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Attack on Continuity

Attack on Titan ScreenshotCome tutte quelle tecniche che alterano il semplice flusso lineare della narrazione, i flashback sono una brutta bestia. Nel suo manuale Plot, Ansel Dibell mette giustamente in guardia contro il loro utilizzo:

All this structural hanky-panky isn’t something to engage in just for the fun of it. Any departure from linear, sequential storytelling is going to make the story harder to read and call attention to the container rather than the content, the technique rather than the story those techniques should be serving.
There’s a principle called “elegance” which means that a theory or an object has no excess parts. It may be very complex, but it’s as simple as it can be and still work. This applies to fiction, too.

Tuttavia, ci sono storie che beneficiano realmente, in termini di chiarezza o di coinvolgimento, da un utilizzo intelligente dei flashback. E ci sono storie che semplicemente non funzionerebbero senza flashback.
Pensiamo a Lost: è una storia che non potrebbe mai funzionare se fosse raccontata in ordine cronologico. Dei personaggi non ci interessa nulla finché non sono sull’isola (la vita della maggior parte di loro è piuttosto ordinaria); e viceversa, la serie sarebbe solamente un mystery fantascientifico se non avessimo la possibilità di scoprire, poco a poco, chi erano i sopravvissuti prima di arrivare sull’isola. Si potrebbe raccontare la storia in modo lineare, partendo dallo schianto del volo Oceanic e proseguendo fino alla risoluzione finale ignorando le backstory dei personaggi – ma l’elemento più affascinante della serie (o almeno, delle prime stagioni, che poi sono quelle che funzionano meglio), la sua ragion d’essere, sta proprio nella giustapposizione e nel contrasto tra il prima e l’adesso dei sopravvissuti.

Lost meme

Ho nominato Lost perché è un esempio celebre, ma in realtà tutte le trame del tipo “crogiolo” (in cui una serie di personaggi senza precedenti relazioni tra loro si trovano forzati in uno spazio chiuso di pericolo) si prestano bene a una struttura narrativa che salta avanti e indietro nel tempo. La timeline che segue il presente concentra tutta l’azione, la tensione della vicenda, ed è il perno della storia; le timeline che indagano il passato dei protagonisti concedono dei momenti di respiro tra un momento adrenalinico e l’altro (così da evitare l’assuefazione), sono un piacevole cambio di scenario, accrescono la familiarità e l’affezione verso i personaggi, e permettono di esplorarne meglio le motivazioni e i comportamenti. Battle Royale e Le Iene sono altri due esempi di storia che funziona proprio grazie a questa struttura.
I crogioli sono forse l’esempio migliore, ma non l’unico, di trama che funziona bene quando non è lineare. Pensiamo a Pulp Fiction. Data la natura episodica del film (che racconta, in pratica, tre o quattro storie autoconclusive), non è difficile da seguire anche se è raccontato in modo non lineare. E in compenso, la storia ne beneficia tantissimo: la scena finale di Vic e Jules alla tavola calda, dove i due killer discutono della vita e del loro futuro, non avrebbe minimamente lo stesso impatto sullo spettatore se non sapessimo già come andrà a finire. E viceversa, l’ultimo episodio in ordine temporale è quello del boxeur in fuga interpretato da Bruce Willis: terminare il film con la sua storia sarebbe stato debole. L’episodio di Bruce Willis è divertente e pieno d’azione, ma non dà un senso di chiusura alla pellicola.

Questo pippone per dirvi cosa? Che anche se la chiarezza espositiva e la fluidità della trama sono il primo obiettivo da ricercare quando si crea una storia, bisogna accettare che ci sono trame che, semplicemente, sono più interessanti quando sono raccontate in modo non lineare. A volte, per il bene della chiarezza, si finisce per annacquare una storia e renderla più noiosa. E indovinate dove, a mio avviso, è successo proprio questo? In Attack on Titan.
Uno degli scogli più grossi alla visione di questo anime sono i primi quattro episodi. Sono – per capirci – le puntate in cui viene mostrato l’attacco dei titani alla cerchia di mura esterne (con conseguente distruzione della città natale di Eren), l’esodo dei protagonisti nella seconda cerchia e i tre anni di addestramento all’accademia militare. Capite da subito il problema: si tratta di mostrare in uno spazio di tempo compresso tre anni abbondanti di vita del protagonista. Peggio: si tratta di mostrare un avvenimento di importanza centrale all’inizio, tre anni in cui succede poco e niente, e un nuovo avvenimento di importanza centrale alla fine (la ricomparsa del Titano Colossale, che mette in moto poi tutti gli eventi successivi della serie).

