continuasse a moltiplicarsi al ritmo della sua epoca, come sarebbe il mondo al volgere del terzo millennio? Il romanzo è ambientato nella New York del 1999 – una città di quindici milioni di abitanti, immersa nella miseria e nella sporcizia, dove le auto non vanno più, non c’è più cibo, né acqua corrente nelle case, non c’è lavoro, la gente si ammazza per una crosta di pane e si vive accalcati sui marciapiedi, nei tunnel della metropolitana, sotto i cavalcavia, ovunque.
Visto con gli occhi di oggi, Make Room! Make Room! è ingenuo da impazzire. Non solo perché non si è nemmeno lontanamente avverato, ma perché le premesse sono doppiamente sbagliate: non si tiene conto del fatto che nel nostro sistema economico-produttivo, fino al completo esaurimento delle risorse non rinnovabili, la crescita della capacità produttiva globale è più rapida della crescita della popolazione; né si considera che fattori come l’innalzamento del livello culturale, la diffusione di contraccettivi a basso costo e la cultura individualistica orientata alla carriera sono tutte barriere che scoraggiano naturalmente la tendenza ad avere figli. Eppure è un romanzo che, letto ancora oggi, coinvolge. Commuove, fa disperare, ti innalza e ti abbassa con l’umore dei protagonisti. Ci interessa il destino di Andy, poliziotto malpagato e costretto a fare turni doppi per la carenza di personale, e che aggirandosi per le strade della sua New York cerca un senso alla propria vita.

Prelude to Space - Accelerando - Make Room! Make Room!

I tre romanzi incriminati.

La differenza, tanto per cambiare, la fa lo stile. La prosa di Harrison è ben lontana dalla perfezione e ha tante ingenuità (dal POV ballerino a stralci di raccontato), ma riesce ad avvicinarti ai suoi personaggi, a immergerti nel suo mondo sporco e deprimente, nonostante sia un 1999 che palesemente non è accaduto e non poteva accadere. Prelude to Space, invece, ha solo il concetto, e quindi non è più interessante.
Io, del resto, uso un trucco mentale un po’ da borderline: ogni volta che leggo della vecchia fantascienza, faccio finta che sia un’ucronia. Uno strano mondo in cui la tecnologia si è evoluta in modo differente, e quindi un tipo può andare a trovare sua figlia su Marte con un viaggio di tre ore, ma poi quando fa una chiamata interurbana deve chiamare il centralino. Se la storia è appassionante, se è scritta bene, se segue i principi della narrativa, è godibile anche se è invecchiata male. Questa, purtroppo, è una cosa che molti grandi della fantascienza degli anni ’30-’60 non hanno mai capito, e che alcuni continuano a non capire.

Lo stesso ragionamento vale per il Cyberpunk. Neuromante lo leggiamo ancora oggi, e ci piace ancora oggi – io l’ho letto solo l’anno scorso! – per lo stesso motivo. Per la sporcizia delle strade in cui si aggira Case, per il suo cinismo, per il ricatto con cui Armitage e l’IA Wintermute lo costringono a lavorare per loro in una missione assurda, per le cose che Sally ha dovuto fare per potersi permettere tutti i suoi innesti da ninja urbano, per la morsa delle supercorporation, per il senso di libertà e di rivalsa degli hacker – e magari a qualcuno piaceranno anche quei cubotti di luce virtuale che fanno molto Tron e quindi sono vintage. Il buon cyberpunk – quelli che sono anche bei romanzi e non solo bella speculative fiction – sopravviverà perché è affascinante a prescindere dal realizzarsi o meno del mondo che immagina2. Perché un libro immersivo ti fa dimenticare per qualche ora qual’è il mondo vero, e puoi davvero vivere come se Google non stesse per lanciare Google Glass e i motori di ricerca fossero piramidi filamentose immerse nel cyberspazio. Mi sento ottimista sul futuro del genere, o almeno su quelle poche opere (non solo libri) che gli danno dignità.
Ciò detto, Google Glass è figo. Per carità, farà diventare i mongoloidi ancora più mongoloidi, e sarà invaso di social network da ogni lato. Ma in teoria è figo. Datemi pure dell’hipster ma è così.


Un’interpretazione un po’ più libera di come potrebbe essere la vita con Google Glass. C’è pure qualcosina di inquietante.

(1) Make Room! Make Room! è candidato a diventare uno dei prossimi Consigli; ma se la gioca, tra gli altri, anche con un altro romanzo dello stesso Harrison, quindi non ho ancora deciso cosa farò.Torna su

(2) Un esempio di cyberpunk che a mio avviso continuerà ad essere interessante anche tra dieci, venti e trent’anni è un romanzo di Sterling su cui sto preparando un articolo… Aspettate e vedrete!Torna su

Gli Autopubblicati #07: Soldati a Vapore

Soldati a vaporeAutore: Diego Ferrara
Genere: Guerra / Science Fiction / Steampunk
Tipo: Novella

Anno: 2013
Pagine: 105
Editore: Narcissus

Siamo nel 1848, e il Regno d’Italia, guidato da casa Savoia, è in guerra contro l’Austria. Il fronte corre lungo il corso del fiume Mincio, da dove i crauti pianificano la conquista di Milano.
Il soldato semplice Basile serve da un anno nella Squadra Sei delle meccanizzate, e si è già fatto un nome come inetto e lavativo. Sotto lo sguardo sprezzante del tenente Bregoli, Basile trascorre i suoi giorni tra pattugliamenti, assalti notturni e lunghe attese.
Ma come tutti i suoi compagni di reggimento, ha un privilegio: è un pilota di mec. Quando c’è un’operazione importante, può salire a bordo del suo Manzetti, un esoscheletro di tre metri capace, con le sue braccia meccaniche, di sollevare una camionetta e scaraventarla a metri di dstanza. Ma anche i crauti hanno i loro mec – i Krebs, esoscheletri muniti di due lunghi tentacoli che terminano in pinze capaci di aprirti in due come una lattina. E stanno preparando qualcosa di ancora più grosso, aldilà del fiume, qualcosa che richiederà lo spiegamento di tutta la squadra e non solo…

