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Bonus Track: The Girl Next Door

The Girl Next DoorAutore: Jack Ketchum
Titolo italiano: La ragazza della porta accanto
Genere: Horror / Slice-of-life / Psicologico
Tipo: Romanzo

Anno: 1989
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 350 ca.

Difficoltà in inglese: **

La vita di David è cambiata per sempre nell’estate del 1958, quando aveva dodici anni. Quel giorno, sulla riva del fiume, ha conosciuto una bellissima ragazza dai capelli rossi, i modi da maschiaccio e qualche anno più di lui. Si chiama Meg. I suoi genitori sono appena morti in un incidente stradale, e lei e Susan, la sua sorellina, sono stati affidati alla cugina della madre, Ruth; che, combinazione, è la vicina di casa David. Dave è amicissimo dei tre figli di Ruth, e ha una grande stima per l stessa Ruth – una trentacinquenne spigliata, che li tratta come degli adulti, gli fa guardare la TV in casa loro, gli offre la birra e dice parolacce ad alta voce. Sembra quindi la situazione perfetta per approfondire la conoscenza della nuova arrivata…
Ma qualcosa non va. Col passare delle settimane, Meg si fa sempre più cupa e distante. Il clima a casa di Ruth si fa teso. Continua a sgridare Meg e a umiliarla per qualsiasi cosa. I ragazzi la tormentano. E quando infine la situazione degenera, David diventa il testimone della lenta discesa agli inferi di Meg Loughlin – incerto se soccorrerla, difenderla, scappare, rimanere silenziosamente a guardare, o prendere parte alle torture. Perché, pian piano, e sotto la supervisione di Ruth, distruggere Meg diventerà l’hobby di tutti i ragazzi del vicinato…

Nell’ottobre del 1965, a Indianapolis, una donna fra i trenta e i quarant’anni viene arrestata, insieme a tutti i suoi figli e ad alcuni ragazzini del vicinato, per l’omicidio e le sevizie inflitte a Sylvia Likens, sedicenne che le era stata affidata solo tre mesi prima, assieme alla sorella minore, dai genitori. Prima della morte per trauma cranico, la ragazza era stata chiusa in cantina e torturata dall’intera famiglia per settimane. Da questa storia vera – che fu definita all’epoca il “peggior crimine nella storia dell’Indiana” – l’autore di horror hardcore Jack Ketchum trasse inspirazione per il suo romanzo The Girl Next Door.
Ne abbiamo fatta di strada in questo mese, passando da un horror over-the-top ed esilarante alla Apeshit, fino alle tinte più cupe e slice-of-life di Paranoia Agent. Il nostro viaggio finisce con questo romanzo, che di sovrannaturale non ha niente e vuole farci vedere invece, attraverso gli occhi di un dodicenne, gli abissi di brutalità a cui possono arrivare – date le giuste condizioni – delle persone normali. The Girl Next Door è un pugno nello stomaco. Il livello di violenza e gore, tecnicamente, è molto più basso che non nella narrativa splatterpunk che abbiamo esplorato nel corso di quel momento; eppure, in quest’horror psicologico e di vita quotidiana, la verosimiglianza e l’identificazione nei protagonisti della vicenda è tale da renderlo molto più agghiacciante. Questo è forse il romanzo che mi abbia fatto stare peggio in tutta la mia vita.

The Girl Next Door Screenshot

Un’immagine dal film tratto da The Girl Next Door, del 2007. Giusto per entrare nel mood.

Uno sguardo approfondito
Voglio cominciare con una citazione, quella con cui si apre il romanzo:

You think you know about pain?
Talk to my second wife. She does. Or she thinks she does.
She says that once when she was nineteen or twenty she got between a couple of cats fighting—her own cat and a neighbor’s—and one of them went at her, climbed her like a tree, tore gashes out of her thighs and breasts and belly that you still can see today, scared her so badly she fell back against her mother’s turn-of-the-century Hoosier, breaking her best ceramic pie plate and scraping six inches of skin off her ribs while the cat made its way back down her again, all tooth and claw and spitting fury. Thirty-six stitches I think she said she got. And a fever that lasted days.
My second wife says that’s pain.
She doesn’t know shit, that woman.

The Girl Next Door, insomma, si presenta da subito come una meditazione sul dolore e sulla banalità del male.
Il romanzo ha un ritmo e uno sviluppo molto lenti. Si apre con una cornice, con il protagonista ormai quarantenne che – due matrimoni falliti alle spalle e un peso sulla coscienza – guarda indietro alla sua vita, e all’esperienza che, a suo dire, ha corrotto la sua anima per il resto dei suoi giorni. Solo a partire dal terzo capitolo la cornice è abbandonata e la dodicesima estate di David diventa a tutti gli effetti il “presente” del romanzo. La trama continua a svilupparsi con calma, con la graduale introduzione del setting e dei personaggi della storia, e un andamento da romanzo slice-of-life; gli elementi horror entrano solo a poco a poco, e diventano dominanti dalla metà in poi del romanzo.

Questo approccio ha dei pregi e dei difetti.
Il limite principale, naturalmente, è la distanza che tende a creare tra il lettore e gli eventi narrati, dato che il narratore della vicenda si trova trent’anni nel futuro. Anche quando la storia entra nel vivo (cioè a partire dal terzo capitolo), la presenza del David quarantenne non scompare. Quest’ultimo si inserisce spesso nella narrazione principale – ma specialmente all’inizio o alla fine di paragrafi e capitoli – con digressioni, considerazioni, flashforward: “That day, on that Rock, I met my adolescence head-on in the person of Megan Loughlin, a stranger two years older than I was, with a sister, a secret, and long red hair. That it seemed so natural to me, that I emerged unshaken and even happy about the experience I think said much for my future possibilities—and of course for hers. When I think of that, I hate Ruth Chandler.”
Nonostante ogni tanto se ne venga fuori con un insight affascinante che sarebbe sfuggito alla sua controparte dodicenne, nella maggior parte dei casi queste digressioni rallentano il ritmo e ci staccano dalla vicenda, col risultato di indebolire la storia. Un’impostazione del romanzo priva di cornice, o con una cornice che veramente – alla maniera di un Cuore di tenebra – dopo le prime pagine scompare definitivamente per lasciar parlare i nudi fatti, senza filtro, avrebbe aumentato l’impatto emotivo della storia e lasciato ai lettori il compito di “decodificarne” il messaggio.

