Ansen Dibell, nel suo manuale Plot, è piuttosto chiaro:
Any departure from linear, sequential storytelling is going to make the story harder to read and call attention to the container rather than the content, the technique rather than the story those techniques should be serving. […] Don’t use a frame or a flashback if the story can be well told by following the King of Hearts’ advice: “Begin at the beginning, and go on till you come to the end: then stop.”
Mentre leggevo quelle righe, nel lontano 2009, contemplavo la struttura del romanzo che da qualche mese tentavo di scrivere. Nel romanzo c’era questo tizio che, durante un viaggio in barca su un fiume in terre selvagge (molto Cuore di tenebra) raccontava ad altri due tizi una storia. Questa era la cornice. Poi c’era la storia raccontata dal tipo, che in realtà erano due storie: la storia di come quattro tizi si erano imbarcati in un’avventura assurda ai margini della civiltà, e la storia di uno dei quattro che, rimasto solo, andava in giro trascinandosi dietro un cadavere. Il lettore ovviamente doveva essere avvinto dall’interrogativo: com’è che questo qui è finito ad andare in giro trascinandosi dietro un cadavere? Cosa sarà mai successo? E poi, naturalmente, c’era la backstory individuale di ciascuno dei quattro tizi del racconto nel racconto, in cui poco alla volta venivano alla luce i loro torbidi problemi. Come se non bastasse, la cornice in realtà non era una cornice: mano a mano che si procedeva nel romanzo, in essa succedevano sempre più cose e alla fine doveva diventare la storyline principale. Quella dove tutti i nodi vengono al pettine.
Quattro timeline parallele, con una storia che salta da una all’altra capitolo dopo capitolo. Insomma, ero un maestro della linearità e della storia che si legge per il gusto della storia. Non c’è da sorprendersi che abbia velocemente mandato affanculo i pochi capitoli che ero riuscito a scrivere.

Plot di Ansen Dibell. Il libro che ti farà sentire una merda.
Da allora il copione si è ripetuto più volte. In quattro anni, ho scritto qualcosa come dodici primi capitoli. Tutti di storie diverse. Diversi li ho distrutti, altri li ho tenuti – per ricordo, o come monito, o perché credevo ancora nella storia che c’era dietro (e che un giorno potrei ancora scrivere, se ne diventassi capace).
Scrivere primi capitoli è molto divertente: le possibilità sono tutte aperte, e anche se hai una traccia in testa da seguire, puoi ancora scrivere qualsiasi cosa. Man mano che si va avanti con la storia, le possibilità si chiudono, il percorso diventa sempre più obbligato. E tutte le magagne strutturali (o anche più semplicemente una prosa di merda) vengono alla luce, perché sono scritte nero su bianco. L’abbandono per perdita della pazienza è inevitabile.
Questa cosa dei primi capitoli divertiva molto Siobhàn. Una volta mi disse: “Perché non prendi tutta quella roba, e fai un libro di primi capitoli? Magari è la storia di uno scrittore sfigato e depresso che non riesce ad andare oltre il primo capitolo”. Feci finta di non aver colto l’osservazione implicita (mica tanto) sulla mia condizione, e mi misi piuttosto a sviluppare l’idea. “Potrebbe essere una storia che corre su due binari! Da una parte, la vita dello scrittore (capitoli dispari); dall’altra, i primi capitoli che prova a scrivere (capitoli pari). Però dovrebbe esserci qualche legame tra gli uni e gli altri; non posso semplicemente buttare a random i primi capitoli che ho scritto. Magari ogni primo capitolo dovrebbe echeggiare episodi paralleli della vita dello scrittore. Certo, potrebbero essere riflessi psicologici (fatti triviali della vita dello scrittore che diventano materia per le sue trame fantastiche; e al perdere di interesse verso il fatto scatenante, lo scrittore perde interesse anche nella storia che ne è nata e per questo si interrompe al primo capitolo!). Ma fermarsi al piano psicologico è banale. Perché invece non creare un legame reale tra i primi capitoli fittizi e la vita personale dello scrittore? C’è una strana corrispondenza metafisica tra il mondo reale e le storie che scrive… Un mistero che è possibile dipanare solo incrociando le informazioni fornite nei capitoli dispari e in quelli pari… Forse nessuno dei due mondi è reale… Però allora i primi capitoli che ho già scritto non vanno bene. Li avevo scritti senza creare un legame tra di loro. Ne dovrò creare altri apposta, già predisposti per questa trama. Gli altri li dovrò buttare…”. Siobhàn alza gli occhi al cielo.