Soldati a Vapore era una delle opere steampunk presentate allo SteamCamp, ed è stato nel programma dell’evento che ne ho sentito parlare per la prima volta. Ma allo SteamCamp sono arrivato preparato: ispirato da questa microrecensione di Taotor, che aveva fatto da betareader, l’ho letto circa una settimana prima dell’evento. E’ un libro che si legge in una giornata. La storia è semplice, e segue alcune settimane della vita della recluta Basile tra i Pulcini della meccanizzata, culminando in un all-out attack contro le linee nemiche.
La storia editoriale di questo libro è interessante. L’editing è stato seguito dall’Agenzia Duca, quella del buon Duchino (ma l’ho scoperto solo alla fine, leggendo i “titoli di coda”), e poi l’autore si è autopubblicato sulla piattaforma Narcissus. Ho poi incontrato Ferrara allo SteamCamp, come ho raccontato nell’ultimo post. Qui ho scoperto che lui è l’uomo dietro ben due dei racconti dell’antologia steampunk organizzata dal Duca (ma mai pubblicata nella versione definitiva): Il Lunasil e Piloti e Nobiltà. Quest’ultimo, in particolare, era a mio avviso il più bello nella rosa dei candidati per il primo posto nel concorso – anche se poi non ha vinto.
Tutto questo per dire che Ferrara è uno che bazzica lo steampunk da qualche anno. Sarà riuscito a produrre una stand-alone di qualità?

Savoia

Loro ci guideranno verso un radioso avvenire. Avanti Savoia!

Uno sguardo approfondito
Primo elemento positivo: Ferrara è bravo a mostrare. E’ attraverso gli occhi e la voce del protagonista, che narra in prima persona, che assistiamo a tutte le vicende della squadra sei. Il mesetto circa in cui si svolge la vicenda è quindi scandito da una serie di scene vivide – il pattugliamento lungo il corso del Mincio, in cerca di crauti, oppure la sortita notturna aldilà delle basse acque del fiume per sorprendere un convoglio di camion che trasportano vettovaglie.
Questo approccio permette a Ferrara di aggirare il problema dell’infodump, che poteva essere spinoso in un’ucronia. Gli elementi peculiari dell’ambientazione – come i Manzetti, i Wanderer, le corazzate Savoia – sono quasi sempre mostrati in azione piuttosto che spiegati a tavolino, e conditi dai commenti della voce narrante; e anche in quelle poche digressioni che in teoria sarebbero ascrivibili all’infodump (come l’incipit sulla zuppa di cervelli), il tono del protagonista gli dà un tono naturale. In ogni caso, Ferrara ci risparmia lezioncine e spiegoni: la situazione politica non ci è mai spiegata, né si scopre come e perché sia avvenuta la divergenza tecnologica rispetto al nostro mondo. La situazione globale, semplicemente, non è importante – importa solo la storia tragicomica della squadra sei.

Basile è un protagonista simpatico; è il classico soldataccio pigro, che vorrebbe solo andarsene in licenza e invece finisce sempre in punizione – forse l’unico tratto poco credibile è che parla in modo troppo “pulito” (non dice parolacce, non fa granché il villano neanche con i suoi parigrado). Non è un pilota di mec eccezionale, e non lo vedremo mai compiere gesta eroiche – e già questo lo distingue dalla massa di protagonisti amorfi di tanta narrativa di genere. Nelle scene di combattimento svolge soprattutto un ruolo di spettatore, il che permette a Ferrara di farcele vedere in modo vivido senza alterare il punto di vista.
Le scene d’azione – che occupano una buona metà del libro – sono riuscite a metà. Da una parte, Ferrara riesce a mantenere l’interesse del lettore inserendo una grande varietà di situazioni diverse, dall’agguato nel buio al combattimento sul fiume, dalla fuga rocambolesca tra i boschi al rissone – non troviamo quelle serie infinite e tediose di scazzottate tutte uguali alla Marstenheim o Barbarian Beast Bitches of the Badlands. Inoltre il pov molto focalizzato fa sì che il lettore si senta più coinvolto. Dall’altro lato, l’anonimato tanto dei nemici – soldataglia o piloti di Krebs tutti uguali – quanto degli alleati, unito al fatto di sapere che il protagonista non morirà, sortiscono l’effetto opposto. Il bilancio finale mi sembra positivo, ma assai migliorabile.

Guerra in trincea

Mi hanno preso molto di più le altre scene, quella di vita quotidiana. C’è una naturalezza, una spontaneità, nei discorsi tra soldati, negli atteggiamenti, che suona sincera, e che mi ha ricordato storie di guerra tragicomiche come Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu o La grande guerra di Monicelli (senza arrivare alla bellezza di nessuno dei due, s’intende, ma l’atmosfera è un po’ quella). Dirò di più: Soldati a vapore ha poco dello steampunk tradizionale – sia quello gonzo-historical alla Infernal Devices, sia quello serio e politico alla The Difference Engine – e assomiglia di più alle “storie del fronte” della Prima Guerra Mondiale. Ci sono mitragliatrici, camionette, c’è la guerra di posizione; gli italiani hanno il solito esercito un po’ straccione, regolarmente a corto di mezzi, e la tronfia retorica militarista; e i soldati sono gente cinica che sa di essere trattata come carne da macello, e che prega la sua buona stella di tornare tutto intero dal prossimo assalto.
Certo, anche su questo fronte si poteva fare di più, molto di più. Alcuni scambi di battute tra soldati suonano goffi, deboli; il loro linguaggio mi sembra troppo poco crudo, troppo da brava gente di città, e anche se fanno battutacce spesso mi sembravano smorzate, poco incisive. Alcune espressioni sono carine ma sembrano fuori posto nel 1848; ad esempio la battuta di un soldato che difende la sua bella: «Giovanna ha smesso con quel lavoro… e comunque lo faceva solo per dare una mano in famiglia. A tempo determinato, chiaro?». I comprimari sono tutti uguali o quasi. Cordino, Ballarin, Lorenzoni – i loro nomi tendono a confondersi, nessuno ha un tratto particolare che li renda memorabili. E dire che sarebbe bastato poco sforzo e poco spazio per renderli più vividi; e quindi, eventualmente, di coinvolgere di più il lettore in caso uno di loro dovesse morire sul fronte. L’unica nota di merito va al tenente Bregoli che, benché sia in fondo il solito stereotipo dell’ufficiale virile e cazzuto, dell’Uomo-Che-Non-Deve-Chiedere-Mai, è incisivo, dice battute stupende e rimarrà vivido nella mia memoria a distanza di mesi e forse anni1.