Jack Ketchum

Jack Ketchum si è ispirato anche alla propria infanzia nel New England degli anni ’50, mescolando quei ricordi alla cronaca dell’omicidio.

Questa costruzione della storia ha però anche un grande vantaggio. Il narratore ci anticipa da subito che è successo qualcosa di orribile, di cui lui si è reso complice; la curiosità del lettore si sposta quindi dal cosa al come. Accettare il ritmo placido della prima metà di romanzo, e la lenta introduzione del setting, diventa quindi molto più facile e anche piacevole – perché già sappiamo (e ci viene ricordato periodicamente dal narratore) dove stiamo andando.
Quando Ketchum non si abbandona al raccontato della voce narrante quarantenne, è molto bravo a mostrare. L’ambientazione di The Girl Next Door – una via di periferia di una piccola cittadina del New England, dove le case si affacciano immediatamente nei boschi e nella campagna, e i ragazzi fanno vita all’aperto – ricorda da vicino la bellissima novella mainstream The Body di Stephen King (quella da cui è stato tratto il famoso film Stand By Me). Come King, Ketchum racconta con molto disincanto la vita di un ragazzino degli anni ’50: l’abitudine alle piccole violenze, le spacconate, i giornaletti porno sbiaditi nascosti nei boschi, il prendersi a sassate, il pescare gamberetti nei torrenti con le mani, il torturare piccoli animali con nonchalance, l’essere alla completa mercé dei propri genitori, il tabù del sesso, le ragazze più grandi guardate a vista.

La prima metà del romanzo è molto lenta, vero. Ma è proprio questa graduale immersione nella vita di questi ragazzi di campagna, nei loro giochi e nei loro problemi, che ci fa appassionare al loro destino e rende la seconda metà tanto più agghiacciante. Conosciamo così i tre figli di Ruth: Woofer, il più piccolo, così chiamato per il suo agitarsi frenetico e il suo ululare da bestiolina; Donny, il più sveglio e il migliore amico di David; e Willie, il più grande dei tre, un tipo che ha già la pancia da birra e che il protagonista non esita a chiamare rincoglionito. Conosciamo i due fratelli Morino, i cui genitori italo-americani sono dei bigotti cattolici; e poi Eddie e Denise, due schizzati pericolosi che vengono regolarmente pestati dal padre alcolista; e Susan, la sorellina di Meg, rimasta ferita nell’incidente che si è portato via i loro genitori e ridotta a un fragile cencino costretto a girare in stampelle.
E soprattutto conosciamo Meg. Ketchum qui merita degli applausi, perché attraverso gli occhi di David anche noi ci innamoriamo nel giro di poche pagine di Meg. Ci viene presentata come una ragazza in gamba, che sa acchiappare un pesce a mani nude; una ragazza orgogliosa, ma non arrogante, e con senso dell’umorismo; una ragazza che non è disposta a farsi mettere i piedi in testa o ad accettare le ingiustizie senza combattere. Per questo è tanto più terribile osservare la lenta degradazione di Meg, dai primi alterchi con Ruth, alle prime proibizioni, alle prime accuse ingiustificate, fino alla discesa nello scantinato. Uno dei limiti dell’uso della prima persona al passato, è che la tensione cala perché sappiamo già che il protagonista sopravviverà – ma in The Girl Next Door il problema non sussiste, perché il nostro focus non è sul protagonista ma su Meg e sul suo destino. David è testimone più che fulcro della vicenda.

Stand By Me

Tipo Stand By Me – solo con meno buoni sentimenti e più gore.

Anche questo però non è del tutto vero. David non è semplicemente spettatore – è complice. E in questa ambiguità troviamo l’aspetto forse peggiore del romanzo: l’ambiguità morale del pov. Avevo toccato il tema già l’anno scorso, parlando del romanzo di Alan M. Clarke A Parliament of Crows (con cui questo The Girl Next Door ha diverse somiglianze, a partire dall’essere ispirato a un vero episodio di cronaca nera): una prosa ben scritta deve essere in grado di farti identificare persino con Adolf Hitler nel momento di approvare la soluzione finale. Il romanzo di Clarke, pur avendo per protagoniste tre sorelle assassine seriali, era troppo raccontato perché questo processo si innescasse, e si rimaneva abbastanza freddi di fronte alla narrazione delle loro macabre performance.
Nel romanzo di Ketchum, invece, l’identificazione avviene – ed è come se ci trovassimo, con David, a essere complici della tortura di una ragazza di cui siamo innamorati. La sua psicologia di dodicenne sveglio, ma pur sempre dodicenne, è molto ben resa: a volte sembra rendersi conto dell’orribilità di quello che sta facendo, altre volte è troppo preso dalla novità di questo “gioco”, o dal fatto di trovarsi davanti, per la prima volta nella sua vita, un corpo nudo femminile. Vivere la tortura di Meg attraverso i suoi occhi fa sentire sporchi. Più di una volta, durante la lettura, non riuscivo a credere che David potesse starsene lì impalato e avrei voluto gridargli di intervenire, di fare qualcosa – tutte reazioni che non capita di sperimentare spesso con un libro.

