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I Consigli del Lunedì #46: The Man in the High Castle

The Man in the High CastleAutore: Philip K. Dick
Titolo italiano: La svastica sul sole
Genere: Ucronia / Slice of life
Tipo: Romanzo

Anno: 1962
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 240 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Quando gli Alleati hanno perso la Seconda Guerra Mondiale, Germania e Giappone si sono spartiti il mondo. Gli Stati Uniti, costretti alla resa alla fine del ’46, sono stati spaccati in due: la parte orientale è entrata a far parte del Grande Reich, mentre la costa ovest è diventata colonia giapponese, col nome di Stati Pacifici d’America. In mezzo, a fare da cuscinetto tra le due superpotenze, gli Stati delle Montagne Rocciose, un fazzoletto di terra perlopiù desertica, ultimo residuo dell’indipendenza americana. Ora, dopo quindici anni di pace, la situazione mondiale sta tornando tesa: Martin Bormann, Cancelliere del Reich dopo l’uscita di scena di Hitler, sta per morire, e la lotta tra gli alti gerarchi per la successione si preannuncia tremenda. E nella loro ambizione sfrenata, i nazisti potrebbero trascinare il mondo in una nuova guerra per il controllo del pianeta.
Ci troviamo nel 1961, nella San Francisco occupata dai giapponesi. Robert Childan, antiquario di prestigio, cerca di conquistare l’ammirazione della dirigenza giapponese vendendo loro i più rari cimeli dell’America libera. Nobusuke Tagomi, diplomatico giapponese di stanza a San Francisco, si prepara a un incontro della massima importanza con Mr. Baynes, industriale svedese – ma un criptico messaggio da Tokyo lascia intendere che quest’uomo nasconde qualcosa, forse è finanche una spia del Reich. Frank Frink, ebreo in incognito sfuggito ai nazisti, si guadagna da vivere fabbricando falsi oggetti d’antiquariato, ma sogna di creare qualcosa di bello con le proprie mani. Juliana, la sua ex moglie, l’ha abbandonato per vivere una nuova vita nei liberi stati delle Montagne Rocciose, ma la sua vita cambierà il giorno che incontrerà Joe Cinnadella, fascista italiano dal passato torbido. Su tutti loro aleggia l’ombra di La cavalletta non si alzerà più (The Grasshopper Lies Heavy), romanzo proibito in cui si narra una storia stranissima, una storia alternativa in cui i nazisti e i giapponesi hanno perso la guerra. Del suo autore, il misterioso Nathanael Abendsen, si sa soltanto che vive trincerato in cima a un alto castello circondato di filo spinato, col terrore che i nazisti vengano a metterlo a tacere…

“In che mondo vivremmo, se le forze dell’Asse avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale?” è la domanda posta da questo classico dell’ucronia, il primo dei romanzi di Philip K. Dick ad essere candidato a dei premi e l’unico che gli varrà un Hugo. Ma a differenza della maggior parte delle storie alternative sulla WWII – come Fatherland di Robert Harris – The Man in the High Castle non è un thriller né un romanzo d’azione; è invece un romanzo corale slice-of-life, interessato a mostrare la vita di persone comuni in questo mondo che sarebbe potuto essere. Nel corso del romanzo, seguiremo le vicende intrecciate di cinque personaggi – un fabbro ebreo, un antiquario piccolo-borghese, un diplomatico giapponese, un misterioso industriale svedese venuto dal Reich e una donna irrequieta – tra San Francisco e gli stati delle Montagne Rocciose. Una trama politica esiste, ma è come se si svolgesse ai margini del romanzo e della vita dei nostri protagonisti.
È forse proprio questo approccio mainstream e questa struttura atipica per la narrativa di genere, ad aver assicurato la fama duratura di The Man in the High Castle rispetto ad altri romanzi sullo stesso argomento. Essendo così famoso, ho esitato a lungo – come sapete – prima di decidermi a dedicargli un Consiglio. Ma a fine novembre Amazon Studios ha lanciato sul suo canale una serie omonima, ispirata all’ambientazione di Dick, e il romanzo è tornato alla ribalta. Vale la pena di fare un bilancio per un libro che, celebre finché si vuole, in Italia non è poi così letto. La prossima volta parleremo della serie tv di Amazon.


