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Bonus Track: The Girl Next Door

The Girl Next DoorAutore: Jack Ketchum
Titolo italiano: La ragazza della porta accanto
Genere: Horror / Slice-of-life / Psicologico
Tipo: Romanzo

Anno: 1989
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 350 ca.

Difficoltà in inglese: **

La vita di David è cambiata per sempre nell’estate del 1958, quando aveva dodici anni. Quel giorno, sulla riva del fiume, ha conosciuto una bellissima ragazza dai capelli rossi, i modi da maschiaccio e qualche anno più di lui. Si chiama Meg. I suoi genitori sono appena morti in un incidente stradale, e lei e Susan, la sua sorellina, sono stati affidati alla cugina della madre, Ruth; che, combinazione, è la vicina di casa David. Dave è amicissimo dei tre figli di Ruth, e ha una grande stima per l stessa Ruth – una trentacinquenne spigliata, che li tratta come degli adulti, gli fa guardare la TV in casa loro, gli offre la birra e dice parolacce ad alta voce. Sembra quindi la situazione perfetta per approfondire la conoscenza della nuova arrivata…
Ma qualcosa non va. Col passare delle settimane, Meg si fa sempre più cupa e distante. Il clima a casa di Ruth si fa teso. Continua a sgridare Meg e a umiliarla per qualsiasi cosa. I ragazzi la tormentano. E quando infine la situazione degenera, David diventa il testimone della lenta discesa agli inferi di Meg Loughlin – incerto se soccorrerla, difenderla, scappare, rimanere silenziosamente a guardare, o prendere parte alle torture. Perché, pian piano, e sotto la supervisione di Ruth, distruggere Meg diventerà l’hobby di tutti i ragazzi del vicinato…

Nell’ottobre del 1965, a Indianapolis, una donna fra i trenta e i quarant’anni viene arrestata, insieme a tutti i suoi figli e ad alcuni ragazzini del vicinato, per l’omicidio e le sevizie inflitte a Sylvia Likens, sedicenne che le era stata affidata solo tre mesi prima, assieme alla sorella minore, dai genitori. Prima della morte per trauma cranico, la ragazza era stata chiusa in cantina e torturata dall’intera famiglia per settimane. Da questa storia vera – che fu definita all’epoca il “peggior crimine nella storia dell’Indiana” – l’autore di horror hardcore Jack Ketchum trasse inspirazione per il suo romanzo The Girl Next Door.
Ne abbiamo fatta di strada in questo mese, passando da un horror over-the-top ed esilarante alla Apeshit, fino alle tinte più cupe e slice-of-life di Paranoia Agent. Il nostro viaggio finisce con questo romanzo, che di sovrannaturale non ha niente e vuole farci vedere invece, attraverso gli occhi di un dodicenne, gli abissi di brutalità a cui possono arrivare – date le giuste condizioni – delle persone normali. The Girl Next Door è un pugno nello stomaco. Il livello di violenza e gore, tecnicamente, è molto più basso che non nella narrativa splatterpunk che abbiamo esplorato nel corso di quel momento; eppure, in quest’horror psicologico e di vita quotidiana, la verosimiglianza e l’identificazione nei protagonisti della vicenda è tale da renderlo molto più agghiacciante. Questo è forse il romanzo che mi abbia fatto stare peggio in tutta la mia vita.

The Girl Next Door Screenshot

Un’immagine dal film tratto da The Girl Next Door, del 2007. Giusto per entrare nel mood.

Uno sguardo approfondito
Voglio cominciare con una citazione, quella con cui si apre il romanzo:

You think you know about pain?
Talk to my second wife. She does. Or she thinks she does.
She says that once when she was nineteen or twenty she got between a couple of cats fighting—her own cat and a neighbor’s—and one of them went at her, climbed her like a tree, tore gashes out of her thighs and breasts and belly that you still can see today, scared her so badly she fell back against her mother’s turn-of-the-century Hoosier, breaking her best ceramic pie plate and scraping six inches of skin off her ribs while the cat made its way back down her again, all tooth and claw and spitting fury. Thirty-six stitches I think she said she got. And a fever that lasted days.
My second wife says that’s pain.
She doesn’t know shit, that woman.

The Girl Next Door, insomma, si presenta da subito come una meditazione sul dolore e sulla banalità del male.
Il romanzo ha un ritmo e uno sviluppo molto lenti. Si apre con una cornice, con il protagonista ormai quarantenne che – due matrimoni falliti alle spalle e un peso sulla coscienza – guarda indietro alla sua vita, e all’esperienza che, a suo dire, ha corrotto la sua anima per il resto dei suoi giorni. Solo a partire dal terzo capitolo la cornice è abbandonata e la dodicesima estate di David diventa a tutti gli effetti il “presente” del romanzo. La trama continua a svilupparsi con calma, con la graduale introduzione del setting e dei personaggi della storia, e un andamento da romanzo slice-of-life; gli elementi horror entrano solo a poco a poco, e diventano dominanti dalla metà in poi del romanzo.