Attack on Titan Desu

Sarebbe bastato chiedere con gentilezza…

 

Il risultato è pessimo. Più che raccontare una storia, questi primi episodi sono  una sequenza di scene distinte e rabberciate alla bell’è meglio finalizzate a costruire protagonisti e ambientazione. Ci fanno familiarizzare con i personaggi bambini, per poi rimpiazzarceli dopo qualche episodio con le loro versioni cresciute. La sensazione è che le prime due ore circa di Attack on Titan siano una specie di gigantesco prologo all’anime vero e proprio, e che la storia cominci solo a partire dal quinto episodio con la battaglia di Trost. L’impressione è rafforzata dal fatto che, a fronte dei continui salti temporali delle prime puntate, dalla quinta in poi l’evoluzione della trama diventa lentissima. Risultato: ho dovuto fare appello alla mia forza di volontà per non smettere prematuramente la visione dell’anime, e forse l’avrei fatto, se non li avessi già scaricati tutti e messi comodamente nel mio hard disk.
Né sono l’unico ad aver avuto questa impressione. Bazzicando in giro su qualche forum, mi è capitato più volte di imbattermi in conversazioni tra utenti delusi dai primi episodi e incerti se continuare la visione, e fan dell’anime che dicevano cose del tipo: “Tieni duro almeno fino all’episodio 5, poi diventa bellissimo!”. Ora – quando persino gli appassionati riconoscono che un’opera diventa bella solo superato un certo punto, e che quello che c’era prima serviva solo a preparare il terreno, c’è qualcosa che non va. Il tempo dello spettatore è denaro. L’opera deve essere avvincente e reggersi sulle sue gambe fin da subito, non può vivere della vaga promessa che “il bello deve ancora arrivare, sii paziente”.

Mi rendo conto che Isayama si trovava di fronte a un bel problema. Questo problema consisteva nel fatto che il cuore della storia si svolgeva in un determinato momento temporale, ma che questa storia aveva senso solo alla luce di alcuni avvenimenti cruciali che avvenivano alcuni anni prima. I primi episodi avrebbero dunque una serie di obiettivi espositivi:
1. Mostrare l’apertura della breccia nel Muro Maria e l’invasione dei Titani nel regno, dato che questo è l’avvenimento che determinerà il nuovo assetto della società di Attack on Titan.
2. Mostrare il trauma nell’infanzia del protagonista e la serie di avvenimenti che lo porterà a intraprendere la carriera militare.
3. Mostrare come funziona la vita militare nel mondo di Attack on Titan, e introdurre una serie di comprimari che saranno importanti negli episodi successivi (es. i compagni di Eren).
A questi si aggiunge un obiettivo narrativo:
4. Aprire l’opera col botto, cioè con un’apparizione dei Titani (il nodo della storia) e una battaglia sanguinosa.

Titano colossale

Non tutti questi punti sono altrettanto importanti. Il punto 3, ad esempio. Il funzionamento dell’esercito – e l’addestramento dei cadetti di cui Eren fa parte – poteva anche essere mostrato direttamente in battaglia, e così i suoi compagni. L’inefficienza di un “avanti veloce” sugli anni di boot camp è dimostrata dal fatto che, comunque sia, poco vediamo – nei primi episodi degli anime – tanto dell’addestramento, quanto di questi comprimari; e infatti facciamo fatica a ricordarceli. Mi sono sorpreso, arrivato all’episodio 16 o 17, di sbattere gli occhi e pensare: “Aspetta – chi minchia è ‘sta Krista Lenz?”. Viceversa, il personaggio di Levi è introdotto relativamente tardi, ma ha un carattere così distintivo, e lo vediamo fare talmente tante cose, che lo memorizziamo subito.
I personaggi si memorizzano e ci diventano familiari in base alle cose che fanno, a come si comportano in momenti cruciali – come ad esempio uno scontro con mostri mangiauomini alti otto metri. Una carrellata veloce e infodumposa, come quella regalataci nel terzo e quarto episodio, aiuta poco (salvo forse a dire: “Ah sì, quella è la tipa delle battute sulle patate…”. Sigh).

