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Cinque incipit per l’anno nuovo

Happy New Year SpidermanAnsen Dibell, nel suo manuale Plot, è piuttosto chiaro:

Any departure from linear, sequential storytelling is going to make the story harder to read and call attention to the container rather than the content, the technique rather than the story those techniques should be serving. […] Don’t use a frame or a flashback if the story can be well told by following the King of Hearts’ advice: “Begin at the beginning, and go on till you come to the end: then stop.” 

Mentre leggevo quelle righe, nel lontano 2009, contemplavo la struttura del romanzo che da qualche mese tentavo di scrivere. Nel romanzo c’era questo tizio che, durante un viaggio in barca su un fiume in terre selvagge (molto Cuore di tenebra) raccontava ad altri due tizi una storia. Questa era la cornice. Poi c’era la storia raccontata dal tipo, che in realtà erano due storie: la storia di come quattro tizi si erano imbarcati in un’avventura assurda ai margini della civiltà, e la storia di uno dei quattro che, rimasto solo, andava in giro trascinandosi dietro un cadavere. Il lettore ovviamente doveva essere avvinto dall’interrogativo: com’è che questo qui è finito ad andare in giro trascinandosi dietro un cadavere? Cosa sarà mai successo? E poi, naturalmente, c’era la backstory individuale di ciascuno dei quattro tizi del racconto nel racconto, in cui poco alla volta venivano alla luce i loro torbidi problemi. Come se non bastasse, la cornice in realtà non era una cornice: mano a mano che si procedeva nel romanzo, in essa succedevano sempre più cose e alla fine doveva diventare la storyline principale. Quella dove tutti i nodi vengono al pettine.
Quattro timeline parallele, con una storia che salta da una all’altra capitolo dopo capitolo. Insomma, ero un maestro della linearità e della storia che si legge per il gusto della storia. Non c’è da sorprendersi che abbia velocemente mandato affanculo i pochi capitoli che ero riuscito a scrivere.

Plot - Ansen Dibell

Plot di Ansen Dibell. Il libro che ti farà sentire una merda.

Da allora il copione si è ripetuto più volte. In quattro anni, ho scritto qualcosa come dodici primi capitoli. Tutti di storie diverse. Diversi li ho distrutti, altri li ho tenuti – per ricordo, o come monito, o perché credevo ancora nella storia che c’era dietro (e che un giorno potrei ancora scrivere, se ne diventassi capace).
Scrivere primi capitoli è molto divertente: le possibilità sono tutte aperte, e anche se hai una traccia in testa da seguire, puoi ancora scrivere qualsiasi cosa. Man mano che si va avanti con la storia, le possibilità si chiudono, il percorso diventa sempre più obbligato. E tutte le magagne strutturali (o anche più semplicemente una prosa di merda) vengono alla luce, perché sono scritte nero su bianco. L’abbandono per perdita della pazienza è inevitabile.

Questa cosa dei primi capitoli divertiva molto Siobhàn. Una volta mi disse: “Perché non prendi tutta quella roba, e fai un libro di primi capitoli? Magari è la storia di uno scrittore sfigato e depresso che non riesce ad andare oltre il primo capitolo”. Feci finta di non aver colto l’osservazione implicita (mica tanto) sulla mia condizione, e mi misi piuttosto a sviluppare l’idea. “Potrebbe essere una storia che corre su due binari! Da una parte, la vita dello scrittore (capitoli dispari); dall’altra, i primi capitoli che prova a scrivere (capitoli pari). Però dovrebbe esserci qualche legame tra gli uni e gli altri; non posso semplicemente buttare a random i primi capitoli che ho scritto. Magari ogni primo capitolo dovrebbe echeggiare episodi paralleli della vita dello scrittore. Certo, potrebbero essere riflessi psicologici (fatti triviali della vita dello scrittore che diventano materia per le sue trame fantastiche; e al perdere di interesse verso il fatto scatenante, lo scrittore perde interesse anche nella storia che ne è nata e per questo si interrompe al primo capitolo!). Ma fermarsi al piano psicologico è banale. Perché invece non creare un legame reale tra i primi capitoli fittizi e la vita personale dello scrittore? C’è una strana corrispondenza metafisica tra il mondo reale e le storie che scrive… Un mistero che è possibile dipanare solo incrociando le informazioni fornite nei capitoli dispari e in quelli pari… Forse nessuno dei due mondi è reale… Però allora i primi capitoli che ho già scritto non vanno bene. Li avevo scritti senza creare un legame tra di loro. Ne dovrò creare altri apposta, già predisposti per questa trama. Gli altri li dovrò buttare…”. Siobhàn alza gli occhi al cielo.
Insomma, mi ero sabotato fin dall’inizio. Ma in realtà è stata una fortuna –  sarebbe stata una trama orribile. E poi l’ha già fatto Calvino, e pure sul suo libro ci sarebbe da discutere.

Italo Calvino

Italo Calvino: praticamente, un incrocio tra Bersani e Bilbo Baggins.

Ma perché buttare il bambino con tutta l’acqua? E quale modo migliore di inaugurare un nuovo anno di Tapirullanza, se non con una rassegna di incipit di alcuni di quegli infami primi capitoli? Domande che fanno girar la testa.
Per la vostra gioia qui di seguito vi presento diversi incipit tra le 150 e le 190 parole, quasi tutti di annate diverse, tutti accompagnati dal titolo provvisorio. Potrei dire che lo faccio perché sono un narcisista, ma basta darci un’occhiata per capire che in realtà lo faccio perché non ho senso del pudore. La maggior parte di questi incipit sono veramente orrendi (i primi sicuramente!), una collezione di perle dall’uomo che parla come un libro stampato (e vagamente tolkeniano nel suo soffermarsi sulla vegetazione) agli As you know Bob nei monologhi interiori (“come Isak sapeva”), da piogge di avverbi e doppi aggettivi a metafore roboanti. Capolavoro!
E lasciamo stare il mio gusto per i nomi propri.

«Ecco. È successo proprio là, sul fianco di una di quelle montagne, ai piedi di quei dirupi di parete rocciosa» ci dice una sera il nostro ospite, indicando i picchi lisci e dritti che si ergono sopra le chiome degli alberi e le basse montagne attorno a noi. «Dovunque sterpaglia gialla, bruciata dal sole – è successo d’estate, sapete. I prati – immaginateveli – sono punteggiati qua e là da sassi squadrati, macchie verdi di rovi, e piccoli grappoli di alberi. Più in basso, forse un centinaio di metri più in basso, c’è il bosco vero e proprio, ma lui è troppo stanco per raggiungerlo, specie con quel cadavere che deve portarsi sulle spalle. Saranno le nove di mattina e il sole è ancora basso, quasi sfiora le cime delle montagne; però comincia già a fare caldo, e lui sa che tra poco farà un caldo dell’inferno. Per di più sopra la sua testa pendono quei picchi affilati come figure geometriche, dandogli la sensazione che potrebbero franargli addosso in qualsiasi momento. E tenete conto che non mangia da qualcosa come trentasei ore.»
(Problema matematico attorno al corpo della donna amata, 2009)

D'Alema

“Che minchia mi stai facendo leggere?”

Appena uscito dal treno, Isak realizzò che cosa fosse Eh-Eh-Ototoi. File e file di rotaie si stendevano davanti e dietro di lui. Non correvano perfettamente parallele l’una accanto all’altra, ma piegavano leggermente verso l’interno della città; e questo perché, come Isak sapeva, la ferrovia circondava completamente la città. Il cielo era fittamente solcato di cavi dell’alta tensione, attraversati con ritmo incessante dai pantografi dei vagoni in entrata e in uscita. Una lussureggiante vegetazione di tralicci intervallava la piatta monotonia grigia di quel paesaggio.
Se qualcuno avesse solcato la città dall’alto di un elicottero, venendo dalla periferia, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stato lo sterminato intrico di scambi ferroviari che come serpenti sinuosi si allungavano verso le banchine. Queste si estendevano, sterminate rette di cemento assediate dai binari e dalle processioni di pali e cavi, anche per mezzo chilometro prima di entrare nella stazione.
(La città dei seicentododici dèi, 2010)

La cupola spicca in mezzo agli alberi come sangue in una chiesa. Le lisce pareti bianche riflettono la luce del sole al punto che Cadmio deve schermarsi gli occhi con la mano guantata.
Vattene, Cadmio.
Il cervello si mette in moto da solo, gli occhi saettano a sinistra e a destra nelle fessure che ha aperto tra le dita: altezza 6,50 metri, diametro 18,30 metri.
L’uomo si ferma contro un albero, a distanza di sicurezza. I suoi occhi hanno già tracciato una griglia di quadrati di 5 metri di lato l’uno, bianchi come il gessetto sulla lavagna dell’Accademia. Un quadrato di 80 metri di lato avente al centro il centro della cupola, e i suoi piedi proprio a un passo dal bordo.
Ansima; con la mano libera si preme la coscia destra. Distoglie lo sguardo dal bianco della cupola e chiude gli occhi. Dolore e stanchezza cancellano cifre e quadrati, riempiono il suo universo.
Il dolore è un nodo che gli strizza la coscia; filamenti incandescenti si irradiano giù, fino al ginocchio, onde ritmiche gli lambiscono la caviglia. Si massaggia il punto in cui ha battuto cadendo dal dorso dell’iguana, anche se la cotta di maglia e l’imbottitura di cuoio gli impediscono di arrivare al livido.
Fottuta iguana.
(Dilemma della stanza bianca, 2012)

Cello è seduta sulle panche della chiesa, seconda fila, e il direttore le stringe una spalla con la mano, il braccio attorno alla schiena. Le candele sono spente e la luce filtra dalla cupola di vetro sopra l’abside. Cello si tortura le labbra tra gli incisivi.
Sorella Delia è in piedi davanti alla prima fila, un braccio poggiato sullo schienale della panca, le dita nodose che torcono il legno. Il busto è piegato verso destra, in una posa innaturale, l’altra mano stretta sul fianco. Sorella Delia volta la testa. La guarda con apprensione, le linee sulla fronte che si ispessiscono. Sembra dirle, Cos’hai combinato? Cello abbassa lo sguardo.
Ha sbagliato qualcosa? La schiena è dritta. Le mani sono raccolte in grembo, chiuse a coppa nella posizione della preghiera. Le unghie affondano nella carne, ma questo sorella Delia non può vederlo.
Passi rompono il silenzio. È il cappellano, lo vede con la coda dell’occhio. Si avvicina al direttore, allarga le braccia. La bocca si schiude come per dire qualcosa, ma non dice niente. Il direttore scuote la testa.
(Francis Bacon aveva ragione!, 2013)

Francis Bacon

L’uomo che dobbiamo ringraziare per l’esistenza dell’espressione “esperimento cruciale”. E per tutte le opere di Shakespeare, ovviamente.

