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Cinque incipit per l’anno nuovo

Happy New Year SpidermanAnsen Dibell, nel suo manuale Plot, è piuttosto chiaro:

Any departure from linear, sequential storytelling is going to make the story harder to read and call attention to the container rather than the content, the technique rather than the story those techniques should be serving. […] Don’t use a frame or a flashback if the story can be well told by following the King of Hearts’ advice: “Begin at the beginning, and go on till you come to the end: then stop.” 

Mentre leggevo quelle righe, nel lontano 2009, contemplavo la struttura del romanzo che da qualche mese tentavo di scrivere. Nel romanzo c’era questo tizio che, durante un viaggio in barca su un fiume in terre selvagge (molto Cuore di tenebra) raccontava ad altri due tizi una storia. Questa era la cornice. Poi c’era la storia raccontata dal tipo, che in realtà erano due storie: la storia di come quattro tizi si erano imbarcati in un’avventura assurda ai margini della civiltà, e la storia di uno dei quattro che, rimasto solo, andava in giro trascinandosi dietro un cadavere. Il lettore ovviamente doveva essere avvinto dall’interrogativo: com’è che questo qui è finito ad andare in giro trascinandosi dietro un cadavere? Cosa sarà mai successo? E poi, naturalmente, c’era la backstory individuale di ciascuno dei quattro tizi del racconto nel racconto, in cui poco alla volta venivano alla luce i loro torbidi problemi. Come se non bastasse, la cornice in realtà non era una cornice: mano a mano che si procedeva nel romanzo, in essa succedevano sempre più cose e alla fine doveva diventare la storyline principale. Quella dove tutti i nodi vengono al pettine.
Quattro timeline parallele, con una storia che salta da una all’altra capitolo dopo capitolo. Insomma, ero un maestro della linearità e della storia che si legge per il gusto della storia. Non c’è da sorprendersi che abbia velocemente mandato affanculo i pochi capitoli che ero riuscito a scrivere.

Plot - Ansen Dibell

Plot di Ansen Dibell. Il libro che ti farà sentire una merda.

Da allora il copione si è ripetuto più volte. In quattro anni, ho scritto qualcosa come dodici primi capitoli. Tutti di storie diverse. Diversi li ho distrutti, altri li ho tenuti – per ricordo, o come monito, o perché credevo ancora nella storia che c’era dietro (e che un giorno potrei ancora scrivere, se ne diventassi capace).
Scrivere primi capitoli è molto divertente: le possibilità sono tutte aperte, e anche se hai una traccia in testa da seguire, puoi ancora scrivere qualsiasi cosa. Man mano che si va avanti con la storia, le possibilità si chiudono, il percorso diventa sempre più obbligato. E tutte le magagne strutturali (o anche più semplicemente una prosa di merda) vengono alla luce, perché sono scritte nero su bianco. L’abbandono per perdita della pazienza è inevitabile.

Questa cosa dei primi capitoli divertiva molto Siobhàn. Una volta mi disse: “Perché non prendi tutta quella roba, e fai un libro di primi capitoli? Magari è la storia di uno scrittore sfigato e depresso che non riesce ad andare oltre il primo capitolo”. Feci finta di non aver colto l’osservazione implicita (mica tanto) sulla mia condizione, e mi misi piuttosto a sviluppare l’idea. “Potrebbe essere una storia che corre su due binari! Da una parte, la vita dello scrittore (capitoli dispari); dall’altra, i primi capitoli che prova a scrivere (capitoli pari). Però dovrebbe esserci qualche legame tra gli uni e gli altri; non posso semplicemente buttare a random i primi capitoli che ho scritto. Magari ogni primo capitolo dovrebbe echeggiare episodi paralleli della vita dello scrittore. Certo, potrebbero essere riflessi psicologici (fatti triviali della vita dello scrittore che diventano materia per le sue trame fantastiche; e al perdere di interesse verso il fatto scatenante, lo scrittore perde interesse anche nella storia che ne è nata e per questo si interrompe al primo capitolo!). Ma fermarsi al piano psicologico è banale. Perché invece non creare un legame reale tra i primi capitoli fittizi e la vita personale dello scrittore? C’è una strana corrispondenza metafisica tra il mondo reale e le storie che scrive… Un mistero che è possibile dipanare solo incrociando le informazioni fornite nei capitoli dispari e in quelli pari… Forse nessuno dei due mondi è reale… Però allora i primi capitoli che ho già scritto non vanno bene. Li avevo scritti senza creare un legame tra di loro. Ne dovrò creare altri apposta, già predisposti per questa trama. Gli altri li dovrò buttare…”. Siobhàn alza gli occhi al cielo.
Insomma, mi ero sabotato fin dall’inizio. Ma in realtà è stata una fortuna –  sarebbe stata una trama orribile. E poi l’ha già fatto Calvino, e pure sul suo libro ci sarebbe da discutere.