Insomma, mi ero sabotato fin dall’inizio. Ma in realtà è stata una fortuna – sarebbe stata una trama orribile. E poi l’ha già fatto Calvino, e pure sul suo libro ci sarebbe da discutere.

Italo Calvino: praticamente, un incrocio tra Bersani e Bilbo Baggins.
Ma perché buttare il bambino con tutta l’acqua? E quale modo migliore di inaugurare un nuovo anno di Tapirullanza, se non con una rassegna di incipit di alcuni di quegli infami primi capitoli? Domande che fanno girar la testa.
Per la vostra gioia qui di seguito vi presento diversi incipit tra le 150 e le 190 parole, quasi tutti di annate diverse, tutti accompagnati dal titolo provvisorio. Potrei dire che lo faccio perché sono un narcisista, ma basta darci un’occhiata per capire che in realtà lo faccio perché non ho senso del pudore. La maggior parte di questi incipit sono veramente orrendi (i primi sicuramente!), una collezione di perle dall’uomo che parla come un libro stampato (e vagamente tolkeniano nel suo soffermarsi sulla vegetazione) agli As you know Bob nei monologhi interiori (“come Isak sapeva”), da piogge di avverbi e doppi aggettivi a metafore roboanti. Capolavoro!
E lasciamo stare il mio gusto per i nomi propri.
«Ecco. È successo proprio là, sul fianco di una di quelle montagne, ai piedi di quei dirupi di parete rocciosa» ci dice una sera il nostro ospite, indicando i picchi lisci e dritti che si ergono sopra le chiome degli alberi e le basse montagne attorno a noi. «Dovunque sterpaglia gialla, bruciata dal sole – è successo d’estate, sapete. I prati – immaginateveli – sono punteggiati qua e là da sassi squadrati, macchie verdi di rovi, e piccoli grappoli di alberi. Più in basso, forse un centinaio di metri più in basso, c’è il bosco vero e proprio, ma lui è troppo stanco per raggiungerlo, specie con quel cadavere che deve portarsi sulle spalle. Saranno le nove di mattina e il sole è ancora basso, quasi sfiora le cime delle montagne; però comincia già a fare caldo, e lui sa che tra poco farà un caldo dell’inferno. Per di più sopra la sua testa pendono quei picchi affilati come figure geometriche, dandogli la sensazione che potrebbero franargli addosso in qualsiasi momento. E tenete conto che non mangia da qualcosa come trentasei ore.»
(Problema matematico attorno al corpo della donna amata, 2009)

“Che minchia mi stai facendo leggere?”
Appena uscito dal treno, Isak realizzò che cosa fosse Eh-Eh-Ototoi. File e file di rotaie si stendevano davanti e dietro di lui. Non correvano perfettamente parallele l’una accanto all’altra, ma piegavano leggermente verso l’interno della città; e questo perché, come Isak sapeva, la ferrovia circondava completamente la città. Il cielo era fittamente solcato di cavi dell’alta tensione, attraversati con ritmo incessante dai pantografi dei vagoni in entrata e in uscita. Una lussureggiante vegetazione di tralicci intervallava la piatta monotonia grigia di quel paesaggio.