Questo approccio ha dei pregi e dei difetti.
Il limite principale, naturalmente, è la distanza che tende a creare tra il lettore e gli eventi narrati, dato che il narratore della vicenda si trova trent’anni nel futuro. Anche quando la storia entra nel vivo (cioè a partire dal terzo capitolo), la presenza del David quarantenne non scompare. Quest’ultimo si inserisce spesso nella narrazione principale – ma specialmente all’inizio o alla fine di paragrafi e capitoli – con digressioni, considerazioni, flashforward: “That day, on that Rock, I met my adolescence head-on in the person of Megan Loughlin, a stranger two years older than I was, with a sister, a secret, and long red hair. That it seemed so natural to me, that I emerged unshaken and even happy about the experience I think said much for my future possibilities—and of course for hers. When I think of that, I hate Ruth Chandler.”
Nonostante ogni tanto se ne venga fuori con un insight affascinante che sarebbe sfuggito alla sua controparte dodicenne, nella maggior parte dei casi queste digressioni rallentano il ritmo e ci staccano dalla vicenda, col risultato di indebolire la storia. Un’impostazione del romanzo priva di cornice, o con una cornice che veramente – alla maniera di un Cuore di tenebra – dopo le prime pagine scompare definitivamente per lasciar parlare i nudi fatti, senza filtro, avrebbe aumentato l’impatto emotivo della storia e lasciato ai lettori il compito di “decodificarne” il messaggio.

Jack Ketchum

Jack Ketchum si è ispirato anche alla propria infanzia nel New England degli anni ’50, mescolando quei ricordi alla cronaca dell’omicidio.

Questa costruzione della storia ha però anche un grande vantaggio. Il narratore ci anticipa da subito che è successo qualcosa di orribile, di cui lui si è reso complice; la curiosità del lettore si sposta quindi dal cosa al come. Accettare il ritmo placido della prima metà di romanzo, e la lenta introduzione del setting, diventa quindi molto più facile e anche piacevole – perché già sappiamo (e ci viene ricordato periodicamente dal narratore) dove stiamo andando.
Quando Ketchum non si abbandona al raccontato della voce narrante quarantenne, è molto bravo a mostrare. L’ambientazione di The Girl Next Door – una via di periferia di una piccola cittadina del New England, dove le case si affacciano immediatamente nei boschi e nella campagna, e i ragazzi fanno vita all’aperto – ricorda da vicino la bellissima novella mainstream The Body di Stephen King (quella da cui è stato tratto il famoso film Stand By Me). Come King, Ketchum racconta con molto disincanto la vita di un ragazzino degli anni ’50: l’abitudine alle piccole violenze, le spacconate, i giornaletti porno sbiaditi nascosti nei boschi, il prendersi a sassate, il pescare gamberetti nei torrenti con le mani, il torturare piccoli animali con nonchalance, l’essere alla completa mercé dei propri genitori, il tabù del sesso, le ragazze più grandi guardate a vista.

La prima metà del romanzo è molto lenta, vero. Ma è proprio questa graduale immersione nella vita di questi ragazzi di campagna, nei loro giochi e nei loro problemi, che ci fa appassionare al loro destino e rende la seconda metà tanto più agghiacciante. Conosciamo così i tre figli di Ruth: Woofer, il più piccolo, così chiamato per il suo agitarsi frenetico e il suo ululare da bestiolina; Donny, il più sveglio e il migliore amico di David; e Willie, il più grande dei tre, un tipo che ha già la pancia da birra e che il protagonista non esita a chiamare rincoglionito. Conosciamo i due fratelli Morino, i cui genitori italo-americani sono dei bigotti cattolici; e poi Eddie e Denise, due schizzati pericolosi che vengono regolarmente pestati dal padre alcolista; e Susan, la sorellina di Meg, rimasta ferita nell’incidente che si è portato via i loro genitori e ridotta a un fragile cencino costretto a girare in stampelle.
E soprattutto conosciamo Meg. Ketchum qui merita degli applausi, perché attraverso gli occhi di David anche noi ci innamoriamo nel giro di poche pagine di Meg. Ci viene presentata come una ragazza in gamba, che sa acchiappare un pesce a mani nude; una ragazza orgogliosa, ma non arrogante, e con senso dell’umorismo; una ragazza che non è disposta a farsi mettere i piedi in testa o ad accettare le ingiustizie senza combattere. Per questo è tanto più terribile osservare la lenta degradazione di Meg, dai primi alterchi con Ruth, alle prime proibizioni, alle prime accuse ingiustificate, fino alla discesa nello scantinato. Uno dei limiti dell’uso della prima persona al passato, è che la tensione cala perché sappiamo già che il protagonista sopravviverà – ma in The Girl Next Door il problema non sussiste, perché il nostro focus non è sul protagonista ma su Meg e sul suo destino. David è testimone più che fulcro della vicenda.

Stand By Me

Tipo Stand By Me – solo con meno buoni sentimenti e più gore.