Italo Calvino

Italo Calvino: praticamente, un incrocio tra Bersani e Bilbo Baggins.

Ma perché buttare il bambino con tutta l’acqua? E quale modo migliore di inaugurare un nuovo anno di Tapirullanza, se non con una rassegna di incipit di alcuni di quegli infami primi capitoli? Domande che fanno girar la testa.
Per la vostra gioia qui di seguito vi presento diversi incipit tra le 150 e le 190 parole, quasi tutti di annate diverse, tutti accompagnati dal titolo provvisorio. Potrei dire che lo faccio perché sono un narcisista, ma basta darci un’occhiata per capire che in realtà lo faccio perché non ho senso del pudore. La maggior parte di questi incipit sono veramente orrendi (i primi sicuramente!), una collezione di perle dall’uomo che parla come un libro stampato (e vagamente tolkeniano nel suo soffermarsi sulla vegetazione) agli As you know Bob nei monologhi interiori (“come Isak sapeva”), da piogge di avverbi e doppi aggettivi a metafore roboanti. Capolavoro!
E lasciamo stare il mio gusto per i nomi propri.

«Ecco. È successo proprio là, sul fianco di una di quelle montagne, ai piedi di quei dirupi di parete rocciosa» ci dice una sera il nostro ospite, indicando i picchi lisci e dritti che si ergono sopra le chiome degli alberi e le basse montagne attorno a noi. «Dovunque sterpaglia gialla, bruciata dal sole – è successo d’estate, sapete. I prati – immaginateveli – sono punteggiati qua e là da sassi squadrati, macchie verdi di rovi, e piccoli grappoli di alberi. Più in basso, forse un centinaio di metri più in basso, c’è il bosco vero e proprio, ma lui è troppo stanco per raggiungerlo, specie con quel cadavere che deve portarsi sulle spalle. Saranno le nove di mattina e il sole è ancora basso, quasi sfiora le cime delle montagne; però comincia già a fare caldo, e lui sa che tra poco farà un caldo dell’inferno. Per di più sopra la sua testa pendono quei picchi affilati come figure geometriche, dandogli la sensazione che potrebbero franargli addosso in qualsiasi momento. E tenete conto che non mangia da qualcosa come trentasei ore.»
(Problema matematico attorno al corpo della donna amata, 2009)

D'Alema

“Che minchia mi stai facendo leggere?”

Appena uscito dal treno, Isak realizzò che cosa fosse Eh-Eh-Ototoi. File e file di rotaie si stendevano davanti e dietro di lui. Non correvano perfettamente parallele l’una accanto all’altra, ma piegavano leggermente verso l’interno della città; e questo perché, come Isak sapeva, la ferrovia circondava completamente la città. Il cielo era fittamente solcato di cavi dell’alta tensione, attraversati con ritmo incessante dai pantografi dei vagoni in entrata e in uscita. Una lussureggiante vegetazione di tralicci intervallava la piatta monotonia grigia di quel paesaggio.
Se qualcuno avesse solcato la città dall’alto di un elicottero, venendo dalla periferia, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stato lo sterminato intrico di scambi ferroviari che come serpenti sinuosi si allungavano verso le banchine. Queste si estendevano, sterminate rette di cemento assediate dai binari e dalle processioni di pali e cavi, anche per mezzo chilometro prima di entrare nella stazione.
(La città dei seicentododici dèi, 2010)