“In the Mood” della Glenn Miller Orchestra, tormentone swing degli anni della guerra. In un’America che culturalmente si è fermata ai ’40, il pezzo sembra quantomai appropriato.

Uno sguardo approfondito
The Man in the High Castle ha la struttura del romanzo corale in terza persona, con un ampio numero di personaggi-pov che si succedono di paragrafo in paragrafo. Dick scrive in terza persona, con telecamera che oscilla da sopra la spalla del personaggio a dentro la sua testa; passiamo quindi da momenti in cui vediamo il personaggio muoversi come in un film, distaccati da lui, ad altri in cui siamo immersi nel suo tono di voce, e tutto quello che vediamo è filtrato dai suoi pensieri. E qui ci imbattiamo nel primo talento di Dick, ossia la sua capacità di passare da un timbro all’altro a seconda del personaggio: la testa piena di pregiudizi razziali di Childan, i periodi brevi e la flemma di Tagomi, il modo di pensare disordinato, amorale e quasi ferino di Juliana. Riconosciamo le loro voci. Né si rischia di fare confusione su chi sia il pov in ogni momento, dato che il punto di vista cambia solamente al cambio di paragrafo.
Certo, a volte si ha l’impressione che Dick utilizzi i suoi personaggi come delle marionette, dei veicoli per raccontarci la sua ambientazione. Questa sensazione la si avverte soprattutto nei primi capitoli, quando ancora non conosciamo il mondo del romanzo e l’autore sente il bisogno di spiegarcelo. Così, ad esempio, Frank Frink disteso sul suo letto riflette sulla sua difficile condizione – ebreo che è fuggito da New York e si è fatto cambiare il cognome per passare inosservato – e parte un lungo infodump sulla spartizione politica del mondo e le atrocità dei nazisti. Un dialogo, una cosa vista per strada: tutto diventa un pretesto per una digressione – mal camuffata da monologo interiore – su questo o quell’aspetto della società. E sembra a volte che i personaggi di questo mondo non discutano d’altro che di nazisti, della guerra, di come sarebbe potuta andare se. Pure in un mondo così fortemente plasmato dal cattivo esito della Seconda Guerra Mondiale, come quello di The Man in the High Castle, suona un po’ inverosimile che i suoi abitanti non parlino quasi d’altro che di politica e guerra.

Quando invece Dick riesce a mettere la sua ambientazione al servizio dei suoi personaggi, allora il romanzo brilla veramente. Ogni protagonista ha la sua storia, il suo punto di vista sul mondo, i suoi conflitti (interiori ed esteriori). Prendiamo per esempio Mr. Tagomi: in qualità di diplomatico della Trade Mission a San Francisco, il suo ruolo è di mediare tra la madrepatria, gli occupati americani e la Germania nazista, con cui i giapponesi sono in pace. Ma Tagomi è turbato. La consapevolezza del male perpetrato dai nazisti, e che lui – nella sua funzione di mediatore – deve non solo tollerare, ma assecondare e finanche avallare le loro azioni, distrugge il suo baricentro morale. Nel corso del romanzo Tagomi dovrà fare i conti con sé stesso, col suo conflitto tra il bisogno di giustizia e la coscienza del male, e sarà costretto a prendere delle decisioni che decideranno da che parte sta.
Ma non ci sono vie d’uscita pulite. In un mondo dove i nazisti hanno vinto, dove o sei dalla loro parte o sei morto, è come se ogni cosa fosse stata contaminata. Non esiste una divisione manichea tra i buoni e i cattivi; tutti i personaggi del romanzo di Dick hanno commesso qualcosa di più o meno riprovevole, tutti vivono questa ambiguità morale, e così come c’è l’americano antisemita e collaborazionista, così c’è il nazista disilluso e stanco del proprio regime. Consideriamo Robert Childan: americano vittima dell’occupazione giapponese, abituato fin da giovane a sentirsi “inferiore”, ha trovato però una possibilità di riscatto (sia economico che di prestigio personale) vendendo reperti della storia americana proprio a coloro che lo opprimono. Childan vive il conflitto tra il bisogno di essere accettato fra i suoi “superiori”, di elevarsi, e la consapevolezza che per farlo deve svendere sé stesso e la storia del suo paese. E proprio quando cominciamo a sviluppare empatia nei suoi confronti, scopriamo – abbastanza presto nel libro, in verità – che Childan stima i nazisti, stima quello che hanno fatto ad africani, slavi ed ebrei, condivide la loro teoria delle razze e spera in cuor suo che gli ariani spazzino via tutti i musi gialli dalla faccia della terra. Sì: proviamo empatia per un antisemita. Questa è la potenza della scrittura di Dick.