Anche questo però non è del tutto vero. David non è semplicemente spettatore – è complice. E in questa ambiguità troviamo l’aspetto forse peggiore del romanzo: l’ambiguità morale del pov. Avevo toccato il tema già l’anno scorso, parlando del romanzo di Alan M. Clarke A Parliament of Crows (con cui questo The Girl Next Door ha diverse somiglianze, a partire dall’essere ispirato a un vero episodio di cronaca nera): una prosa ben scritta deve essere in grado di farti identificare persino con Adolf Hitler nel momento di approvare la soluzione finale. Il romanzo di Clarke, pur avendo per protagoniste tre sorelle assassine seriali, era troppo raccontato perché questo processo si innescasse, e si rimaneva abbastanza freddi di fronte alla narrazione delle loro macabre performance.
Nel romanzo di Ketchum, invece, l’identificazione avviene – ed è come se ci trovassimo, con David, a essere complici della tortura di una ragazza di cui siamo innamorati. La sua psicologia di dodicenne sveglio, ma pur sempre dodicenne, è molto ben resa: a volte sembra rendersi conto dell’orribilità di quello che sta facendo, altre volte è troppo preso dalla novità di questo “gioco”, o dal fatto di trovarsi davanti, per la prima volta nella sua vita, un corpo nudo femminile. Vivere la tortura di Meg attraverso i suoi occhi fa sentire sporchi. Più di una volta, durante la lettura, non riuscivo a credere che David potesse starsene lì impalato e avrei voluto gridargli di intervenire, di fare qualcosa – tutte reazioni che non capita di sperimentare spesso con un libro.

David è anche un tipo molto particolare di unreliable narrator. Nel corso di tutta la prima parte del romanzo, lo vediamo descrivere e dare per scontate cose che a noi, lettori adulti e più consapevoli, suonano come campanelli d’allarme. Il modo sciatto di vestirsi di Ruth; il disordine e la sporcizia che regnano nel suo giardino; il modo in cui stanno crescendo due dei suoi tre figli; le sue reazioni nevrotiche di fronte alle soubrette televisive o alle modelle delle pubblicità sulle riviste; il suo modo di parlare con dei ragazzini. Per David, questi tratti di Ruth sono fantastici, e il fatto che lei sembri trattarli da pari a pari motivo di ammirazione; ma noi come lettori sappiamo che qualcosa non va in lei, e anche che cosa non va in lei, e l’evoluzione della storia ci dà ragione. Le motivazioni per la crudeltà che Ruth riverserà su Meg sono chiarissime – solo che non vengono mai enunciate ad alta voce, perché il David dodicenne non è in grado di afferrarle.
Leggendo alcune recensioni su Amazon, ho trovato diverse critiche al fatto che la psicologia dei personaggi non sia sufficientemente approfondita. Nulla di più falso. Questa convinzione deriva forse da un’eccessiva abitudine a una prosa alla King, dove le motivazioni dei personaggi sono analizzate ancora e ancora per centinaia di pagine. Ketchum, aldilà delle autoanalisi del protagonista, spiega poco delle psicologie dei comprimari – ma queste sono interamente deducibili dai loro gesti e dai loro comportamenti. Da questo punto di vista, il mostrato in The Girl Next Door fa un lavoro eccellente. Inoltre, Ketchum ci dà anche alcune lezioni di psicologia sociale inquietanti e vere, come questo passaggio in cui spiega la graduale degradazione di Meg agli occhi del gruppo:

“From admiration at the sheer all-or-nothing boldness of the act, at the very concept of challenging Ruth’s authority so completely and publicly, we drifted toward a kind of vague contempt for her. How could she be so dumb as to think a cop was going to side with a kid against an adult, anyway? How could she fail to realize it was only going to make things worse? […] It was as though in failing with Mr. Jennings she had thrown in all our faces the very fact of just how powerless we were as kids. Being “just a kid” took on a whole new depth of meaning, of ominous threat, that maybe we knew was there all along but we’d never had to think about before. Shit, they could dump us in a river if they wanted to. We were just kids. We were property. […]
It was as though in failing herself Meg had failed us as well.
So we turned that anger outward. Toward Meg.”

The Girl Next Door 2007

Un altro fotogramma dal film del 2007: Ruth e la sua “famiglia allargata” di mocciosi.

Queste pagine fanno male.
Rispetto a Apeshit, Header, e a tutte le altre storie splatterpunk che abbiamo visto nel corso di questo mese, il livello di violenza è molto più modesto. Ma il contesto quotidiano, l’approccio serio, e l’affezione che l’autore ci ha fatto sviluppare per la vittima, fanno sì che questa lenta, diluita escalation di piccole violenze arrivi a noi lettori come altrettanti schiaffi. La posta in gioco continua a crescere, e si arriva a un punto in cui si è combattuti tra il disgusto che ci spingerebbe a chiudere il libro, e l’adrenalina di andare avanti e vedere perversamente cosa può ancora succedere. A un certo punto, verso la fine del libro, il narratore si rifiuta di mostrare una scena – be’, penso sia stata la prima volta che sono stato grato che ci fosse un raccontato al posto del mostrato.
Qualcuno potrebbe pensare che Ketchum sia un bastardo malato per le idee che sviluppa, ma se si va a guardare la cronaca dell’omicidio di Sylvia Likens si scopre che, ben lungi dall’aver ingigantito la faccenda, l’autore ha edulcorato ciò che è successo realmente; si è rifiutato di riproporre alcune delle sevizie subite dalla controparte reale di Meg. I meccanismi psicologici che si innescano in The Girl Next Door, e portano una famiglia di gente tutto sommato nella  media a diventare degli aguzzini sadici e insensibili, sono qualcosa di reale e diffuso nella società – un interruttore che, date le giuste condizioni, potrebbe accendersi in molti di noi.1