La cupola spicca in mezzo agli alberi come sangue in una chiesa. Le lisce pareti bianche riflettono la luce del sole al punto che Cadmio deve schermarsi gli occhi con la mano guantata.
Vattene, Cadmio.
Il cervello si mette in moto da solo, gli occhi saettano a sinistra e a destra nelle fessure che ha aperto tra le dita: altezza 6,50 metri, diametro 18,30 metri.
L’uomo si ferma contro un albero, a distanza di sicurezza. I suoi occhi hanno già tracciato una griglia di quadrati di 5 metri di lato l’uno, bianchi come il gessetto sulla lavagna dell’Accademia. Un quadrato di 80 metri di lato avente al centro il centro della cupola, e i suoi piedi proprio a un passo dal bordo.
Ansima; con la mano libera si preme la coscia destra. Distoglie lo sguardo dal bianco della cupola e chiude gli occhi. Dolore e stanchezza cancellano cifre e quadrati, riempiono il suo universo.
Il dolore è un nodo che gli strizza la coscia; filamenti incandescenti si irradiano giù, fino al ginocchio, onde ritmiche gli lambiscono la caviglia. Si massaggia il punto in cui ha battuto cadendo dal dorso dell’iguana, anche se la cotta di maglia e l’imbottitura di cuoio gli impediscono di arrivare al livido.
Fottuta iguana.
(Dilemma della stanza bianca, 2012)

Cello è seduta sulle panche della chiesa, seconda fila, e il direttore le stringe una spalla con la mano, il braccio attorno alla schiena. Le candele sono spente e la luce filtra dalla cupola di vetro sopra l’abside. Cello si tortura le labbra tra gli incisivi.
Sorella Delia è in piedi davanti alla prima fila, un braccio poggiato sullo schienale della panca, le dita nodose che torcono il legno. Il busto è piegato verso destra, in una posa innaturale, l’altra mano stretta sul fianco. Sorella Delia volta la testa. La guarda con apprensione, le linee sulla fronte che si ispessiscono. Sembra dirle, Cos’hai combinato? Cello abbassa lo sguardo.
Ha sbagliato qualcosa? La schiena è dritta. Le mani sono raccolte in grembo, chiuse a coppa nella posizione della preghiera. Le unghie affondano nella carne, ma questo sorella Delia non può vederlo.
Passi rompono il silenzio. È il cappellano, lo vede con la coda dell’occhio. Si avvicina al direttore, allarga le braccia. La bocca si schiude come per dire qualcosa, ma non dice niente. Il direttore scuote la testa.
(Francis Bacon aveva ragione!, 2013)

Francis Bacon

L’uomo che dobbiamo ringraziare per l’esistenza dell’espressione “esperimento cruciale”. E per tutte le opere di Shakespeare, ovviamente.

Sotto il cielo livido, la torre inclinata del Woolworth Building sembra un dito puntato verso l’oceano. Le onde si frangono contro le finestre, la schiuma si addensa attorno a una guglia affiorante a pelo d’acqua. Più oltre, contro l’orizzonte si stagliano gli scheletri pallidi dell’Irving Trust Company Building e del palazzo della Bank of Manhattan.
Plic. La goccia gli scivola lungo il profilo dell’orecchio; un’altra gli pizzica la punta del naso. Noah si rimette il cappuccio, un gesto meccanico.
La linea dell’orizzonte è ancora vuota – acqua, acqua, acqua. Sospira. Appoggia la nuca contro il parapetto della terrazza panoramica, la schiena rivolta all’oceano. La luce lampeggiante del faro in cima all’Empire State gli ferisce gli occhi. Uomini si muovono sulle impalcature, grandi come formiche, ma le luci rosse sono ancora spente.
Ci sono uomini anche ai piedi dell’Empire, sulla banchina di legno. Due barche stanno lasciando i pontili, un battello è fermo aspettando di poter entrare nel dedalo di moli. Un uomo esce dal vano di una finestra. Tira un carrello con sopra impilate due casse di legno; le ruote seguono la pendenza di una passerella che taglia il davanzale. Merce da portare a Londra; probabilmente sono altre sirene.
(Quando Londra venne a New York, 2013)

