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Saggistica: L’assedio di Gerusalemme

L'assedio di GerusalemmeAutore: Conor Kostick
Titolo originale: The Siege of Jerusalem. Crusade and Conquest in 1099
Argomento: Storia
Editore: Il Mulino / Biblioteca Storica

Anno: 2009
Pagine: 275

Nel Medioevo, le battaglie campali erano un fatto piuttosto raro. I contingenti militari potevano contare su forze dal numero piuttosto esiguo, in genere difficili da controllare e anche più da coordinare tra loro. In compenso, ogni tipo di potere politico – dal signorotto feudale sfigatello al libero comune al principe feudale – possedeva il suo luogo fortificato dietro cui ripararsi, dalla piccola motte fortificata in legno alla doppia fila di mura di pietra. Sicché, uno dei sistemi ricorrenti con cui i signori dell’epoca finivano col risolvere le zuffe era l’assedio. Per esempio pare che tra il 1101 e il 1112 re Luigi VI, nella sua ‘guerra al minuto’ per tenere a bada i signorotti feudali che circondavano il suo piccolo dominio, abbia preso parte ad almeno una dozzina di assedi (contro torrioni, fortezze, città).
Se si vuole scrivere una storia di guerra ambientata in uno pseudo-medioevo, è dunque essenziale capire come funzionassero gli assedi – come venissero organizzati, quali obiettivi avessero, quali strumenti venissero impiegati, eccetera. Mi ero già fatto un’idea di base sull’argomento leggendo saggi, diciamo, ‘di teoria generale’, come La guerra nel Medioevo di Contamine (di cui ho già parlato più di un anno fa); ma dato che un esempio vale più di mille parole, ero alla ricerca di cronache che raccontassero in concreto di questo o quell’assedio. Al contempo, fomentato da quel gioco riuscito a metà che era il primo Assassin’s Creed, avevo tanta voglia di Crociate e di Vicino Oriente. Fu così che mi imbattei ne L’assedio di Gerusalemme di Conor Kostick.

L’assedio di Gerusalemme del 1099, che vide un contingente franco-tedesco-normanno prendere la città santa nel giro di un mese, rappresenta il culmine della Prima Crociata. Ora, bisogna fare una precisazione: questo assedio (come tutta la campagna che lo precedette) non ha nulla di tipico; non può, in tutta onestà, essere preso come archetipo degli assedi medievali.
La mole esagerata di civili (tra pellegrini, preti, contadini) che i crociati si portavano dietro; la mancanza di una leadership chiara (ogni contingente manteneva un certo grado di indipendenza, e verso la fine della campagna l’esercito crociato si spaccò in due vere e proprie fazioni rivali!); il fatto che in diversi momenti fosse proprio la massa degli inermi a spingere e ‘guidare’ l’avanzata dell’esercito (specialmente all’inizio e dopo la presa di Antiochia), accecati dal bisogno di raggiungere Gerusalemme, impedendo così ai signori la pianificazione di una vera strategia; il clima escatologico di tutta la campagna, che mischiava interessi materiali e spirituali e trasmise all’esercito cristiano una determinazione estrema.
La Prima Crociata fu una campagna davvero particolare nel panorama del Medioevo; e tuttavia, nei quattro anni della sua durata, troviamo una tale quantità di assedi, spedizioni, scaramucce, marce, battaglie campali, e incontri diplomatici, da trasmetterci un affresco piuttosto ampio della vita militare di quel periodo.

Mappa della Prima Crociata

Una mappa approssimativa delle fasi della Prima Crociata. Quella che chiama ‘First wave of Crusaders’ è la massa dei ‘crociati poveri’; la seconda sono i contingenti guidati dai principi.

Nonpostante il titolo fuorviante, il saggio di Kostick ci mostra tutta la Prima Crociata: dall’appello di Urbano II al Concilio di Clermont, alla prima ‘Crociata dei poveri’ radunatasi attorno la stramba figura di Pietro l’Eremita; dall’incontro-scontro diplomatico tra l’imperatore bizantino Alessio Comneno e i signori cristiani che guidavano la spedizione crociata, al travestimento del normanno Tancredi per attraversare Costantinopoli senza dover prestare giuramento; dall’assedio di Nicea al primo spaccarsi dell’esercito crociato, quando Baldovino di Boulogne va a insignorirsi di Edessa; dal ritrovamento miracoloso della Lancia di Longino alle lunghe marce attraverso le aride terre della Palestina, all’apparizione ‘miracolosa’ delle navi genovesi sulle coste al largo di Gerusalemme; e poi, dopo la presa della città dalle mani del signore fatimide Iftikhar, la lotta politica tra Goffredo di Buglione e Raimondo di Tolosa – i due leader della spedizione – per chi si farà re della città, e la resa dei conti con il sopraggiunto esercito fatimide nella battaglia di Ascalona.
L’assedio e la presa di Gerusalemme veri e propri occupano il terzo centrale del libro, un centinaio circa di pagine. Kostick entra nel dettaglio di tutti i problemi che l’esercito crociato (diviso nei due accampamenti rivali di Baldovino e Raimondo) dovette affrontare per impossessarsi della città: l’individuazione di fonti d’acqua per combattere la sete mortale che piagava i crociati, la costruzione di macchine d’assedio per aprire una breccia nelle mura, il bisogno di infondere coraggio e speranza tra le proprie file, al tempo stesso tenendo sotto controllo tutti quei preti e quei santoni che di continuo avevano visioni messianiche. Il tutto, nella consapevolezza martellante di dover fare in fretta, perché l’emiro del Cairo stava mettendo in piedi un esercito per venire lì alle porte di Gerusalemme a pigliarli a calci in culo prima che potessero entrare nella città.