Ricorderete forse l’articolo che ho dedicato al bellissimo saggio Obedience to Authority del sociologo Stanley Milgram, e al suo esperimento sulla capacità degli uomini di infliggere volontariamente dolore a un altro uomo, se a dare l’ordine è un’autorità sufficientemente forte e se si crea una distanza, tra esecutore e vittima, sufficiente da depersonalizzare quest’ultima. The Girl Next Door sembra, per molti versi, una rappresentazione pratica di questa teoria. Ruth è un genitore, e gli altri sono un branco di ragazzini in un’epoca in cui l’autorità genitoriale era sentita con più forza che non adesso: se l’adulto ti dà il permesso, non può essere sbagliato, no? I carnefici del romanzo di Ketchum non sono altro che una buona combinazione di sadismo, insensibilità, ottusità, curiosità infantile e mancanza di immaginazione. Inoltre, il fatto che l’artefice e principale responsabile della violenza sia una donna e non un uomo, ci allontana dalla retorica dell’uomo che abusa la donna (già sento Dago gridare: femminicidio!), per mostrarci la capacità più in generale dell’essere umano di fare del male a un altro essere umano.
Capire questo, rende il romanzo di Ketchum più atroce di qualsiasi orrore cosmico lovecraftiano o bizzarria sovrannaturale alla Mellick – per quanto io per primo sia un amante del fantastico. La totale assenza di elementi fantastici, che fanno di The Girl Next Door un romanzo quasi Mainstream, sono anche l’unica ragione ad avermi spinto a farne una Bonus Track e non un Consiglio. Perché sotto ogni rispetto il romanzo di Ketchum è un capolavoro. Non è certamente una lettura per tutti; ma lo consiglio a chiunque se la senta.
E’ un buon modo, mi sembra, per chiudere questo mese dedicato all’horror.

Caso Sylvia Likens

Il vero caso di Sylvia Likens

 

Dove si trova?
Il caso di The Girl Next Door è uno di quei pochi in cui posso dire a cuor sereno di stare alla larga da Amazon: troverete o l’edizione cartacea (con il paperback a partire da 12 Euro nel momento in cui scrivo, ma si tratta di copie tutte possedute da terze parti, quindi sia la disponibilità sia il prezzo saranno molto fluttuanti), o un e-book che però non è del romanzo originale, bensì della sceneggiatura del film che hanno tratto dal romanzo. Semplificatevi invece la vita, e scaricatevi l’ePub di The Girl Next Door da Library Genesis a questo link.
Paradossalmente, su Amazon è più facile trovare la traduzione italiana (ma solo in cartaceo): 8,42 Euro al momento in cui scrivo, edizioni Gargoyle. Ignoro la qualità di questa traduzione, ma la copertina con tipa mezza nuda in camicia da notte non mi fa ben sperare.

Chi devo ringraziare?
Questa è una di quelle volte in cui sono veramente felice di gestire questo blog. Inizialmente, per il giorno di oggi era previsto un altro articolo, molto meno hardcore. Poi, nei commenti al post Impressioni di Ottobre, Zethani mi ha consigliato di leggere The Girl Next Door. Il fatto che abbia deciso di sostituire il palinsesto originale con l’articolo che avete appena letta, la dice lunga su quanto il consiglio sia stato azzeccato. Ergo: grazie Zethani. Continuate così ^-^
L’articolo che avevo inizialmente scritto per l’ultima entry di Ottobre, comunque, tornerà da qualche parte tra Novembre e Dicembre.

Milgram experiment

La struttura base dell’esperimento di Milgram.

Qualche estratto
I due brani che ho scelto vengono entrambi dalla prima parte del libro, prima che la situazione degeneri. Uno mostra il primo incontro tra il protagonista e Susan, la sorella minore di Meg, ed è una descrizione che mi ha colpito per la sua vividezza e per come imposta il rapporto tra i personaggi; l’altro, un alterco carico di tensione tra Meg e Ruth che dà il via a una delle tipiche riflessioni di David.

1.
When you’re twelve, little kids are little kids and that’s about it. You’re not even supposed to notice them, really. They’re like bugs or birds or squirrels or somebody’s roving housecat—part of the landscape but so what. Unless of course it’s somebody like Woofer you can’t help but notice.
I’d have noticed Susan though.
I knew that the girl on the bed looking up at me from her copy of Screen Stories was nine years old—Meg had told me that—but she looked a whole lot younger. I was glad she had the covers up so I couldn’t see the casts on her hips and legs. She seemed frail enough as it was without my having to think about all those broken bones. I was aware of her wrists, though, and the long thin fingers holding the magazine.
Is this what an accident does to you? I wondered.
Except for the bright green eyes it was almost like meeting Meg’s opposite. Where Meg was all health and strength and vitality, this one was a shadow. Her skin so pale under the reading lamp it looked translucent.
Donny’d said she still took pills every day for fever, antibiotics, and that she wasn’t healing right, that walking was still pretty painful.
I thought of the Hans Christian Andersen story about the little mermaid whose legs had hurt her too. In the book I had the illustration even looked like Susan. The same long silky blond hair and soft delicate features, the same look of sad longtime vulnerability. Like someone cast ashore.
“You’re David,” she said.
I nodded and said hi.
The green eyes studied me. The eyes were intelligent. Warm too. And now she seemed both younger and older than nine.
“Meg says you’re nice,” she said.
Smiled.
She looked at me a moment more and smiled back at me and then went back to the magazine. On the radio Alan Freed played the Elegants’ “Little Star.”
Meg stood watching from the doorway. I didn’t know what to say.
I walked back down the hall. The others were waiting.
I could feel Ruth’s eyes on me. I looked down at the carpet.
“There you go,” she said. “Now you know each other.”