Vedendo questi incipit uno di fianco all’altro, leggo un cambiamento nel tempo. All’inizio prediligevo le lunghe descrizioni statiche in campo lungo, con pov simil-onnisciente – errore classico da principiante – mentre negli anni ho cominciato a filtrare le scene attraverso il personaggio pov (anche quando descrivo l’ambiente), a rendere le descrizioni dinamiche e ad inserire da subito degli hook che potessero incoraggiare a proseguire. Ho cercato di suscitare la curiosità del lettore su domande precise: perché la povera Cello è così tesa, perché entra l’acqua nei grattacieli di Manhattan (o almeno quella era la mia intenzione). Chi se ne frega dei sinuosi scambi ferroviari della città del secondo incipit!
Solo su una cosa non sono stato sincero. L’ultimo brano non è tratto da un primo capitolo orfano. E’ l’incipit di un racconto che ho finito da qualche mese, e che attualmente è in fase di revisione. Avendo fallito con le opere di ampio respiro, mi sono detto: perché non allenarmi con qualcosa di più breve e di più gestibile dal punto di vista della trama? Non so che forma avrà il racconto quando sarà davvero pronto; magari sarà completamente trasformato. Ma quando sarà, mi piacerebbe pubblicarlo sul blog. Chissà che la forma del racconto non mi porti fortuna e che non ne seguano altri.
Propositi per l’anno nuovo? Articoli meno autoreferenziali

Di passaggio, mi accorgo che in questo momento sul mio WordPress ci sono 20 articoli in bozza. Le cattive abitudini sono dure a morire.

Un fine psicologo

CervelloMolti ingredienti contribuiscono a quell’alchimia che chiamiamo “immersione nella storia” e che ci fa godere un romanzo come se si trattasse della vita vera. Ma tra questi, uno dei più importanti è la capacità di creare personaggi vivi; personaggi in cui possiamo immergerci come se fossimo noi stessi (nel caso dei personaggi-pov) o che, pur tenendoci a distanza, ci appaiono così interessanti che vorremmo quasi conoscerli davvero.
Nella narrativa fantastica però, e in particolare della fantascienza, è spesso passata la lezione che i personaggi non sono necessariamente importanti; possono anche essere delle marionette senz’anima, se il focus del romanzo è su altro. In How to Write Science Fiction and Fantasy, Orson Scott Card (quello di Ender) quadripartisce la narrativa fantastica in quattro tipologie, a seconda di quale sia il centro d’interesse della storia: idea, contesto (milieu), evento, o personaggi. Mentre lo sviluppo dei personaggi è essenziale in quest’ultimo tipo di storia, la sua importanza andrebbe digradando negli altri:

It is a common misconception that all good stories must have full characterization. This is not quite true. All good Character Stories must have full characterization, because that’s what they’re about; and other kinds of stories can have full characterization, as long as the reader is not misled into expecting a Character Story when that is not what is going to be delivered. On the other hand, many excellent Milieu, Idea, and Event Stories spend very little effort on characterization beyond what is necessary to keep the story moving. The Indiana Jones stories don’t require us to get more of Jones than his charm and his courage. In short, he is what he does in the story, and while it’s delightful to meet his father and learn something of his background in Indiana Jones and the Last Crusade, the first two movies certainly did not leave us wishing for more characterization. That’s not what they were about.

In fondo leggiamo The Fountains of Paradise di Clarke perché ci affascina l’idea di leggere come si potrebbe costruire un gigantesco ascensore orbitale con la base sulla Terra e la cima in orbita geostazionaria?
Beh, .