Il merito principale del libro di Kostick è nel suo stile narrativo, che gli dà quasi l’aria di un romanzo. Le note sono ridotte al minimo, e qualsiasi discussione sulle fonti è rimandata all’appendice. A campeggiare sono i grandi personaggi che hanno guidato la spedizione, personaggi tragicomici che paiono quasi usciti da un anime: Raimondo di Tolosa, l’austero e santissimo conte che secondo la volontà del papa avrebbe dovuto guidare la spedizione assieme allo stimato vescovo Ademaro di Le Puy, e che si trova continuamente gabbato dalla massa dei crociati; Goffredo di Buglione, che abbandona tutto per lanciarsi nella campagna e si conquista la stima di tutti grazie alle sue imprese eroiche e quasi sovrumane; il pragmatico normanno Boemondo, che passa con nonchalance dal progettare di rovesciare Alessio e insignorirsi di Costantinopoli a diventare suo fedelissimo vassallo nella riconquista dell’Anatolia, e il suo scapestrato nipote Tancredi, un pazzo disposto a tutto pur di non rinunciare alla propria indipendenza e di ritagliarsi un feudo nella Terrasanta; e poi Pietro l’Eremita, il santone un po’ ingenuo che infiamma gli animi dei poveri e li manda a farsi macellare a decine di migliaia, salvo poi essere messo da parte come l’ultimo degli sfigati quando arrivano i veri principi; e tutti gli altri preti ed eremiti che, dopo la morte di Ademaro, si contendono la leadership clericale facendo a gara a chi ha la visione più esagerata.
Questo approccio narrativo non impedisce comunque a Kostick di approfondire il contesto della spedizione, le cause della vittoria, la logica degli assedi. Per esempio, i successi dello scalcinato esercito crociato sono spiegati alla luce dell’incredibile frammentazione politica dei piccoli principati selgiuchidi, in costante lotta tra loro e spesso disposti a chiudere un occhio o anche a dare una mano all’avanzata degli ‘occidentali’ purché essa danneggiasse le città rivali – la tendenza del mondo musulmano a sottovalutare l’avanzata crociata fino a che non fu bene addentro in Palestina è più volte sottolineata da Kostick. L’assedio di Gerusalemme è corredato da una serie di diagrammi che mostrano la disposizione delle forze nelle varie fasi dell’assedio, e l’ordine e la direzione con cui entrarono i contingenti al momento della presa. E ancora, il massacro indiscriminato della popolazione di Gerusalemme da parte dei crociati dopo la presa della città è spiegata dall’autore – oltre che dall’impossibilità dei capi militari di controllare la massa dei pellegrini e dei milites, malridotti, affamati e incazzati neri – dalla frustrazione insorta nella gente dopo l’insoddisfacente cessione di Nicea con tutti i suoi beni all’imperatore bizantino.

Assedio di Gerusalemme

Il contingente di Goffredo di Buglione conquista le mura settentrionali di Gerusalemme grazie a una traballante torre d’assedio su ruote.

L’assedio di Gerusalemme, insomma, non mette semplicemente in scena una campagna militare, ma ci dà anche un’idea di quella che doveva essere la mentalità dell’epoca. I principi cristiani, benché dominati dal bisogno di dimostrare il loro valore, e capaci di infiammarsi sinceramente per una profezia messianica o per il ritrovamento di una reliquia, appaiono come dei pragmatici figli di puttana. Gente concreta, che sa che la propria sopravvivenza e il loro potere deriva dal costruirsi una rete clientelare e dall’impossessarsi di un territorio in loco; gente che dopo qualche anno diventa riluttante a proseguire la campagna, e sarebbe ben disposta a rinunciare alla liberazione del Santo Sepolcro in cambio di una conquista sicura (come Boemondo, che abbandona l’esercito dopo essersi insignorito di Antiochia). Gente che sa che gli assedi e le battaglie sono un problema pratico, che si risolve con accorgimenti tecnici e che non si può abbandonare all’estro demenziale del popolino o dei preti.
Al contempo notiamo come, già in quell’epoca, fossero sempre i poveri e i milites di ‘ceto medio’ a pigliarla in culo: mentre nei deserti del Medio Oriente i pellegrini muoiono come mosche, devastati dalla fame, dalla sete e dalla malattia, i grandi principi continuavano nelle loro tende a fare la bella vita, circondati dei cibi più raffinati. Non è un caso se al termine della Crociata, nonostante l’esercito cristiano abbia perso più di diecimila uomini, i principi che l’hanno guidata siano praticamente ancora tutti vivi. Lo stesso Iftikhar, mentre i suoi concittadini vengono sterminati a migliaia dai cristiani, rifugiatosi con i suoi nella Cittadella fortificata, riesce a contrattare con il conte Raimondo un’onorevole resa e se ne fugge illeso nel cuore della notte.