The Man in the High Castle Worldmap

La mappa politica del mondo nell’universo alternativo di The Man in the High Castle (cliccare per ingrandire).

Ogni protagonista, dunque, ha la sua storia e i suoi conflitti da superare. Ma come tutti i romanzi dalla struttura corale, anche The Man in the High Castle ha un problema: se da un lato si guadagna in prospettiva – la possibilità di vedere il mondo del libro da tante paia d’occhi diversi – dall’altro si rischia di perdere in immersione, in immedesimazione nei personaggi della storia. Il problema è ancora più accentuato in questo caso, essendoci la bellezza di cinque personaggi-pov principali, più due pov usa-e-getta dedicati a personaggi minori. Il continuo passare da un personaggio all’altro, e quindi da una storia all’altra, crea facilmente confusione, soprattutto all’inizio del romanzo quando non abbiamo ancora familiarizzato con l’ambientazione.
Ma anche quando, proseguendo nella lettura, ci si affeziona ai vari protagonisti e non si fa più fatica a seguire la trama, rimane la sensazione di stare leggendo tante storie separate. Le vite dei cinque personaggi si intrecciano, le loro vicende rimandano l’una all’altra, chiariscono aspetti l’una dell’altra, le loro azioni plasmeranno i destini degli altri, e ciascuno vivrà il proprio arco di trasformazione; ma le loro storie rimangono fondamentalmente distinte.  Una trama collettiva vera e propria non c’è – solo tante direttrici parallele. E’ quindi inevitabile provare, nel corso della lettura, un senso di smarrimento: dove sta andando a parare il romanzo? Dove porta tutto questo saltare da una vicenda individuale all’altra? Cosicché, anche se ci immergiamo nei personaggi e nei loro conflitti, rimane in noi un certo distacco rispetto alla vicenda.

A mantenere alta in parte l’attenzione del lettore, al di sopra delle vicende individuali, ci sono due misteri centrali: quale sia il vero obiettivo dell’incontro d’affari tra Tagomi e Mr. Baynes, nel quale il governo a Tokyo sembra riporre grandissima attenzione, e perché il misterioso e recluso Abendsen abbia scritto un romanzo in cui l’Asse ha perso la Seconda Guerra Mondiale – un libro che circola di mano in mano nonostante sia ufficialmente proibito sia negli Stati sotto il controllo giapponese sia nel Reich, e che appassiona e sconvolge, dall’ebreo Frink al nazista al fascista Cinnadella (che ne sembra ossessionato). Che cosa sa realmente Abendsen? Faccenda resa ancora più inquietante dal fatto che la storia che racconta Abendsen è comunque diversa da quella del nostro mondo: in The Grasshopper Lies Heavy, l’America ha sì vinto, ma ora si spartisce il mondo con l’Impero Britannico e non con l’Unione Sovietica. Un’ucronia nell’ucronia.
Questi misteri troveranno risposta entro la fine del libro. Ma se quest’aura di suspence lavora a favore della curiosità del lettore e lo incalza ad andare avanti, a remare contro ci pensa il ritmo. The Man in the High Castle è un romanzo lento. I momenti d’azione sono quasi assenti, le scene statiche sono numerose, e la maggior parte dei protagonisti-pov della storia sono individui che prediligono la riflessione all’azione. Soprattutto, sono individui “piccoli”: possono fare la loro parte, e risolvere problemi più o meno grandi, ma il destino ultimo del popolo americano e del mondo non sono nelle loro mani. Come in 1984 e in ogni distopia che si rispetti, non si arriverà alla fine del romanzo con il Fuhrer gloriosamente deposto e gli equilibri politici irreversibilmente cambiati. Se questo tipo di storia scoccia, sarebbe meglio stare alla larga dal libro di Dick.