Se qualcuno avesse solcato la città dall’alto di un elicottero, venendo dalla periferia, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stato lo sterminato intrico di scambi ferroviari che come serpenti sinuosi si allungavano verso le banchine. Queste si estendevano, sterminate rette di cemento assediate dai binari e dalle processioni di pali e cavi, anche per mezzo chilometro prima di entrare nella stazione.
(La città dei seicentododici dèi, 2010)La cupola spicca in mezzo agli alberi come sangue in una chiesa. Le lisce pareti bianche riflettono la luce del sole al punto che Cadmio deve schermarsi gli occhi con la mano guantata.
Vattene, Cadmio.
Il cervello si mette in moto da solo, gli occhi saettano a sinistra e a destra nelle fessure che ha aperto tra le dita: altezza 6,50 metri, diametro 18,30 metri.
L’uomo si ferma contro un albero, a distanza di sicurezza. I suoi occhi hanno già tracciato una griglia di quadrati di 5 metri di lato l’uno, bianchi come il gessetto sulla lavagna dell’Accademia. Un quadrato di 80 metri di lato avente al centro il centro della cupola, e i suoi piedi proprio a un passo dal bordo.
Ansima; con la mano libera si preme la coscia destra. Distoglie lo sguardo dal bianco della cupola e chiude gli occhi. Dolore e stanchezza cancellano cifre e quadrati, riempiono il suo universo.
Il dolore è un nodo che gli strizza la coscia; filamenti incandescenti si irradiano giù, fino al ginocchio, onde ritmiche gli lambiscono la caviglia. Si massaggia il punto in cui ha battuto cadendo dal dorso dell’iguana, anche se la cotta di maglia e l’imbottitura di cuoio gli impediscono di arrivare al livido.
Fottuta iguana.
(Dilemma della stanza bianca, 2012)Cello è seduta sulle panche della chiesa, seconda fila, e il direttore le stringe una spalla con la mano, il braccio attorno alla schiena. Le candele sono spente e la luce filtra dalla cupola di vetro sopra l’abside. Cello si tortura le labbra tra gli incisivi.
Sorella Delia è in piedi davanti alla prima fila, un braccio poggiato sullo schienale della panca, le dita nodose che torcono il legno. Il busto è piegato verso destra, in una posa innaturale, l’altra mano stretta sul fianco. Sorella Delia volta la testa. La guarda con apprensione, le linee sulla fronte che si ispessiscono. Sembra dirle, Cos’hai combinato? Cello abbassa lo sguardo.
Ha sbagliato qualcosa? La schiena è dritta. Le mani sono raccolte in grembo, chiuse a coppa nella posizione della preghiera. Le unghie affondano nella carne, ma questo sorella Delia non può vederlo.
Passi rompono il silenzio. È il cappellano, lo vede con la coda dell’occhio. Si avvicina al direttore, allarga le braccia. La bocca si schiude come per dire qualcosa, ma non dice niente. Il direttore scuote la testa.
(Francis Bacon aveva ragione!, 2013)

L’uomo che dobbiamo ringraziare per l’esistenza dell’espressione “esperimento cruciale”. E per tutte le opere di Shakespeare, ovviamente.
Sotto il cielo livido, la torre inclinata del Woolworth Building sembra un dito puntato verso l’oceano. Le onde si frangono contro le finestre, la schiuma si addensa attorno a una guglia affiorante a pelo d’acqua. Più oltre, contro l’orizzonte si stagliano gli scheletri pallidi dell’Irving Trust Company Building e del palazzo della Bank of Manhattan.
Plic. La goccia gli scivola lungo il profilo dell’orecchio; un’altra gli pizzica la punta del naso. Noah si rimette il cappuccio, un gesto meccanico.
La linea dell’orizzonte è ancora vuota – acqua, acqua, acqua. Sospira. Appoggia la nuca contro il parapetto della terrazza panoramica, la schiena rivolta all’oceano. La luce lampeggiante del faro in cima all’Empire State gli ferisce gli occhi. Uomini si muovono sulle impalcature, grandi come formiche, ma le luci rosse sono ancora spente.