Certo, è possibile che Kostick si sia preso qualche licenza poetica nel tratteggiare i protagonisti di questa storia – ma nel complesso mi sembra tutto credibile, e coerente con quanto ho letto in altri testi sul periodo. Nell’Appendice bibliografica che chiude il libro, Kostick mette da parte lo stile narrativo per discutere seriamente i criteri che ha seguito nello scrivere il saggio. Come si sia regolato nel caso di fonti discordanti, con che criteri abbia riempito i vuoti; le fonti principali sono anche contestualizzate e discusse nel dettaglio una per una. Insomma, se avevate il dubbio che l’autore, per essere più scorrevole, fosse stato più superficiale, questa appendice dovrebbe togliervelo.
L’assedio di Gerusalemme è, chiaramente, un testo divulgativo, pensato per chi conosce poco la storia della Prima Crociata e della presa della Città Santa. Chi è già esperto dell’argomento ci troverà ben poco; ma per tutti gli altri – aspiranti scrittori o semplici curiosi – è una lettura consigliatissima. Grazie al suo stile, è uno dei libri di storia più piacevoli e affascinanti che mi sia mai capitato di leggere. Soprattutto, mi ha reso più concrete quelle nozioni di guerra e società che avevo appreso su altri libri, inserendole in una storia.

Pietro l’Eremita mostra ai crociati la strada per Gerusalemme. Fatto simpatico, il santone non morirà falcidiato dai turchi come la maggior parte dei suoi seguaci, ma finirà serenamente i suoi giorni in Francia una ventina d’anni dopo la presa di Gerusalemme.

Lascio a gente più preparata di me ulteriori giudizi sull’attendibilità della ricostruzione di Kostick. Ma permettetemi di concludere con uno stralcio dall’introduzione:

Martedì 7 giugno 1099: una folla di gente dall’aria provata si era raccolta su una collina per guardare l’orizzonte che schiariva a oriente. A circa un chilometro di distanza, i contorni delle mura e degli edifici di una città andavano facendosi sempre più netti nella luce dell’alba; per raggiungere quel punto ciascuno di loro aveva arrancato nell’oscurità, la notte precedente. Non appena allodole, fringuelli, rondini e rondoni salutarono il nuovo giorno con il loro canto, anche quella folla iniziò a mormorare in un’infinità di voci diverse: preghiere sussurrate in tutte le lingue e dialetti della cristianità.
Come la luce si fece più forte, quella moltitudine divenne più distinta: qui un arciere con l’arco a tracolla, laggiù un fante con la corazza di cuoio, appoggiato alla sua lancia come a un bastone. E in mezzo a coloro che erano pronti a combattere si poteva notare un sorprendente numero di gente disarmata, tra cui preti, suore, donne e bambini di ogni età.
A breve distanza, un gruppo di 70 cavalieri disposti in una fila ordinata scortava la folla appiedata con un certo compiacimento. Le loro cotte di maglia e gli elmi lucidi splendevano delle rosee tinte dell’alba. Quegli stessi cavalieri, il giorno precedente, avevano compiuto un’incursione di avanscoperta, e ne erano tornati con la notizia che la città era ormai vicina, inducendo la folla di straccioni ad arrancare tra le rocce per tutta la notte, nella speranza di vedere finalmente la manifestazione fisica dei loro sogni. Fieri della responsabilità per quanti si erano affidati alla loro protezione, i cavalieri stavano all’erta, scrutando in tutte le direzioni l’orizzonte che schiariva, in cerca di nuvole di polvere nell’aria del mattino, vale a dire di eventuali segni della presenza del nemico. Alla testa della squadra di cavalieri vi era un piccolo drappello di guerrieri, raccolti con stendardi e lance attorno ai due capi della schiera: Tancredi e Gastone di Béarn. A dispetto dei suoi ventisei anni, Tancredi era già l’eroe di quella compagnia.
[…] Insieme ai ritardatari, chiudeva il gruppo l’anziano conte di Tolosa, Raimondo di Saint-Gilles, quarto del suo nome. Cinquantun’anni, la barba grigia, uno sfregio che gli solcava tutto un lato del volto e l’occhio guercio, il conte procedeva scalzo e piuttosto di malumore. Soltanto i preti e chierici provenzali al suo seguito stavano prendendo sul serio le parole di un umile visionario, Pietro Bartolomeo, morto in un’ordalia del fuoco per provare che il conte era stato prescelto dal Signore per guidare le armi cristiane. Pietro Bartolomeo aveva messo in guardia i crociati: il loro ingresso in Terrasanta doveva avvenire a piedi nudi e con cuore contrito, o avrebbero perso il favore divino; ma nell’eccitazione della vicinanza della città la massa di era del tutto dimenticata della profezia. Anche il grosso dei cavalieri e dei seguaci di Raimondo si era precipitato in avanti insieme agli altri, ma il conte calcava pazientemente la pista con i piedi scalzi, e camminava nella polvere creata dalle migliaia di uomini che lo precedevano. Anche se i suoi compagni cristiani trascuravano di osservare questo atto di umiltà, gli occhi onniveggenti di Dio erano sicuramente su di lui.
Più avanti sul costone, la folla si faceva sempre più fitta e più ampia. Nonostante le profonde rivalità politiche tra i sassoni, i normanni, i provenzali e i molti altri contingenti regionali, un senso di successo condiviso invase tutti quanti nel vedere gli edifici della vicina città stagliarsi contro l’orizzonte che schiariva. A quel punto, infatti, tutti quanti furono pervasi dalla consapevolezza di avere raggiunto infine l’obiettivo, un luogo che era stato ritenuto quasi mitico. La parola che ora si levava con gioia, gridata tra le lacrime, era comprensibile in tutte le loro lingue.
Gerusalemme.