Pur con questi limiti, Soldati a vapore è una storia carina che si legge con piacere. La prosa è sempre sul pezzo e il ritmo è rapido, non ci sono parole di troppo. Forse si potrebbe rimproverare a Ferrara la mancanza di ambizione: Soldati a vapore è esattamente quello che vi aspettate che sia, una storia di soldataglia e mech, di battaglie e ritirate. Non ci sono colpi di scena o cambi di registro o altro d’inaspettato – what you see is what you get. Che può anche essere un bene; dipende dal gusto del lettore.
In conclusione, la novella di Ferrara è un’opera divertente, che per approccio e argomenti piacerà forse più agli appassionati di racconti di guerra che non ai fan dello steampunk, e che per ambientazione mi ha ricordato più la Prima Guerra Mondiale che non i classici dello steampunk. Il che va benissimo: la varietà è un bene in un genere ancora così giovane e inesplorato (considerato il numero esiguo di opere meritevoli che ha prodotto). Vale sicuramente la pena provarlo, anche considerato il basso prezzo a cui è venduto. E se non siete convinti, provate prima a dare un’occhiata ai due racconti steampunk di Ferrara, andandovi a recuperare la prima (e attualmente unica) versione, non editata, dell’Antologia steampunk del Duca2.

Prima Guerra Mondiale

Le piccole gioie della vita al fronte

Ciò detto, due parole di merito su Ferrara. Avendolo incontrato, ho avuto l’impressione di una persona vogliosa di imparare e di migliorare, e che non si sente “arrivato” perché ha pubblicato qualcosa. Nutro quindi la speranza che possa diventare uno scrittore ancora migliore e produrre cose anche più belle, se ne troverà il tempo e la voglia. E spero di poter mettere le mani, prima o poi, su un romanzo vero e proprio scritto da lui.
Un ultimo “complimenti” a Okamis (Alessandro Canella), che ha realizzato a tempo record la copertina del libro. E’ un piccolo capolavoro, che rispecchia in pieno le sue convinzioni sul modo di fare le copertine più volte espresso sul suo blog.

Dove si trova?
Soldati a Vapore esiste solo in digitale. E’ distribuito su Ultima Books alla cifra irrisoria di 2,49 Euro – una cifra decisamente adeguata al formato novella, forse pure un pelo basso (si poteva fare 2,99 e lo si sarebbe comprato uguale).

Qualche estratto
Il primo estratto viene dall’introduzione, in cui la voce narrante del protagonista spiega all’ignaro lettore la preparazione di una delikatessen del reparto, il brodo di cervello di crauto; il brano è lo stesso proposto da Taotor, ma ho scelto delle parti diverse. Il secondo estratto viene dalla prima vera scena di combattimento del libro – così potete farvi un’idea di come l’autore gestisca le scene d’azione.

1.
La procedura è semplice: si prende un crauto – vivo è molto meglio, ma se proprio non si trova va bene anche morto – e mentre quello piange e strilla nein! Bitte nicht! gli appoggi il bordo di un bossolo da 120 sopra l’orecchio e cominci a menare forte con la mazza da cinque chili. C’è un punto preciso (Costa sa benissimo dov’è) che se lo prendi, con due o tre colpi ben piazzati la calotta cranica del crauto salta via come un tappo di prosecco. Il cervello, sotto, è grigio e bitorzoluto. Bisogna scalzarlo con un grosso cucchiaio e poi tagliare. A questo punto viene fuori parecchio sangue, ma tanto nessuno ci fa caso: stanno tutti lì incantati a vedere quella roba grigia nelle mani di Costa che con aria cerimoniosa la ficca nell’Elmo Potorio, a bagno nella mistura di grappa e olio lubrificante. Stando alle parole del tenente Bregoli, l’olio del Manzetti dovrebbe essere il fottuto sangue nero delle nostre vene. L’Elmo Potorio per noi ha lo stesso valore di un artefatto magico. È la nostra Cornucopia. È il primo pickelhaube catturato dai Pulcini da quando il battaglione è stato assegnato alla zona del Mincio, nel febbraio scorso. Ormai possiede la sua aura di leggenda. Quando non serve per bere il brodo, Costa lo tiene appeso al posto d’onore dietro il banco, insieme a un sacco di altra roba rastrellata sul campo di battaglia: croci di ferro, sciabole, stivali, il cranio di un colonnello crauto di cui non ricordo mai il nome (comunque il cranio è stato ribattezzato Joseph, in onore del sommo bastardo gran comandante di tutti i crauti). Sono cimeli che la compagnia conserva a memoria della sua gloria imperitura. C’è perfino un folgoratore da Wanderer intero, anche se un po’ carbonizzato, che punta il suo naso mortale verso il soffitto. Costa lo adopera come rastrelliera per i bicchieri.
Per finire il discorso, si lascia il cervello del crauto a macerare per mezz’ora, finché non ha preso quel gusto odioso di culo di cane. Un sorso a testa, dice a quel punto Costa (come se ci fosse qualcuno così coglione da scolarselo tutto!) e l’Elmo Potorio passa di mano in mano finché non è stato svuotato. Una volta finito, si butta via il cervello, poi l’Elmo viene sciacquato, asciugato con cura e torna al suo posto dietro il banco.
È così che si fa il brodo da noialtri delle meccanizzate.
Se lo racconti, la gente non ci crede.