David è anche un tipo molto particolare di unreliable narrator. Nel corso di tutta la prima parte del romanzo, lo vediamo descrivere e dare per scontate cose che a noi, lettori adulti e più consapevoli, suonano come campanelli d’allarme. Il modo sciatto di vestirsi di Ruth; il disordine e la sporcizia che regnano nel suo giardino; il modo in cui stanno crescendo due dei suoi tre figli; le sue reazioni nevrotiche di fronte alle soubrette televisive o alle modelle delle pubblicità sulle riviste; il suo modo di parlare con dei ragazzini. Per David, questi tratti di Ruth sono fantastici, e il fatto che lei sembri trattarli da pari a pari motivo di ammirazione; ma noi come lettori sappiamo che qualcosa non va in lei, e anche che cosa non va in lei, e l’evoluzione della storia ci dà ragione. Le motivazioni per la crudeltà che Ruth riverserà su Meg sono chiarissime – solo che non vengono mai enunciate ad alta voce, perché il David dodicenne non è in grado di afferrarle.
Leggendo alcune recensioni su Amazon, ho trovato diverse critiche al fatto che la psicologia dei personaggi non sia sufficientemente approfondita. Nulla di più falso. Questa convinzione deriva forse da un’eccessiva abitudine a una prosa alla King, dove le motivazioni dei personaggi sono analizzate ancora e ancora per centinaia di pagine. Ketchum, aldilà delle autoanalisi del protagonista, spiega poco delle psicologie dei comprimari – ma queste sono interamente deducibili dai loro gesti e dai loro comportamenti. Da questo punto di vista, il mostrato in The Girl Next Door fa un lavoro eccellente. Inoltre, Ketchum ci dà anche alcune lezioni di psicologia sociale inquietanti e vere, come questo passaggio in cui spiega la graduale degradazione di Meg agli occhi del gruppo:

“From admiration at the sheer all-or-nothing boldness of the act, at the very concept of challenging Ruth’s authority so completely and publicly, we drifted toward a kind of vague contempt for her. How could she be so dumb as to think a cop was going to side with a kid against an adult, anyway? How could she fail to realize it was only going to make things worse? […] It was as though in failing with Mr. Jennings she had thrown in all our faces the very fact of just how powerless we were as kids. Being “just a kid” took on a whole new depth of meaning, of ominous threat, that maybe we knew was there all along but we’d never had to think about before. Shit, they could dump us in a river if they wanted to. We were just kids. We were property. […]
It was as though in failing herself Meg had failed us as well.
So we turned that anger outward. Toward Meg.”

The Girl Next Door 2007

Un altro fotogramma dal film del 2007: Ruth e la sua “famiglia allargata” di mocciosi.

Queste pagine fanno male.
Rispetto a Apeshit, Header, e a tutte le altre storie splatterpunk che abbiamo visto nel corso di questo mese, il livello di violenza è molto più modesto. Ma il contesto quotidiano, l’approccio serio, e l’affezione che l’autore ci ha fatto sviluppare per la vittima, fanno sì che questa lenta, diluita escalation di piccole violenze arrivi a noi lettori come altrettanti schiaffi. La posta in gioco continua a crescere, e si arriva a un punto in cui si è combattuti tra il disgusto che ci spingerebbe a chiudere il libro, e l’adrenalina di andare avanti e vedere perversamente cosa può ancora succedere. A un certo punto, verso la fine del libro, il narratore si rifiuta di mostrare una scena – be’, penso sia stata la prima volta che sono stato grato che ci fosse un raccontato al posto del mostrato.
Qualcuno potrebbe pensare che Ketchum sia un bastardo malato per le idee che sviluppa, ma se si va a guardare la cronaca dell’omicidio di Sylvia Likens si scopre che, ben lungi dall’aver ingigantito la faccenda, l’autore ha edulcorato ciò che è successo realmente; si è rifiutato di riproporre alcune delle sevizie subite dalla controparte reale di Meg. I meccanismi psicologici che si innescano in The Girl Next Door, e portano una famiglia di gente tutto sommato nella  media a diventare degli aguzzini sadici e insensibili, sono qualcosa di reale e diffuso nella società – un interruttore che, date le giuste condizioni, potrebbe accendersi in molti di noi.1

Ricorderete forse l’articolo che ho dedicato al bellissimo saggio Obedience to Authority del sociologo Stanley Milgram, e al suo esperimento sulla capacità degli uomini di infliggere volontariamente dolore a un altro uomo, se a dare l’ordine è un’autorità sufficientemente forte e se si crea una distanza, tra esecutore e vittima, sufficiente da depersonalizzare quest’ultima. The Girl Next Door sembra, per molti versi, una rappresentazione pratica di questa teoria. Ruth è un genitore, e gli altri sono un branco di ragazzini in un’epoca in cui l’autorità genitoriale era sentita con più forza che non adesso: se l’adulto ti dà il permesso, non può essere sbagliato, no? I carnefici del romanzo di Ketchum non sono altro che una buona combinazione di sadismo, insensibilità, ottusità, curiosità infantile e mancanza di immaginazione. Inoltre, il fatto che l’artefice e principale responsabile della violenza sia una donna e non un uomo, ci allontana dalla retorica dell’uomo che abusa la donna (già sento Dago gridare: femminicidio!), per mostrarci la capacità più in generale dell’essere umano di fare del male a un altro essere umano.
Capire questo, rende il romanzo di Ketchum più atroce di qualsiasi orrore cosmico lovecraftiano o bizzarria sovrannaturale alla Mellick – per quanto io per primo sia un amante del fantastico. La totale assenza di elementi fantastici, che fanno di The Girl Next Door un romanzo quasi Mainstream, sono anche l’unica ragione ad avermi spinto a farne una Bonus Track e non un Consiglio. Perché sotto ogni rispetto il romanzo di Ketchum è un capolavoro. Non è certamente una lettura per tutti; ma lo consiglio a chiunque se la senta.
E’ un buon modo, mi sembra, per chiudere questo mese dedicato all’horror.

Caso Sylvia Likens

Il vero caso di Sylvia Likens

 

Dove si trova?
Il caso di The Girl Next Door è uno di quei pochi in cui posso dire a cuor sereno di stare alla larga da Amazon: troverete o l’edizione cartacea (con il paperback a partire da 12 Euro nel momento in cui scrivo, ma si tratta di copie tutte possedute da terze parti, quindi sia la disponibilità sia il prezzo saranno molto fluttuanti), o un e-book che però non è del romanzo originale, bensì della sceneggiatura del film che hanno tratto dal romanzo. Semplificatevi invece la vita, e scaricatevi l’ePub di The Girl Next Door da Library Genesis a questo link.
Paradossalmente, su Amazon è più facile trovare la traduzione italiana (ma solo in cartaceo): 8,42 Euro al momento in cui scrivo, edizioni Gargoyle. Ignoro la qualità di questa traduzione, ma la copertina con tipa mezza nuda in camicia da notte non mi fa ben sperare.