Gerusalemme 1099

Bonus: La guerra santa
La guerra santaAutore: Jean Flori
Titolo originale: La guerre sainte. La formation de l’idée de croisade dans l’Occident chrétien
Argomento: Storia
Editore: Il Mulino / Storica Paperbacks

Anno: 2001
Pagine: 441

Il libro di Kostick è molto dettagliato nel racconto della Prima Crociata, ma dice poco sulle motivazioni e sul “clima culturale” che l’ha prodotta. Per chi volesse approfondire quest’ultimo aspetto, una soluzione potrebbe essere La guerra santa di Jean Flori.
Per capire lo strano fenomeno che ha portato alla mobilitazione di massa della popolazione europea (e di tutti i suoi strati sociali!) per la crociata, Flori parte da una domanda: che cos’è esattamente la ‘crociata’? I vari capitoli analizzano uno ad uno tutti i fenomeni religiosi e sociali che nei secoli precedenti il Concilio di Clermont hanno portato alla nascita della ‘mentalità della crociata’: la crescita dell’autorità dei vescovi, le paci e le tregue di Dio, la militarizzazione dei santi, la riforma gregoriana del Papato, la reconquista spagnola e così via. Ciascun fenomeno è studiato nel dettaglio, e a ciascuno è dato il giusto peso.

A differenza di L’assedio di Gerusalemme, il saggio di Flori non ha un andamento narrativo; è un testo molto tecnico e approfondito, che si confronta di continuo con le tesi degli storici che l’hanno preceduto per confermarle o confutarle. Tira fuori stralci di documenti e fa le pulci ad ogni dettaglio. Se le pagine di Kostick sono puro testo, quelle di Flori hanno dalle due alle cinque-sei note a pagina – la bibliografia di riferimento è sterminata.
Certo, non tutte le tesi di Flori mi convincono, e su tutte il mettere troppo in secondo piano il bisogno espansionistico della piccola nobiltà feudale. Un critico marxista direbbe (a ragione) che l’analisi di Flori è tutta sovrastruttura e niente (o quasi) struttura: si concentra talmente sulla storia delle mentalità da trascurare le cause materiali che ci stanno dietro. Ma triangolando La guerra santa con altri saggi di cui ho parlato in precedenza – la seconda parte di La guerra nel Medioevo, La società feudale di Bloch, Civiltà e potere di Elias, La santità nel Medioevo – viene fuori un quadro abbastanza chiaro di ciò che ha causato la nascita delle Crociate.
Ancora, a volte sembra che Flori stia discutendo del sesso degli angeli; alcuni passaggi entrano davvero troppo nel dettaglio per essere di qualche interesse per il non specialista. Ma, di nuovo: diversamente da quello di Kostick, che è divulgazione estrema, questo è un saggio per specialisti. Non è un libro per tutti, ma per chi sia disposto a spaccare il capello in quattro pur di capire che cosa è stata la crociata.

Addendum: Due Osprey sugli assedi
Osprey Medieval Siege Warfare (1)E se volete approfondire la vostra conoscenza degli strumenti d’assedio, vi viene in aiuto Osprey! La collana Vanguard  ha pubblicato una decina d’anni fa due agili volumetti sulla storia, il funzionamento e l’impiego delle armi da assedio. Il primo si incentra sul mondo occidentale, il secondo su Bisanzio, il Medio Oriente e l’India. Sono davvero piccoli: sommati non raggiungono le 100 pagine.

Osprey Medieval Siege Warfare (2) Non li ho ancora letti – anche se probabilmente lo farò, nel momento in cui deciderò di mettere degli assedi in una delle mie storie – ma ci ho dato un’occhiata e sembrano roba buona. Inoltre Zwei vi ha apposto il suo sigillo di approvazione.
Entrambi si possono trovare su Emule.