Povero Goebbels

The Man in the High Castle è piuttosto un affresco, la messa in scena di un worldbuilding attraverso le vicissitudini di chi ci vive dentro, a tutti i livelli: dalla quotidianità delle persone che non contano nulla (Frank Frink, Juliana), a quello della borghesia (Childan e il suo rapporto con la dirigenza giapponese), a quello della politica (Tagomi, Baynes). Come sarebbe oggi il mondo, e in particolar modo l’America, se nazisti e giapponesi avessero vinto la guerra? E in questo, bisogna ammetterlo, Dick ci spalanca davanti un tripudio di sense of wonder.
Alcune sono piccole trovate, come il fatto che il Mediterraneo – ora completamente controllato dalla Germania – sia stato prosciugato per farne campi coltivati, o che i nazisti, con la loro ossessione per le imprese titaniche, abbiamo spedito navicelle con equipaggio su Venere e Marte mentre ancora la televisione non è entrata nelle case della gente comune (e siamo negli anni ’60!). La lotta per il potere tra i gerarchi nazisti, tra un erudito affabulatore come Goebbels e una iena come Heydrich, rimane altrettanto sullo sfondo del romanzo – attraverso i discorsi dei personaggi e i proclami alla radio – ma si porta sempre dietro un’aura di inquietudine e un fascino sinistro.
Altre sono cose grosse, che determinano il modo di agire e di pensare dei protagonisti. I giapponesi di Dick, intrisi di misticismo e di rispetto per le antiche tradizioni, si sono portati oltremare l’I Ching, l’antichissimo almanacco divinatorio cinese che permette, attraverso la disposizione casuale di bastoncini di legno, di porre delle domande sul proprio futuro. Tutti in The Man in the High Castle, dai giapponesi agli americani occupati – e con la sola eccezione dei pragmatici nazisti – si affidano all’oracolo nei momenti difficili, lanciando i legnetti e interpretandone i misteriosi esagrammi. Tutti cercano di equilibrare lo yin e lo yang nella propria vita, e di ristabilire l’equilibrio del tao.

Il worldbuilding di Dick è anche uno splendido esempio di cosa significa immaginare le conseguenze delle idee che si introducono. Come accade spesso nella storia umana, gli occupanti giapponesi,  dall’iniziale razzismo verso l’uomo occidentale, hanno sviluppato nel tempo un senso di colpa per aver distrutto la cultura americana, e una fascinazione verso la sua storia e i suoi reperti. E’ nato in questo modo un gigantesco mercato di collezionisti di americana, dalle Colt utilizzate nella guerra di secessione ai poster di arruolamento della Prima Guerra Mondiale, passando per gli orologi di Topolino. Ma accanto al mercato dei cimeli autentici, si è sviluppata un’immensa industria di falsi, come la Wyndam-Matson Corp. per cui lavora lo stesso Frank Frink. E parallelamente, quest’ossessione per le antichità – quelle autentiche e quelle contraffatte – sembra aver soffocato la possibilità di un’arte americana nuova, perché chi mai vorrebbe comprarla, a chi mai potrebbe interessare, quando ci sono in circolazione così tanti francobolli dell’Esposizione Universale di Chicago? Ma che cosa succederebbe al mercato del collezionismo, se i funzionari giapponesi scoprissero che molti dei pezzi che hanno acquistato a peso d’oro sono dei falsi? Questa catena di cause ed effetto lega i destini dei personaggi di Childan, Frink e Tagomi.
Altri aspetti del worldbuilding, purtroppo, tradiscono l’età del romanzo. Se il ritratto dei nazisti rimane generalmente credibile, e attraversa tutto lo spettro umano – dai più fanatici e psicotici, come l’artista Lotze, ai più meschini e opportunisti, come il console Hugo Reiss – i giapponesi sono tutti caratterizzati da una certa aura mistico-filosofica che rispecchia i pregiudizi degli anni ’60, ma oggi appare un po’ ridicola. Il solo fatto che si affidino a tutti i livelli a un testo cinese come l’I Ching, soprattutto alla luce del nazionalismo giapponese del periodo bellico e del disprezzo verso i vicini popoli asiatici, è molto poco credibile.