Sotto il cielo livido, la torre inclinata del Woolworth Building sembra un dito puntato verso l’oceano. Le onde si frangono contro le finestre, la schiuma si addensa attorno a una guglia affiorante a pelo d’acqua. Più oltre, contro l’orizzonte si stagliano gli scheletri pallidi dell’Irving Trust Company Building e del palazzo della Bank of Manhattan.
Plic. La goccia gli scivola lungo il profilo dell’orecchio; un’altra gli pizzica la punta del naso. Noah si rimette il cappuccio, un gesto meccanico.
La linea dell’orizzonte è ancora vuota – acqua, acqua, acqua. Sospira. Appoggia la nuca contro il parapetto della terrazza panoramica, la schiena rivolta all’oceano. La luce lampeggiante del faro in cima all’Empire State gli ferisce gli occhi. Uomini si muovono sulle impalcature, grandi come formiche, ma le luci rosse sono ancora spente.
Ci sono uomini anche ai piedi dell’Empire, sulla banchina di legno. Due barche stanno lasciando i pontili, un battello è fermo aspettando di poter entrare nel dedalo di moli. Un uomo esce dal vano di una finestra. Tira un carrello con sopra impilate due casse di legno; le ruote seguono la pendenza di una passerella che taglia il davanzale. Merce da portare a Londra; probabilmente sono altre sirene.
(Quando Londra venne a New York, 2013)

Vedendo questi incipit uno di fianco all’altro, leggo un cambiamento nel tempo. All’inizio prediligevo le lunghe descrizioni statiche in campo lungo, con pov simil-onnisciente – errore classico da principiante – mentre negli anni ho cominciato a filtrare le scene attraverso il personaggio pov (anche quando descrivo l’ambiente), a rendere le descrizioni dinamiche e ad inserire da subito degli hook che potessero incoraggiare a proseguire. Ho cercato di suscitare la curiosità del lettore su domande precise: perché la povera Cello è così tesa, perché entra l’acqua nei grattacieli di Manhattan (o almeno quella era la mia intenzione). Chi se ne frega dei sinuosi scambi ferroviari della città del secondo incipit!
Solo su una cosa non sono stato sincero. L’ultimo brano non è tratto da un primo capitolo orfano. E’ l’incipit di un racconto che ho finito da qualche mese, e che attualmente è in fase di revisione. Avendo fallito con le opere di ampio respiro, mi sono detto: perché non allenarmi con qualcosa di più breve e di più gestibile dal punto di vista della trama? Non so che forma avrà il racconto quando sarà davvero pronto; magari sarà completamente trasformato. Ma quando sarà, mi piacerebbe pubblicarlo sul blog. Chissà che la forma del racconto non mi porti fortuna e che non ne seguano altri.
Propositi per l’anno nuovo? Articoli meno autoreferenziali

Di passaggio, mi accorgo che in questo momento sul mio WordPress ci sono 20 articoli in bozza. Le cattive abitudini sono dure a morire.

Le fregnacce sono tante, milioni di milioni

Fanucci FailOrmai il mercato dell’editoria mi ha abituato a qualsiasi cosa. La Fanucci, in particolare, non ne fa una giusta. Dagli errori marchiani – leggendaria la storia della quarta di copertina della riedizione di Perdido Street Station, su cui è raccontata la trama del libro sbagliato, l’ultimo capitolo della trilogia di Bas-Lag The Iron Council – alle idiozie volute, tipo pagare traduttori e revisori il meno possibile – sicché i libri Fanucci sono noti per la quantità psichedelica di refusi, punteggiatura creativa, traduzioni talmente improvvisate che in un paio di passaggi fanno rimpiangere Google Translate. Ogni volta che sento che un altro autore di fantascienza o fantasy viene pubblicato in esclusiva in italiano con Fanucci mi viene da piangere.
Fanucci, ahimé, al momento detiene anche l’esclusiva sul mio autore preferito, Philip K. Dick. E sembra che su Dick abbia costruito la sua fortuna, dato che metà del catalogo sembra fatto da sue opere e i suoi volumi ricoprono come l’edera gli scaffali delle sezioni di fantascienza nelle librerie. Alla Fanucci potrebbero cominciare a guardarsi intorno e pubblicare qualche autore inedito in Italia o quantomeno uscito da tempo del mercato – chessò, un Vinge piuttosto che un Bacigalupi1 – ma no, molto meglio spremere la vacca grassa PKD finché sarà completamente prosciugata.

E quanta merda hanno pubblicato, dal 2008 a oggi, facendo leva sul suo buon nome? Dopo aver esaurito i romanzi di sci-fi belli sono passati a quelli brutti, quelli che Dick stesso aveva tranquillamente ammesso di aver scritto per pagarsi le scatolette di cibo per cani; roba indegna tipo Vulcan 3 o Doctor Futurity, libri sui quali sarebbe più pietosa una damnatio memoriae. Contemporaneamente si sono messi a setacciare i suoi romanzi postumi – quelle opere non fantastiche, slice-of-life, che Dick non riuscì quasi mai a pubblicare in vita. Ogni tanto è saltata fuori qualche perla, come la traduzione, nel 2009, di Scorrete lacrime, disse il poliziotto, che io adoro; più spesso romanzi inutili sul tramonto del sogno americano che si potevano anche lasciare agli americani.
L’anno scorso hanno riesumato Mary and the Giant (Mary e il gigante) e Humpty Dumpty in Oakland (Lo stravagante mondo di Mr. Fergesson). Quest’anno è toccato a The Broken Bubble. Ma ai piani alti della Fanucci devono essersi in qualche modo accorti che continuando a pubblicare mainstream mediocre col nome di Dick sopra le vendite non andavano proprio benissimo. Perciò, cambio di marcia!

Lo stravagante mondo di Mr. Fergesson

I fans di Amelie ringraziano.

Ma facciamo un passo indietro.
Di cosa parla The Broken Bubble? Chiediamolo a Wikipedia:

The lives of two couples intertwine in mid-1950s California, and all learn important lessons about life. Jim Briskin is a classical music DJ. He and his ex-wife Patricia Gray are still very much in love but have divorced because he is sterile. The two divorcees meet a teenaged married couple named Art and Rachael and essentially swap partners.
Pat passionately loves the youthful but dysfunctional Art, almost as though he were her child, and the two of them have an abusive relationship in which he gives her a black eye. Meanwhile, Jim and Rachael hook up and Rachael offers to ditch Art and move to Mexico with Jim where he will adopt her baby and raise it as his own. In the end, however, maturity prevails and they all return to their original partners.

Okay, i temi e la felicità coniugale imperante sono tutta roba chiaramente dickiana, ma di sci-fi ce n’è pochina, sbaglio? Tutti d’accordo su questo? Perfetto. Ecco a voi l’edizione italiana:

Il cerchio del robot

Questa copertina è sbagliata in talmente tanti modi che non so da dove cominciare.

IL CERCHIO DEL ROBOT, signori. Ammirate la finezza del marketing di Fanucci. Ammirate, soprattutto, la nonchalance con cui Fanucci spera di infinocchiare il fanboy dickiano disattento che, vedendo il nuovo titolo sullo scaffale, se lo porta a casa sicuro di trovarci dentro roba fantascientifica senza prima leggersi i risvolti di copertina (in cui gli editor hanno dovuto essere onesti e ammettere che si tratta di un romanzo mainstream). Ammirate il rispetto che trasuda per il lettore.
Mi domando come siano venuti fuori con questo titolo. “Boh, nel titolo originale c’è un riferimento a una bolla, la bolla è rotonda, mettiamo cerchio”. Che poi, anche “La bolla del robot” o “La sfera del robot” non sarebbe stato male. E per quanto riguarda il robot? Non saprei. Magari a pagina 63 passa un automa sullo sfondo. Oppure, ancora meglio: la parola ‘robot’ non appare mai nel romanzo, ma è una metafora, un simbolo della condizione esistenziale apatica, depressa, insoddisfatta dell’America dei rombanti ’50 e un po’ anche dei nostri tempi disgraziati (l’aggancio con la contemporaneità ci vuole sempre). Sto andando a braccio, ma sospetto che l’immancabile Carlo Pagetti nella sua introduzione abbia scritto qualcosa del genere.

E se il titolo non fosse bastato, abbiamo anche la fascetta. “L’ultimo inedito di Philip K. Dick”; ‘ultimo’ in che senso, scusate? Nel senso che è l’ultimo su cui siete riusciti a mettere le mani finora, l’ultimo prima del prossimo ultimo, magari fra sei mesi? Lo chiedo perché quando l’ho visto in libreria, insieme a quel titolo e tutto il resto, per un attimo ho pensato si trattasse davvero di ‘ultimo’ in senso cronologico – che magari fossero i brani sopravvissuti di quel The Owl in Daylight che Dick aveva cominciato a scrivere prima che gli venisse l’ictus 2. Ma The Broken Bubble ha ben poco di ultimo, essendo uno dei primi romanzi mai scritti da Dick. Sospetto però che scrivere sulla fascetta ‘Uno dei tanti romanzi del giovane Philip K. Dick rifiutato dalle case editrici e mai pubblicato se non dopo la sua morte per capitalizzare sul suo nome’ fosse giudicato poco redditizio.
O forse con ‘ultimo’ intendevano dire ‘è l’ultima volta, poi non lo facciamo più, prometto’. Anche perché, scava e scava, ormai li hanno pubblicati tutti. Ho controllato, e ormai di inedito non è rimasto più molto. Tra poco passeranno a pubblicare a tocchi l’Exegesis, quel malloppone allucinato da due-tremila pagine che Dick si mise a comporre dopo le visioni mistiche degli ultimi anni della sua vita e che passa con nonchalance dagli Atti degli Apostoli alle sue convinzioni che noi fossimo intrappolati senza saperlo nel 70 d.C. E quanto sarà finita anche quella? Magari le lettere private di Dick agli amici; qualcosa da spolpare si trova sempre.

Owl in daylight

Un gufo alla luce del sole.

Erano mesi che non mettevo piede in libreria. Ora mi ricordo perché.