2.
Ruth nodded again. “Come here,” she said.
Meg just stood there.
“I said come over here.”
She walked over.
“Open your mouth and let me smell your breath.”
“What?”
Beside me Denise began to giggle.
“Don’t sass me. Open your mouth.”
“Ruth…”
“Open it.”
“No!”
“What’s that? What’d you say?”
“You don’t have any right to …”
“I got all the right in the world. Open it.”
“No!”
“I said open it, liar.”
“I’m not a liar.”
“Well I know you’re a slut so I guess you’re a liar too. Open it!”
“No.”
“Open your mouth!”
“No!”
“I’m telling you to.”
“I won’t.”
“Oh yes you will. If I have to get these boys to pry it open you will.”
Willie snorted, laughing. Donny was still standing in the doorway holding the cans and jars. He looked embarrassed.
“Open your mouth, slut.”
That made Denise giggle again.
Meg looked Ruth straight in the eye. She took a breath.
And for a moment she suddenly managed an adult, almost stunning dignity.
“I told you, Ruth,” she said. “I said no.”
Even Denise shut up then.
We were astonished.
We’d never seen anything like it before.
Kids were powerless. Almost by definition. Kids were supposed to endure humiliation, or run away from it. If you protested, it had to be oblique. You ran into your room and slammed the door. You screamed and yelled. You brooded through dinner. You acted out—or broke things accidentally on purpose. You were sullen, silent. You screwed up in school. And that was about it. All the guns in your arsenal. But what you did not do was you did not stand up to an adult and say go fuck yourself in so many words. You did not simply stand there and calmly say no. We were still too young for that. So that now it was pretty amazing.

Tabella riassuntiva

Un viaggio atroce nella crudeltà umana. Le intrusioni del narratore quarantenne ostacolano l’immersione.
Personaggi e ambientazione resi alla perfezione.  Il ritmo lento potrebbe innervosire qualcuno.
Crescendo di tensione fino al finale.  Questo tipo di violenza non è per tutti.
Trasmette la realtà del “dolore” meglio di qualsiasi splatterpunk.


(1) Voglio però anche sottolineare come il romanzo di Ketchum non sia una messa in fiction del caso Likens. Nonostante i legami con l’avvenimento reale siamo molto forti, sono solo stati materiale d’ispirazione per scrivere una storia molto più personale.Torna su

Bonus Track: Header

HeaderAutore: Edward Lee
Titolo italiano: –
Genere: Horror / Splatterpunk / Crime
Tipo: Novella

Anno: 1995
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 100 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Havin’ a header tonight, we is!
We’se gonna have ourselfs a header so fierce ol’ Tully Natter’ll be shittin’ in his grave!
He’d heard the term, in all its variations so many times, but he just couldn’t figure it.
Header. What was it?

Fin da quand’era piccolo, Travis Tuckton ha ascoltato di nascosto suo padre e i suoi familiari più grandi parlarne nei più impercettibili sussurri, con gli occhi luccicanti di malizia, senza capire il perché: “facciamoci un header“. Ma ai ragazzi non era concesso di sapere cosa fosse. Oggi però Travis, uscito di galera dopo undici anni, è finalmente grande abbastanza. I suoi genitori sono morti in un incidente, la loro vecchia casa è andata a fuoco, e a Travis non rimane che andare a vivere dal vecchio nonno in un cottage diroccato ai margini della civiltà. E il nonno, che – povero vecchio! – è rimasto senza piedi e costretto su una sedia a rotelle per una brutta malattia, sarà più che felice di insegnargli cosa sia un header e rivivere assieme a lui la propria giovinezza…
In quelle stesse lande ai margini della civiltà si aggira Stewart Cummings – un agente speciale della polizia di stato, spedito in piena terra redneck per stanare i contrabbandieri d’alcol artigianale. Ma Stew, povero caro, ha una moglie dolce e tanto malata, e le cure mediche stanno succhiando via tutto il suo stipendio; per questo, non disdegna di arrotondare coprendo per qualche centone alcuni di quei traffici che dovrebbe stanare. I costi per le cure di Kath però continuano a salire, e Stew è pronto a fare il grande passo: fare il corriere della droga. Ed è mentre prende questa decisione, che nelle terre sotto la sua giurisdizione cominciano a saltare fuori corpi di donne uccisi orribilmente.
Nella terra dei redneck, le strade di Travis e di Cummings sono destinate a incrociarsi – e quando questo succederà, le loro vite cambieranno per sempre.