Ma concedo che i primi due punti e l’ultimo sono cruciali, e andavano risolti in qualche modo. Il regista, con Isayama, sceglie di privilegiare la chiarezza, raccontando la storia in modo strettamente cronologico e costringendo lo spettatore a tenere duro per i primi episodi – diciamo dal secondo al quarto compreso, che sono quasi esclusivamente espositivi e nei quali non succede granché – per godere poi di quelli successivi.
E se invece avesse fatto diversamente? Se avesse scelto di raccontare la storia di Attack on Titan in modo non lineare, così da evitare il pantano dei primi episodi? Come salvare i punti più importanti, senza fare impazzire il lettore da un lato, né dall’altro annoiarlo?
Ho provato a immaginare come mi sarei comportato nei panni del regista. Ovviamente, avessi carta bianca, terrei solo l’ambientazione ed eliminerei senza rimpianti i protagonisti e tutta la loro storia. Come già detto nello scorso articolo – ma so di avere il consenso della maggior parte di voi su questo punto – ci sono storie molto più interessanti che si potrebbero raccontare con le premesse di Attack on Titan. Ma poniamo di dover mantenere tutti gli elementi principali della storia, e di poter cambiare solo i dettagli e il modo di presentarli. Mi sono venute in mente due diverse alternative.

Ciao a tutti. Sono il comic relief dell’anime e i miei sketch non fanno ridere. Mi ricorderete non per la mia abilità in battaglia, ma perché mangio patate.

Variante #1: Battaglia di Trost con contorno di flashback
Siamo d’accordo: dato che Attack on Titan è un fantasy militare sull’umanità contro i Titani, dovrebbe iniziare con una battaglia contro di loro. Ma perché dev’essere una battaglia ambientata nel passato (rispetto al grosso della storia)? Perché non una battaglia che si svolge nel presente? La soluzione più semplice sarebbe proprio cominciare con l’episodio cinque, ossia con l’attacco dei Titani a Trost – uno scontro che prosegue fino a metà stagione e che quindi da sola rappresenta quasi il 50% dell’anime. L’anime potrebbe aprirsi con una pacifica scena di cadetti sulle mura della città, dando allo spettatore qualche minuto per familiarizzare coi protagonisti – e poi l’attacco.
Ok: questo risolve il quarto punto, ma che dire dei primi due, ossia dell’importanza di far capire allo spettatore come si è arrivati alla situazione presente e cosa motiva Eren a combattere i Titani? Be’, ma a pensarci bene questa è pura exposition. Allo spettatore (come al lettore), all’inizio dell’opera queste cose non interessano. Poiché non c’è ancora stato investimento emotivo né sull’ambientazione, né sul protagonista, non proverà curiosità per il background dell’una né dell’altro. Vuole azione. E provare emozioni forti. Ergo: prima di tutto, un po’ di violenza che ci familiarizzi con Titani e adolescenti protagonisti. Poi, nel tempo – diciamo dopo qualche episodio – il bisogno di saperne di più sul passato di questa gente comincerà ad acquistare peso.

Come gestirlo? Per prima cosa, si può cominciare già dai primi episodi a buttare dettagli sul passato di Eren (e dei suoi amici d’infanzia): il suo essere originario della città dove avvenne il primo attacco, il fatto che sia fuggito per il rotto della cuffia dai Titani e l’odio che ne è scaturito. Poi, in un momento di distensione – alla fine della battaglia, o di una prima fase della battaglia – si potrebbe inserire un flashback (della durata di un episodio, difficilmente di più) che ci mostri nel dettaglio l’avvenimento, con particolari come il fatto che i Titani si siano pappati la mamma di Eren sotto i suoi occhi.
Questi flashback potrebbero diventare anche un pattern dell’anime: ogni tot episodi, in momenti di distensione dell’azione nel presente, e con hook tematici sufficienti a giustificarli, si potrebbe inserire una puntata flashback che illustri questo o quell’aspetto interessante della storia di Eren e dei suoi amici – l’esodo nella seconda cerchia di mura, la difficile vita dei profughi in condizioni di scarsità di cibo, qualche episodio di rivolta finito nel sangue e così via. Sarebbe un interessante sistema per mostrare i particolari della vita ordinaria nel mondo di Attack of Titan senza risultare pesanti.

Potato Kid

Ok, un altro po’ di ragazza patata.