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(1) Per carità, ogni tanto lo fanno. Ho apprezzato il fatto che abbiano ripubblicato in italiano i cicli di Riverworld di Philip José Farmer e del Book of the New Sun di Gene Wolfe. Sulla qualità della traduzione non mi pronuncio, non avendoli letti.Torna su


(2) In realtà questo è impossibile. Un edizione di The Owl in Daylight non esiste neanche in lingua originale, dato che Dick ha scritto troppo poco del romanzo prima di morire, e non ha lasciato una traccia di come il romanzo avrebbe dovuto svilupparsi.Torna su

Bonus Track: Di aborti e remake

FanfictionLa maggior parte di voi, per un periodo della propria vita, avrà avuto il suo momento fanfiction. Un momento in cui, dopo la fine della vostra serie / videogioco / saga preferita, ne volevate ancora e, disperati, vi siete rivolti alle comunità dei fan. Per chi non lo sapesse: una fanfiction è per l’appunto l’opera di un appassionato che riprende setting e personaggi di un’altra storia (generalmente di una certa fama).
Anch’io ho avuto il mio momento fanfiction, ai bei tempi del ginnasio. Principalmente di Evangelion o Final Fantasy VII. E ho notato una cosa. Esistono fanfiction di tutti i tipi: seguiti della storia principale, spin-off su personaggi o situazioni secondarie, racconti che espandono momenti della storia principale appena accennati dall’opera originale, parodie, AU (storie che riprendono i personaggi dell’opera ma li calano in un contesto diverso), crossover tra serie diverse. Soprattutto – e con mio sommo sdegno – valanghe di racconti in cui tutti o quasi i personaggi maschili dell’opera originale si scoprono improvvisamente ghei e si danno alle ammucchiate selvagge. Un solo tipo di fanfiction si vede molto di rado: la riscrittura alternativa dell’opera originale.
Mi vengono in mente diversi motivi.
Innanzitutto, perché (in un ambito dove non girano soldi) la volontà di fare un remake parte dal presupposto che non si sia rimasti del tutto soddisfatti della storia originale, che si voglia migliorarla; mentre in genere i fan scrivono le fanfiction proprio perché amano alla follia l’opera originale. Al massimo sono disposti a modificare gli orientamenti sessuali dei personaggi così da fargli fare tutte le cosacce che gli vengono in mente.
Un altro motivo, è che un remake è un progetto lungo e ambizioso, difficile da portare a termine e che ti fa chiedere se ne valga davvero la pena; mentre un raccontino in cui Cloud e Sephiroth scoprono le ragioni profonde della loro fascinazione per gli spadoni si può buttare giù in due orette (considerando poi la cura stilistica che tradizionalmente viene messa in una fanfiction…).

Ciccione con spadone

Da Cloud a Gatsu a Zwei ai ciccioni, lo spadone piace proprio a tutti.

Neanch’io mi sono mai cimentato nell’impresa del remake, ma la tentazione è stata molto forte. Soprattutto se parliamo di narrativa. Come forse avrete notato leggendo i miei Consigli – se non ve ne siete accorti in prima persona – il mondo della narrativa fantastica è un mare di libri riusciti a metà, capolavori mancati e occasioni sprecate.
Prendiamo 2001: Odissea nello spazio – il libro. La penultima parte: David Bowman, disattivato il perverso HAL9000, è rimasto solo sull’astronave Discovery, e il viaggio verso Giapeto e il monolite è ancora lungo. Sa che quelli del controllo missione l’hanno ingannato circa lo scopo della Discovery, e sa di essere condannato a morte, perché non c’è una riserva d’aria sufficiente nella navicella per tornare indietro o aspettare i soccorsi. Bowman passa un brutto periodo. Uno scrittore come Dick da una situazione simile avrebbe saputo tirar fuori qualcosa di grandioso; magari un Bowman paranoico e allucinato, che perde progressivamente contatto con la realtà mano a mano che la distanza dalla Terra aumenta. Con una buona costruzione degli ultimi capitoli, si potrebbe insinuare una certa ambiguità nell’incontro col monolite e la visione finale: è avvenuto realmente? E’ un’allucinazione di Bowman? La missione è fallita? E questa è solo una delle molte possibilità.
Ma Clarke, si sa, ha la delicatezza di un Gundam. Le tribolazioni di Bowman, e il modo in cui supera i suoi problemi ascoltando la musica classica immagazzinata nella memoria dei computer di bordo, sono raccontati in modo sbrigativo, riassunto, con pov onnisciente molto distante. Più piatto di così non si poteva fare. A Clarke gliene frega ben poco dello stato psicologico di Bowman; vuole farlo riprendere velocemente (e allora perché ti sei preso la briga di farlo star male?), così poi si può tornare a parlare di monoliti e alieni. Occasione sprecata.
E inevitabilmente, il pensiero: “Cazzo, questo libro sarebbe potuto essere così più bello…”

Ora: Odissea nello spazio resta comunque un bel libro – coerente, con una buona costruzione. Ma cosa succede quando un libro parte con ottime premesse, ti monta un casino di entusiasmo, e poi, per incapacità o pigrizia o malattia mentale dello scrittore, “si ammoscia a metà come il pisello di un vecchio” (cit. Duca)? Succede che ti viene voglia di mettere il libro (o il reader) nel microonde e girare la manopola tutta a destra. Succede che pensi “porcozzio, se avessi avuto io del materiale di partenza simile…!”, o “io saprei come riscriverlo!”. Questi sono i libri che chiamo aborti – potenziali capolavori che falliscono miseramente e ti fanno mangiare le dita dallo sconforto.
Queste storie meriterebbero una seconda chance. Un remake, che partendo dalle stesse premesse donino a questi aborti uno sviluppo e una conclusione degni. Gli scrittori veri, purtroppo, queste cose non le fanno di rado – un po’ per tabù culturale (l’unicità dell’opera, il rispetto dell’artista e bla bla bla), un po’ perché forse dovrebbero appiccicarci sopra il bollino “fanfiction” e non potrebbero guadagnarci un soldo. Abbondano le riscritture di dell’Alice di Carroll, o del Frankenstein di Mary Shelley, o della Macchina del Tempo di Wells, ma non accade praticamente mai con i romanzi degli ultimi 80 anni 1. Un peccato.

E' un Gundam

Un esempio di delicatezza.

Un peccato perché il remake insegna una cosa interessante. Ossia che nessun’opera è sacra e inviolabile; che un autore può migliorare qualcosa di scritto da un altro; e che in genere questi miglioramenti si possono ottenere seguendo una serie di regole, che sono sempre quelle.
Facciamo un esercizio.

Tre aborti
Nell’articolo di oggi vi presenterò tre aborti, libri che mi hanno provocato gran digrignar di denti e copiosa mole di bestemmie al cielo. Tre romanzi che sarebbero potuti ascendere all’Olimpo della Narrativa Fantastica e invece sono condannati a passare l’eternità nell’anticamera, a eterno monito per le giovani generazioni di scrittori. Sono anche tre romanzi molto diversi tra loro, per forma e contenuto; li ho scelti apposta sperando che ciascuno di voi sia incuriosito da almeno uno di essi.
A parte la solita introduzione, ognuno dei tre pezzi sarà articolato in tre parti: “Perché poteva essere una figata”, “Perché invece è un FAIL”, e “Io avrei fatto così!”. Credo che i titoli parlino da soli. Nell’immaginare possibili migliorie al romanzo originale, mi sono concentrato più sulla macrostruttura che sullo stile (per quello c’è sempre Gamberi Fantasy).
Attenzione: potrebbero esserci spoiler, soprattutto nelle ultime due sezioni.

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The City and the Stars

La città e le stelleAutore: Arthur C. Clarke
Titolo italiano: La città e le stelle
Genere: Science-Fantasy / Dying Earth
Tipo: Romanzo

Anno: 1956
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 250 ca.

Diaspar è l’ultima città al mondo, in una Terra anziana e ridotta a un immenso deserto. E’ una città sigillata dal mondo esterno, e amministrata dalla IA del Computer Centrale. I suoi abitanti sono immortali: quando si avvicinano alla vecchiaia, il computer immagazzina le loro menti e dopo un lasso di tempo di migliaia di anni li rigenera in un corpo nuovo creato per l’occasione. Non solo: all’interno di Diaspar, i suoi abitanti hanno il potere di creare oggetti a piacere o di modificare le dimensioni dei propri appartamenti. E’ una vita serena, senza preoccupazioni, eternamente uguale.
Ma Alvin è diverso. A differenza degli altri abitanti, che alla sola idea di uscire sono terrorizzati, Alvin prova l’impulso irrefrenabile di conoscere il mondo esterno. La leggenda vuole che gli esseri umani si siano sigillati dentro Diaspar sotto la minaccia di invasori stellari, che avrebbero promesso di distruggerli se avessero riprovato ad avventurarsi fuori dal pianeta Terra – ma sarà davvero così? Aiutato dal giullare Khedron e ostacolato dal Computer Centrale, Alvin tenterà di fuggire da Diaspar e scoprire la verità.

Perché poteva essere una figata
Il romanzo di Clarke mette insieme un’ambientazione alla Matrix – in cui realtà materiale e realtà virtuale si confondono, e gli uomini hanno delegato l’autorità alle macchine – con il fascino della Terra morente. La città di Diaspar, città in cui gli esseri umani si reincarnano all’infinito, e vivono tra agi infiniti e strani divieti, è uno dei setting più affascinanti della narrativa fantastica. Il tema del ragazzo ribelle che vuole infrangere la proibizione e varcare i confini del mondo conosciuto è forse un po’ trito, ma funziona sempre, e mantiene accesa l’attenzione del lettore. Da una parte, si vuole esplorare Diaspar e scoprire il funzionamento di una civiltà tanto strana; dall’altra, si vuole scoprire cosa c’è oltre la città – e così, si continua a leggere.

Diaspar Lego

Un'approssimazione della città di Diaspar. Ehm.

Perché invece è un FAIL
I problemi cominciano quando finalmente Alvin riesce ad evadere dalla città – e di lì in poi è un continuo di docce fredde. Lys, l’utopia bucolica condita di poteri psi, è quanto di più improbabile la penna di Clarke potesse inventare. Ma soprattutto, le rivelazioni sulla storia di Diaspar e del destino dell’umanità si accumulano in un infodump raccontato dopo l’altro, tanto da far sembrare Mark Menozzi (quello del Re Negro) uno che si contiene. Noiosissime nella forma – ti viene da pensare, “sto leggendo un romanzo o il canovaccio di un romanzo”? – sono pure raccapriccianti nel contenuto: tra Menti Pazze, creature malvage sigillate nello spazio e in attesa di risvegliarsi, e migrazioni di interi popoli imbarcati in una Grande Missione, sembra di essere precipitati nella mente di un dodicenne drogato di Zelda. Mancano solo le pietre del potere (rigorosamente quattro: una per ogni elemento!) e siamo apposto! E per un romanzo tutto costruito sulla suspence e sulla rivelazione, il peggio che possa capitare è che la rivelazione faccia schifo al cazzo.
A questo bisogna aggiungere la tradizionale bruttezza della prosa di Clarke, e il generale piattume dei personaggi, che non risparmia neppure il protagonista (più una marionetta del suo codice genetico che un individuo pensante). E poi il tema del “prescelto”, benché gestito meglio della media degli YA, è sempre irritante 2.