Continuando le nostre peregrinazioni nella narrativa dell’orrore, non potevamo evitare di imbatterci, prima o poi, in quello che è considerato uno dei maestri dell’horror hardcore. Edward Lee è un autore specializzato nello splatter estremo, nella descrizione dettagliata di uccisioni, torture, stupri e delle più variegate secrezioni corporali; e Header è la novella con cui si allontanò dal mondo editoriale tradizionale per pubblicare per piccole case editrici hardcore che gli permettevano di esprimersi liberamente. Rimasta a lungo un pezzo da collezionisti, a causa delle limitate tirature dell’edizione cartacea originale, è da qualche anno tornata in circolazione grazie alla ripubblicazione di Deadite Press, una delle affiliate di Bizarro Central.
Header è all’apparenza una classica storia di serial killer fiction, che segue in parallelo le storyline dell’assassino – un trucidissimo redneck col cervello grande come una noce – e del poliziotto che dovrà catturarlo. Ma in realtà Header è tutto meno che canonico, grazie all’umorismo nero con cui condisce il suo splatter e ai plot twist che ben poco si addicono al poliziesco canonico. Due elementi, inoltre, lo rendono il libro ideale per approcciarsi a Edward Lee e capire se si nutre interesse verso questa nicchia dell’horror: l’estrema brevità – meno di un centinaio di pagine – e il fatto di non indulgere più di tanto, rispetto ad altre opere dello stesso sottogenere, nel particolare macabro. Allora – siete pronti a scoprire che cos’è un header e cosa significa farsi giustizia da soli nel mondo dei redneck?

Redneck murders

 

Uno sguardo approfondito
A differenza della speculative fiction, in cui una prosa atroce può comunque passare in secondo piano rispetto a una pletora di idee geniali e speculazioni affascinanti – penso a Clarke o a Poul Anderson – un horror deve essere scritto decentemente, o sarà buono solo per la lettiera del gatto. Che il suo scopo – a seconda del sottogenere e della poetica dell’autore – sia metterci addosso una sottile cappa d’ansia, o disgustarci, o farci questionare le torbide profondità della nostra stessa anima, o metterci di fronte alla follia e disperazione dell’universo, deve essere in grado di farci immergere nella storia e dimenticare il mondo esterno. O non proveremo niente.
La buona notizia, è che Edward Lee ha uno stile dignitoso. La sua prosa è un mix di raccontato e mostrato, con una certa preponderanza del secondo sul primo. Certo, niente per cui strapparsi i capelli: Lee indulge spesso negli infodump, specialmente per raccontare il background dei suoi personaggi; ma le scene al presente sono rese soprattutto attraverso azioni, gesti, o pensieri secchi. Si finisce per provare una certa empatia e identificazione con i personaggi della storia.

L’aspetto più interessante della prosa di Header è certamente la gestione del POV. Per tutto il libro si alternano due punti di vista, quello di Cummings e quello di Travis, e le loro storyline sono seguite in parallelo. Ma mentre la prosa delle parti dedicate a Cummings è scritta in modo tradizionale, quando la palla passa a Travis entriamo nel magico mondo di redneck-landia. Le sue parti sono scritte come se a parlare fosse proprio un agricoltore sdentato con la quarta elementare della bassa Virginia, e l’effetto è assolutamente esilarante. Ecco come Travis ci riassume, ad esempio, i suoi anni in prigione:

Those five years he’d gotten fer the candyass GTA had turned ta eleven a mite quick. Russell County Detent weren’t no picnic, and havin’ ta beat the livin’ shit outa fellas piled those extra years on faster’n shit through one ’a Dumar McGern’s chickens. Travis ain’t had no choice, ’less he wanted to get butt-fucked ever night and have a bunch of big, dirty fellas callin’ him “baby.” He’d busted some heads, he did, spent a lot of time in the hole fer it—BEV SEG, they called it, though, fer Behavioral Segregation, whatever in tarnation that meant—and then there was that one night when some fella from Crick City doin’ a pound for armed robbery had held a prison shiv to Travis’ throat and dropped his drawers. “Suck it, cracker, and suck it good. Suck it like you suck yer daddy, ’cos everbody knows all you crackers are queer,” this fella ordered. “Suck out that nut, cracker. Be the best meal ya had since the last time the chow hall served cream a’ broccoli soup. Make yer daddy jealous, sugar.” Well, fer one, Travis’ daddy was dead, and he didn’t much like ta hear talk like that, and two, there weren’t no way in Hade’s Place that Travis Clyde Tuckton was gonna suck dick—gettin’ sucked, shore, but doin’ the suckin’ hisself? No way, uh-uh! So he snapped that shiv right outa that fella’s hand and poked him good in the eye. Stuff came out that looked like the cranberry marmalade they sold down at Hull’s General Store. Didn’t matter much what it looked like, though. Just added more time to Travis’ hitch.

Inizialmente questi passaggi possono essere complicati da seguire per un non-nativo, ma in realtà dopo le prime pagine sono entrato nel mood e nel gergo di Travis e ho preso a leggerli con la stessa scorrevolezza delle parti dedicate a Cummings.
Lee non si risparmia alcuni scivoloni. Nonostante i passaggi siano raccontati secondo il gergo del loro personaggio-pov, il punto di vista non coincide mai davvero con quello del personaggio, ma piuttosto con quello di un narratore impersonale che gli sta appollaiato sulla spalla, e si sposta ora dentro la sua testa, ora fuori. A volte, nel pieno del rambling da incolto di Travis, l’autore getta dentro una o due frasi scritte in perfetto inglese (“The little boy couldn’t imagine what a header could be, but he knew this: next day at school, Jannie McCraw wasn’t in class, and she was never seen again”), e non mancano passaggi che con un commento estraneo al pov ci buttano completamente fuori dalla testa del personaggio, come in questo passaggio in cui Travis sta sbudellando qualcuno: But, boy, once that knife were retracted, out gushed the blood mixed with somethin’ that looked watery – CSF or cerebral spinal fluid, but a big dumb animal like Travis wouldn’t know nothin’ ‘bout that”. Immagino che questi passaggi siano stati inseriti per spiegare con più chiarezza elementi di trama importanti che potevano sfuggire (ad esempio, il primo indizio su cosa sia un header) o talvolta for comedy; in ogni caso, spezzano un po’ l’incanto e sarebbe forse stato meglio evitarli.