Variante #02: Build-up lento
Il problema della prima proposta potrebbe essere che condensa molte informazioni in uno spazio concentrato: nel corpo di un unico avvenimento centrale – la battaglia di Trost, che abbia o meno più fasi – ci sono l’introduzione dei personaggi, dell’ambientazione, degli antagonisti, per non parlare dei flashback. Si potrebbe tentare un’altra strada, ossia quella di posticipare la battaglia e dare più tempo allo spettatore di familiarizzare coi personaggi. Ad esempio, potremmo cominciare la nostra storia negli ultimi giorni (l’ultima settimana?) da cadetti dei protagonisti, prima dell’apparizione dei Titani davanti alle mura di Trost.
Però ci siamo detti che un esordio senza l’apparizione dei Titani è debole. Come risolvere questo problema? E’ qui che entra in gioco la Legione Esplorativa! Immaginiamo un inizio incentrato su una spedizione della legione fuori dalle mura, magari tra le rovine di una delle cittadine del Muro Maria. L’anime comincia sui soldati che, variamente acciaccati, fanno per tornare verso la seconda cerchia di mura. E bam! Appaiono i Titani. Segue carneficina (durante la quale apprendiamo quanto cazzo sono pericolosi questi Titani). Alla fine, i superstiti si mettono in fuga ed entrano nelle mura dalla porta di Trost: tutta la scena potrebbe durare un cinque minuti. Ed ecco che il pov passa su Eren – che vedremmo per la prima volta – che li guarda entrare in condizioni pietose. Sigla. Di qui in poi, l’anime stabilirà Eren come protagonista e seguirà la sua storia.

Questa scena, che tra l’altro rispecchia altre scene simili dell’anime reali, svolgerebbe numerosi funzioni: ci dà un inizio forte con Titani che attaccano (e vincono), mostra i giganti che infestano le rovine di città umane, e stabilisce da subito il rapporto tra Eren e la Legione, verso cui chiaramente prova stima e di cui vuole entrare a far parte (anche se per ora non ne sappiamo il perché). Da quest’ultimo dato, lo spettatore intuisce da subito una prima motivazione per cui Eren è nella scuola militare. Il resto dell’episodio può proseguire su toni più tranquilli, mostrando scorci di vita militare dei nostri eroi e qualcosa della vita quotidiana dentro le mura.
L’episodio dovrebbe culminare con un cliffhanger, ma l’attacco dei Titani alle mura potrebbe essere prematuro. Si potrebbe invece chiudere su un disordine con i militari; magari un tentativo di rivolta popolare, così da creare un po’ di tensione, far subito emergere i problemi di politica interna e focalizzare l’attenzione sui soldati (potrebbe persino essere un compito da cadetti come Eren, l’aiutare la guarnigione a riportare l’ordine). L’attacco dei Titani potrebbe poi arrivare con più calma nell’episodio successivo, o ancora più avanti. I dettagli sul passato dei nostri protagonisti dovrebbero essere centellinati. Anche in questo caso si potrebbe inserire, in un momento di calma, il flashback sull’infanzia del protagonista; ma la cosa sarebbe meno traumatica perché avremmo avuto più tempo per conoscere tutti i personaggi.

Attack on Titan Freddie Mercury

That’s it
I due scenari riportati sopra erano solo esempi, neanche molto brillanti, che mi sono venuti in mente. Chissà quante soluzioni migliori si possono trovare. Ma entrambe mi sembrano migliori di quella originale, nell’evitare i cliché da shonen e nel presentare il mondo della storia in modo interessante. Mi sono tolto un sassolino dalla scarpa.
Ora posso con più tranquillità abbassare la saracinesca su Attack on Titan. Se ne riparlerà, magari, quando sarà uscita la seconda stagione.

Cinque incipit per l’anno nuovo

Happy New Year SpidermanAnsen Dibell, nel suo manuale Plot, è piuttosto chiaro:

Any departure from linear, sequential storytelling is going to make the story harder to read and call attention to the container rather than the content, the technique rather than the story those techniques should be serving. […] Don’t use a frame or a flashback if the story can be well told by following the King of Hearts’ advice: “Begin at the beginning, and go on till you come to the end: then stop.” 