Chi devo ringraziare?
Questa è una di quelle volte in cui sono veramente felice di gestire questo blog. Inizialmente, per il giorno di oggi era previsto un altro articolo, molto meno hardcore. Poi, nei commenti al post Impressioni di Ottobre, Zethani mi ha consigliato di leggere The Girl Next Door. Il fatto che abbia deciso di sostituire il palinsesto originale con l’articolo che avete appena letta, la dice lunga su quanto il consiglio sia stato azzeccato. Ergo: grazie Zethani. Continuate così ^-^
L’articolo che avevo inizialmente scritto per l’ultima entry di Ottobre, comunque, tornerà da qualche parte tra Novembre e Dicembre.

Milgram experiment

La struttura base dell’esperimento di Milgram.

Qualche estratto
I due brani che ho scelto vengono entrambi dalla prima parte del libro, prima che la situazione degeneri. Uno mostra il primo incontro tra il protagonista e Susan, la sorella minore di Meg, ed è una descrizione che mi ha colpito per la sua vividezza e per come imposta il rapporto tra i personaggi; l’altro, un alterco carico di tensione tra Meg e Ruth che dà il via a una delle tipiche riflessioni di David.

1.
When you’re twelve, little kids are little kids and that’s about it. You’re not even supposed to notice them, really. They’re like bugs or birds or squirrels or somebody’s roving housecat—part of the landscape but so what. Unless of course it’s somebody like Woofer you can’t help but notice.
I’d have noticed Susan though.
I knew that the girl on the bed looking up at me from her copy of Screen Stories was nine years old—Meg had told me that—but she looked a whole lot younger. I was glad she had the covers up so I couldn’t see the casts on her hips and legs. She seemed frail enough as it was without my having to think about all those broken bones. I was aware of her wrists, though, and the long thin fingers holding the magazine.
Is this what an accident does to you? I wondered.
Except for the bright green eyes it was almost like meeting Meg’s opposite. Where Meg was all health and strength and vitality, this one was a shadow. Her skin so pale under the reading lamp it looked translucent.
Donny’d said she still took pills every day for fever, antibiotics, and that she wasn’t healing right, that walking was still pretty painful.
I thought of the Hans Christian Andersen story about the little mermaid whose legs had hurt her too. In the book I had the illustration even looked like Susan. The same long silky blond hair and soft delicate features, the same look of sad longtime vulnerability. Like someone cast ashore.
“You’re David,” she said.
I nodded and said hi.
The green eyes studied me. The eyes were intelligent. Warm too. And now she seemed both younger and older than nine.
“Meg says you’re nice,” she said.
Smiled.
She looked at me a moment more and smiled back at me and then went back to the magazine. On the radio Alan Freed played the Elegants’ “Little Star.”
Meg stood watching from the doorway. I didn’t know what to say.
I walked back down the hall. The others were waiting.
I could feel Ruth’s eyes on me. I looked down at the carpet.
“There you go,” she said. “Now you know each other.”

2.
Ruth nodded again. “Come here,” she said.
Meg just stood there.
“I said come over here.”
She walked over.
“Open your mouth and let me smell your breath.”
“What?”
Beside me Denise began to giggle.
“Don’t sass me. Open your mouth.”
“Ruth…”
“Open it.”
“No!”
“What’s that? What’d you say?”
“You don’t have any right to …”
“I got all the right in the world. Open it.”
“No!”
“I said open it, liar.”
“I’m not a liar.”
“Well I know you’re a slut so I guess you’re a liar too. Open it!”
“No.”
“Open your mouth!”
“No!”
“I’m telling you to.”
“I won’t.”
“Oh yes you will. If I have to get these boys to pry it open you will.”
Willie snorted, laughing. Donny was still standing in the doorway holding the cans and jars. He looked embarrassed.
“Open your mouth, slut.”
That made Denise giggle again.
Meg looked Ruth straight in the eye. She took a breath.
And for a moment she suddenly managed an adult, almost stunning dignity.
“I told you, Ruth,” she said. “I said no.”
Even Denise shut up then.
We were astonished.
We’d never seen anything like it before.
Kids were powerless. Almost by definition. Kids were supposed to endure humiliation, or run away from it. If you protested, it had to be oblique. You ran into your room and slammed the door. You screamed and yelled. You brooded through dinner. You acted out—or broke things accidentally on purpose. You were sullen, silent. You screwed up in school. And that was about it. All the guns in your arsenal. But what you did not do was you did not stand up to an adult and say go fuck yourself in so many words. You did not simply stand there and calmly say no. We were still too young for that. So that now it was pretty amazing.

Tabella riassuntiva

Un viaggio atroce nella crudeltà umana. Le intrusioni del narratore quarantenne ostacolano l’immersione.
Personaggi e ambientazione resi alla perfezione.  Il ritmo lento potrebbe innervosire qualcuno.
Crescendo di tensione fino al finale.  Questo tipo di violenza non è per tutti.
Trasmette la realtà del “dolore” meglio di qualsiasi splatterpunk.