Assassin’s Fail

Assassin's CreedChi mi segue sa che ho da alcuni anni una passione per il Medioevo. Non per i mondi pseudo-medievali alla Tolkien o alla D&D, con i vecchi re saggi, le foreste piene di elfi immortali e le legioni di orchetti che arrivano sempre dall’angolo nord-ovest della mappa (dall’altra parte della catena di montagne a punta dove il cielo è sempre scuro).
Parlo del Medioevo vero, quello degli imperi che si disgregano e dei signorotti avidi che si arroccano nei loro castelli; delle città contese tra vescovi, principi e banchieri; delle flotte mercantili che si imbarcano alla volta dei regni pagani, in cerca di qualche affare. Dai monaci che si allontanano dalle città in dissoluzione rinchiudendosi nei monasteri ai cavalieri teutonici che, nel gelo delle coste del Baltico, convertono anime a colpi di gladio; dalle invasate in unione mistica con Dio al milite scalcinato che cerca fortuna entrando in una compagnia mercenaria. In particolare mi ha sempre affascinato seguire la storia delle nazioni e dei popoli; vedere come dal caos del V secolo d.C. siano nate a poco a poco le nazioni e la cultura di oggi.

E’ stato questo afflato ad avvicinarmi, io ingenuo liceale, ad Assassin’s Creed nel lontano Natale 2008. Aggirarsi tra le città del debole regno crociato sul finire del XII secolo, nei panni di un Assassino, era la realizzazione di uno dei miei sogni proibiti. Questo stesso afflato, risvegliatomi negli ultimi mesi dalla roba di sapore medievale che sto cercando di scrivere, mi ha spinto a rigiocarlo da capo a Natale di quattro anni dopo.
Della serie mi ero disamorato in fretta. Il primo gioco ai tempi mi era piaciuto, seppure con qualche riserva, ma Assassin’s Creed 2 mi aveva fatto talmente cagare da metterci un anno buono a trovare il coraggio di finirlo. I capitoli successivi non li avevo neanche considerati. A quattro anni di distanza, di storia – e soprattutto di storia medievale e rinascimentale – ne capivo molto di più; pensai che un gioco come il primo Assassin’s Creed mi sarebbe parso ridicolo, infantile e antistorico. Ero quindi piuttosto in imbarazzo quando misi il blu-ray nella PS3.

Gatto Templare

Eppure – eppure non mi è dispiaciuto rigiocarci. Anzi: mi sono divertito di nuovo. E’ vero, il gioco ha molti limiti. La trama, e in particolar modo quella ambientata nel presente, con la teoria complottistica alla Kazzenger dell’eterna lotta tra Templari e Assassini, è roba buona per dodicenni. La meccanica è ripetitiva; non tanto per il fatto degli omicidi in serie – che è un po’ l’anima del gioco, è figo e offre una sufficiente varietà di situazioni – quanto per la parte di preparazione delle uccisioni, che è sempre uguale e quindi sa di finto: la raccolta di informazioni, il soccorso agli abitanti, l’arrampicarsi in cima alle torri per memorizzare la topografia della città. Le città sono un po’ anonime; certo, ciascuna ha qualcosa di particolare (Damasco il fiume, le ville dal tetto a cipolla e i musulmani, Acri i crociati, il porto e la cittadella dei cavalieri, e così via) e un filtro di colori diverso (ehm), ma alla lunga un vicolo vale l’altro. Alcune parti del gioco – in particolare l’inizio e la fine – si vede che sono state fatte di fretta, per rispettare la scadenza.
Di sicuro il primo Assassin’s Creed aveva ampi margini di miglioramento. Ma la formula era spettacolare – una sorta di GTA storico con contorno di Hitman. Ciò che soprattutto intravedevo quattro anni fa, arrivato alle fasi finali del gioco, era il potenziale della serie: dove sarebbe potuta arrivare nei capitoli successivi. Mentre mi scorrevano davanti i titoli di coda, pensai: “Non potevano ritardare l’uscita e hanno dovuto fare le cose di fretta. Ma ora hanno acquisito il know-how. Ora la serie è famosa, e possono prendersi più tempo per sviluppare il prossimo capitolo. Ora hanno capito che la formula funziona, e possono raffinarla”.
Un anno dopo esce Assassin’s Creed 2, e fa cagare a spruzzo.

Assassin's Creed 2

Cos’è andato storto?
Ho già avuto modo di dire in diversi articoli che le regole di base della narrativa valgono per qualunque medium narrativo – letteratura, cinema, fumetto, videogioco. Le stesse regole si applicano ad Assassin’s Creed 2. Questo gioco è sbagliato in talmente tanti modi che non saprei da dove cominciare. Bastano cinque minuti per accorgersi che non ci si sta muovendo davvero nell’Italia rinascimentale, ma in un cartonato hollywoodiano.
Cos’è che per primo fa scattare la molla? Difficile dirlo. Forse sono le texture: i muri di Firenze troppo puliti, troppo levigati, che ricordano più una ricostruzione disneyana che una città vera; l’illuminazione, lampioni a petrolio che sembrano usciti dall’Ottocento e non dal tardo Quattrocento. Quella stessa trascuratezza che più tardi trasforma Venezia da laguna in un’isola in mezzo all’oceano (salite su un campanile e guardate il panorama: mare aperto in tutte le direzioni). “History is our playground” è il motto del team di sviluppo del gioco, ma considerando l’accuratezza storica che ci mettono direi che “history is our whore” sarebbe più appropriato. Per non parlare della tristezza di mettere il quartiere Oltr’arno di Firenze in una DLC a pagamento.