Mentre leggevo quelle righe, nel lontano 2009, contemplavo la struttura del romanzo che da qualche mese tentavo di scrivere. Nel romanzo c’era questo tizio che, durante un viaggio in barca su un fiume in terre selvagge (molto Cuore di tenebra) raccontava ad altri due tizi una storia. Questa era la cornice. Poi c’era la storia raccontata dal tipo, che in realtà erano due storie: la storia di come quattro tizi si erano imbarcati in un’avventura assurda ai margini della civiltà, e la storia di uno dei quattro che, rimasto solo, andava in giro trascinandosi dietro un cadavere. Il lettore ovviamente doveva essere avvinto dall’interrogativo: com’è che questo qui è finito ad andare in giro trascinandosi dietro un cadavere? Cosa sarà mai successo? E poi, naturalmente, c’era la backstory individuale di ciascuno dei quattro tizi del racconto nel racconto, in cui poco alla volta venivano alla luce i loro torbidi problemi. Come se non bastasse, la cornice in realtà non era una cornice: mano a mano che si procedeva nel romanzo, in essa succedevano sempre più cose e alla fine doveva diventare la storyline principale. Quella dove tutti i nodi vengono al pettine.
Quattro timeline parallele, con una storia che salta da una all’altra capitolo dopo capitolo. Insomma, ero un maestro della linearità e della storia che si legge per il gusto della storia. Non c’è da sorprendersi che abbia velocemente mandato affanculo i pochi capitoli che ero riuscito a scrivere.

Plot - Ansen Dibell

Plot di Ansen Dibell. Il libro che ti farà sentire una merda.

Da allora il copione si è ripetuto più volte. In quattro anni, ho scritto qualcosa come dodici primi capitoli. Tutti di storie diverse. Diversi li ho distrutti, altri li ho tenuti – per ricordo, o come monito, o perché credevo ancora nella storia che c’era dietro (e che un giorno potrei ancora scrivere, se ne diventassi capace).
Scrivere primi capitoli è molto divertente: le possibilità sono tutte aperte, e anche se hai una traccia in testa da seguire, puoi ancora scrivere qualsiasi cosa. Man mano che si va avanti con la storia, le possibilità si chiudono, il percorso diventa sempre più obbligato. E tutte le magagne strutturali (o anche più semplicemente una prosa di merda) vengono alla luce, perché sono scritte nero su bianco. L’abbandono per perdita della pazienza è inevitabile.

Questa cosa dei primi capitoli divertiva molto Siobhàn. Una volta mi disse: “Perché non prendi tutta quella roba, e fai un libro di primi capitoli? Magari è la storia di uno scrittore sfigato e depresso che non riesce ad andare oltre il primo capitolo”. Feci finta di non aver colto l’osservazione implicita (mica tanto) sulla mia condizione, e mi misi piuttosto a sviluppare l’idea. “Potrebbe essere una storia che corre su due binari! Da una parte, la vita dello scrittore (capitoli dispari); dall’altra, i primi capitoli che prova a scrivere (capitoli pari). Però dovrebbe esserci qualche legame tra gli uni e gli altri; non posso semplicemente buttare a random i primi capitoli che ho scritto. Magari ogni primo capitolo dovrebbe echeggiare episodi paralleli della vita dello scrittore. Certo, potrebbero essere riflessi psicologici (fatti triviali della vita dello scrittore che diventano materia per le sue trame fantastiche; e al perdere di interesse verso il fatto scatenante, lo scrittore perde interesse anche nella storia che ne è nata e per questo si interrompe al primo capitolo!). Ma fermarsi al piano psicologico è banale. Perché invece non creare un legame reale tra i primi capitoli fittizi e la vita personale dello scrittore? C’è una strana corrispondenza metafisica tra il mondo reale e le storie che scrive… Un mistero che è possibile dipanare solo incrociando le informazioni fornite nei capitoli dispari e in quelli pari… Forse nessuno dei due mondi è reale… Però allora i primi capitoli che ho già scritto non vanno bene. Li avevo scritti senza creare un legame tra di loro. Ne dovrò creare altri apposta, già predisposti per questa trama. Gli altri li dovrò buttare…”. Siobhàn alza gli occhi al cielo.
Insomma, mi ero sabotato fin dall’inizio. Ma in realtà è stata una fortuna –  sarebbe stata una trama orribile. E poi l’ha già fatto Calvino, e pure sul suo libro ci sarebbe da discutere.

Italo Calvino

Italo Calvino: praticamente, un incrocio tra Bersani e Bilbo Baggins.