Io avrei fatto così!
Se la parte ambientata a Diaspar nelle sue linee guida è buona, il resto va completamente cambiato. Due sono le domande essenziali che dobbiamo porci: cosa c’è fuori da Diaspar, e perché è stato imposto il divieto di uscire? Le possibilità sono infinite. Per esempio, il deserto potrebbe essere una finzione, e magari non siamo un miliardo di anni nel futuro ma tipo nel 2100 d.C., e gli abitanti della città sono solo i soggetti di un esperimento modello Truman Show. Troppo scontato? Oppure: Alvin esce da Diaspar per scoprire che non è l’unica città, ma che ci sono altre centinaia o migliaia di città identiche e isolate, tutte convinte di essere l’ultima. Il deserto sarebbe reale, e  l’umanità si sarebbe costruita le città e l’illusione di essere l’ultima per evadere dalla realtà. O ancora: Diaspar è davvero l’ultima città, e Alvin fuori dalle mura trova solamente i resti dell’antica umanità. Ma decide che la terra può essere resa di nuovo fertile e che i cittadini di Diaspar devono uscire dal grembo materno e ripopolare la Terra.
Ora, non è tanto importante quale soluzione narrativa venga adottata. Ciò che conta, è che non si riduca all’esposizione di una storia remota che non ha il minimo impatto sull’attimo presente del romanzo (come avviene nel libro di Clarke), ma al contrario getti una nuova luce tra Diaspar e il mondo esterno e porti a delle conseguenze immediate. Esempio: Alvin decide che la Terra è pronta a riaccogliere l’umanità. Problema: gli abitanti di Diaspar non vogliono uscire. Come li si convince? O li si costringe? Ci sarà una divisione in due fazioni agguerrite? O saranno tutti schierati contro Alvin, che dovrà scegliere tra l’esilio e la resa, e magari la riprogrammazione della propria mente? E così via.

A proposito. Il romanzo filerebbe senza problemi con il solo pov di Alvin. Ma se provassimo invece a giustapporre il suo pov con quello di un altro personaggio? Il giullare Khedron, per esempio: in teoria un individuo che porta disordine e scompiglio tra gli abitanti di Diaspar, Khedron è però un prodotto del Computer Centrale e in ultima analisi condivide la politica isolazionista. Khedron quindi è in contraddizione con sé stesso e con Alvin – potrebbe aiutarlo a scappare, ma anche metterglisi contro se osasse provare a cambiare lo stile di vita dei diaspariani. Mostrare la vicenda alternando i due punti di vista moltiplicherebbe esponenzialmente i livelli di conflitto del romanzo.
A questa rivisitazione massiccia, poi, andrebbe aggiunto un intervento più di cesello. Per esempio, invece che raccontare che Alvin è speciale, e non è come tutti gli altri, come fa Clarke, mostrarlo attraverso piccoli gesti, fraintendimenti, discrepanze tra il suo modo di comportarsi e quello di tutti gli altri. In questo modo il lettore sarebbe il primo a capire che in Alvin c’è qualcosa di diverso.

A Case of Conscience

Autore: James BlishA Case of Conscience
Titolo italiano: Guerra al grande nulla
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1958
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 200 ca.

Agli occhi dei terrestri, il pianeta Lithia sembra il Paradiso terrestre. E’ graziato da una vegetazione rigogliosa e da un clima mite, da un ecosistema in cui ogni specie vivente ha la sua nicchia ecologica e vive in armonia con tutte le altre, e da una civiltà di lucertoloidi antropomorfi che sembra godere di una moralità naturale e non conosce conflitti. L’esatto contrario della Terra, in cui l’umanità, nel terrore di un’apocalisse nucleare, si è rifugiata sottoterra, in enormi città-rifugio sotterranea, e ogni giorno diventa più nevrotica.
Una commissione di quattro scienziati è inviata su Lithia per decidere se aprire liberi contatti con la Terra: il fisico Cleaver, il geologo Agronski, il chimico Michelis e il biologo Ramon Ruiz-Sanchez. Ma Padre Ramon Ruiz non è solo un biologo; è anche un gesuita, e un dottore di teologia morale. E’ l’anno del Giubileo, e la Chiesa l’ha mandato su Lithia affinché risolva un caso di coscienza: se i lithiani abbiano un’anima, cioè se siano veri homines, accomunati ad Adamo nella caduta nel peccato, e quindi evangelizzabili. Ma in Ramon Ruiz si fa strada un terribile sospetto. Che dietro l’apparente perfezione di Lithia si nasconda il pericolo più grande che la Cristianità, e l’umanità tutta, abbiano mai affrontato.

Perché poteva essere una figata
Per lo stesso motivo per cui A Canticle for Leibowitz è una figata: il conflitto tra le ragioni della scienza e le ragioni della teologia, tra ragione e fede. Questo conflitto è realizzato alla perfezione nella figura del protagonista, Padre Ruiz-Sanchez, che riesce contemporaneamente ad essere un ottimo biologo (e a pensare da biologo) e un fervente cattolico. Ramon è un personaggio complesso, pieno di timori e contraddizioni, il che non è la norma nella fantascienza degli anni ’50.
C’è poi il mistero dell’apparente perfezione di Lithia, che tiene il lettore col fiato sospeso, e il fascino dell’ambientazione (per esempio, giganteschi alberi utilizzati come torri di trasmissione delle onde radio). E ancora, il raro connubio della tematica etico-religiosa, cuore del romanzo, e l’Hard SF. Blish infatti affronta nel libro tutta una serie di argomenti scientifici, come il modo in cui un pianeta con risorse naturali molto diverse da quelle della Terra abbia prodotto una civiltà diversa dalla nostra. In appendice al romanzo, troviamo pure un rapporto che fa una panoramica completa di Lithia, dalla distanza dal suo sole all’inclinazione dell’asse, dal movimento tettonico alla composizione del suolo, alle varie fasi della diffusione della vita sulla superficie del pianeta. Blish è uno che ne sa, e le discussioni tra gli scienziati suonano sempre competenti.

Gesuiti

Gesuiti: pronti a diffondere la buona novella in tutta la Galassia.

Perché invece è un FAIL
Due sono i problemi gravi del libro.
Primo, la quasi totale mancanza di azione. Blish è un professionista dell’infodump, nel senso che è capace di inanellarne anche tre o quattro uno dietro l’altro e che da soli probabilmente superano il 50% del testo dell’intero romanzo. Per il resto, i personaggi parlano, parlano, parlano, o riflettono, ma fanno poco. Azione nel romanzo ce ne sarebbe: ma per qualche strano motivo, Blish tende a tagliare queste parti, per poi farle riassumere nel capitolo successivo, con un dialogo, un pensiero del personaggio-pov o magari un bell’infodump. Una reticenza quasi da tragedia greca.
L’altro problema, è che A Case of Conscience tradisce fin troppo la sua natura di fix-up. Il romanzo infatti è l’espansione di una novella, che costituisce la prima metà del libro. La prima parte, interamente ambientata su Lithia e centrata sulla decisione che devono prendere i quattro scienziati, è anche la più interessante. La seconda invece – prevalentemente ambientata sulla Terra – è un disastro: il tema principale della storia viene sommerso da una marea di sottotrame, divagazioni, episodi isolati. A ciò si aggiunge una moltiplicazione dei pov (alcuni dei quali usa-e-getta), sviluppi banali, e la generale impressione che l’autore stesso non sappia più che pesci pigliare. La conclusione, che in sé sarebbe anche carina e si riallaccia finalmente alla trama principale, dopo quelle cento pagine di noia e schifo suona improvvisata, artificiosa e maldestra.
Tra le altre cose irritanti, i romani che dicono “che be’o” (sì, c’è una parte ambientata a Roma) e la tipa giapponese che si chiama ‘Liu Meid’. Inoltre il romanzo è invecchiato piuttosto male dal punto di vista della tecnologia futuristica – ma questo è un problema che affligge quasi tutta la Hard SF.

Io avrei fatto così!
Innanzitutto da aristotelico quale sono – cioè da amante dell’unità di tempo e di luogo – avrei svolto tutta la storia su Lithia. E’ l’ecosistema di Lithia il cuore della storia, nonché il centro dell’interesse del lettore. Eliminerei quindi tranquillamente tutta la seconda parte  ambientata sulla Terra (e quindi anche il banale personaggio di Egvertchi); l’unica eccezione potrebbe essere la convocazione di Ramon Ruiz a San Pietro, che è una bella scena. In quel caso, Ramon Ruiz potrebbe volare a Roma e poi tornare su Lithia.
Oltre a questo, più azione. Il che non significa sparatorie e inseguimenti, ma semplicemente mostrare il team di scienziati che esplora il pianeta e studia i lithiani, invece di farli stare chiusi in una stanza a discutere. Qualcosa di simile a Stations of the Tide di Swanwick, strutturato come una graduale esplorazione di Miranda da parte del protagonista che, episodio dopo episodio, penetra sempre più a fondo nella natura del pianeta. Si potrebbe quindi anticipare l’inizio del romanzo di qualche settimana (A Case of Conscience inizia durante il penultimo giorno di permanenza del team di scienziati).

Rettiliano

Lithiani e rettiliani: una somiglianza sospetta.