Indiana Jones confessa

“Vi ho mai parlato della mia fissazione alla fase anale?”

E’ molto diverso leggere la storia della costruzione di un ascensore orbitale con il pov di uno spaventapasseri, o attraverso i sensi di un ingegnere angosciato dal rischio di fallire e di distruggere la propria carriera, solo (o quasi) contro un mondo che si fa beffe di un progetto impossibile; o magari attraverso i punti di vista alternati dell’ingegnere ambizioso e del monaco che ha passato tutta la sua vita nella semplicità e nella contemplazione del divino, e improvvisamente scopre che deve sgomberare per fare il posto a una diavoleria del progresso1. O anche, in modo meno intrusivo, un protagonista che ci faccia vivere il suo sogno di realizzare l’ascensore attraverso i suoi gesti, i suoi tic, le sue passeggiate notturne, il modo di comportarsi coi suoi finanziatori; un libro che metta sì al centro l’ascensore e soltanto l’ascensore, con le sue specifiche tecniche, i suoi problemi e le possibili soluzioni, in puro stile Hard SF – ma attraverso gli occhi di qualcuno in cui riusciamo a immergerci e identificarci.
Chi sostiene che la psicologia dei personaggi non sia importante nella speculative fiction spesso giustifica la sua tesi dicendo che sviluppare i personaggi porterebbe via spazio alla trama principale, o aprirebbe delle parentesi, o comunque distrarrebbe il lettore, eccetera. Ma lo studio delle tecniche della narrativa insegna che in realtà basta pochissimo spazio per dare tridimensionalità a un personaggio (anche secondario), a renderlo interessante. Non sono necessari flashback sull’infanzia, o digressioni sui loro traumi adolescienziali, o lunghi dialoghi melodrammatici, né qualunque altro allontanamento dall’oggetto centrale della storia. Basta un gesto, un certo modo di costruire una frase, un’abitudine insolita, una reticenza inspiegabile, uno scatto d’ira, a dirci qualcosa di quella persona. Piccole attenzioni che non rubano pagine né distolgono l’attenzione del lettore, anzi, possono aiutarlo nel processo di catarsi e dare tridimensionalità al mondo della storia.

Lo stesso Scott Card, peraltro, precisa subito dopo che:

Having said that, I must also point out that to be taken seriously as a writer, and not just a writer of speculative fiction, you must be able to draw interesting and believable characters; and most stories are improved when the author is skillful at characterization.

Io sarei un po’ più radicale: tutte le storie migliorano quando l’autore è bravo nella caratterizzazione. Non riesco a pensare a un tipo di storia che non possa trarne beneficio. Un romanzo d’azione sarà più coinvolgente, più tensivo con una buona caratterizzazione, perché ci immedesimeremmo di più nei personaggi che rischiano il collo e sentiremo le pallottole fischiare sopra la nostra stessa testa; molte storie piene di combattimenti e ammazzamenti, viceversa, ci suonano noiose e ripetitive proprio perché ci immedesimiamo poco. Un romanzo di ‘scoperta’ tipo 2001: Odissea nello spazio sarà più interessante se riusciamo a immergerci nel protagonista che fa la scoperta; un romanzo di Hard SF sulla preparazione del primo viaggio umano su Marte, pure, assomiglierebbe meno a un manuale di ingegneria o fisica e più a una storia se visto attraverso gli occhi di un protagonista ‘vivo’. E così via.
Gamberetta dice che una storia può essere bella nonostante il pessimo stile, e mai ‘grazie a’. Allo stesso modo ritengo che una storia può essere bella nonostante una cattiva caratterizzazione, e mai ‘grazie a’.

Steven Seagal

Un’altra sparatoria con Steven Seagal! Cheppalle!