Ma perché buttare il bambino con tutta l’acqua? E quale modo migliore di inaugurare un nuovo anno di Tapirullanza, se non con una rassegna di incipit di alcuni di quegli infami primi capitoli? Domande che fanno girar la testa.
Per la vostra gioia qui di seguito vi presento diversi incipit tra le 150 e le 190 parole, quasi tutti di annate diverse, tutti accompagnati dal titolo provvisorio. Potrei dire che lo faccio perché sono un narcisista, ma basta darci un’occhiata per capire che in realtà lo faccio perché non ho senso del pudore. La maggior parte di questi incipit sono veramente orrendi (i primi sicuramente!), una collezione di perle dall’uomo che parla come un libro stampato (e vagamente tolkeniano nel suo soffermarsi sulla vegetazione) agli As you know Bob nei monologhi interiori (“come Isak sapeva”), da piogge di avverbi e doppi aggettivi a metafore roboanti. Capolavoro!
E lasciamo stare il mio gusto per i nomi propri.

«Ecco. È successo proprio là, sul fianco di una di quelle montagne, ai piedi di quei dirupi di parete rocciosa» ci dice una sera il nostro ospite, indicando i picchi lisci e dritti che si ergono sopra le chiome degli alberi e le basse montagne attorno a noi. «Dovunque sterpaglia gialla, bruciata dal sole – è successo d’estate, sapete. I prati – immaginateveli – sono punteggiati qua e là da sassi squadrati, macchie verdi di rovi, e piccoli grappoli di alberi. Più in basso, forse un centinaio di metri più in basso, c’è il bosco vero e proprio, ma lui è troppo stanco per raggiungerlo, specie con quel cadavere che deve portarsi sulle spalle. Saranno le nove di mattina e il sole è ancora basso, quasi sfiora le cime delle montagne; però comincia già a fare caldo, e lui sa che tra poco farà un caldo dell’inferno. Per di più sopra la sua testa pendono quei picchi affilati come figure geometriche, dandogli la sensazione che potrebbero franargli addosso in qualsiasi momento. E tenete conto che non mangia da qualcosa come trentasei ore.»
(Problema matematico attorno al corpo della donna amata, 2009)

D'Alema

“Che minchia mi stai facendo leggere?”

Appena uscito dal treno, Isak realizzò che cosa fosse Eh-Eh-Ototoi. File e file di rotaie si stendevano davanti e dietro di lui. Non correvano perfettamente parallele l’una accanto all’altra, ma piegavano leggermente verso l’interno della città; e questo perché, come Isak sapeva, la ferrovia circondava completamente la città. Il cielo era fittamente solcato di cavi dell’alta tensione, attraversati con ritmo incessante dai pantografi dei vagoni in entrata e in uscita. Una lussureggiante vegetazione di tralicci intervallava la piatta monotonia grigia di quel paesaggio.
Se qualcuno avesse solcato la città dall’alto di un elicottero, venendo dalla periferia, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stato lo sterminato intrico di scambi ferroviari che come serpenti sinuosi si allungavano verso le banchine. Queste si estendevano, sterminate rette di cemento assediate dai binari e dalle processioni di pali e cavi, anche per mezzo chilometro prima di entrare nella stazione.
(La città dei seicentododici dèi, 2010)

La cupola spicca in mezzo agli alberi come sangue in una chiesa. Le lisce pareti bianche riflettono la luce del sole al punto che Cadmio deve schermarsi gli occhi con la mano guantata.
Vattene, Cadmio.
Il cervello si mette in moto da solo, gli occhi saettano a sinistra e a destra nelle fessure che ha aperto tra le dita: altezza 6,50 metri, diametro 18,30 metri.
L’uomo si ferma contro un albero, a distanza di sicurezza. I suoi occhi hanno già tracciato una griglia di quadrati di 5 metri di lato l’uno, bianchi come il gessetto sulla lavagna dell’Accademia. Un quadrato di 80 metri di lato avente al centro il centro della cupola, e i suoi piedi proprio a un passo dal bordo.
Ansima; con la mano libera si preme la coscia destra. Distoglie lo sguardo dal bianco della cupola e chiude gli occhi. Dolore e stanchezza cancellano cifre e quadrati, riempiono il suo universo.
Il dolore è un nodo che gli strizza la coscia; filamenti incandescenti si irradiano giù, fino al ginocchio, onde ritmiche gli lambiscono la caviglia. Si massaggia il punto in cui ha battuto cadendo dal dorso dell’iguana, anche se la cotta di maglia e l’imbottitura di cuoio gli impediscono di arrivare al livido.
Fottuta iguana.
(Dilemma della stanza bianca, 2012)