Ci sono uomini anche ai piedi dell’Empire, sulla banchina di legno. Due barche stanno lasciando i pontili, un battello è fermo aspettando di poter entrare nel dedalo di moli. Un uomo esce dal vano di una finestra. Tira un carrello con sopra impilate due casse di legno; le ruote seguono la pendenza di una passerella che taglia il davanzale. Merce da portare a Londra; probabilmente sono altre sirene.
(Quando Londra venne a New York, 2013)
Vedendo questi incipit uno di fianco all’altro, leggo un cambiamento nel tempo. All’inizio prediligevo le lunghe descrizioni statiche in campo lungo, con pov simil-onnisciente – errore classico da principiante – mentre negli anni ho cominciato a filtrare le scene attraverso il personaggio pov (anche quando descrivo l’ambiente), a rendere le descrizioni dinamiche e ad inserire da subito degli hook che potessero incoraggiare a proseguire. Ho cercato di suscitare la curiosità del lettore su domande precise: perché la povera Cello è così tesa, perché entra l’acqua nei grattacieli di Manhattan (o almeno quella era la mia intenzione). Chi se ne frega dei sinuosi scambi ferroviari della città del secondo incipit!
Solo su una cosa non sono stato sincero. L’ultimo brano non è tratto da un primo capitolo orfano. E’ l’incipit di un racconto che ho finito da qualche mese, e che attualmente è in fase di revisione. Avendo fallito con le opere di ampio respiro, mi sono detto: perché non allenarmi con qualcosa di più breve e di più gestibile dal punto di vista della trama? Non so che forma avrà il racconto quando sarà davvero pronto; magari sarà completamente trasformato. Ma quando sarà, mi piacerebbe pubblicarlo sul blog. Chissà che la forma del racconto non mi porti fortuna e che non ne seguano altri.
Propositi per l’anno nuovo? Articoli meno autoreferenziali
Di passaggio, mi accorgo che in questo momento sul mio WordPress ci sono 20 articoli in bozza. Le cattive abitudini sono dure a morire.
Dafuq I’ve just read?
Vabbe cazzate a parte abbiamo tutti incipit nel cassetto (computer).
Il fatto è che avere buone idee è più semplice che raccontarle, ma non è colpa nostra, è che abbiamo sviluppato un cervello che è una macchina da guerra e un sistema di linguaggio che è una betoniera arrugginita abbandonata in un uno scalo ferroviario (immenso 😀 ).
Detto questo vai con il racconto, io lo leggerò volentieri, poi ti criticherò, ma perchè non mi va mai bene nulla.
Il racconto cmq è la cosa migliore, ed è anche più facile da dare in pasto agli altri.
L’alternativa che ho trovato io a quando si hanno buone (discrete) idee ma scarsa capacità di narrarle è scriverci un’avventura per un gioco di ruolo.
NaNoWriMo, Tapiro. Provaci anche tu. è.é
@Nicholas:
Oh yes, ma non è solo quello.
Il fatto è che quando un romanzo è allo stadio di idea è ancora magmatico: tutto può ancora accadere, e probabilmente hai in mente tre diverse possibili scene risolutive con un sacco di altri elementi che provi a variare nella tua testa di continuo. Tutto sembra fico perché ha ancora contorni nebulosi.
Ma quando scrivi, tutta quella nebbia di trovate geniali deve condensarsi in una catena di situazioni nette e definitive. E se non l’avevi pensata così bene… be’, ogni magagna salterà fuori come un pugno in un occhio.
E’ come deve essere ^_^
@Tales:
Folle.
Non ci sono riuscito quando non avevo una mazza da fare tutto il giorno, figurati adesso.
Pffft, debole. Basta non dormire di notte.
Se hai Cose da far leggere, comunque, mi propongo anch’io come beta-reader o/ o anche come pseudoeditor, volendo, così ricambio il favore che mi facesti tu.