(1) Voglio però anche sottolineare come il romanzo di Ketchum non sia una messa in fiction del caso Likens. Nonostante i legami con l’avvenimento reale siamo molto forti, sono solo stati materiale d’ispirazione per scrivere una storia molto più personale.Torna su

Saggistica: Obedience to Authority

obedience-to-authority.gifAutore: Stanley Milgram
Editore: Harper Perennial
Collana: Modern Thought
Genere: Psicologia / Sociologia

Anno: 1974
Pagine: 224

Difficoltà in inglese: **

Ho sempre trovato irritante quell’abitudine a definire il nazismo come un “male assoluto” o, ancora peggio, come qualcosa di completamente inspiegabile, che non si dovrebbe neanche provare a spiegare. Alcuni lo dicono per educazione, altri perché credono che cercare una spiegazione ai campi di concentramento sia un modo per giustificarli, altri ancora perché genuinamente convinti di questa “assolutezza” irripetibile dell’evento. Di fatto, sono tutti meccanismi mentali per allontanare il problema, per fare finta che non riguardi davvero l’essere umano ‘normale’ e che quindi non ci sia ragione di studiarlo.
Eppure Hannah Arendt l’aveva spiegato piuttosto bene. Assistendo all’interrogatorio di Eichmann a Gerusalemme, ne aveva tratto un quadro che non si accordava con l’idea classica del gerarca nazista sadico e mostruoso. Eichmann appariva come un uomo ‘normale’, fin troppo nella media; non sembrava aver tratto piacere personale dall’atto di far torturare e uccidere ebrei, anzi asseriva di averlo fatto solo perché gli era stato ordinato di farlo. L’unico piacere che aveva provato consisteva nell’idea di aver fatto bene il suo lavoro, e quindi di aver soddisfatto le aspettative dei suoi superiori. Ancora, Eichmann non si sentiva più che tanto responsabile delle proprie azioni: era soltanto un esecutore materiale. Non era stato lui a decidere – aveva semplicemente obbedito.

Un altro studioso, in quegli anni, si stava occupando della natura dell’obbedienza: si chiamava Stanley Milgram ed era un ricercatore di psicologia sociale. Milgram rileva l’ambiguità morale dell’obbedienza: se da parte è un elemento necessario alla convivenza tra esseri umani (obbedienza alle leggi, ai genitori, a un leader, alle norme civili non scritte, eccetera), dall’altro l’obbedienza può spingere l’essere umano a compiere a cuor leggero omicidi e crudeltà assortite (ad esempio il soldato in guerra). Ma l’obbedienza all’autorità, ben lungi dall’essere una presa di coscienza pienamente razionale, sembra essere un meccanismo istintuale ben radicato nella specie umana.
Milgram decide di fare un passo avanti rispetto alle osservazioni empiriche e alle intuizioni della Arendt. Vuole misurare la portata del meccanismo di obbedienza insito in tutti noi. In altre parole: fino a che punto può spingerci l’obbedienza all’autorità? Cosa siamo disposti a fare pur di obbedire agli ordini dell’autorità? Nasce così, nel 1963, quello che oggi è passato alla storia come Milgram experiment.

Adolf Eichmann

L’uomo medio.

L’esperimento
Lascio spiegare allo stesso Milgram come funzioni l’esperimento.
Dato che si tratta di un brano piuttosto lungo e non vorrei che qualcuno se lo perdesse, oltre a trascrivere l’originale lo tradurrò in italiano; il grassetto è mio:

The logic and philosophic aspects of obedience are of enormous aspect, but an empirically grounded scientist eventually comes to the point where he wishes to move from abstract discourse to the careful observation of concrete instances. In order to take a close look at the act of obeying, I set up a simple experiment at Yale University. Eventually, the experiment was to involve more than a thousand participants and would be repeated ay several unversities, but at the beginning, the conception was simple. A person comes to a psychological laboratory and is told to carry out a series of acts that come increasingly into conflict with conscience. The main question is how far the participant will comply with the experimenter’s instructions before refusing to carry out the actions required of him.
[…] Two people come to a psychology laboratory to take part to a study of memory and learning. One of them is designed as a “teacher” and the other a “learner”. The experimenter explains that the study is concerned with the effects of punishment on learning. The learner is conducted into a room, seated to a chair, his arms strapped to prevent excessive movement, and an electrode attached to his wrist. He is told that he is to learn a list of word pairs; whenever he makes an error, he will receive electric shocks of increasing intensity.
The real focus of the experiment is the teacher. After watching the learner being strapped into place, he is taken into the main experimental room and seated before an impressive shock generator. Its main feature is a horizontal line of thirty switches, ranging from 15 volts to 450 volts, in 15-volt increments. There are also verbal designations which range from SLIGHT SHOCK to DANGER – SEVERE SHOCK. The teacher is told that he is to administer the learning test to the man in the other room. When the learner responds correctly, the teacher moves on to the next item; when the other man gives an incorrect answer, the teacher is to give him an electric shock. He is to start at the lowest shock level (15 volts) and to increase the level each time the man makes an error, going through 30 volts, 45 volts, and so on.
The “teacher” is a genuine naive subject who has come to the laboratory to participate in an experiment. The learner, or victim, is an actor who actually receives no shock at all. The point of the experiment is to see how far a person will proceed in a concrete and measurable situation in which he is ordered to inflict increasing pain on a protesting victim. At what point will the subject refuse to obey the experimenter?
Conflict arises when the man receiving the shock begins to indicate that he is experiencing discomfort. At 75 volts, the “learner” grunts. At 120 volts he complains verbally; at 150 he demands to be released from the experiment. His protest continue as the shock escalate, growing increasingly vehement and emotional. At 285 volts his response can only be described as an agonized scream.
[…] For the subject, the situation is not a game; conflict is intense and obvious. On one hand, the manifest suffering of the learner presses him to quit. On the other, the experimenter, a legitimate authority to whom the subject feels some commitment, enjoins him to continue. Each time the subject hesitates to administer shock, the experimenter orders him to continue. To extricate himself from the situation, the subject must make a clear break with authority. The aim of this investigation was to find when and how people would defy authority in the face of a clear moral imperative.

Esperimento Milgram

Una delle stanze dell’esperimento Milgram.