Una volta Philip Roth definì Kundera “fine psicologo”, per la sua capacità di cogliere (e mettere in scena) significati, nei gesti quotidiani delle persone, che gli altri non notavano. Non è un caso se Kundera, nonostante il suo approccio decisamente literary alla narrativa, il suo snobismo, e la sua dichiarata intenzione di fare Alta Letteratura, è uno dei miei autori preferiti. Dick, Kundera, Koestler, Miller, Kafka: in cima alla mia lista stanno tutti scrittori con un insight dell’animo umano superiore alla media. E’ incredibile la cura che mettono nei loro personaggi, anche quando le loro storie non sono ‘storie di personaggi’, per restare nella terminologia di Scott Card, ma mettono al centro qualcos’altro. In Buio a Mezzogiorno il comunista Rubasciov serve a Koestler per parlare del regime comunista sovietico e di quella generazione di uomini del Partito ‘che ci credevano’ e che furono traditi dallo stalinismo; ma Rubasciov è un protagonista spettacolare, nel quale riusciamo a calarci nonostante sia un uomo contraddittorio e dalle scelte morali discutibili.
Per la stessa ragione sono sempre stato attratto dalle discipline che indagano l’uomo e la società, benché siano scienze molto meno solide di quelle naturali. Il primo saggio che abbia mai letto per intero, a quindici o sedici anni, è stato L’interpretazione dei sogni di Freud, e da allora non ho più smesso di leggere libri di psicologia, sociologia, antropologia, storia sociale. E mi sono accorto di una cosa: che questo tipo di saggistica può essere di aiuto per l’aspirante scrittore che vuole tratteggiare personaggi vividi e realistici.

Non voglio prendere per il culo nessuno: non si può certo imparare a costruire i propri personaggi sulla saggistica delle scienze sociali. Discipline, peraltro, che sono ancora a uno stadio piuttosto giovane della loro vita e ancora malsicure. Una buona caratterizzazione è al 90% buona capacità di osservazione delle persone che ci stanno intorno; si appoggia ancora al caro vecchio metodo empirico.
Il consiglio principe dei manuali in materia è ancora il più valido: uscite fuori, guardatevi intorno, prendete appunti sulle persone che incontrate (almeno mentali!), studiate degli estranei che vi sembrano interessanti e immaginatevi quale potrebbe essere la loro vita, provate a mettervi nei panni degli altri e a osservare il mondo dal loro punto di vista. Lovecraft, per quanti meriti possa avere, è famoso per i suoi dialoghi improbabili e per la stereotipicità delle interazioni tra i suoi personaggi; Lovecraft al suo meglio è sempre un unico personaggio di fronte all’ignoto, non è mai l’interplay. Ma Lovecraft viveva come un recluso.

Milan Kundera

“Io sono un fine psicologo. E TU?”

Ma se è vero che per creare persone immaginarie bisogna studiare le persone vere, è anche vero che un po’ di teoria può servire a dare struttura alle nostre osservazioni e intuizioni. Soprattutto se vogliamo scrivere una storia di narrativa fantastica! Per produrre un mainstream, uno slice-of-life, può essere sufficiente prendere di peso persone dalla vita vera, o magari combinare gli attributi di tanti individui diversi che ci circondano. Ma se voglio ambientare la mia storia in un’altra epoca storica, o nel futuro, o in un altro mondo che segue regole diverse, devo fare uno sforzo di astrazione aggiuntiva; chiedermi quali comportamenti, quali emozioni potrebbero avere gli abitanti di quel luogo. Che bisogni potrebbero avere, quali aspirazioni, che tipo di ragionamenti sarebbero in grado di fare.
Per averne un’idea, bisogna innanzitutto sapere quali tratti dell’essere umano sono dettati dal contesto (storico, economico, sociale, eccetera) in cui vive, e quali invece siano dettati dalla sua biologia, e quindi siano invariati in un cacciatore-raccoglitore dell’Italia pre-romana, un signorotto feudale della Linguadoca medievale e un operaio di Detroit all’inizio del nostro secolo. Occorre, in altre parole, integrare le nostre intuizioni empiriche sull’essere umano con una conoscenza più teorica dell’argomento.