Oh, i GdR imho aiutano un casino a sviluppare idee, non solo a narrarle. Perché i giocatori non fanno MAI MAI MAI quello che tu speravi (e i colleghi Game Masters non sono da meno), è le loro folli azioni ti costringono a voli pindarici non indifferenti.
Non dimenticherò mai quella volta in cui ereditai da un compagno GM una scalcinata campagna su Soul Eater, senza altra indicazione per proseguirla oltre a “boh segui il manga”.
Giustificai ogni buco di trama e ambientazione dicendo che in realtà i giocatori erano in mondo illusorio costruito da un orrore mangiamondi lovecraftiano; usava pezzi dei pianeti mangiati per creare questi “ambienti” in cui testare le vittime, perché gli piaceva giocare col cibo. Also, farli combattere gli permetteva di capire se avevano tanta energia magica in corpo, e sarebbero stati quindi un buon pasto.
Ne uscì una cosa fiqissima.
Priva di senso, ma fiqissima.
Vero, anche se le librerie sono piene di fantasy scritti da “master”, scrivere un’avventura è cmq un buon modo per fare esercizio di trama.
Per fare esercizio di stile ci sono i diari di sessione poi 🙂
Qual’è il tuo responso su “Plot”? Vale la pena? No? Meh?
Sugli incipit: vorrei dire oVVoVe, ma penso ai miei e sto zitto. Complimenti per il coraggio! Se in seguito uploadderai il tuo racconto lo leggerò con molto interesse.
Sulla lunghezza degli scritti: know that feel, bro. Ho appena completato un racconto lungo (30 cartelle) e prima o poi arriverò alla forma romanzo. Con calma, tanto non ho fretta. L’importante è non allungare la broda. Prima o poi farò abitudine a pensare storie più grosse.
Però, più lunga la storia, più lavoro bisogna fare prima di scriverla. Io cerco di scalettare capitolo per capitolo (dove un capitolo sono 3-6 cartelle), e trovo che sia un ottimo compromesso. Ho comunque molta libertà nel creare ambientazione e personaggi secondari, ma so già dove devo andare.
Poi scrivendo taglio dei capitoli che avevo in programma e ne estendo/aggiungo altri: però, avere già l’intreccio nei dettagli mi permette di farlo con coscienza. Insomma, più scrivo e più mi convinco che gettarsi a ruota libera sulla pagina bianca è un casino.
@Tales:
Ti fo sapere ^-^
@Nicholas:
Non saprei. Forse a livello di impostazione generale di una trama e sviluppo di idee, ma mi fermerei lì.
La mia esperienza mi ha insegnato che masterare o scrivere un’avventura GDR è davvero lontano rispetto a scrivere un racconto o un romanzo, e quei master che cercano di trasformare un’avventura GDR in una storia (da Dragonlance a Nephandum, quel romanzo italiano capitato tra le grinfie di Gamberetta) ottengono di norma risultati imbarazzanti. Nel fare l’una e l’altra cosa sono richiesti set di skill diversi, soprattutto perché un Master non ha il controllo dei personaggi principali, ma solo di un ambiente che deve essere interattivo, aperto a tante soluzioni e – soprattutto nel caso dei giochi alla D&D – orientato al grindaggio di XP.
@Willie:
Uno dei manuali più utili e precisi che abbia letto. Lo consiglio.
Si, infatti la mia era una critica, la frase le librerie sono piene di fantasy scritti da master era in accezione fortemente negativa (aka i master non dovrebbero avvicinarsi a un libro mai), il concetto è che, per me, essendo incapace di scrivere bene ma volendo raccontare le mie idee di trama uso quel media li.
Oddio, secondo me occorre fare una differenza ben precisa tra i vari tipi di GdR esistenti.