Gli aspetti legali dell’obbedienza sono di enorme importanza, ma uno scienziato di estrazione empirica prima o poi arriva al punto di volersi spostare dal discorso astratto allo studio attento di situazioni concrete. Per dare un’occhiata da vicino all’atto dell’obbedienza, ho messo in piedi un semplice esperimento all’Università di Yale. Alla fine, l’esperimento avrebbe coinvolto più di un migliaio di partecipanti e sarebbe stato ripetuto in diverse università, ma all’inizio l’idea era semplice. Una persona va in un laboratorio di psicologia e gli viene detto di compiere una serie di azioni che entrano progressivamente sempre più in conflitto con la sua coscienza. La domanda principale è fino a che punto i partecipanti obbediranno alle istruzioni dello sperimentatore prima di rifiutarsi di compiere le azioni richieste.
[…] Due persone arrivano in un laboratorio di psicologia per prendere parte in uno studio sulla memoria e l’apprendimento. Uno di loro viene designato come “insegnante”, l’altro come “allievo”. Lo sperimentatore spiega che lo studio riguarda gli effetti delle punizioni sull’apprendimento. L’allievo è condotto in una stanza, viene fatto sedere su una sedia, le sue braccia vengono legate per impedire movimenti eccessivi, e un elettrodo gli viene attaccato al polso. Gli viene detto che dovrà imparare una lista di coppie di parole; ogni voltà che farà un errore, riceverà una scossa elettrica di intensità crescente.
Il vero fulcro dell’esperimento è l’insegnante. Dopo aver guardato l’allievo legato al suo posto, viene portato nella stanza principale dell’esperimento e fatto sedere di fronte a un impressionante generatore di elettricità. La sua caratteristica principale è una riga orizzontale di trenta interruttori, che variano da 15 a 450 volt, con incrementi progressivi di 15 volt. Ci sono anche indicazioni verbali che variano da LEGGERO SHOCK a PERICOLO – SHOCK VIOLENTO. All’insegnante è spiegato che deve somministrare il test all’uomo nell’altra stanza. Quando l’allievo risponde correttamente, l’insegnante passa alla domanda successiva; quando dà una risposta sbagliata, l’insegnante deve dargli una scossa. Deve partire al livello più basso (15 volt) e salire di un livello ogni volta che l’allievo commette un errore, passando a 30 volt, 45 volt, e così via.
L'”insegnante” è un soggetto realmente ignaro che è venuto nel laboratorio per partecipare a un esperimento. L’allievo, o vittima, è un attore che in realtà non riceve alcuna scossa. Il punto dell’esperimento è vedere fino a che punto si spingerà una persona in una situazione concreta e misurabile nella quale gli è ordinato di infliggere un dolore crescente a una vittima che protesta. A che punto il soggetto si rifiuterà di continuare a obbedire lo sperimentatore?
Il conflitto si manifesta quando l’uomo che subisce le scosse comincia a mostrare di provare disagio. A 75 volt, l’allievo grugnisce. A 120 volt si lamenta verbalmente; a 150 chiede di essere rilasciato dall’esperimento. Le sue proteste continuano con l’aumentare delle scosse, diventando sempre più violente ed emotive. A 285 volt le sue reazioni non possono essere descritte altrimenti che come un urlo di agonia.
[…] Per il soggetto, la situazione non è un gioco; il conflitto è intenso e palese. Da una parte, le sofferenze manifeste dell’allievo lo spingono a interrompere l’esperimento. Dall’altra lo sperimentatore, un’autorità legittima verso cui il soggetto avverte una certa dedizione, gli impone di continuare. Ogni volta che il soggetto esita nell’infliggere una scossa, lo sperimentatore gli ordina di continuare. Per districarsi da questa situazione, il soggetto deve compiere una chiara rottura con l’autorità. L’obiettivo di questa indagine è trovare come e quando le persone violeranno gli ordini dell’autorità di fronte ad un chiaro imperativo morale.

Ridotto all’osso, il conflitto che si manifesta nel soggetto dell’esperimento è questo: il bisogno da un lato di far cessare le sofferenze di un proprio simile, da lui stesso procurate e continuamente aumentate; dall’altro, il bisogno di obbedire agli ordini di un’autorità riconosciuta che non si vorrebbe dispiacere. L’equipe di Milgram si aspettava risultati inquietanti, ma non era preparata a ciò che accadde. Nell’esperimento di base, il 65% circa dei soggetti arrivò a premere tutti gli interruttori, infliggendo il massimo dolore possibile (!); la restante percentuale di soggetti si fermò tra la scarica da 300 volt e quella da 375.
Altrettanto interessante della fase centrale dell’esperimento è il debriefing finale: al soggetto viene rivelata la vera natura dell’esperimento e che la vittima non ha veramente ricevuto gli shock, per osservare le sue reazioni. Generalmente il comportamento misurato nei soggetti è un visibile rilassamento e sollievo. Quando viene loro chiesto perché non si siano fermati nonostante le proteste e le sofferenze dell’allievo, le risposte variano, ma nella maggior parte dei casi hanno questo tenore: avrei voluto smettere, ma non ho potuto; non volevo violare l’esperimento; non è colpa mia, ho fatto quello che mi era stato detto di fare; mi sono attenuto alle regole, è stato lui (l’allievo) a violarle mettendosi a protestare; e così via.

Diagramma dell'esperimento Milgram

Schema dell’esperimento di base. “L” sta per Learner (Allievo), “T” per Teacher (Insegnante, il soggetto), “E” per Experimenter (Sperimentatore, o scienziato).

Il libro
Obedience to Authority viene pubblicato nel 1974, nove anni dopo i primi esperimenti. Benché il libro non sia diviso in parti, si possono distinguere due sezioni.
Nei primi nove capitoli, Milgram descrive in dettaglio l’esperimento: all’inizio vengono spiegate con precisione tutte le sue parti, dalla scelta dei candidati alle modalità delle misurazioni al debriefing; poi vengono mostrati e commentati i risultati di questa prima batteria di esperimenti, e vengono raccontati nel dettaglio i casi di alcuni soggetti particolarmente significativi; quindi vengono illustrate tutta una serie di variazioni sull’esperimento iniziale per studiare i cambiamenti nel comportamento dei soggetti al cambiamento di alcune condizioni. Questa prima parte è scritta in modo molto piano e limpido – Milgram ha il dono (non comune tra gli scienziati) di farci vedere in modo chiaro e trascinante le varie esperienze di cui è stato testimone durante gli esperimenti.
La seconda parte è più teorica e quindi, nonostante la chiarezza dello stile di scrittura, più difficile da leggere (specialmente in inglese). Milgram passa dall’esposizione dei risultati dell’esperimento al tentativo di spiegare come funzioni il meccanismo dell’obbedienza nell’essere umano. Chiudono il libro un capitolo dedicato ai problemi metodologici dell’esperimento e una conclusione generale.