I Ching yarrow stalks

Bastoncini dell’I Ching. Questi affari si utilizzano per ottenere un esagramma in risposta a una domanda fatta all’oracolo. Non chiedetemi come diamine funzioni ‘sta cacata.

The Man in the High Castle è una strana creatura, che rischia di lasciare freddi e spaesati a inizio lettura, ma che, a chi va avanti, regala una valanga di idee affascinanti e di spiragli sugli abissi dell’animo umano. Il problema del male, il dilemma etico del collaborazionismo, il rapporto tra il vero e il falso, il dubbio su quale sia la realtà vera, nonché il vecchio sano what if politico: tutti questi temi sono approfonditi da Dick in poco più di 200 pagine. Il tutto condito da persone vere che si comportano in modo vero e vivono problemi veri.
Sarebbe potuto essere migliore? Certo che sì. Se Dick fosse riuscito a costruire una chiara trama centrale, che facesse da hook per il lettore e da nodo di collegamento tra le varie storie individuali, certo sarebbe stato più facile seguire il romanzo e capire la direzione della storia. Se avesse limitato il numero di pov, almeno eliminando quelli usa-e-getta, la lettura sarebbe stata meno dispersiva. Certo, è interessante entrare per poche pagine nella visione del mondo di un collaborazionista meschino come Wyndam-Matson o di un nazista come il console Reiss, ma forse c’erano modi più eleganti per raccontare anche quel ‘lato’ della vicenda.
The Man in the High Castle è lontano dalla perfezione. Ma è anche straordinario, e unico nel suo genere – uno strano slice-of-life filosofico di storia alternativa.

Dove si trova
Come quasi tutti i libri di Philip K. Dick, anche questo è un molto facile da trovare. Potete scaricare il romanzo in lingua originale su Library Genesis (ePub, pdf) o su BookFI, il nuovo dominio del fu Bookfinder (ePub, lit, mobi, pdf). Sempre su BookFI si può trovare l’edizione italiana La svastica sul sole.

Churchill vs Hitler

Qualche estratto
Per i due estratti di oggi, ho scelto due momenti particolarmente esemplificativi dell’approccio di Dick, delle sue scene statiche e meditative, delle sue fisse esistenziali e filosofiche. Il primo mostra Frink mentre interroga l’I Ching su una questione della massima importanza: come deve fare per riavere il suo lavoro da Wyndam-Matson? Il secondo, Baynes mentre chiacchiera amabilmente con un tedesco fanatico e riflette su quali siano i tratti della mentalità nazista.