Steampunk Tron

2.
Il rombo dei camion fa vibrare il terreno come un principio di terremoto. Compaiono due fari gemelli sormontati da una chioma di vapore ondeggiante. Dietro il primo, si sgrana la colonna dei camion. Procedono serrati nell’oscurità, il muso di uno incollato al cassone dell’altro.
L’inizio dell’attacco è annunciato da uno schianto nel bosco. Il Manzetti di Lorenzoni balza fuori dalla selva, manda zampe all’aria un Krebs e si lancia contro il primo camion centrandolo di spalla nel blocco motore. Il camion sbanda, rotola giù per il pendio e si va a schiantare tra gli alberi. Lorenzoni si ferma in mezzo alla strada, pianta un ginocchio a terra e offre la spalla massiccia del Manzetti al secondo camion. Quest’ultimo non può fare altro che centrarlo: si solleva e poi ricade in un enorme sussulto, uno dei due autisti sfonda il parabrezza e sorvola la testa di Lorenzoni. Gli altri camion si schiantano uno dentro l’altro a fisarmonica. Strilli di paura e dolore si levano nei cassoni.
Corrono fuori anche i Manzetti di Garoglia e De Gregorio, afferrano un camion ciascuno, lo alzano sopra la testa e lo scagliano oltre le fronde degli alberi. Prima di avere il tempo di ripetere l’operazione, tuttavia, i Krebs si gettano su di loro mulinando i tentacoli.
Autisti e passeggeri non hanno ancora avuto il tempo di capire cos’è successo quando apriamo il fuoco. Il sergente Paganin punta la mitragliera sul camion che ha di fronte e lascia partire una raffica. I proiettili si sgranano fluidi dai serbatoi dorsali del suo ESP e disegnano graffi scintillanti nel buio. Sul fianco del camion si apre una fila di fori, le grida si moltiplicano. Poi si mette a sparare anche il resto della squadra e in un baleno sembra arrivato il giorno dell’Apocalisse. Le mitragliere ad alta pressione vomitano una cascata di metallo che attraversa il telo sottile del camion e fa strage dei coscritti ammassati. Lorenzoni solleva il camion che gli si è schiantato contro e lo schiaccia sul camion successivo. Le lamiere si piegano e dai lati schizzano zampilli di sangue. La notte è piena di strilli e richiami. Metà della colonna nemica è già fuori combattimento. Un Krebs discende il pendio a lunghi balzi e si piazza davanti ai soldati in esoscheletro leggero. L’ESP, contro le pinze dei Krebs, offre la stessa protezione di una vestaglia di seta. I miei compagni gli sparano addosso, ma è come se tirassero con le cerbottane: i proiettili scivolano sulla corazza rinforzata senza produrre altro che un sonoro frastuono come di centinaia di martellate.
Il Krebs stacca la testa a uno dei nostri con una pinza, ne impala un secondo con una zampa, bucandogli il torace da parte a parte, lo solleva e lo lancia via nell’oscurità. Gli altri cercano rifugio tra i cespugli ma il Krebs li insegue continuando a uccidere. I coscritti sopravvissuti cominciano a sciamare giù dai camion e ci sono scambi di mitragliate. Una manciata di pallottole mi fischia vicino alla testa. Guardo verso il sergente in cerca d’indicazioni e non lo vedo più. Sparito nella bolgia. I due soldati alla mia destra sono inginocchiati e impegnati a sforacchiare i camion, come ci è stato ordinato. A venti metri, più in giù lungo la colonna, uno dei nostri Manzetti si sta difendendo dall’attacco di tre Krebs, in un groviglio di tentacoli. I rumori fanno sembrare i mec creature viventi. I getti di vapore degli sfiati somigliano a sibili e i cigolii dei perni metallici sono grida di rabbia. Lorenzoni risale la colonna schiantando i camion uno dopo l’altro, e spazzando con le braccia i coscritti, finché un Krebs non gli salta addosso.

Tabella riassuntiva

La vita di un soldato al fronte al tempo dei mech! Scene di combattimento sottosfruttate.
Voce narrante divertente e dal pov saldo. Comprimari tutti uguali e registro non sempre credibile.
Narrazione onesta e dritta al sodo. Plain and simple, pure troppo (forse)
In conclusione: PROMOSSO

(1) Uno dei pezzi più belli del libro sono le parole che Bregoli dice a Basile dopo un certo attacco. Poiché siamo in piena area spoiler le metto in bianco, ma non potevo tacere:

«Basile,» dice.
Non so cosa gli frulla in testa, ma un sorriso conciliatorio dovrebbe andar bene. «Signor tenente… ce l’ha fatta anche lei, eh?»
Un’impercettibile piega di disgusto gli arcua le labbra, sotto i baffi scuri. «Basile, tu sei così lavativo che se anche all’inferno fossero a corto di personale, non ti prenderebbero comunque. Non creperai mai, nemmanco se ti ci impegnassi, e dubito che tu e la parola impegno vi troverete mai sullo stesso continente insieme, fors’anche sullo stesso pianeta. Te ne arrivi di sera come se fossi di ritorno dal bar del paese. E conoscendoti potrebbe anche essere vero…» mi scorre con uno sguardo cinico e quando arriva in fondo gli angoli della sua bocca franano. «…con scarponi da fante ai piedi, perdio.»
«Anch’io sono contento di rivederla, tenente.»
Bregoli scuote la testa e punta lo sguardo oltre le tende. «Sei la vergogna della compagnia, Basile. Unisciti a questi altri disperati e, se riuscite, fate in modo di farvi notare il meno possibile. L’imbarazzo di sapervi miei soldati mi uccide.»
Gira sui tacchi e se ne va, lento come un bastimento.
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(2) Ovviamente questi racconti, non avendo ricevuto editing (se non in modo molto marginale), possono essere indicativi fino a un certo punto della qualità effettiva della prosa dell’autore. Comunque sono una buona approssimazione. E le idee ci sono tutte.Torna su

Una giornata da coglioni: SteamCamp 2013

SteamCamp 2013Per me, ormai, dormire quattro ore il venerdì notte è diventata un’abitudine.
L’ho fatto un mese fa, quando mi sono alzato alle sette – dopo essere andato a dormire alle tre – per prendere da Stazione Garibaldi il treno (pardon, un Italo, che come mi ha spiegato il prode Zwe è qualcosa di più che un treno) delle otto e un quarto che mi avrebbe portato a Firenze a incontrare il suddetto prode e la dolce Tengi. L’ho rifatto due settimane fa, quando mi sono alzato alle sei per prendere il treno delle sette (pardon, un Trenitalia, che come mi ha spiegato Zwe è qualcosa di meno di un treno) che mi avrebbe portato nella ridente Trento a incontrare Dago e l’Avvopunk. Ma lo scorso sabato ho battuto ogni record, svegliandomi alle cinque e mezza (dopo essere andato a letto all’una) per prendere il treno delle sei e arrivare a Cittadella in tempo per l’apertura dei lavori dello SteamCamp.
Vi chiederete se per caso non mi sia rincoglionito, a farmi ‘ste levatacce solo per assistere alla prima di una conferenza sullo steampunk tenuta da un tizio vestito in uniforme da Germania Imperiale con tanto di pitale in testa – conferenza, peraltro, di cui conoscevo già a menadito l’argomento e la sostanza. La risposta è sì.