Redneck Humor

Ma nell’economia della storia, questi scivoloni rimangono abbastanza marginali. Ciò che conta è il divertimento di entrare nella testa di un redneck dai neuroni completamente bruciati. E qui entra in gioco un elemento chiave per capire Header: l’umorismo. Nonostante Travis e il suo caro vecchio nonnino senza piedi si dedichino ad atti orribili (no, non vi dirò cos’è un header – vi lascio il gusto di scoprirlo da voi), la prosa sopra le righe con cui questi sono raccontati rendono le scene grottesche, improbabili e tutto sommato abbastanza godibili – se vi piace quel tipo di umorismo nero. Sangue, sperma, vomito e turpiloquio scorrono a fiumi, ma il tutto in una cornice da b-movie alla Rodriguez che sembra dire: “dai, non prendermi troppo sul serio”. Si crea una strana alchimia, perché la vicinanza del pov è sufficiente a immergerci nella vicenda, ma poiché la viviamo dal lato fuori di testa dell’assassino, non soffriamo le pene dell’inferno delle vittime.
Se l’intera vicenda fosse raccontata dal punto di vista di Travis, però, gli antics suoi e di suo nonno verrebbero in fretta a noia. Ma Lee è stato abbastanza in gamba da alternare il suo punto di vista con quello di Cummings, e il contrasto che si crea tra le due metà della storia è affascinante. Al contrario di quella di Travis, la vita di Cummings – poliziotto corrotto per necessità, che si prepara a entrare consapevolmente in un gioco più grande di lui – è cupa, drammatica, seria. Per certi versi la vita di Cummings non è peggiore di quella di Travis; la differenza è che Cummings è lucido. Le sue parti di storia fanno da contraltare drammatico alle scene sopra le righe di Travis, e l’alternarsi dei due pov dà alla novella un ritmo piacevole.

Il limite di Header è che – a differenza di Apeshit – gli elementi di trama, alla fin fine, sono pochi. Si scopre cosa sia un header più o meno a un quarto del libro, e soddisfatta quella curiosità è come se non avessimo più niente su cui focalizzare la nostra attenzione, e il motore della storia viene meno. Tutta la parte centrale della novella tende a trascinarsi. Benché si capisca che è funzionale a muovere i due protagonisti e a portarli verso l’incontro/scontro finale, non ha di per sé grossi elementi di interesse che tengano viva la lettura. Anche il climax, quando arriva, non è del tutto soddisfacente, a fronte di tutto il build-up che il lettore si è sorbito prima.
In compenso, il finale vero e proprio è assolutamente geniale. Arriva finalmente inaspettato, e da solo vale a mio avviso la lettura di tutta la novella; se a tratti, nel corso della storia, ho dubitato dell’abilità di Lee di andare a parare da qualche parte, la conclusione mi ha restituito piena fiducia. Quindi, sì: Header non è una meccanica esibizione di perversioni e trashume, ma è una storia concettualmente coerente.

Redneck zombie apocalypse

 

Header è una novella solida e una declinazione originale dell’horror non-sovrannaturale, benché non si possa dire un capolavoro (non che abbia l’ambizione di esserlo, chiariamoci). Soprattutto, come già accennavo in apertura di articolo, la brevità e l’umorismo nero che pervade anche le scene più splatter lo rendono un ottimo punto di partenza per i novizi.
Quanto a me, anche se (a differenza di Zwei) non sono pronto a incidermi il nome di Edward Lee con un punteruolo sul petto, sono comunque sufficientemente incuriosito da voler provare, nel futuro prossimo, qualcuno dei suoi romanzi lunghi – come il ‘classico’ The Bighead o il lovecraftiano-retard The Dunwich Romance. Accetterò volentieri raccomandazioni in merito.

Dove si trova
Header si può scaricare in lingua originale su Library Genesis, in una gran varietà di formati, oppure – se volete bene a Edward Lee – potete acquistarlo su Amazon alla onesta cifra di 3,70 Euro. Non esiste, che io sappia, una traduzione italiana.

Chi devo ringraziare?
E’ da un po’ di tempo che sono diventato molto autonomo nella ricerca di roba buona da leggere, quindi non mi capita più tanto spesso di inserire questa rubrica. Ma in questo caso, è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare: se ho scoperto l’esistenza di Edward Lee e della sua opera è tutto merito del buon Zweilawyer, che sul suo blog aveva dedicato più di un articolo all’autore.
Nei suoi articoli Zwei raccomandava in particolare i romanzi lunghi The Bighead e Lucifer’s Lottery: se non ho letto nessuno dei due è dipeso dall’eccessiva lunghezza del primo (ma come ho accennato, sono interessato a leggerlo in futuro) e la mia insofferenza per la simbologia cristiana – e quindi per tutto ciò che riguarda Lucifero & Company – per il secondo.