Quanto alla scelta dei pov, si potrebbe raccontare tutto dal punto di vista di Ramon Ruiz, oppure alternarlo con l’altro personaggio interessante del gruppo, l’agnostico Michelis. I vantaggi sarebbero due: poiché gli scienziati sono divisi in due squadre, ciascuno potrebbe fare le proprie esplorazioni e noi le vedremmo entrambe; inoltre vivremmo meglio il conflitto tra il punto di vista religioso e quello agnostico; e ancora, potremmo avere un pov che rimane sul pianeta anche quando Ramon Ruiz vola a Roma. Sull’altro lato, i vantaggi di usare un unico pov sono i soliti: maggiore facilità di immedesimazione e la possibilità di usare un timbro più forte (quello del personaggio-pov) come voce narrante. Quello della trasferta a Roma sarebbe poi un falso problema: Ramon Ruiz potrebbe tenersi aggiornato con Michelis via radio o via messaggi, oppure si potrebbe proprio puntare sulla suspence di non sapere cosa sta succedendo su Lithia in quelle ore cruciali.
Terrei fermi due momenti del romanzo originale: la fine della prima parte – con la discussione dei quattro scienziati circa il destino di Lithia – e il finale. Quanto al finale (e qui seguirà uno spoiler in bianco, che consiglio di leggere solo a chi abbia già letto il romanzo o abbia deciso che non lo leggerà mai), due sarebbero i modi sensati di raggiungerlo: dopo il colloquio col Papa, Ramon Ruiz potrebbe decidere che la cosa migliore per “purificare” Lithia sarebbe appunto di lasciare che quel pazzo di Cleaver la faccia esplodere con tutto l’impianto, e magari potrebbe persino attivarsi per far sì che Cleaver vinca la partita; oppure potrebbe rimanere contrario, ma la sua assenza da Lithia potrebbe far precipitare gli eventi e far vincere il partito di Cleaver. Il risultato sarebbe identico, cioè una versione rivista e migliorata del finale originale.

Now Wait for Last Year

Autore: Philip K. Dick
Titolo italiano: Illusioni di potere
Genere: Science Fiction / Social SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1966
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 220 ca.

Il piemontese Gino Molinari, detto ‘la Talpa’, è il dittatore assoluto della Terra. Un tempo uomo forte e pragmatico, capace di infiammare il popolo dall’alto del suo pulpito, dieci anni di governo l’hanno ridotto a un individuo fiacco e ipocondriaco. Gli Starmen, alieni umanoidi signori di un vasto Impero Galattico, l’hanno costretto a imbarcare la Terra in un’interminabile guerra interstellare con i Reeg, un popolo di insettoni. E ora tutti lo odiano, e il suo fisico ne risente.
Per questo ha fatto convocare a palazzo Eric Sweetscent, chirurgo specializzato nel trapianto di organi artificiali. Per Eric, questa è l’occasione adatta per liberarsi della moglie Kathy, una donna nevrotica e violenta che passa il tempo a farlo sentire una merda e a rovinargli la vita. Ma così facendo, Eric finirà coinvolto negli intrighi della guerra galattica e della corte di Molinari, e scoprirà il singolare potere del dittatore di viaggiare tra realtà parallele e di collezionare copie di sé stesso. E quando il mercato terrestre comincerà ad essere invaso da una droga letale che oltre a creare dipendenza fa viaggiare nel tempo, Eric diventerà l’asso nella manica di Molinari per vincere la guerra…

Perché poteva essere una figata
Perché Gino Molinari e la sua dittatura baraccona sono divertentissimi. In qualità di suo medico personale, Eric può assistere a tutti gli aspetti della sua vita: i parenti che continuano a chiedergli soldi, cariche e favori personali assortiti; la camera dove Molinari tiene il cadavere dell’altro sé stesso; le riunioni umilianti col gelido Frenesky, primo ministro degli Starmen, che pretende dalla Terra un maggiore impegno bellico; le sofferenze di Molinari, affetto da una malattia psicosomatica per cui assume sul proprio corpo tutti i malanni delle persone che lo circondano.
E’ molto affascinante anche il tema del traffico di organi artificiali. Il mondo di Now Wait for Last Year è una gerontocrazia; i vecchi ricconi che possono permettersi i continui interventi, non muoiono mai (o molto, molto tardi). Virgil Ackerman, il superiore di Eric prima che questi passi al servizio di Molinari, è un arzillo centotrentenne a capo di un’enorme multinazionale. Ha talmente tanti soldi che si è comprato un appezzamento su Marte e ci ha costruito Wash-35, una ricostruzione maniacale della Washington della sua infanzia (cioè degli anni ’30).
Se Dick fosse riuscito a tenere più stretti i fili della gerontocrazia, della guerra galattica, e della vita pubblica e privata di Molinari, ne sarebbe nato un romanzo coerente (anche nei temi) e molto piacevole.

Mussolini

L'ispiratore di Gino Molinari.

Perché invece è un FAIL
Ma Now Wait for Last Year soffre gli stessi problemi di molti romanzi di Dick: troppe idee in gioco, troppe sotto-trame, troppa carne al fuoco, e una storia che procede più o meno a caso. Viaggi nel tempo, infiltrazioni di spie, clonazioni, sedute diplomatiche, crisi da overdose, cambi di casacca, il tutto condensato in poco più di 200 pagine – tutto questo sarebbe ingestibile anche per un genio. Alcuni passaggi sono demenziali oltre ogni immaginazione; come quando, viaggiando nel futuro, Eric si imbatte in un protoplasma alieno superintelligente che gli somministra consigli sul suo matrimonio (WTF?).
Nel finale, poi, la trama principale viene completamente abbandonata, e Dick si butta, ancora una volta, sul rapporto tra il protagonista e la moglie psicopatica. EPIC FAIL.

Io avrei fatto così!
Tagliare, tagliare, tagliare. Abbiamo detto che il punto forte del romanzo è la dittatura baraccona di Molinari; allora, via innanziutto le cose che non c’entrano, come la moglie e i problemi coniugali. Non che Dick non sia bravo a riprodurre rapporti di coppia disfunzionali, ma ci sono già fin troppi romanzi al mondo su drammi familiari, mogli abusive e frustrazioni assortite. Eric allora potrebbe essere un semplice scapolone insoddisfatto della propria vita, o desideroso di fare un salto di qualità. Il romanzo potrebbe allora aprirsi su Wash-35, con la proposta di Molinari di andare a palazzo; in questo modo avremmo un’introduzione di uno o due capitoli sul protagonista, il mercato del trapianto d’organi artificiali e una prima panoramica del dittatore; per poi arrivare al cuore del romanzo con il trasferimento a palazzo Molinari.
Eliminerei (o ridimensionerei molto) anche la JJ-180: una droga che contemporaneamente crea dipendenza, ti distrugge il fegato e ti fa viaggiare nel tempo o tra le dimensioni è decisamente troppo (e poi, non è molto intelligente dare ai propri nemici il vantaggio del viaggio nel tempo). Molinari avrebbe bisogno di un’altra fonte dei suoi poteri, ma non è un problema – si potrebbe dargli un potere esp, o una macchina sperimentale o che so io.

In generale, centrerei il romanzo sulla “vita di corte” sotto la dittatura di Molinari. In qualità di suo medico personale, Eric (che lascerei come unico personaggio-pov del romanzo) assisterebbe a ogni momento della giornata e della vita del dittatore, dalle pretese dei suoi parenti alle angherie di Frenesky. Diventando il suo braccio destro, potrebbe aiutarlo a viaggiare tra le dimensioni a raccogliere gli altri sé stessi; potrebbe anche fare da ambasciatore segreto presso i Reeg, così da non lasciare la trama bellica troppo sullo sfondo.
Now Wait for Last Year assumerebbe così i toni di una tragicommedia sulla vita sfigata del dittatore di un pianeta sfigato (nell’ottica della guerra tra gli imperi galattici dei Reeg e degli Starmen).

In conclusione
Vale la pena di leggere questi romanzi? Dipende.
Di regola no, soprattutto se avete poco tempo libero e vi interessa semplicemente leggere un buon libro. Hanno troppe falle.
Ma se ambite a scrivere anche voi narrativa fantastica, o se semplicemente vi interessa studiare la narrativa, allora dovreste provarne almeno uno. Dei tre, A Case of Conscience probabilmente è quello più coerente, e più interessante sul piano filosofico; Now Wait for Last Year quello più divertente da leggere; The City and the Stars, quello con l’ambientazione più suggestiva.
Verificate se ciò che ho detto è vero; se provate fastidio e delusione negli stessi punti in cui lo ho provato io; se vi sembra che effettivamente ci sia del potenziale sprecato; e se le mie correzioni li migliorerebbero, o se bisognerebbe riscriverli in un altro modo ancora. Un romanzo riuscito male può essere un caso di studio utile quanto un capolavoro.
E magari, chissà, qualcuno di voi proverà davvero a scrivere il remake uno di questi romanzi… No, non ci credo, questo non succederà mai ^-^ Ma almeno avrò gettato in voi il germe dell’ “io avrei fatto così!”.
E possa tassobarbasso rivoltarsi nella sua tomba.

Fanfiction yaoi

(1) Un’eccezione che mi viene in mente è la novella Palimpsest di Charles Stross, del 2009; l’autore stesso ha detto che si tratta in buona sostanza di una riscrittura dell’ottimo The End of Eternity di Asimov. Non mi esprimo sulla novella perché non l’ho letta. Da non confondersi con il romanzo omonimo di Catherynne Valente.Torna su

(2) Aneddoto divertente: The City and the Stars è già la riscrittura di un romanzo – Against the Fall of Night, opera d’esordio di Clarke. L’avrebbe riscritto perché insoddisfatto della versione originale. A quanto pare è recidivo.Torna su

I Consigli del Lunedì #16: Childhood’s End

Le guide del tramontoAutore: Arthur C. Clarke
Titolo italiano: Le guide del tramonto
Genere: Science-Fantasy / Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1953
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 220 ca.