L’avventura comincia alle ore nove, quando io e Siò arriviamo nella stazione di Cittadella e tutt’a un tratto sembra di essere in Bosnia. Aggirandoci tra corridoi deserti e biglietterie sprangate, andiamo alla ricerca di Dago, individuo talmente folle da essere arrivato persino prima di noi. Lo troviamo solo e sperduto che si aggira per la banchina del binario 1. E subito si pone il primo problema: come raggiungere l’hotel dove si tiene lo SteamCamp, in questo paese dimenticato da Dio e dagli uomini, dato che nessuno (men che meno io) si è preoccupato di stamparsi la cartina che avevano postato sul sito?
Inizialmente contavamo di metterci nella scia di una tipa dai capelli viola e ingranaggi nella testa che era con noi sul treno per Cittadella e che, così, a occhio, non aveva l’aria di una residente. Ma, tra il tempo perso ad acchiappare Dago e l’andatura della Siò – che per coprire la stessa distanza che gli esseri umani normali fanno con un passo ne deve fare tre – l’avevamo perso di vista. Per fortuna ci viene in soccorso Dago, nei limiti delle possibilità della sua gente: un fogliaccio di carta con su scritti i nomi di tutte le vie che dobbiamo attraversare e le direzioni in cui dobbiamo girare.
Il sistema, incredibile a dirsi, sembra inizialmente funzionare; ma alla seconda circumnavigazione delle mura del centro storico, comincio a pensare che forse non è stata una buona idea e mi viene ricordato che il mio cellulare ha il GPS. Tre secondi dopo scopro che l’Hotel Filanda è addirittura segnato su Google Maps. Subentro quindi a Dago nella guida della comitiva e mi dirigo con piglio sicuro verso l’albergo; il che comunque non ci impedisce di mancarlo e tirare dritti per altri cento metri, nonostante sulla sommità dell’hotel ci fosse scritto HOTEL FILANDA grande come una casa.

Cittadella

Gerusalemme? Roma? Costantinopoli? No: Cittadella.

Arrivati all’albergo, come prima cosa riusciamo a mettere in crisi la barista ordinando due cioccolate calde ad Aprile – la poveretta è costretta a scendere in cantina per prendere il necessario. Il posto è ancora semideserto, e le uniche altre persone presenti oltre a noi sono gente che indossa occhialetti con dentro gli ingranaggi. Mi sento vagamente fuori posto. E il disagio non diminuisce quando salta fuori il Duca, con tanto di sciabola d’ordinanza e pickelhaube. Inoltre il possente Zwei – oasi di normalità in questo maelstrom di orrore – non risponde ai miei messaggini amorosi. Sto già pensando di scappare da Cittadella più veloce della luce, quando a rassicurarmi arriva alle nostre spalle Zero/Talesdreamer – una ragazza che commenta abitualmente su questo blog e su quello di Zwei, con una singolare passione per la medicina estrema e per il millenarismo cristiano.
Mentre aspettiamo che il Duca elemosini in giro pubblico sufficiente per la conferenza d’apertura, ci facciamo raccontare da Zero la sua emozionante nuova vita da fumettara. Che consiste nel condividere una casa in affitto in nero con una tipa albanese che è tipo la figlia di un boss dei narcos (o qualcosa del genere – soffro di deficit dell’attenzione). L’albanese in questione ha due segni particolari: fare del gran sesso col suo tipo loschissimo, ed essere scomparsa di punto in bianco mesi fa (promettendo che sarebbe tornata) lasciando alla coinquilina le sue valigie e tutti i suoi documenti. A occhio, credo la ritroveranno fra trent’anni in un pilone di cemento.

Esauriti gli argomenti morbosi, andiamo a infilarci in sala Manzetti giusto in tempo per l’inizio della conferenza del Duchino su “Che cos’è lo Steampunk?”. Qui ci vengono subito appalesati i potenti mezzi degli organizzatori dello SteamCamp: uno schermo gigante che proietta slide solo nell’angolo in alto a destra e una telecamera fissa per riprendere tutte le conferenze che obbliga i relatori a stare seduti immobili al centro del palco. Yeah. Le slide proiettate dal Duca sembrano realizzate da un bambino cingalese che fino a ieri cuciva palloni, ma questo non ci impedisce di capire che le mele non sono banane e che una barbie di plastica nuda non è steampunk. La conferenza, comunque, è bella.
Non bella, però, come quella sull’Informatica del XIX Secolo tenuta da Gino Roncaglia. Mi rendo subito antipatico a tutti mettendomi a prendere appunti sul portatile come un mongolo sbavante al primo anno di filosofia, mentre sullo schermo alle spalle di Roncaglia passano ingranaggi del primo secolo a.C., schede perforate, ritratti di Monsieur Jacquard realizzati al telaio Jacquard e filmati che non partono. Folgorato come Paolo sulla via di Damasco, mi rendo conto che nulla al mondo è interessante come le macchine di calcolo del sette-ottocento e che posso tranquillamente gettare nel fuoco tutti i libri di storia medievale letti negli ultimi anni (cosa che non mi impedirà di avere altre due o tre folgorazioni nel corso della giornata). Alla fine della conferenza riesco a rendermi antipatico anche a Roncaglia, sequestrandolo e costringendolo a dirmi due o tre titoli divulgativi sull’informatica ottocentesca.