1.
Seated on his bed, a cup of lukewarm tea beside him, Frink got down his copy of the I Ching. From their leather tube he took the forty-nine yarrow stalks. He considered, until he had his thoughts properly controlled and his questions worked out.
Aloud he said, “How should I approach Wyndam-Matson in order to come to decent terms with him?” He wrote the question down on the tablet, then began whipping the yarrow stalks from hand to hand until he had the first line, the beginning. An eight. Half the sixty-four hexagrams eliminated already. He divided the stalks and obtained the second line. Soon, being so expert, he had all six lines; the hexagram lay before him, and he did not need to identify it by the chart. He could recognize it as Hexagram Fifteen. Ch’ien. Modesty. Ah. The low will be raised up, the high brought down, powerful families humbled; he did not have to refer to the text—he knew it by heart. A good omen. The oracle was giving him favorable council.
And yet he was a bit disappointed. There was something fatuous about Hexagram Fifteen. Too goody-goody. Naturally he should be modest. Perhaps there was an idea in it, however. After all, he had no power over old W-M. He could not compel him to take him back. All he could do was adopt the point of view of Hexagram Fifteen; this was that sort of moment, when one had to petition, to hope, to await with faith. Heaven in its time would raise him up to his old job or perhaps even to something better.
He had no lines to read, no nines or sixes; it was static. So he was through. It did not move into a second hexagram.
A new question, then. Setting himself, he said aloud, “Will I ever see Juliana again?” […]
Busily he maneuvered the yarrow stalks, his eyes fixed on the tallies. How many times he had asked about Juliana, one question or another? Here came the hexagram, brought forth by the passive chance workings of the vegetable stalks. Random, and yet rooted in the moment in which he lived, in which his life was bound up with all other lives and particles in the universe. The necessary hexagram picturing in its pattern of broken and unbroken lines the situation. He, Juliana, the factory on Gough Street, the Trade Missions that ruled, the exploration of the planets, the billion chemical heaps in Africa that were now not even corpses, the aspirations of the thousands around him in the shanty warrens of San Francisco, the mad creatures in Berlin with their calm faces and manic plans—all connected in this moment of casting the yarrow stalks to select the exact wisdom appropriate in a book begun in the thirtieth century B.C. A book created by the sages of China over a period of five thousand years, winnowed, perfected, that superb cosmology—and science—codified before Europe had even learned to do long division.
The hexagram. His heart dropped. Forty-four. Kou. Coming to Meet. Its sobering judgment. The maiden is powerful. One should not marry such a maiden. Again he had gotten it in connection with Juliana.
Oy vey, he thought, settling back. So she was wrong for me; I know that. I didn’t ask that. Why does the oracle have to remind me? A bad fate for me, to have met her and been in love—be in love—with her.

Seduto sul letto, con una tazza di tè tiepido, Frink tirò fuori la sua copia dell’I Ching. Estrasse i quarantanove steli di millefoglie dalla custodia di pelle e si concentrò finché non si sentì in grado di controllare adeguatamente i propri pensie­ri e non ebbe elaborato le domande.
Disse ad alta voce: «Come devo rivolgermi a Wyndham-Matson in modo da raggiungere con lui un accordo soddisfa­cente?» Scrisse la domanda sul blocco di carta, poi cominciò a muovere gli steli di millefoglie da una mano all’altra finché non ottenne la prima linea, l’inizio. Un otto. Questo già elimi­nava la metà dei sessantaquattro esagrammi. Divise gli steli e ottenne la seconda linea. Ben presto, esperto com’era, ebbe tutte e sei le linee; l’esagramma era davanti a lui e non ebbe bisogno di consultare il libro. Era in grado di riconoscerlo come l’Esagramma Quindici. Ch’ien. La Modestia. Ah. Colo­ro che sono in basso verranno elevati, coloro che sono in alto abbassati, le famiglie potenti umiliate; non fu necessario consultare il testo… lo conosceva a memoria. Un buon auspicio. L’oracolo gli stava fornendo un responso favorevole.
Eppure provò una certa delusione. C’era qualcosa di fatuo nell’Esagramma Quindici. Troppo prevedibile. Doveva per forza essere modesto. Ma forse c’era un’idea, dietro tutto ciò. In fin dei conti lui non aveva alcun potere sul vecchio W-M. Non poteva imporgli di riassumerlo. Tutto ciò che poteva fare era adottare il punto di vista dell’Esagramma Quindici; era quel momento particolare in cui ci si doveva limitare a far domande, sperare e aspettare fiduciosi. Al momento giusto il cielo lo avrebbe risollevato al suo vecchio lavoro o forse an­che a qualcosa di meglio.
Non c’erano linee da leggere, nessun nove e nessun sei. Era un esagramma statico. Perciò aveva finito. Non poteva diventare un secondo esagramma.
Ma allora, ecco una nuova domanda. Si preparò e disse a voce alta: «Rivedrò Juliana?»
[…] Maneggiò laboriosamente gli steli di millefoglie, con gli occhi fissi sul punteggio. Quante volte aveva fatto domande su Juliana, in un modo o nell’altro? Ecco l’esagramma, for­mato dal passivo movimento casuale dei bastoncini. Casuale, eppure radicato nel momento in cui lui viveva, in cui la sua vita era legata a tante altre vite e particelle dell’universo. Il necessario esagramma che tratteggiava, nel suo schema di li­nee intere e spezzate, la situazione. Lui, Juliana, la fabbrica di Gough Street, le Missioni Commerciali che dettavano leg­ge, l’esplorazione dei pianeti, i miliardi di mucchietti di resi­dui chimici, in Africa, che non erano nemmeno più cadaveri, le aspirazioni di migliaia di persone intorno a lui, nelle squal­lide conigliere di San Francisco, le creature folli di Berlino con i loro volti impassibili e i progetti maniacali… tutto colle­gato in quel momento nel quale si gettavano gli steli di mille­foglie per selezionare la saggezza appropriata in un libro ini­ziato nel trentesimo secolo prima di Cristo. Un libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia – e quella scienza – superba, codificata prima ancora che l’Europa avesse impa­rato a fare le divisioni.
L’esagramma. Il suo cuore ebbe un sussulto. Quarantaquattro. Kou. Il Farsi incontro. Il suo giudizio raggelante. La ragazza è potente. Non bisogna sposare una ragazza del ge­nere. Era venuto fuori di nuovo, in relazione a Juliana.
Vabbé, pensò, rilassandosi. Dunque era la donna sba­gliata per me; lo so. Non è questo che ho chiesto. Perché l’oracolo me lo deve ricordare? Un brutto destino, il mio, quello di averla incontrata e di essermi innamorato – di essere ancora innamorato – di lei.