Qualche estratto
Inizialmente avrei voluto proporvi un brano per POV, quindi uno per Travis e uno per Cummings. Ma poi mi sono detto: “Fuck it!”, quindi eccovi ben due distillati puri di demenza redneck. Il primo (e più breve) estratto è preso dall’incipit, e ci mostra un Travis bambino che guarda, roso dalla curiosità, i grandi che vanno a fare l’header; il secondo, invece, un Travis ormai adulto che si riunisce col vecchio nonno e si prepara finalmente a compiere quello stesso atto…

1.
The little boy’s eyes widened in the dark, blooming like nightflowers. He hid in the closet, a crouched and frozen shadow; he cracked the door half an inch, but he couldn’t quite see them. His curiosity burned.
He had to know, he had to know what this thing was they were doing.
He’d heard them speak of it many times—only, though, in the least-formed whispers, behind the slickest grins and eyes narrowed to forbidden slits. Yes, Daddy and his grandfather, and sometimes Uncle Helton. Like just today, when Daddy had brought his tractor in from the graze field.
“That blammed Caudill up an’ cut my fence,” Daddy’d railed. Grandpap looked up from his work table. “Agin?”
“Yeah, shore’s shit! Lost six more sheep! Gawd Almighty, we’se gonna have to do somethin’ ’bout this!”
And that’s when Grandpap had smiled that feisty, whiskery smile of his. “What we’se gonna have to do, son, is have ourselfs a header.”
“Dag straight! Fucker stole my sheep, third time this year. Tonight, we’se gonna have a header fer shore! Teach that cracker som-bitch ta steal my sheep!”
See, that’s what they’se always called it—whatever it was. A header.
Like one time he’d overheard his Daddy whispering to Grandpap, whispers like creaky, tiny etchings. “McCraw burned down one’a Meyers’ grain sheds, Pap. He’s havin’ a header tonight, wants us ta join in.” So later on, they’d corn-liquored up and left, and they didn’t return till almost dawn.
The little boy couldn’t imagine what a header could be, but he knew this: next day at school, Jannie McCraw wasn’t in class, and she was never seen again…

Redneck Baby

Il piccolo Travis?

2.
Grandpap smiled proud. “Travis, you’re a fine young man, gracious, respectful, just like yer daddy raised, and I kin shore use a little help ’round here, seein’ that I ain’t got no legs no more. Like you kin bring in the firewood an’ such, and haul the water up fer the squirrel stew and possum pie. Ya kin see—” Grandpap pointed to the floor just below the edge of his cherrywood work table. Travis noticed a strange darkness there, stained inta the wood, an’ he remembered that from when he was little too. “Ya kin see,” Grandpap rambled on, “that the floor’s goin’ all ta rot, so ya’s kin help fix it, otherwise yer old Grandpappy’ll be wheelin’ across the blammed floor one day and—Kuh-RACK—that floor’ll break right under my wheels an’ drop yer poor grandpap right smack dab inta the fruit cellar.”
“Oh, no, Grandpap,” Travis exclaimed, “I wouldn’t never want that ta happen! I’ll’se be happy ta help ya fix the floor.”
Grandpap wheeled closer, then, his smile turning dark. “An’ there’s somethin’ else ya kin do fer me, son. Ya kin help give yer ole grandpap a thrill now an’ agin.”
“Shore, Grandpap, but . . . how?”
Grandpap snickered. “A’corse, I cain’t do it myself no more, not with no legs, an’, Chrast, take an old feller like me a coon’s age ta even git his bone hard. But I’se still get a kick outa, well, you know . . . watchin’.”
Watchin’, Travis thought. He didn’t quite get it.
“Headers is what I mean, son.”
Headers, Travis thought. And that was somethin’—
“Grandpap,” he said rather meekly, “that’s somethin’ I been thinkin’ about since, well, since the day ’fore I got locked up.” Yeah, it was true. Headers. “I ’member when I was little I’d hear you an’ daddy sitting out on the porch talkin’ ’bout it lotta times, an’ right ’fore I wrecked Cage George’s ’74 ’Cuda and broked Kari Ann Wells’ back, I asked ya ’bout it. ’Member?”
“Shore I ’member, boy,” Grandpap fired back keen-eyed. “An I ’member I didn’t tell ya squat on account ya were too young.”
“Yeah, Grandpap, but I gots ta tell ya now, it’s somethin’ I been thinkin’ ’bout fer the whole time I was in stir. I gots ta know. What’s a header?”
Grandpap’s face, then, took on a look of something that some citified queer-lovin’, pussy-wine-cooler-drinkin’, banlon-shirt-wearin’-type might describe as ethereal. He wheeled a few inches closer in his rickety chair. “Ya know what, son, I reckon ya are old enough ta hear now . . . so’s I’ll tell ya.”
Travis exploded in delight.
And Grandpap nodded. “Yeah, boy, I’ll’se tell ya all about headers ’cos it’s time you learnt. First thing ya need is ta snatch yerself a splittail, son, and the second thing ya need is this . . .”
And then Grandpap’s shriveled hand reached out onto the table and picked up a power drill.

Tabella riassuntiva

Un horror poliziesco non convenzionale. Pochi elementi di trama e parte centrale debole.
Il gergo redneck del pov di Travis è esilarante.  Gestione dei pov e degli infodump migliorabile.
L’alternarsi tra le due storyline crea un bel ritmo. Violenza troppo poco “grafica” per i veterani dell’hardcore.
Finale geniale!