Le parole di Milgram nel raccontarci gli esperimenti non lasciano dubbi: il comportamento dei soggetti non è mai determinato, se non in pochissimi casi, da un impulso sadico nei confronti della vittima. Gli “insegnanti” non provano piacere in quello che fanno; al contrario, registrano un livello di stress e di malessere crescente nei soggetti mano a mano che si va avanti nell’esperimento. Il soggetto vorrebbe smettere, e spesso prova a farlo, esitando, pregando o chiedendo apertamente allo scienziato di interrompere il test. Ma è la presenza fisica dello scienziato, e le sue intimazioni ad andare avanti ad ogni costo, a ‘costringerlo’ a proseguire.
Questo conflitto è chiarito ulteriormente nelle variazioni dell’esperimento di base. Alcune riguardano la distanza. Più la vittima è allontanata dal soggetto, meno quest’ultimo si sente responsabile e più diminuisce la percentuale di soggetti che si rifiutano di andare avanti; viceversa, più la vittima si avvicina al soggetto più questo diventa restio (ad esempio, la percentuale di coloro che interrompono l’esperimento aumenta di molto nei casi in cui il soggetto, per amministrare le scosse, deve toccare fisicamente la vittima).

Esperimento Milgram

La macchina del male.

Altrettanto cruciale è la percezione che si ha dell’autorità: la sensazione di farlo ‘per il bene della scienza’, e che gli scienziati hanno ragione, è un elemento molto importante, e spesso addotto dai soggetti per spiegare la loro diminuzione di senso di colpa. “E’ uno scienziato, sa quello che sta facendo” è una frase ricorrente. Se si diminuisce con vari mezzi l’autorità dello scienziato o dell’ambiente in cui si sta svolgendo l’esperimento, aumenta il senso di responsabilità dei soggetti e quindi la percentuale di coloro che si fermano. Hanno quindi ragione coloro che dicono che i nazisti che parteciparono al genocidio degli ebrei sposavano almeno in parte l’ideologia hitleriana, o quantomeno ne riconoscevano l’autorità; magari in modo passivo, ma comunque con un certo grado di accettazione.
Un altro fattore importante sembra essere il livello di istruzione. Persone poco istruite, poco abituate al ragionamento astratto e all’abitudine a mettersi nei panni degli altri sono più prone all’ubbidienza; esemplare il caso di un saldatore italoamericano, un soggetto dal carattere quasi animalesco, incapace di provare la minima empatia verso la vittima, o il benché minimo senso di colpa. Ecco uno stralcio dal debriefing:

The experimenter routinely asks him whether the experiment has any other purpose he can think of. He uses the question, without any particular logic, to denigrate the learner, stating, “Well, we have more or less a stubborn person (the learner). If he understood what this here was, he would’a went along without getting the punishment”. In his view, the learner brought punishment on himself.
[…] The experimenter has great difficulty in questioning the subject on the issue of responsibility. He does not seem to grasp the concept. The interviewer simplifies the question. Finally the subject assigns major responsibility on the experimenter: “I say your fault for the simple reason that I was paid for doing this. I had to follow orders. That’s how I figured it”.

Al contrario, livelli d’istruzione più alti aumenterebbero il senso di responsabilità individuale (il che non significa che questi soggetti siano spesso in grado di sottrarsi all’autorità dello scienziato). Ancora: soggetti insicuri tendono più facilmente a identificarsi nell’autorità o a ricercare la sua approvazione rispetto a soggetti con un forte senso di sé e dei propri valori, che invece oppongono più resistenza. Il libro descrive poi ulteriori variazioni, per esempio esperimenti con soggetti donna (che producono le stesse percentuali) o con soggetti multipli, ma non entrerò nel dettaglio: leggeteli, perché sono veramente interessanti.

Glados

Do it. For science.

Se i risultati dell’esperimento sono lì, e sono indiscutibili, più incerte sono le interpretazioni che Milgram costruisce su di essi. Sono comunque terribilmente affascinanti. Muovendo da un’analogia con la robotica, Milgram parla di agentic shift: un meccanismo che scatta nel momento in cui l’individuo si sottomette a una gerarchia, e quindi delega la proprie scelte ai propri superiori e cessa di ritenersene responsabile (o quantomeno diminuisce il proprio senso di responsabilità). L’individuo si sente così come il “braccio” di una volontà che sta fuori e sopra di lui:

The essence of obedience consists in the fact that a person comes to view themselves as the instrument for carrying out another person’s wishes, and they therefore no longer see themselves as responsible for their actions. Once this critical shift of viewpoint has occurred in the person, all of the essential features of obedience follow.

E ancora:

How is it that a person who is usually decent and courteous acts with severity against another person within the experiment? He does so because conscience, which regulate impulsive aggressive action, is per force diminished at the point of entering a hierarchical structure.

Lo scattare di questa soglia varia da individuo a individuo a seconda della sua personalità e del suo background di esperienze; ma essa sarebbe innata nella specie umana. Cosa ancora più affascinante, Milgram spiega questo meccanismo in termini darwiniani. L’essere umano è sopravvissuto all’estinzione unendosi ai propri simili e collaborando con loro; la selezione naturale ha quindi favorito quei tratti istintuali che favorivano la vita in gruppo. La delega della propria autonomia all’autorità del gruppo (che può essere un leader carismatico, una casta istituzionale, un’assemblea collettiva, eccetera), garantendo ordine e armonia al suo interno, rafforza il gruppo e aumenta le sue possibilità di sopravvivenza. E’ ironico (o inquietante, a scelta) pensare che lo stesso meccanismo che ha favorito la sopravvivenza della specie umana nella giungla della selezione naturale, sia anche ciò che ha reso possibili crudeltà di massa come l’Olocausto. Al contrario della vulgata comune sull’unicità del nazismo, Milgram ci avverte che, in potenza, c’è un Adolf Eichmann in ognuno di noi.