Dove voglio arrivare con questo pippone? Voglio dire che mi piacerebbe aprire uno spazio stabile, sul blog, da dedicare alla saggistica sull’essere umano – saggi di psicologia, sociologia, antropologia, ma anche scienze più ‘solide’ come la biologia – e scambiare così opinioni sull’argomento. Ho già cominciato a farlo quest’inverno con l’articolo dedicato al bel Quando la profezia non si avvera, che illustrava il concetto della dissonanza cognitiva attraverso il caso di un culto millenaristico del Midwest americano. Ma vorrei trasformarlo in un appuntamento un po’ più regolare. Potrei produrne uno ogni due mesi, magari interpolandolo con i soliti articoli di saggistica storica che vorrei continuare a scrivere.
Naturalmente anche in questo caso, come per quanto riguarda la storia, preciso che non sono un esperto dell’argomento, ma solo un amatore. Non produrrò mai articoli specialistici come quelli di Zwei sull’oplologia, non ne sarei in grado. Vorrei soltanto condividere alcuni libri che mi hanno colpito, che reputo intelligenti, interessanti, utili; e rimango sempre aperto alle correzioni e ai cazziatoni di chi ci capisce di più.

Aspirante scrittore

Di norma non mi piace scrivere articoli solo per promettere altri articoli, aldilà delle poche righe sceme che scrivo in occasioni speciali come il Primo Maggio o la pausa estiva. Ma non volevo impestare un post dedicato a un libro con tutto questo fiume di parole.
Il primo articolo di questo filone – ma sarebbe meglio dire il secondo, se consideriamo che il libro di Festinger fosse il primo – uscirà, se tutto va bene, lunedì o martedì prossimo. Nel frattempo non mi spiacerebbe raccogliere qualche opinione in merito all’interesse o utilità di questi articoli ^-^

Bonus: How to Write Science Fiction and Fantasy
How to Write Science Fiction & FantasyQuesto manuale di Orson Scott Card è meno famoso dell’altro, Characters and Viewpoint, e anche meno specialistico. Di certo è meno utile rispetto a tanti altri manuali che ci sono là fuori – oltre all’altro di Scott Card, How to Write a Damn Good Novel di Frey, Plot di Ansen Dibell, Word Painting della McClanahan. Rispetto alla maggior parte di questi, però, ha il pregio di guardare il processo di scrittura a livello più macroscopico, concentrandosi di più sulla struttura generale del libro, sulle macroscene, sul tema centrale, piuttosto che sulle tecniche di costruzione della scena. Quindi può essere una buona aggiunta agli altri.
Le parti più interessanti a mio avviso sono quella sui quattro ‘tipi’ di storia (il MICE Quotient, come lo chiama lui), la spiegazione di come lui sviluppi le intuizioni necessarie che lo portano alla costruzione della trama, e i problemi e le soluzioni principali di alcuni temi topici della narrativa fantastica (il viaggio nel tempo, il viaggio intergalattico, le regole della magia, eccetera). In generale, Scott Card pone molta enfasi sull’importanza capitale della coerenza interna in un romanzo di narrativa fantastica, perché la sospensione dell’incredibilità deriva in buona parte anche da quello.
Il manuale si trova sia su Library Genesis che su Bookfinder in formato pdf.

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(1) In effetti, in The Fountains of Paradise Clarke tenta in parte di fare tutte queste cose, ma senza costanza, senza un piano. Alcuni passaggi del libro si concentrano sull’attrito tra i piani dell’ingegnere e la cultura tradizionale del luogo; altri sulle preoccupazioni e i rischi di fallimento del protagonista; altri, sulle specifiche tecniche dell’ascensore orbitale. Clarke salta per tutto il libro da un argomento all’altro, da un “tipo” di storia – per usare la definizione di Scott Card – all’altro, sicché alla fine non soddisfa fino in fondo nessun tipo di lettore.
Ciononostante, The Fountains of Paradise rimane un romanzo assai interessante e di cui consiglio la lettura.Torna su