2.
“I hope we will see one another later on in San Francisco,” Lotze said as the rocket touched the ground. “I will be at loose ends without a countryman to talk to.”
“I’m not a countryman of yours,” Baynes said.
“Oh, yes; that’s so. But racially, you’re quite close. For all intents and purposes the same.” Lotze began to stir around in his seat, getting ready to unfasten the elaborate belts.
Am I racially kin to this man? Baynes wondered. So closely so that for all intents and purposes it is the same? Then it is in me, too, the psychotic streak. A psychotic world we live in. The madmen are in power. How long have we known this? Faced this? And—how many of us do know it? Not Lotze. Perhaps if you know you are insane then you are not insane. Or you are becoming sane, finally. Waking up. I suppose only a few are aware of all this. Isolated persons here and there. But the broad masses… what do they think? All these hundreds of thousands in this city, here. Do they imagine that they live in a sane world? Or do they guess, glimpse, the truth… ?
But, he thought, what does it mean, insane? A legal definition. What do I mean? I feel it, see it, but what is it?
He thought, It is something they do, something they are. It is—their unconsciousness. Their lack of knowledge about others. Their not being aware of what they do to others, the destruction they have caused and are causing. No, he thought. That isn’t it, I don’t know; I sense it, intuit it. But—they are purposely cruel … is that it? No. God, he thought. I can’t find it, make it clear. Do they ignore parts of reality? Yes. But it is more. It is their plans. Yes, their plans. The conquering of the planets. Something frenzied and demented, as was their conquering of Africa, and before that, Europe and Asia.
Their view; it is cosmic. Not of a man here, a child there, but air abstraction: race, land. Volk. Land. Blut. Ehre. Not of honorable men but of Ehre itself, honor; the abstract is real, the actual is invisible to them. Die Güte, but not good men, this good man. It is their sense of space and time. They see through the here, the now, into the vast black deep beyond, the unchanging. And that is fatal to life. Because eventually there will be no life; there was once only the dust particles in space, the hot hydrogen gases, nothing more, and it will come again. This is an interval, ein Augenblick. The cosmic process is hurrying on, crushing life back into the granite and methane; the wheel turns for all life. It is all temporary. And they—these madmen—respond to the granite, the dust, the longing of the inanimate; they want to aid Natur.
And, he thought, I know why. They want to be the agents, not the victims, of history. They identify with God’s power and believe they are godlike. That is their basic madness. They are overcome by some archetype; their egos have expanded psychotically so that they cannot tell where they begin and the godhead leaves off. It is not hubris, not pride; it is inflation of the ego to its ultimate confusion between him who worships and that which is worshiped. Man has not eaten God; God has eaten man.