Difficoltà in inglese: **

Un bel giorno, verso la fine del XX secolo, dal cielo piomba una flotta di gigantesche navicelle aliene. Le astronavi si piazzano sopra ognuna delle principali città terrestri, e lì restano, sospese e immobili, come monito. Ma non c’è da avere paura. Attraverso la voce di Karellen, Supervisore per la Terra, i Superni (Overlords) dichiarano di essere venuti per impedire che gli esseri umani si distruggano con le proprie mani, e per traghettarli verso una nuova era di pace globale e prosperità.
La superiorità dei Superni è talmente evidente che l’opposizione è inesistente. I governi terrestri mantengono un’autonomia limitata, ma tutte le questioni di reale importanza vengono decise dagli alieni. Tuttavia i Superni non si mischiano con gli esseri umani; al contrario, rimangono chiusi nelle astronavi e rifiutano di farsi vedere. L’umanità non è ancora pronta, dice Karellen – dovranno passare cinquant’anni dal loro arrivo, prima che si risolvano a mostrare il loro aspetto. Solo un uomo è autorizzato a parlare con i Superni e a comunicare le loro decisioni ai governi terrestri: Rikki Stormgren, segretario finlandese delle Nazioni Unite. Ma neanche a lui è permesso di vedere in faccia gli invasori; Karellen gli parla solo attraverso un microfono in una stanza oscurata della sua astronave.
Cosa nascondono i Superni, e quali sono i loro progetti per la Terra? Quel che è certo, è che il destino politico e biologico dell’umanità sembra destinato a cambiare per sempre…

Arthur C. Clarke, uno dei Big Three della fantascienza della Golden Age, è noto soprattutto per i suoi romanzi di Hard SF – le sue vaste competenze di matematica, fisica e ingegneria gli permettevano infatti di speculare sulle modalità del viaggio spaziale, della fondazione di colonie nel Sistema Solare e della terraformazione di pianeti e satelliti, e sulla società del futuro.
Ma questo Childhood’s End, che secondo il parere mio e di molti altri fan è il migliore in assoluto di Clarke, ha ben poco di hard. La tecnologia degli Overlord, e il mondo che portano con sé, appartengono a quel grado di scienza che, secondo la legge formulata dallo stesso Clarke, diventa indistinguibile dalla magia. L’intero romanzo è una speculazione puramente fantastica sul nostro mondo dopo un’invasione “benevola” di una civiltà infinitamente superiore, e sul destino sociale e genetico del genere umano.
Da Olaf Stapledon (che considerava suo maestro spirituale) e dai suoi Last and First Men (di cui ho parlato qui) e Star Maker, Clarke riprende l’idea di raccontare una storia dell’umanità più che quella di pochi individui – anche se sceglie di farlo attraverso le storie di alcuni personaggi. Similmente a A Canticle for Leibowitz, il romanzo è diviso in tre parti che corrispondono a tre diversi periodi cronologici (anche se l’intervallo tra una parte e l’altra è di solo mezzo secolo anziché 500 anni). Ogni parte ha i suoi personaggi, anche se alcuni ricorrono in più di una parte; e in ogni caso Clarke è pronto ad abbandonarli appena non gli servono più. Qui l’unico protagonista è il genere umano.

Indipendence Day

Ecco, immaginatevi una cosa del genere. Solo che poi gli alieni non sparano un megaraggio della morte sopra Los Angeles.

Uno sguardo approfondito
Lasciatemi subito chiarire una cosa, così poi non ci pensiamo più: Clarke è un cane della scrittura. La sua è una delle prose peggiori che potrete mai trovare tra i “grandi” della fantascienza, e forse persino la Troisi scrive meglio. La storia è raccontata con una “bella” terza persona onnisciente, che a seconda delle circostanze si avvicina o si allontana dal personaggio pov del momento. Nelle scene con la maggior concentrazione di personaggi pov (per esempio all’inizio della seconda parte), la telecamera è anche capace di saltare dall’uno all’altro nello spazio di poche righe.
Il lettore è bombardato per tutto il romanzo da battaglioni di infodump, che quando va bene vengono filtrati dal pensiero del personaggio pov, quando va male ti vengono schiaffati addosso direttamente dal Narratore. Interi periodi della storia sono raccontati in modo statico e riassuntivo, come se Clarke volesse preparare il setting della prossima scena saliente ma fosse troppo pigro per farlo in modo immersivo. Completano il quadro un uso indiscriminato di aggettivi e avverbi.

I personaggi sono poco più che burattini nelle mani dell’autore, la cui funzione si esaurisce nel mostrare da un’ottica “a misura d’uomo” le progressive trasformazioni della nostra civiltà. E fin qui, non ci sarebbe nulla di male. I problemi cominciano quando Clarke tenta di dare a questi manichini una falsa patina di profondità, facendo incursioni nella loro testa o soffermandosi su dei momenti drammatici. Ma poiché le loro tribolazioni ci sono “raccontate” dall’autore anziché mostrate con gesti concreti, e poiché la loro generale piattezza impedisce al lettore di mettersi più che tanto nei loro panni, è difficile provare della vera empatia. Ad alcuni dei protagonisti succederanno delle cose veramente brutte, ma l’impatto emotivo è smorzato dalla pochezza della prosa di Clarke. Bisogna scegliere: o si decide che è un romanzo scientifico, e allora i personaggi sono semplici “veicoli” della speculazione e stanno ai margini della trama; o si decide di approfondire il mondo interiore dei personaggi, ma allora si abbandona il pov onnisciente, si impara a mostrare lo stato emotivo delle persone e si studia meglio la psiche umana!1
Alcuni dei protagonisti di Childhood’s End fanno parziale eccezione. Il segretario Rikki Stormgren, per esempio, combattuto tra la sincera ammirazione e fiducia verso il Sovrintendente alieno, e la sua lealtà alla propria razza, privata della propria indipendenza. Il bisogno un po’ infantile di scoprire, almeno lui, il vero aspetto degli alieni, diventerà l’obiettivo più importante della sua vita, e il lettore lo segue con simpatia e partecipazione nella sua quest. Oppure Jan Rodricks, astrofisico nero insoddisfatto della fine del progresso e della stagnazione che gli alieni hanno portato sulla Terra, che sogna di imbarcarsi clandestinamente su una delle astronavi per conoscere il pianeta d’origine degli Overlord. O lo stesso Karellen – personaggio titanico, come ogni alieno superevoluto che si rispetti, insondabile nelle sue motivazioni, e con una sfumatura di ironia triste nella voce che ti fa chiedere cosa nasconda.

Spaventapasseri

Un essere umano, nell’immaginario di Clarke.

Fa il paio con i personaggi deboli la divisione del romanzo in più periodi storici. Il lettore abituato alle storie a intreccio – magari sul tipo delle interminabili Cronache di Martin – potrebbe fare fatica ad andare avanti nella lettura, con un tale ricambio di personaggi e situazioni. In parte il problema è caratteristico di questo tipo di romanzo, e non può essere evitato. In parte è colpa di Clarke, che nel tessuto della storia principale apre troppe sotto-trame, alcune delle quali non riesce neanche a chiudere (o non in modo convincente). Per esempio la storia della colonia di Nuova Atene, potenzialmente molto interessante, è messa in piedi in modo raccogliticcio (con la tipica descrizione statica del Narratore che va avanti per pagine e pagine), e conclusa in modo sbrigativo quando il focus del romanzo si sposta da un’altra parte.
Un tipo diverso di lettore, però, potrebbe rimanere affascinato proprio per l’abbondanza di spunti e avvenimenti. I colpi di scena, la risposta a vecchie domande e la proposizione di nuove domande si succede a un ritmo rapido, tanto che mi sono rifiutato di svelare più delle prime pagine del romanzo per timore di farvi degli spoileroni. Succede un sacco di roba, e su ordini di grandezza sempre più alti.

Soprattutto, Childhood’s End è un romanzo che trasuda sense of wonder da tutti i pori – e non quello pervasivo ma modesto di molti romanzi di New Weird o Bizarro Fiction, ma proprio quello che – per usare le parole di Gamberetta – ti fa dire WOW! in lettere maiuscole. Prendendo le mosse da un’invasione aliena, Clarke ci parla di evoluzione, di poteri esp, di teologia, della struttura stessa del cosmo, del destino ultimo della razza umana. Ci parla di un universo in cui le forze in gioco sono talmente grandi, che un misero uomo non può fare nient’altro che stare a guardare.
Fin troppo, forse. Alcuni passaggi, specialmente verso la fine, sanno un po’ troppo di deus-ex-machina, un po’ troppo di “eh, gli insondabili misteri dell’Universo!”. E a volte potrebbe sembrare che Clarke si abbandoni a una crudeltà gratuita – anche se io ho apprezzato molto la sua mancanza di buonismo; del resto la natura non è ‘buona’, al cosmo non gliene frega niente del benessere degli esseri umani. E alcune risposte agli enigmi disseminati da Clarke non sono convincenti: per esempio, la spiegazione del perché gli esseri umani siano terrorizzati dall’immagine del diavolo con le corna e la coda a punta è un po’ tortuosa. Ma sono dettagli.

It was ALIENS

Childhood’s End è un romanzo pieno di tutti i difetti tipici della scrittura clueless di Clarke; ma è anche uno dei libri che mi ha più colpito negli ultimi anni. A differenza di molta fantascienza invecchiata male, questo romanzo ha il potere di lasciarti basito anche a settant’anni dalla pubblicazione. Leggetelo: è un ordine!

Dove si trova?
Purtroppo le ultime volte che ho controllato sia Bookfinder che Library Genesis erano down, perciò non ho potuto controllare se Childhood’s End si trova. Confermo però che è disponibile sul canale #ebooks di irchighway (mIRC).
In italiano, quasi tutti i romanzi di Clarke sono facilmente rintracciabili su Emule.

Su Clarke
Clarke è uno degli autori di fantascienza più famosi in assoluto, perciò con ogni probabilità conoscerete già (e magari avrete già letto) i suoi romanzi. Ma in Italia Clarke è stato sempre ripubblicato poco, ed è difficile trovare sue opere in libreria. Ecco perciò una breve carrellata delle sue opere più meritevoli:
Polvere di Luna A Fall of Moondust (Polvere di Luna), ambientato in un XXI secolo in cui la Luna è stata ampiamente colonizzata, racconta le vicende di una piccola navetta passeggeri, che durante una crociera sulla superficie del satellite, in seguito a un terremoto, “affonda” nella superficie del pianeta. La storia segue i tentativi dell’equipaggio e di un team di soccorso di recuperare la navetta, in una corsa contro il tempo. Una disaster story carina e scientificamente accurata, ma senza pretese.
2001: Odissea nello spazio  2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) lo conoscerete tutti. Rispetto al film, il libro, che Clarke ha scritto in contemporanea al lavoro di sceneggiatura con Kubrick, si prende più tempo per approfondire le vicende e in generale è molto più comprensibile. La parte ambientata nel paleolitico e l’ultima parte sono rese meglio nel libro, e il finale ha un senso. Comunque non è bello come Childhood’s End, benché i temi si assomiglino.
Rendezvous with Rama  Rendezvous with Rama (Incontro con Rama) è il romanzo BDO per eccellenza. Una grossa navicella spaziale di origine aliena entra nel Sistema Solare senza dichiarare le sue intenzioni; una squadra di militari e scienziati viene inviata ad esplorarla. Ma la navicella, ribattezzata ‘Rama’, si rivelerà un ecosistema artificiale completamente autosufficiente… Rama è il miglior libro di Clarke dopo Childhood’s End e, nonostante la solita pochezza della sua prosa e molte potenzialità sprecate, un piccolo capolavoro dell’Hard SF. Se non l’avete già fatto, leggetelo.
The Fountains of Paradise  The Fountains of Paradise (Le fontane del paradiso) segue la storia del dottor Vannevar Morgan, talentuoso ingegnere che sogna di costruire il primo ascensore spaziale – una piattaforma che possa salire dalla cima di una montagna dello Sri Lanka fino ad un satellite in orbita geostazionaria a 36000 km d’altezza. Il romanzo seguirà tutte le fasi del progetto, tra ostilità dei nativi, mancanza di fondi, incidenti e cambi di rotta, intrecciando la trama principale con flashback sul periodo leggendario dell’isola. Romanzo pieno di idee affascinanti, benché il ritmo sia piano e la suspence spesso ai minimi termini.
Tra i romanzi minori di Clarke, consigliati solo ai fan sfegatati, aggiungo i mediocri The Sands of Mars (Le sabbie di Marte), Imperial Earth (Terra imperiale) e Songs of the Distant Earth (Voci di Terra lontana). Un caso di romanzo promettente ma miseramente fallito è invece The City and the Stars (La città e le stelle) che in futuro mi piacerebbe includere in un articolo sui romanzi abortiti.