Cello è seduta sulle panche della chiesa, seconda fila, e il direttore le stringe una spalla con la mano, il braccio attorno alla schiena. Le candele sono spente e la luce filtra dalla cupola di vetro sopra l’abside. Cello si tortura le labbra tra gli incisivi.
Sorella Delia è in piedi davanti alla prima fila, un braccio poggiato sullo schienale della panca, le dita nodose che torcono il legno. Il busto è piegato verso destra, in una posa innaturale, l’altra mano stretta sul fianco. Sorella Delia volta la testa. La guarda con apprensione, le linee sulla fronte che si ispessiscono. Sembra dirle, Cos’hai combinato? Cello abbassa lo sguardo.
Ha sbagliato qualcosa? La schiena è dritta. Le mani sono raccolte in grembo, chiuse a coppa nella posizione della preghiera. Le unghie affondano nella carne, ma questo sorella Delia non può vederlo.
Passi rompono il silenzio. È il cappellano, lo vede con la coda dell’occhio. Si avvicina al direttore, allarga le braccia. La bocca si schiude come per dire qualcosa, ma non dice niente. Il direttore scuote la testa.
(Francis Bacon aveva ragione!, 2013)

Francis Bacon

L’uomo che dobbiamo ringraziare per l’esistenza dell’espressione “esperimento cruciale”. E per tutte le opere di Shakespeare, ovviamente.

Sotto il cielo livido, la torre inclinata del Woolworth Building sembra un dito puntato verso l’oceano. Le onde si frangono contro le finestre, la schiuma si addensa attorno a una guglia affiorante a pelo d’acqua. Più oltre, contro l’orizzonte si stagliano gli scheletri pallidi dell’Irving Trust Company Building e del palazzo della Bank of Manhattan.
Plic. La goccia gli scivola lungo il profilo dell’orecchio; un’altra gli pizzica la punta del naso. Noah si rimette il cappuccio, un gesto meccanico.
La linea dell’orizzonte è ancora vuota – acqua, acqua, acqua. Sospira. Appoggia la nuca contro il parapetto della terrazza panoramica, la schiena rivolta all’oceano. La luce lampeggiante del faro in cima all’Empire State gli ferisce gli occhi. Uomini si muovono sulle impalcature, grandi come formiche, ma le luci rosse sono ancora spente.
Ci sono uomini anche ai piedi dell’Empire, sulla banchina di legno. Due barche stanno lasciando i pontili, un battello è fermo aspettando di poter entrare nel dedalo di moli. Un uomo esce dal vano di una finestra. Tira un carrello con sopra impilate due casse di legno; le ruote seguono la pendenza di una passerella che taglia il davanzale. Merce da portare a Londra; probabilmente sono altre sirene.
(Quando Londra venne a New York, 2013)

Vedendo questi incipit uno di fianco all’altro, leggo un cambiamento nel tempo. All’inizio prediligevo le lunghe descrizioni statiche in campo lungo, con pov simil-onnisciente – errore classico da principiante – mentre negli anni ho cominciato a filtrare le scene attraverso il personaggio pov (anche quando descrivo l’ambiente), a rendere le descrizioni dinamiche e ad inserire da subito degli hook che potessero incoraggiare a proseguire. Ho cercato di suscitare la curiosità del lettore su domande precise: perché la povera Cello è così tesa, perché entra l’acqua nei grattacieli di Manhattan (o almeno quella era la mia intenzione). Chi se ne frega dei sinuosi scambi ferroviari della città del secondo incipit!
Solo su una cosa non sono stato sincero. L’ultimo brano non è tratto da un primo capitolo orfano. E’ l’incipit di un racconto che ho finito da qualche mese, e che attualmente è in fase di revisione. Avendo fallito con le opere di ampio respiro, mi sono detto: perché non allenarmi con qualcosa di più breve e di più gestibile dal punto di vista della trama? Non so che forma avrà il racconto quando sarà davvero pronto; magari sarà completamente trasformato. Ma quando sarà, mi piacerebbe pubblicarlo sul blog. Chissà che la forma del racconto non mi porti fortuna e che non ne seguano altri.
Propositi per l’anno nuovo? Articoli meno autoreferenziali

Di passaggio, mi accorgo che in questo momento sul mio WordPress ci sono 20 articoli in bozza. Le cattive abitudini sono dure a morire.