SteamCamp 2013 - Dago cavalierato dal Duca

“Da oggi sarai un vero essere umano”.

Trascinato a forza da Dago e Siò, vengo portato fuori dalla sala Manzetti. Qui ci rendiamo conto che abbiamo fame, ed ecco che salta fuori il secondo dramma logistico della giornata: a parte Dago, che si è portato i panini da casa, nessuno si era posto il problema del pranzo. L’albergo offre un pranzo con menu fisso primo + secondo a 25 Euro a persona, il che per qualche strano motivo mi toglie la fame. Zero e la sua amica si sono impelagate nella conferenza ‘impariamo a disegnare fumetti steampunk’, e il Duca è andato a far finta di fare l’organizzatore del Camp, sicché io, Siò e Dago ci guardiamo negli occhi e decidiamo di tentare l’impossibile – metterci a cercare un locale in giro per il paese.
Cercare tracce di vita a Cittadella è un’impresa che ha dell’ambizioso. Venti minuti buoni di peregrinazioni ci portano alfine dentro il centro storico di Cittadella, che in sostanza consiste di un vialetto e una piazza con chiesa. Ci soffermiamo un momento ad ammirare il profondo Retard di tutto questo: una cerchia di mura alta un chilometro e perfettamente conservata, per proteggere un cazzo di niente, a decine di chilometri da qualunque città importante. Alla fine decidiamo di affogare i nostri dispiaceri in un baretto tristissimo in un angolo della piazza. E qui arriva l’ennesimo FAIL della giornata – nell’istante in cui addento l’ultimo boccone del panino comprato al bar, mi arriva questo messaggio di Zero: “Dove siete? Mi sono liberata e pensavo di cercare qualcosa da mangiare…”. Oh fuck.

A tirarmi su il morale, un messaggino di Zwe che mi fa sapere in tutta tranquillità che è arrivato all’altezza di Padova e che a breve sarà fra noi. Un’ora più tardi i suoi bicipiti ci raggiungono al bar dell’hotel, e poco dopo arriva anche lui. Ogni conversazione che non lo riguardi cessa di avere un senso. Da notare il fatto che, benché lui e Dago si stringano la mano, solo tre ore dopo Zwei capirà chi cazzo è. Ma la giornata ha in serbo per noi altre sorprese, e in particolare l’unirsi al nostro gruppo di altre due persone che non sapevo sarebbero venute: Okamis, famoso per la sua passione morbosa per i caratteri tipografici e la regolarità con cui fa defungere i propri blog, e ???, il tipo che ha regalato qualcosa di 20 commenti alla mia recensione di Deinos trollando la vincitrice del concorso.
Mentre aspettiamo che riprendano le conferenze, Zwe va alla reception a prendere una stanza. Il che ci fa venire in mente che in effetti io e Siò non abbiamo un vero programma per la serata. Certo – la casa da studente di Siò non è lontana. Potremmo prendere l’ultimo treno per Vicenza, dove cambiare per prendere il treno che ci porterà a casa sua; per poi la mattina dopo prendere un altro treno, cambiare a Vicenza e tornare a Cittadella, stare mezza giornata e quindi prendere un altro treno per Vicenza e un’ultimo che ci riporti a casa. Certo. Oppure potremmo ordinare una pratica stanza in questo albergo di ladri. Uhm. Il dilemma, come potete immaginare, mi attanaglia.

SteamCamp 2013 - Dago e cosplayer

Quello a sinistra sta cosplayando un mongoloide.

Le conferenze del pomeriggio hanno alti e bassi.
Quella sugli alieni nella fantascienza ottocentesca è tenuta da un tipo con lo stesso charme del cemento che si asciuga; il suo timbro monocorde riesce a rendere i tripodi di Wells interessanti come il testo di un decreto legge. Per tutto il tempo Zwe mi lancia sguardi che sembrano dire: “Mi hai molto diluso”. Alla quarta o quinta persona che abbandona la sala capiamo che non è una cattiva idea, e ci dileguiamo anche noi. Vorrei approfittarne per andare ad ascoltare il rant del Duca su quelli che mistificano lo steampunk, previsto per le due e mezza, salvo scoprire che è stato annullato perché non se lo inculava nessuno.
E’ stato poi il turno della prima delle due presentazioni librarie della giornata. Di uno dei due libri presentati non parleremo (*). Parleremo invece dell’altro libro presentato; o meglio, una saga: Le Ombre di Marte dell’autopubblicato Augusto Chiarle. A parte il fatto che la suddetta saga consta di una quadrilogia che l’autore ha dichiarato di voler ulteriormente espandere in un secondo ciclo su richiesta di ben sette suoi lettori (e sticazzi); a parte aver più volte parlato del suo fantastico come una sorta di specchio deformante del reale e di come lui affronti importanti problematiche sociali (i termini non erano proprio questi, ma…); ma Chiarle è stato capace di regalarci perle sublimi come quando, parlando delle copertine dei suoi libri, ci ha confidato: “Vedete, io penso che una copertina debba anche saper suggerire qualcosa del contenuto del libro…”. Sulle copertine, tra parentesi, troviamo foto di lui e di suoi amici in costumi steampunk. Non ho intenzione di avvicinare questa roba neanche con un bastone.

Chiarle Orologeria

Se ve lo state chiedendo, sì, questo è lui.