I giochi di ruolo cartacei, quelli da giocare intorno a un tavolo con qualche amico, di certo non insegnano molto sull’arte della scrittura. Al massimo servono al Master per fare palestra su worldbuilding e gestione delle trame.
Discorso diverso se parliamo di giochi in cui si scrive, come i gdr via forum e via chat.
Premessa: sono tipologie di gioco in cui si può giocare anche senza Game Master, divertendosi semplicemente a creare storie facendo interagire i propri personaggi. Ed è giocando con altra gente, più che facendo i GM, che si può imparare qualcosa di buono.
Nei giochi di ruolo via chat si tende a descrivere le azioni del proprio personaggio in terza persona e con pov rigorosamente esterno, evitando ogni forma di introspezione. Questo, per evitare ogni forma di metagaming (il far agire il proprio personaggio in base ad azioni che è il giocatore a conoscere). Personalmente non mi piace molto come tipologia di gioco, e lo “stile” che insegna è inadatto alla scrittura in prosa vera e propria.
Per gli aspiranti scrittori, credo il meglio siano i giochi di ruolo via forum, che sono più collaborativi e funzionano come un racconto a più mani: io scrivo quello che fa il mio personaggio narrandolo dal suo punto di vista, tu fai la stessa cosa col tuo, e così via. Si tende molto all’introspezione, il modo di scrivere è molto “narrativo” e curato.
Certo, saper scrivere in un gdr via forum non è la stessa cosa del saper scrivere un romanzo (c’è un bell’articolo che ne parla qui), e ho visto tanti gdristi scrittori wannabe produrre delle porcate atroci. Però giocando ho imparato un sacco di cose sulla caratterizzazione dei personaggi, e spesso mi capita di giocare personaggi di cose che scrivo per “testarli”. Per vedere se io riesco a entrare nel loro punto di vista, e capire come gli altri li considerano. Giocare con altre persone piazza i tuoi personaggi in situazioni a cui non penseresti mai, ergo aiuta parecchio a sviluppare il loro carattere.
tl, dr: i GdR IMHO possono essere un’ottimo strumento per gli aspiranti scrittori, se usati con un briciolo di cervello. Insegnano poco dal punto di vista dello stile, ma tanto sulla caratterizzazione dei personaggi.
@Tales:
Rimango dubbioso.
Ho provato i gdr forum per un brevissimo periodo della mia vita, quando avevo quindici o sedici anni. Ero su due forum diversi contemporaneamente, e in entrambi valeva la tacita regola: i tuoi post sono tanto più belli quanto più sono lunghi e particolareggiati. In altre parole: verbosi.
Di fatto venivano premiate scritture barocche e allungate, l’esatto contrario di una scrittura pulita.
Posso essere più d’accordo col fatto che giocare ai gdr forum possa migliorare la tua capacità di metterti nei panni degli altri, dato che devi “impersonare” i tuoi personaggi in ogni dettaglio. A patto di sperimentare tanti personaggi diversi (e non fossilizzarsi su una propria versione aspirazionale/migliorata, come ho visto fare a tanti), può essere utile.
Ecco: su questo potremmo essere d’accordo ^_^
La tendenza si è ridotta con l’alzarsi dell’età media dei giocatori, ma è ancora diffusa in certi tipi di ambientazioni (fantasy e gdr su Saint Seya, principalmente).
Le lungaggini inutili non svaniranno mai del tutto, perché derivanti dalle meccaniche stesse del gioco: quando dialoghi e azioni vengono spezzettati in decine di messaggi, ti viene naturale dar loro corpo con un po’ di introspezione per non scrivere post monoriga. Di conseguenza impari a caratterizzare, ma acquisisci uno stile da caprone che fa sembrare ogni cosa una puntata di Holly&Benji al ralenty *___*
Io ne ho visti, di pseudolibri scritti da gdristi che pensavano che scrivere per un romanzo o per un gdr fosse la stessa cosa.
Roba peggiore del peggio del peggio che recensisce lo Zwei.