Conclusione
Quando si parla di esperimenti sociali sull’obbedienza e sulla trasformazione morale degli individui in condizioni estreme, il primo esempio che viene alla mente è sempre l’esperimento carcerario di Stanford condotto da Philip Zimbardo. Effettivamente, Milgram e Zimbardo si mossero nella stessa direzione e raggiunsero gli stessi risultati. Tuttavia l’esperimento di Zimbardo è famoso per la sua spettacolarità più che per il suo rigore; perché venne sospeso, e non per l’inoppugnabilità dei suoi risultati. L’esperimento di Milgram è migliore, non solo perché misurabile con precisione, ma anche perché “facilmente” ripetibile. E infatti è stato ripetuto, più volte, in diversi luoghi del mondo e in decadi diverse – e le percentuali sono sempre le stesse (con piccoli scarti)! Ciò significa che i risultati dell’esperimento di Milgram non sono più dubitabili, a meno di mettere in discussione la validità stessa della metodologia alla base.
E ho solo sfiorato la superficie di quella miniera d’oro di intuizioni sulla natura umana e sulle caratteristiche dell’obbedienza che è il saggio di Milgram. Volevo farvi venire l’acquolina in bocca – ora dovete correre a leggerlo. Obedience to Authority è uno dei saggi più belli e interessanti che abbia mai letto, oltre ad essere scritto in una prosa facile, scorrevole e acchiappante. E’ anche uno dei pochi saggi che abbia mai letto interamente in inglese nella mia breve vita, e non ho mai avuto problemi (salvo in qualche passaggio nell’ultima parte, quella teorica). E’ un vero peccato che in Italia sia così poco noto, tanto che non mi risulta che ci sia una traduzione italiana attualmente in circolazione.

Gli esperimenti condotti da Milgram – e in particolare il racconto dettagliato del comportamento di alcuni dei soggetti – sono anche ottimo materiale per qualsiasi scrittore. L’ambiguità stessa del concetto di obbedienza e del comportamento dell’essere umano medio in queste circostanze sono uno strumento fantastico per tratteggiare personaggi più complessi. Il conflitto (sia quello interno che quello esterno) si alimenta di ambiguità, e il conflitto è uno dei pilastri di una narrativa avvincente.

Dove si trova?
Un anno fa, ho comprato Obedience to Authority su Amazon.com al prezzo di 10,50 $ circa (più spese di spedizione) – un prezzo più che onesto per un libro così bello e che vale la pena di tenere in libreria, per prenderlo in mano e sfogliarlo quando si vuole.
Ho comunque scoperto che ora si trova anche su Bookfinder e su Library Genesis in formato pdf. E’ un file di cattiva qualità che sarebbe difficile convertire in altri formati, tuttavia consiglio di scaricarlo e darci un’occhiata: se si è abbastanza incuriositi da voler andare avanti, si può passare all’originale e finire di leggerselo cartaceo.

Chi devo ringraziare?
Qui il merito va tutto al buon Taotor. Sapendo che lui bazzica l’ambiente psico-sociologico, gli avevo chiesto ragguagli sul libro di Festinger su cui ho scritto un articolo quattro mesi fa, Quando la profezia non si avvera: l’avevo visto tra le novità del Mulino e lo volevo. Taotor colse la palla al balzo e oltre che di Festinger mi parlò anche di Milgram, che un anno fa conoscevo solo di nome:

Per esempio, il più famoso esperimento di Psicologia Sociale è il Milgram Experiment, i cui risultati spiegano in parte l’obbedienza per esempio dei soldati nazisti nel commettere atti atroci – e Stanley Milgram è lo stesso genio che ha condotto un esperimento in cui rimaneva fermo in mezzo a una strada a fissare la finestra di un palazzo, e man mano alcuni suoi collaboratori facevano lo stesso, e più il gruppo diventava grande, più alto era il numero di persone che guardava nella stessa direzione, lol.

Che dire – il libro di Milgram è ancora più figo di quello di Festinger. Thx Taotor ^-^

It's Milgram Time

Una nota finale
Voglio chiudere l’articolo con una nota positiva. Ho detto che molti di noi – io stesso? – probabilmente si comporterebbero come Eichmann posti in una situazione simile. Ma questo non giustifica Eichmann né tutti gli altri. La teoria di Milgram non annulla la responsabilità individuale. Resistere all’autorità, vagliare ogni suo ordine e rifiutare quelli che ci appaiono inaccettabili, è possibile. Riporto il caso di Gretchen Brandt, un’emigrata tedesca di trentun’anni che da adolescente ha vissuto nella Germania di Hitler:

Ad the administration of 210 volts, she turns to the experimenter, remarking firmly: “Well, I’m sorry. I don’t think we should continue.”
“The experiment requires that you go on until he has learned all the words pairs correctly.”
“He has a heart condition, I’m sorry. He told you that before”.
“The shocks may be painful but they are not dangerous”.
“Well, I’m sorry, but I think when shocks continue like this, they are dangerous. You ask him if he wants to get out. It’s his free will.”
“It is absolutely essential that we continue…”
“I like you to ask him. We came here of our free will. […] I don’t want to be responsible for anything happening to him. I wouldn’t like it for me either.”
[…] She refuses to go further and the experiment is terminated. The woman is firm and resolute throughout. She indicates in the interview that she was in no way tense or nervous, and this corresponds to her controlled appearance throughout.
[…] The woman’s straightforward, courteous behavior in the experiment, lack of tension, and total control of her own action seems to make disobedience a simple and rational deed. Her behavior is the very embodiment of what I had initially envisioned would be true for almost all subjects. Ironically, Gretchen Brandt grew to adolescence in Hitler’s Germany and was for the great part of her youth exposed to Nazi propaganda. When asked about the possible influence of her background, she remarks slowly, “Perhaps we have seen too much pain.”