Ma l’apice della giornata è stato raggiunto con la conferenza successiva, quella dedicata all’egregio Dr. Kellogg, medico, pedagogo, salutista, avventista del settimo giorno, nonché punto di riferimento dottrinale per il nostro Duca. Nel vedere con orrore che questo incontro era tenuto dallo stesso personaggio che aveva parlato degli alieni, il mio primo impulso era stato di darmi alla macchia. Ma feci male. Neanche la completa mancanza di inflessione vocale di quest’uomo poteva diminuire l’esilaranza della vita e della dottrina del Dr. Kellogg. Un uomo che fece del clistere un arte, un uomo che condannava il consumo di carne perché faceva venire le tenie e il consumo di zuccheri perché stimolava gli appetiti sessuali, un uomo che per correggere le cattive abitudini notturne dei fanciulli soleva ingabbiare i loro piselli in pratiche mutande di fil di ferro, e che del resto amava conservare gli escrementi migliori dei suoi pazienti per poi osservarli tutto contento.
La giornata si è conclusa con un’ultima carrellata di libri: Mondo9 di Dario Tonani e la novella Soldati a vapore di Diego Ferrara. Mentre Tonani ci parlava delle sue città metalliche dotate di autocoscienza, sullo sfondo venivano mandate a nastro una serie di immagini realizzate da un grafico per Mondo9. Le avremo viste tutte per, tipo, dieci volte. A un tratto Tonani fa: “Vogliamo vedere il booktrailer?”. Al che Galluzzo (che bagolava lì intorno) accende le casse e noi vediamo un’altra volta la stessa carrellata di immagini, ma con in sottofondo una musica epica. Quello era il booktrailer. Poi Galluzzo spegne la musica e, mentre Tonani e Sosio prendono congedo, fa partire un’altra passata delle immagini.

Quando Tonani si alza sembra quasi che la conferenza sia finita; nessuno dice niente. Tocca al pubblico chiedere: “Ma non doveva esserci anche un altro libro?”. Solo allora un tizio seduto tra il pubblico si alza e fa: “Sì, in effetti ci sarebbe anche il mio”, quasi a dire: “Dobbiamo proprio?”. Costui è Diego Ferrara. Bisogna dire che non è bravissimo a farsi autoproduzione, dato che in sostanza ha passato il tempo a spiegare che il suo libro non è che fosse niente di che, e che non aveva molte cose da dirci sopra, e insomma, che se proprio volevamo potevamo anche leggerlo. Bisogna dire che, dopo le roboanti parole delle presentazioni precedenti, faceva quasi una figura migliore.
A un certo punto abbiamo deciso di venirgli in aiuto. Mentre io – che avevo letto la novella e l’ho trovata molto carina1 – gli facevo i complimenti, Okamis (l’autore della copertina, peraltro fikissima, del suddetto libro) saliva sul palco, si metteva a computer e andava a proiettare l’immagine della copertina. Il clima intanto si è riscaldato – e la gente comincia a fare domande all’autore! Paradossale: tutti gli altri a fine conferenza facevano la domanda di rito: “Ci sono domande?”, e il pubblico zitto. Ferrara le domande non le voleva, ed è quello che ha riscosso più successo di tutti!

SteamCamp 2013 - Il Duca e Zweilawyer libidinosi

Questa la dedico alla dolce Tengi.

A fine conferenza ho placcato Tonani prima che avesse la possibilità di andarsene. La domanda, molto semplice: “Maaa, se volessi prendere una copia del libro?”. Quello infatti alla possibilità di venderli non ci aveva neanche pensato; le tre copie che si era portato dietro stavano già sparendo nella borsa. Un po’ perplesso mi fa: “Be’, sì, certo”, e me la vende. Subito dopo, alle mie spalle, sento un altro che, stimolato dal mio gesto, vuole comprarne una. Torno dagli altri che già mi guardano con un misto di compassione e sdegno; mi avrebbero preso per il culo per il resto della serata, ricordandomi che Tonani scrive risaputamente di merda e che le sue idee sono originali come la sceneggiatura di Avatar. Ce ne stiamo già andando – mentre io stoicamente difendo la possibilità che Mondo9 possa essere interessante – quando dal fondo della sala la tipa che accompagnava Tonani mi chiede se voglio l’autografo sul libro. Mi veniva da dire: “Ma anche no…”, ma visto che mi ero appena fatto fare l’autografo digitale sull’ebook da Ferrara mi sembrava brutto rifiutare, e ora ho anche l’autografo di Tonani. LOL.
Nel frattempo, s’era fatta una certa. Dago ci aveva dovuto lasciare per prendere l’ultimo treno per Trento. Codice penale 1, 2, 3 o n, o chissà quale altro dei ventordici esami che gli mancano per prendere la sua pregevole laurea da azzeccagarbugli, lo stava aspettando. Con tristezza l’ho lasciato andare. Questo non gli ha comunque impedito, prima di dileguarci, di costringerci a fare una serie di foto imbarazzanti, tra cui una con delle cosplayer steampunk che non vedevano l’ora di fare finta di non conoscerci.
Dopo l’ultima conferenza, anche Zero e amica viola si dileguano nel crepuscolo cittadellese per prendere il treno per Padova. Il nostro gruppo acquisisce invece in pianta stabile Ferrara e due suoi compari.

Visti i prezzi invisi al Signore dell’Hotel Filanda, ci troviamo costretti ancora una volta a marciare verso il centro. Zwei ne approfitta per insultare le mura di Cittadella e la stessa esistenza del paese. La prima tappa è un bar nella piazza centrale (non c’è davvero un cazzo d’altro a parte la piazza) dove scopro con orrore che lo spritz non è di origine milanese bensì veneta. Qui, caso strano, ci troviamo a parlare di amputazioni, di bruciare gli zingari, di muscle bear, di Girola McN00b (non necessariamente in quest’ordine).
Trovare un posto dove fare una vera cena si rivelerà molto più difficile. La prima pizzeria che ci viene indicata, a dieci minuti abbondanti dal bar, ci dice che se vogliamo un tavolo per dieci persone dobbiamo aspettare un’ora. Intristiti ce ne andiamo in quella che sembra essere l’unica altra pizzeria della città, a un quarto d’ora dalla prima. Questa ha un aspetto molto più trucido, e dichiara che dovremmo aspettare 45 minuti. Calcoliamo che se torniamo all’altra mancherà solo mezz’ora per poter entrare, quindi vale la pena. Quando torniamo e chiediamo, la risposta serafica della proprietaria è: “C’è da aspettare un’ora.” WTF? Col cuore in mano, ma ormai rassegnati al nostro triste destino, ci accampiamo come degli zingari sulla pensilina dell’autobus di fronte alla pizzeria e aspettiamo. Gli argomenti? Il porno tentacolare, l’elicottero di Montezemolo, l’uso improprio della parola ‘digressioni’, che cazzo faccia il Duca nella vita, Davide Mana – non necessariamente in quest’ordine.