Chi devo ringraziare?
Tanto per cambiare, ho saputo dell’esistenza di questo libro grazie all’articolo su Il senso del meraviglioso di Gamberi Fantasy, benché ovviamente conoscessi già Clarke di fama. Gamberetta l’ha definito “come The End of Evangelion, solo che ha un senso”, il che è abbastanza vero.

Qualche estratto
Ho scelto due estratti dal primo capitolo della prima parte; ho preferito non spingermi molto oltre nel libro, per non rovinare qualche colpo di scena. Il primo estratto è un’infodumpata sgraziata ma affascinante sulle modalità dell’invasione degli Overlord; il secondo mostra il modo in cui il segretario Stormgren si mette in contatto con il Supervisore Karellen.

1.
It was, of course, only a very small operation from their point of view, but to Earth it was the biggest thing that had ever happened. There had been no warning when the great ships came pouring out of the unknown depths of space. Countless times this day had been described in fiction, but no one had really believed that it would ever come. Now it had dawned at last; the gleaming, silent shapes hanging over every land were the symbol of a science Man could not hope to match for centuries. For six days they had floated motionless above his cities, giving no hint that they knew of his existence. But none was needed; not by chance alone could those mighty ships have come to rest so precisely over New York, London, Paris, Moscow, Rome, Cape Town, Tokyo, Canberra…
Even before the ending of those heart-freezing days, some men had guessed the truth. This was not a first tentative contact by a race which knew nothing of Man. Within those silent, unmoving ships, master psychologists were studying humanity’s reactions. When the curve of tension had reached its peak, they would act.
And on the sixth day, Karellen, Supervisor for Earth, made himself known to the world in a broadcast that blanketed every radio frequency. He spoke in English so perfect that the controversy it began was to rage across the Atlantic for a generation. But the context of the speech was more staggering even than its delivery. By any standards, it was a work of superlative genius, showing a complete and absolute mastery of human affairs. There could be no doubt that its scholarship and virtuosity, its tantalizing glimpses of knowledge still untapped, were deliberately designed to convince mankind that it was in the presence of overwhelming intellectual power. When Karellen had finished, the nations of Earth knew that their days of precarious sovereignty had ended. Local, internal governments would still retain their powers, but in the wider field of international affairs the supreme decisions had passed from human hands. Argument — protests — all were futile.
It was hardly to be expected that all the nations of the world would submit tamely to such a limitation of their powers. Yet active resistance presented baffling difficulties, for the destruction of the Overlord’s ships, even if it could be achieved, would annihilate the cities beneath them. Nevertheless, one major power had made the attempt. Perhaps those responsible hoped to kill two birds with one atomic missile, for their target was floating above the capital of an adjoining and unfriendly nation.
As the great ship’s image had expanded on the television screen in the secret control room, the little group of officers and technicians must have been torn by many emotions. […] The screen became suddenly blank as the missile destroyed itself on impact, and the picture switched immediately to an airborne camera many miles away. In the fraction of a second that had elapsed, the fireball should already have formed and should be filling the sky with its solar flame.
Yet nothing whatsoever had happened. The great ship floated unharmed, bathed in the raw sunlight at the edge of space. Not only had the bomb failed to touch it, but no one could ever decide what had happened to the missile. Moreover, Karellen took no action against those responsible, nor even indicated that he had known of the attack. He ignored them contemptuously, leaving them to worry over a vengeance that never came. It was a more effective, and more demoralizing, treatment than any punitive action could have been. The government responsible collapsed in mutual recrimination a few weeks later.

Dal loro punto di vista, si era trattato di una missione trascurabile, ma per i terrestri era l’evento più importante che li avesse mai colpiti. Non c’erano state avvisaglie quando le grandi astronavi avevano cominciato a scendere dalle sconosciute profondità
dello spazio. Innumerevoli volte quel momento era stato descritto nelle opere di fantascienza, ma nessuno aveva mai creduto che un giorno potesse succedere veramente.
Ma quel giorno era venuto: le lucenti sagome che ondeggiavano silenziose sopra ogni nazione erano il simbolo di un progresso scientifico che l’uomo non avrebbe raggiunto per chissà quanti secoli. Per sei giorni erano rimaste sospese nella più assoluta immobilità sulle metropoli della Terra, senza fare niente, quasi ne ignorassero l’esistenza. Ma non c’era bisogno che dimostrassero di
sapere cosa c’era sotto di loro. Non poteva essere per caso che quelle astronavi si fossero fermate sopra New York, Londra, Parigi,
Mosca, Roma, Città del Capo, Tokyo, Canberra…
Anche prima che giungessero quei giorni di panico, qualcuno aveva intuito la verità. Quello non era che un primo tentativo di contatto da parte di una razza che ignorava tutto dell’uomo. Dentro le silenziose astronavi immobili, studiosi di psicologia stavano
certamente esaminando le reazioni dei terrestri. E, quando la tensione sarebbe arrivata all’apice, allora avrebbero agito.
Il sesto giorno, Karellen, Supercontrollore per la Terra, si fece conoscere agli uomini in una trasmissione radio che bloccò tutte
le radiofrequenze. Parlò in inglese perfetto, scatenando discussioni che infuriarono oltre l’Atlantico per una generazione intera. Ma il
significato del discorso fu più sbalorditivo della lingua usata per pronunciarlo. Fu indubbiamente il discorso di un genio che dimostrò
di conoscere alla perfezione le questioni terrestri. Nessun dubbio che la virtuosità di quel discorso, gli accenni a conquiste scientifiche ancora lontane per l’uomo erano destinati a convincere il genere umano che si trovava di fronte a forze intellettuali infinitamente superiori, Quando Karellen ebbe finito, ogni nazione seppe che i suoi giorni di precaria sovranità erano finiti. I governi
locali avrebbero conservato il potere, ma nel campo più vasto degli affari internazionali non sarebbero più stati gli uomini a decidere. Polemiche, proteste, fu tutto inutile.
Naturalmente non ci si poteva aspettare che tutte le nazioni avrebbero accettato con passiva rassegnazione un tale limite ai loro
poteri. Ma la ribellione aperta si rivelò irta di difficoltà, perché la distruzione delle astronavi dei Superni, ammesso che l’impresa
fosse possibile, avrebbe comportato la distruzione delle città sotto di esse.
Tuttavia, una delle grandi potenze aveva tentato. Forse quella nazione aveva sperato di prendere due piccioni… con un missile atomico, dato che il bersaglio era l’astronave sopra la capitale di una nazione confinante e ostile.
Nel momento in cui l’immagine della grande astronave si dilatava sullo schermo televisivo della segreta sala d’operazioni, i militari e i tecnici presenti dovevano essere stati travolti dalle loro stesse emozioni. […]
Di colpo, nell’attimo in cui il missile si disintegrava all’impatto, l’immagine sparì dallo schermo e immediatamente passò ad una telecamera aerea lontana chilometri e chilometri. In quella frazione di secondo, la sfera di fuoco formatasi in seguito all’esplosione
avrebbe dovuto riempire il cielo con la sua incandescenza.
Invece non era successo niente. L’astronave si librava illesa, illuminata dal sole ai limiti dello spazio visibile. Non solo non era stata colpita, ma nessuno avrebbe saputo dire cosa fosse successo al missile.
Karellen non prese nessun provvedimento contro i responsabili dell’attacco, e si sarebbe detto perfino che non se ne fosse accorto.
Ignorò sdegnosamente il fatto lasciando i responsabili a tormentarsi nell’attesa di una rappresaglia che non venne mai. Un atteggiamento
più efficace e più demoralizzante di qualsiasi azione punitiva. Poche settimane dopo, il governo responsabile entrò in crisi per le accuse reciproche dei suoi membri.

Reddito e alieni

Gli alieni pagheranno per questo.

2.
Karellen never kept him waiting for long. There was a sudden “Oh!” from the crowd, and a silver bubble expanded with breath-taking speed in the sky above. A gust of air tore at Stormgren’s clothes as the tiny ship came to rest fifty meters away, floating delicately a few centimeters above the ground, as if it feared contamination with Earth. As he walked slowly forward, Stormgren saw that familiar puckering of the seamless metallic hull, and in a moment the opening that had so baffled the world’s best scientists appeared before him. He stepped through it into the ship’s single, softly-lit room. The entrance sealed itself as if it had never been, shutting out all sound and sight.
It opened again five minutes later. There had been no sensation of movement, but Stormgren knew that he was now fifty kilometers above the earth, deep in the heart of Karellen’s ship. He was in the world of the Overlords; all around him, they were going about their mysterious business. He had come nearer to them than had any other man; yet he knew no more of their physical nature than did any of the millions on the world below.
The little conference room at the end of the short connecting corridor was unfurnished, apart from the single chair and the table beneath the vision screen. As was intended, it told absolutely nothing of the creatures who had built it. The vision screen was empty now, as it had always been. Sometimes in his dreams Stormgren had imagined that it had suddenly flashed into life, revealing the secret that tormented all the world. But the dream had never come true; behind the rectangle of darkness lay utter mystery. Yet there also lay power and wisdom — and, perhaps most of all, an immense and humorous affection for the little creatures crawling on the planet beneath.
From the hidden grille came that calm, never-hurried voice that Stormgren knew so well though the world had heard it only once in history. Its depth and resonance gave the single clue that existed to Karellen’s physical nature, for it left an overwhelming impression of sheer
size. Karellen was large — perhaps much larger than a man. It was true that some scientists, after analyzing the record of his only speech, had suggested that the voice was that of a machine. This was something that Stormgren could never believe.
“Yes, Rikki, I was listening to your little interview. […] The details of the World Federation have been out for a month now. Has there been a substantial increase in the seven percent who don’t approve of me, or the twelve percent who Don’t Know?”
“Not yet. But that’s of no importance: what
does worry me is a general feeling, even among your supporters, that it’s time this secrecy came to an end.”
Karellen’s sigh was technically perfect, yet somehow lacked conviction.
“That’s your feeling too, isn’t it?”
The question was so rhetorical that Stormgren did not bother to answer it.
“I wonder if you really appreciate,” he continued earnestly, “how difficult this state of affairs makes my job?”
“It doesn’t exactly help mine,” replied Karellen with some spirit. “I wish people would stop thinking of me as a dictator, and remember I’m only a civil servant trying to administer a colonial policy in whose shaping I had no hand.”