Forse è la trama. Il protagonista del primo Assassin’s Creed era un professionista che, in un mondo in guerra, era chiamato dal suo ordine ad ammazzare una serie di personaggi in vista per “riportare la pace”. Era un terrorista. Il clima di ambiguità morale che si respirava dietro ogni assassinio era affascinante, e il giocatore aveva voglia di scoprire assieme ad Altair quale fosse lo schema dietro gli ordini del Maestro.
La trama di Assassin’s Creed 2 è il Canovaccio Hollywoodiano Standard #652. Al ragazzetto sciupafemmine senza arte né parte viene ammazzata la famiglia. Ma il ragazzetto scopre che il padre era un Assassino, e che ad ucciderlo sono stati nientemeno che i Templari! Segue la solita trama di addestramento e vendetta. Il livello di banalità, la quantità di cliché è tale che tutto urla ‘finto!’; la sensazione di trovarsi sul set di un film d’azione prevale su quella di vivere cinquecento anni nel passato; non si riesce davvero a crederci, e questo è il FAIL più grande per un gioco che vorrebbe essere immersivo.
E oltre ad essere più banale, è anche più infantile. L’ambiguità morale del primo Assassin’s Creed è scomparsa. Là si gettava il seme del dubbio che i Templari potessero essere nel giusto; se gli Assassini fossero davvero migliori dei Templari, o se non fossero due facce della stessa medaglia. Nel secondo il problema non si pone: gli Assassini sono buoni, i Templari sono cattivi. Nel primo, anche le vittime sono interessanti; memorabile ad esempio il mercante omosessuale che organizza un banchetto per riunire i suoi rivali e poi ucciderli tutti insieme, o il vassallo frustrato di Riccardo Cuor di Leone che sfoga sui sottoposti i suoi istinti sadici. Nel secondo, i ‘cattivi’ sono gente genericamente assetata di potere, o di soldi, o di vendetta, individui talmente anonimi che li si confonde gli uni con gli altri. Quanto ai comprimari, sono tutte macchiette che esasperano la gestualità e la ‘veracità’ italiane, e la mancanza di fede religiosa che si attribuisce a quell’epoca.

Ezio Auditore Jackass

Forse è il fatto che la storia non è semplicemente insulsa; è pure raccontata male. Mentre il primo Assassin’s Creed aveva un arco narrativo compatto, il seguito si sfilaccia attraverso svariate decadi. Cosa succede nei mesi o negli anni che passano tra un capitolo e l’altro è infodumpato alla brutta nei dialoghi tra i personaggi; avvenimenti cruciali come il fatto che il ‘capo dei cattivi’ da un capitolo all’altro sia diventato Papa sono appena menzionati. Le distanze sono annullate. Nel primo gioco, il senso di realismo era accentuato dal fatto che le città erano collegate tra loro da ampi spazi di campagna (il ‘Regno’) da percorrersi a cavallo. Nel secondo, ogni ambiente è un compartimento stagno: esci da Firenze e sei a Monteriggioni, giri a destra di Monteriggioni e sei nei sobborghi di San Gimignano, e così via. Quelli di Ubisoft hanno pensato con arroganza di poter continuare a sfornare un gioco all’anno, e i risultati si vedono.
Forse è il background sempre più demenziale. Già il fatto di voler trascinare Assassini e Templari dal Medioevo nelle borghesissime città del Rinascimento italiano fa un po’ ridere. Ma la lotta tra le due fazioni assume proporzioni imbarazzanti. L’origine di Assassini e Templari (sotto altri nomi) vengono fatte risalire addirittura a Caino, neanche fossero i vampiri della Whitewolf; praticamente qualsiasi conflitto o avvenimento importante nella storia del genere umano è reinterpretato alla luce dello scontro tra Assassini e Templari. La Seconda Guerra Mondiale? Causata dai Templari. Giulio Cesare? Era un Templare. La Rivoluzione d’Ottobre? Templari. Non esiste nient’altro. Vengono pure messi in mezzo gli alieni! Diosanto. La sceneggiatura sembra scritta a quattro mani da Giacobbo e Ron Hubbard.

Tutte queste ragioni sono già sufficienti per fare del secondo Assassin’s Creed un gioco di merda. Ma no, il fatto peggiore è ancora un altro. E cioè, che la formula del primo capitolo è buttata alle ortiche: Assassin’s Creed 2 è un gioco su binari. Le uccisioni vanno ancora “preparate”, ma il giocatore non ha alcun controllo sulla suddetta preparazione. Questa consiste in una serie di minigiochi insulsi da eseguire nell’ordine prestabilito, seguendo di volta in volta gli ordini dell’aiutante dell’eroe di quel capitolo. “Vai dal punto X al punto Y, uccidi Z e poi torna a X”: questa è la formula di Assassin’s Creed 2. Tutto è scriptato, persino il modo in cui vanno uccisi i bersagli (espediente usato di rado nel primo gioco della serie). Anche un’escamotage banale come la possibilità di completare alcuni assassinii nell’ordine che si preferisce è sparito.
E dire che qualche timido passo in direzione di GTA viene fatto. Per esempio vengono introdotti il denaro e i negozi, che sono una cosa carina (benché nulla di nuovo) e danno più profondità all’esplorazione della città. Ma per ogni passo avanti, due passi indietro. Il gioco è talmente pilotato, e la storia talmente frammentata e mal raccontata, che è impossibile immergersi nell’ambientazione. Il giocatore smette di “vivere” la città rinascimentale (se mai ha iniziato) e comincia a pensare per obiettivi di gioco, del tipo: “adesso ammazzo questo bersaglio così mi si sblocca il nuovo quartiere”. La suspension of disbelief è morta, non dimentichiamo neanche per un secondo di stare stringendo uno stupido controller.