SteamCamp 2013 - Il Duca e Zweilawyer lussuriosi

Anche questa la dedico a Tengi.

Quando finalmente entriamo in pizzeria saranno le undici di sera, e nelle ultime quarantott’ore ne ho dormite quattro (cinque se contiamo i rincoglionimenti in treno). Se non mi addormento con la faccia nella pizza è un miracolo, e impotente mi sento dare del tisico dall’invidioso Duca. Duca che tra l’altro decide di farsi odiare dal cameriere in ogni modo, prima ordinando un Prosecco (mentre noialtri ci accontentiamo di acqua o birrette) e poi, trovatolo cattivo, costringendo il suddetto cameriere a sorbirsi tutta una spiegazione sulle molteplici varierà del suddetto Prosecco e relative modalità di consumazione.
Lasciamo la pizzeria che quasi non mi reggo in piedi. Uno a uno, i membri del gruppo si staccano: Ferrara e i compari, che c’hanno la macchina; ??? e ragazza, che saggiamente hanno deciso che tenevano ai loro soldi e hanno prenotato in un bed&breakfast nella solita piazza; Okamis, che deve tornare a casa perché la mattina dopo deve negoziare con degli arabi. Il centro di Cittadella ci accoglie con un “tunz tuzz tunz tuzz’: il triste baretto per vecchi dove abbiamo magramente pranzato, a quanto pare, di notte si trasforma in un localino alla moda con dj alla console. Il cuore pulsante della movida cittadellese.

Mentre arranchiamo nella notte, ormai in cinque, il Duca discute con Zwei dell’opportunità di trasformare la vagina in un campo di coltivazione di ortaggi (o qualcosa del genere – vi ricordate del mio deficit dell’attenzione?). Zwei continua a rispondergli che non gliene frega un cazzo e che è un ciccione di merda, ma questo non sembra frenarlo. Arriviamo in albergo che tutto è silenzio. L’ultima immagine che mi si imprime nella retina, prima che infili la porta della mia camera, è il Duca che passando mi rivolge una faccia da maniaco – una faccia che sembra dire: “Io ucciderò culo.”

Ucciderò culo

E’ stato bello.
Anche se la roba interessante era tutta concentrata al sabato, tanto che alla domenica allo SteamCamp non c’era più un cazzo da fare e mi annoiavo talmente che sono andato a guardarmi la replica dell’Introduzione ducale allo Steampunk. Anche se in queste fiere si aggirano sempre personaggi inquietanti – come quel tipo col cappellino da motociclista anni ’20 sempre silenzioso, che a un tratto ha tentato di sequestrare la Siò per raccontarle la sua ambientazione steampunk; o un tale in mantello che si aggirava con una trombetta seminando il panico tra la gente, e il cui suono in lontananza ci ha accompagnato per molte ore durante tutto il pomeriggio. Ho imparato tante cose, tipo che non sarò mai in grado di scrivere steampunk, o che non potrò essere un vero nerd finché trombo. Ho conosciuto Zero, Okamis, ??? e gli altri, ho l’autografo virtuale di Ferrara e ho potuto leggere in anteprima il quarto capitolo di Zodd (sul quale dirò soltanto: “Gli escono dal fottuto buco del culo!!”). Mi sono divertito.
Tutte le conferenze sono state registrate, e nei mesi a venire saranno montate e poi postate sull’Internet. Menomale, così potrò guardarmi l’inizio di quella sul Dr. Kellogg. Insomma: direi che lo SteamCamp è riuscito, e spero che si faccia una seconda edizione l’anno prossimo.

Il mio ultimo pensiero va ai cittadellesi e alla loro bella città. Alla pizzeria che la mattina dopo abbiamo scoperto essere appiccicata al bar dove abbiamo preso lo spritz e di cui nessuno ci aveva parlato; ai ragazzini che sono passati in processione con un crocifisso di cartone gigante con su la foto di un tizio; al cameriere che riteneva impossibile scaldare un panino in meno di tre minuti; alla biglietteria “chiusa per sempre”, che rendeva virtualmente impossibile l’acquisto di un qualsiasi tipo di biglietto del treno per lasciare Cittadella.

SteamCamp 2013 - Biglietteria di Cittadella

Ucciderò culo. Siete avvertiti.

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(1) Tra l’altro ho scoperto che Ferrara aveva partecipato all’ormai dimenticato Concorso Steampunk del Duca con ben due racconti, entrambi piazzatisi molto bene. Uno è Il Lunasil, che non ho letto (ma Siobhàn dice che è molto bello); l’altro è Piloti e Nobiltà, che tra i quattro candidati alla vittoria era il mio preferito.
Tutte queste scoperte mi portano a pensare che Ferrara sia un figo, benché mi chiami Tapino. E sto preparando un post sul suo Soldati a vapore.Torna su

(*) EDIT: Il testo dell’articolo prima era un poco diverso. Mi dispiace averlo dovuto fare, ma si era innescato un piccolo flame personale tra me e una certa persona e questo stava danneggiando seriamente SteamCamp e i suoi organizzatori.
Il fatto che io e il Duca siamo in buoni rapporti non dovrebbe significare che abbiamo le stesse opinioni su qualsiasi argomento o che quello che faccio io sia un’estensione della sua volontà. Ma per evitare ulteriori fraintendimenti, dato che non era mia intenzione creare danni inutili con un flame che nemmeno riguardava lo steampunk, ho preferito cancellare le poche righe che riguardavano questo personaggio per timore di rovinare la prossima edizione.
Ribadisco, per chi non avesse la pazienza di leggersi l’intero articolo ma solo le righe che preferisce, che lo SteamCamp mi è piaciuto molto e che il bilancio è stato largamente positivo. Con le mie azioni ho fatto vendere due o tre copie di un libro a fine conferenza, e io personalmente ne ho già letti due su quattro presentati – credo che dovrebbe significare qualcosa. Spero, e farò quanto è in mio potere, per rendere possibile le future edizioni di una cosa figa come lo SteamCamp.
Ho finito.