«Spero che ci rincontreremo, a San Francisco,» disse Lot­ze mentre il razzo toccava il suolo. «Mi sentirò sperduto, sen­za un connazionale con cui parlare.»
«Io non sono un suo connazionale,» disse Baynes.
«Oh, sì, è vero. Ma dal punto di vista razziale siamo mol­to vicini. E anche sotto il profilo delle intenzioni e degli obiet­tivi.» Lotze cominciò a muoversi sul sedile, preparandosi a slacciare la complicata cintura di sicurezza.
Sono simile a quest’uomo, dal punto di vista razziale? si domandò Baynes. Simile a tal punto da avere le stesse inten­zioni e gli stessi obiettivi? Allora c’è anche in me quella vena psicotica. È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I paz­zi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E… quanti di noi lo sanno? Non Lotze. Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è paz­zo. Oppure può dire di essere guarito, finalmente. Si risve­glia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse… che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intravedono, intuiscono in qualche modo la verità?
Ma, pensò, che cosa significa la parola pazzo? È una de­finizione legale. E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che cos’è?
È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno anco­ra causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento, lo intuisco, ma… sono volutamente crudeli… è quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c’è di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista dei pianeti. Qualco­sa di frenetico e di folle, così come lo è stata la loro conqui­sta dell’Africa, e prima ancora dell’Europa e dell’Asia,
La loro visione; è cosmica. Non un uomo qua, un bambi­no là, ma un’astrazione: la razza, la terra. Volk. Land. Blut. Ehre [Popolo. Terra. Sangue. Onore]. Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma l’Ehre stesso; per loro l’astratto è reale, e il reale è invisibile. Die Gute [Il bene], ma non gli uomini buoni, non quest’uomo buono. È il loro senso dello spazio e del tempo. Essi vedono attraverso il “qui” e “ora”, nell’enorme e nero abisso che c’è al di là, nell’immutabile. E questo è fatale alla vita. Perché alla fine non ci sarà più vita; una volta c’erano soltanto le particelle di polvere nello spazio, gli ardenti gas di idrogeno, e niente più, e così tornerà a essere. Questo è un intervallo, ein Augenblic [Un attimo]. Il processo cosmico procede a grandi passi, fran­tumando la vita e riducendola di nuovo a granito e metano; la ruota gira sempre, per tutta la vita. È tutto temporaneo. E loro – questi pazzi – rispondono al granito, alla polvere, al desiderio dell’inanimato; essi vogliono aiutare la Natur.
E io, pensò, so perché. Vogliono essere gli agenti, non le vittime, della storia. Si identificano con la potenza di Dio e credono di essere simili a dèi. Questa è la loro pazzia di fon­do. Sono sopraffatti da qualche archetipo; il loro ego si è di­latato psicoticamente a tal punto che non sanno più dire dove essi cominciano e dove finisce la divinità. Non è hybris, non è orgoglio; è l’ego gonfiato a dismisura, fino all’estre­mo… la confusione tra colui che adora e colui che è adorato. L’uomo non ha divorato Dio; Dio ha divorato l’uomo.

Tabella riassuntiva

Un affascinante affresco su un mondo in cui l’Asse ha trionfato. Una storia frammentata senza una vera trama unificante.
Protagonisti affascinanti che maturano affrontando i loro problemi personali.  Il ritmo lento e i balzi da una storia all’altra distaccano dai protagonisti.
Sense of wonder fantastorico a palate! Infodump e monologhi interiori gestiti in modo poco elegante.
Insolito approccio slice-of-life al genere ucronico.