Assassin's Creed 2

Come sarebbe dovuta andare?
Il primo Assassin’s Creed, dicevo, era sulla buona strada per l’immersività, ma aveva tutta una serie di limiti. Questi si possono così riassumere: troppa poca libertà, e meccanica ripetitiva. I seguiti avrebbero quindi dovuto potenziare proprio gli aspetti che sono stati eliminati.
Personalmente, avrei lasciato la struttura “ad assassinii”: che ogni capitolo di gioco abbia come obiettivo l’uccisione di un personaggio, culmini nell’omicidio e finisca dopo che l’assassino è riuscito a far perdere le proprie tracce. La libertà si costruisce attorno a questo scheletro. Attraverso una varietà di sotto-missioni tra cui il giocatore può scegliere (a seconda dell’approccio che preferisce), l’eroe comincia ad ambientarsi nella o nelle città di gioco e a trovare dei contatti. Da questi dovrà scoprire chi sia la vittima e quale sia il modo migliore per ucciderla. La cosa può essere resa più interessante dall’introduzione di scadenze: per esempio, ogni capitolo potrebbe durare un mese, al termine del quale se la vittima non viene uccisa si ha fallito e bisogna ricominciare.

Nel corso di questo “mese” la vittima non rimarrà immobile. E’ una persona ‘vera’, e come tale farà tutta una serie di cose; un giorno si troverà nel quartiere degli armaioli a contrattare una fornitura, il giorno dopo visiterà la villa di un politico nel quartiere dei ricchi, il terzo starà nascosto nei sobborghi della città. Questo richiede ovviamente l’introduzione del ciclo giorno-notte reale (a partire dal secondo capitolo, Assassin’s Creed avrebbe un ciclo giorno-notte, ma è puramente estetico). Di notte i negozi saranno chiusi e le porte della città chiuse, ma sarà possibile incontrare alcuni personaggi chiave in un vicolo o in una taverna, o giocare a dadi in uno sgabuzzino o andare a puttane. Di notte sarà anche più facile infiltrarsi in una proprietà privata, sfuggire agli occhi delle guardie; e anche, naturalmente, compiere gli omicidi.
E a proposito di infiltrazione e omicidi: bisognerebbe potenziare le dinamiche stealth nella direzione di un Metal Gear Solid, perché negli Assassin’s Creed sono piuttosto deboli. Le mosse, per esempio: appiattirsi contro le pareti, bussare per attirare l’attenzione, sporgersi. Ma anche la possibilità di entrare in case e palazzi, o almeno in una parte di questi. Assassin’s Creed si svolge praticamente sempre all’esterno, e quando si può esplorare un interno in genere è un evento scriptato; ma questo amplifica l’idea che la città di gioco sia solo uno scenario di cartapesta.
E così via.

Things that teach me history

Dove abbiamo sbagliato…?

Ma queste mie parole sono un esercizio accademico, dato che la serie ha ormai decisamente preso un’altra direzione.
Avendo l’opportunità di comprarlo a poco, qualche mese fa mi sono preso Brotherhood, il terzo capitolo della serie. Si vede subito qualche timido tentativo di ritorno a una struttura più aperta, con la possibilità di crearsi reti di alleati, e completare alcune missioni nell’ordine che si vuole. Ma è il solito, magro contentino all’interno di una struttura rigidamente su binari.
Non so quanto abbiano fatturato di preciso i vari capitoli di Assassin’s Creed, e quindi se le scelte di Ubisoft abbiano pagato. Ma l’impressione è che la serie sia in declino. L’ambientazione di Assassin’s Creed 3 non ha prodotto alcun seguito ad alto budget, com’era capitato invece per il secondo gioco.
Proprio mentre cominciavo a scrivere questo articolo sono uscite le prime notizie sul prossimo capitolo, Black Flag. Tristezza a palate: la decisione di Ubisoft di buttarsi su un’ambientazione blockbuster come il Mar dei Caraibi mi lascia pensare che in azienda non sappiano più che pesci pigliare. Ci si allontana sempre di più da quelli che erano gli unicum del primo Assassin’s Creed, annacquando il gioco in ambientazioni e meccaniche che non c’entrano niente (la possibilità di controllare una nave? Gli arrembaggi? WTF?). Del resto, già la decisione di spostare Assassin’s Creed 3 in America suonava bizzarra, e dettata più da esigenze di marketing che di trama.

E tuttavia…
C’è qualcosa di davvero affascinante in Assassin’s Creed. E’ l’idea dell’Animus; della possibilità di rivivere il passato e la vita dei propri antenati risvegliando la nostra memoria genetica. L’idea che tutta la nostra genealogia sia intrappolata nel nostro organismo e possa essere tirata fuori. Certo, Assassin’s Creed non ha “inventato” niente, sono temi presenti nel fantasy e nella fantascienza da tempo; ma gli ha dato una bella veste. Potrei arrivare a dire che forse giocare al primo Assassin’s Creed, quattro anni fa, potrebbe essere stata una delle molle che mi hanno spinto ad approfondire lo studio della storia medievale e rinascimentale. Di certo, rigiocarlo tre mesi fa mi ha ispirato la lettura di alcune cosine interessanti. Quindi, forse, la storia ha un lieto fine.
Quel che è certo, è che non ho intenzione di chiudere il mio rant su note negative. Ho pensato questo post come un articolo d’apertura per un piccolo ciclo di interventi che ha in vario modo a che fare col mondo evocato dal primo Assassin’s Creed: le Crociate, il Medio Oriente bassomedievale, eccetera. Sto lavorando a due o forse tre articoli curiosi che dovrebbero essere pronti nelle prossime settimane. Ovviamente non sono Zwei, non sono un vero esperto, e mi limiterò a parlarvi delle mie letture.
Lunedì prossimo, invece, per i nostalgici, dovrebbe essere pronto il nuovo Consiglio.

Assassin's Creed 3

Il declino inarrestabile della serie.

Appendice: A Modest Proposal
Benché ormai cercare di salvare la serie sia come voler rianimare un cadavere, e nonostante il fatto che non c’è una sola cosa della trama massonica su Assassini e Templari che non mi faccia cagare, la mia immaginazione senza controllo non ha potuto fare a meno di chiedersi dove potrebbe essere ambientato un seguito ‘ideale’ di Assassin’s Creed; un’ambientazione meno demenziale del Mar dei Caraibi. Ecco la mia idea in poche parole.

Due gli spunti da cui sono partito.
Uno: prima che annunciassero Assassin’s Creed 3, ero straconvinto che sarebbe stato ambientato a Parigi durante la Rivoluzione. Oltre ad essere un’epoca di per sé figa, è una delle ambientazioni più conosciute e mainstream della storia europea, assieme a Crociate e Rinascimento italiano. Sarebbe stata una continuazione più fedele allo spirito della serie rispetto alla Rivoluzione Americana.
Due: mi sono sempre chiesto perché non abbiano mai fatto un gioco ambientato nella Parigi trecentesca, all’epoca in cui Filippo il Bello sopprime l’ordine dei Templari. All’interno della storyline di Assassin’s Creed, dovrebbe essere un momento cruciale: una delle due fazioni fondamentali viene dichiarata illegale e sciolta. Il gran maestro dell’ordine, Jacques De Molay, fu arso vivo davanti a Notre Dame. Da allora, secondo la storia demente della serie, i Templari cominceranno a muoversi nell’ombra. Interessante, no?
Una risposta che mi sono dato alla domanda di cui sopra, è che la Parigi medievale (per non parlare della Francia feudale in generale) non è probabilmente un’ambientazione interessante come le altre; sceglierla sarebbe stato un azzardo. Ma poi mi sono detto: perché non mettere le due cose insieme?

Assassin's Creed 5

Immaginate. Un gioco a cavallo tra due epoche, tra due Parigi: quella trecentesca, e quella di fine ancien régime. Il gioco si muoverebbe tra l’una e l’altra, magari con un capitolo a testa, magari in modo più sofisticato (per esempio, il giocatore potrebbe scegliere con un comando apposito di spostarsi in qualunque momento dall’una all’altra). A livello narrativo, la cosa sarebbe giustificata prendendo come protagonisti due antenati parigini della stessa persona, che quindi può ripercorrere a piacere la propria memoria genetica dall’uno all’altro antenato.
Sul piano della trama, il giocatore potrebbe scoprire cosa sia successo veramente all’epoca del processo ai Templari. La cosa potrebbe essere resa ancora più interessante scegliendo come protagonista, questa volta, non un Assassino ma un Templare. Magari un Templare sbarbino: questo tizio si trova da un giorno all’altro a non poter più vivere alla luce del sole ma doversi muovere nell’ombra, da ricercato. Il punto di contatto tra le due timeline potrebbe essere la ricerca di uno di quei tristissimi Frutti dell’Eden: magari il Templare protagonista della prima timeline lo nasconde da qualche parte a Parigi (per esempio nelle Catacombe?), mentre il protagonista della seconda deve ritrovarlo. La necessità di rivivere entrambe le vite si spiega così con il bisogno di tracciare i movimenti del frutto.
Sul piano dell’esperienza di gioco, il giocatore potrebbe vedere come si è trasformata la stessa città da un’epoca all’altra. Cosa è rimasto, come Notre Dame, cos’è cambiato. Prendere alcune decisioni nella prima timeline potrebbe influenzare situazioni nella seconda – da cose importanti come biforcazioni nella trama ad altre più sottili come l’apertura o meno di un negozio esclusivo (fondato, magari, dal discendente di un uomo che potrebbe essere o non essere morto prima di avere figli nel passato).

Io l’ho buttata lì; secondo me, sarebbe una figata1.

It was Templars

I’m not saying it was Templars but…

(1) Pur rimanendo all’interno della cornice mongoloide della serie.Torna su