Karellen non lo faceva mai aspettare a lungo. Ci fu un’esclamazione improvvisa della folla, e una bolla argentea si dilatò nel cielo con velocità incredibile. Una raffica di vento investì Stormgren nell’istante in cui il piccolo veicolo spaziale si fermava a una
cinquantina di metri, restando sospeso a pochi centimetri dal suolo, quasi timoroso di un contatto con la Terra. Mentre camminava
lentamente verso la folla, Stormgren vide il familiare raggrinzarsi dello scafo metallico apparentemente senza connessure, e un attimo dopo l’apertura che aveva tanto stupito i più celebri scienziati del pianeta si rivelò. Lui entrò nell’unica sala scarsamente illuminata della piccola astronave. L’apertura si richiuse senza lasciare traccia, escludendo ogni suono e ogni vista dall’esterno.
Si riaprì cinque minuti più tardi. Non aveva avuto nessuna sensazione di movimento, ma Stormgren sapeva di essere a cinquanta chilometri sopra la Terra, profondamente incuneato nel cuore della nave cosmica di Karellen. Era tra i Superni: intorno a lui essi erano intenti alle loro misteriose faccende. Stormgren era spesso andato più vicino a loro di qualsiasi altro uomo, eppure come ogni altro terrestre ignorava tutto del loro aspetto fisico.
La saletta delle riunioni in fondo al breve passaggio era arredata unicamente con una sedia e un tavolino sotto il teleschermo e, secondo le intenzioni, non rivelava assolutamente nulla delle creature che l’avevano costruita. Lo schermo era vuoto e spento, come l’aveva sempre visto Stormgren. Talvolta in sogno, lui immaginava di vederlo accendersi improvvisamente, rivelando il segreto che assillava il mondo. Ma il sogno non si era mai avverato: dietro quel rettangolo di tenebra si annidava il mistero più impenetrabile. Ma vi si nascondeva anche potenza e saggezza, e soprattutto una infinita
tolleranza, una specie di divertito sentimento di affetto per le piccole creature che si affannavano sul pianeta Terra.
Dalla grata nascosta venne la voce calma, mai assillata dalla fretta, che Stormgren conosceva tanto bene e che il mondo aveva sentito una volta sola nella sua storia. La profondità e la risonanza di quella voce erano la sola indicazione sulla natura fisica di Karellen, e dava una chiara impressione delle sue dimensioni: Karellen doveva essere altissimo, più grande di un essere umano.
Alcuni scienziati, però, dopo avere analizzato la registrazione del suo discorso, avevano prospettato l’ipotesi che la voce fosse quella di una macchina, ma Stormgren non poteva crederci.
«Sì, Rikki, ho seguito il vostro breve colloquio. […] Da un mese ormai si conoscono i particolari sull’andamento della Federazione
Mondiale. C’è stato un sensibile aumento sulla vecchia percentuale del sette per cento dei miei oppositori, o sul dodici per cento
degli agnostici?»
«No, ma non è questo il punto più importante. Mi preoccupa, piuttosto, il sentimento generale, diffuso anche tra i vostri sostenitori, che è tempo di svelare il mistero di cui vi circondate.»
Il sospiro di Karellen fu tecnicamente perfetto, ma mancava di convinzione.
«Ed è anche il vostro sentimento, non è vero?»
La domanda era retorica, e Stormgren non si preoccupò di rispondere.
«Mi domando se vi rendete conto» continuò seriamente «di come questa situazione renda difficile il mio lavoro…»
«Credetemi, non facilita nemmeno il mio» rispose Karellen, con una certa vivacità.
«Vorrei che la gente la smettesse di considerarmi un dittatore e si ricordasse che sono soltanto un funzionario incaricato di seguire una politica coloniale nella cui elaborazione non ha messo mano.»

Tabella riassuntiva

L’apocalisse più tranquilla nella storia della fantascienza! Clarke scrive come un cane.
Ritmo rapido che accende sempre nuovi interrogativi. Personaggi subordinati a una storia più grande di loro.
Sense of wonder maiuscolo e a palate. Alcune trovate sanno un po’ troppo di deus-ex-machina.

(1) Questo difetto accompagnerà Clarke fino alla fine della sua carriera. E’ un particolarmente sentito in quei romanzi in cui le idee di fondo non sono abbastanza buone da mascherare la debolezza dei personaggi.
Spesso si cita The Songs of Distant Earth come esempio di un Clarke più attento alla psicologia dei personaggi. Sì, è vero che in quel romanzo Clarke si concentra molto sui rapporti sentimentali tra i protagonisti – peccato che il risultato sia osceno! Il risultato, infatti, è una specie di Dawson’s Creek sullo sfondo di navicelle spaziali e missioni planetarie, solo che gli sceneggiatori di Dawson’s Creek sono più bravi. Sembra che Clarke sia del tutto incapace di tratteggiare il mondo interiore di un essere umano in modo decente.Torna su

Dawson's Creek

“Presto, Dawson! Dobbiamo prendere la Magellano e andare a terraformare Sagan 2!!!”
“…eh?”

Correre ignudi con la fiammea quadriga

Thomas Mann“Giorno dopo giorno, ormai, il dio dalle guance infuocate correva ignudo con la fiammea quadriga attraverso gli spazi celesti e la sua chioma d’oro fluttuava al vento di levante mutandosi in placida brezza. Un lucido biancore di seta posava sulle pigre ondeggianti distese del ponto; la sabbia ardeva, l’etere azzurro sfavillava d’argento. Dinanzi ai capanni della spiaggia erano tese tende color ruggine: alla loro ombra che si proiettava netta, si trascorrevano le ore pomeridiane. Ma deliziosa era pure la sera, quando le piante del parco esalavano effluvi balsamici e si compiva nel cielo la danza delle stelle, quando il murmure delle acque avvolte nell’oscurità si levava sommesso a parlare all’anima. Ognuna di quelle sere portava con sé la gioiosa certezza di una nuova giornata di sole sotto il segno di un facile ozio, ornata di innumerevoli, ininterrotte probabilità di cari incontri.”

Chi è l’autore di siffatto capolavoro? Forse l’immortale Sergio Rocca?
No, ma ci siete andati vicini: è Thomas Mann, e questo è l’incipit del quarto capitolo di La morte a Venezia.
L’errore è comprensibile; Sergio Rocca potrebbe benissimo essere stato suo discepolo. Solo che, a differenza del leggendario esperto di civiltà orientale, Thomas Mann è stimato e riverito come uno dei maggiori scrittori del Novecento, se non come uno dei più grandi della letteratura occidentale tout-court.
E quando è Thomas Mann in persona a darti il permesso di scrivere di fiammee quadrighe al posto di un prosaico “sole”, e di Ponto al posto di un triviale “mare”, si capisce che è piuttosto difficile convincere quattro generazioni di intellettuali da salotto e scrittori wanna-be ad adottare una scrittura trasparente – sia che vogliano scrivere “di genere”, sia che vogliano scrivere mainstream. Come glielo spieghi che quell’incipit di quarto capitolo sembra tratto fresco fresco da uno di quei manuali di scrittura americani, come esempio di prosa di un diciassettenne clueless alla sua prima lezione di corso?
Ma capisco che qualcuno potrebbe accusarmi di essere capzioso: non mi prendo nemmeno la briga di lavorare con l’originale tedesco! Magari tutte quelle brutture sono frutto di una traduzione criminale! Be’, potrebbe darsi. Ahimé, non conosco bene il tedesco (ma so dire tutti i numeri fino a dodici!), ma ecco l’idea: proviamo a confrontare la prima traduzione – quella Mondadori – con altre tre prese a caso. Non potranno essere tutti quanti dei mistificatori e/o degli incapaci, giusto?

Sole sul mare

Notate lo scherzare della chioma del Febo sul Ponto.

Edizione Feltrinelli (traduzione di Enrico Filippini):
“Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance ardenti conduceva nudo la quadriga di fuoco attraverso gli spazi del cielo, e la sua chioma d’oro ondeggiava al vento dell’est che presto si placava. Una serica bianchezza posava sulle distese del Ponto torpido e ondulato. La sabbia era rovente. Sotto l’etere azzurro dai riverberi d’argento, davanti alle cabine, erano tese tende di tralicci ruggine, e sulla netta macchia d’ombra che essere proiettavano passavano le ore del pomeriggio. Ma altrettanto deliziosa era la sera, quando gli alberi del parco emanavano effluvi balsamici, le stelle eseguivano la loro danza, e il mormorio del mare notturno saliva dolcemente e parlava all’anima. Quelle sere portavano in seno facilmente la lieta promessa di una nuova giornata di sole, di ordinati piaceri, di infinite possibilità di cose gradevoli.”

Edizione Garzanti (traduzione di Tito Villari):
“Ora il dio dalle guance ardenti guidava nudo, giorno per giorno, il suo tiro a quattro, sprigionante fuoco, per gli spazi del cielo, e i riccioli gialli gli ondeggiavano al levante che in pari tempo turbinava. Serico splendore biancastro languiva sulle distese del ponto dalle onde lente. Sotto l’azzurro scintillante argentato dell’etere, davanti alle cabine, c’erano stesi dei teli color ruggine, e sulle macchie d’ombra dai contorni netti da essi offerti, si passavano le ore della mattina. Ma anche la sera era deliziosa, quando le piante del parco esalavano il loro profumo balsamico, le stelle lassù ballavano la loro ridda, e il mormorio del mare abbuiato, insinuandosi lieve, parlava al cuore. Tali sere portavano con sé un’altra bella giornata di sole, di ozio dall’ordine frivolo, e ornata da innumerevoli e frequenti possibilità di casi graziosi.”

Edizione Marsilio (traduzione di Elisabeth Galvan):
“Ora di giorno in giorno il dio dalle guance ardenti guidava ignudo la quadriga di fuoco attraverso gli spazi del cielo, e la sua chioma d’oro volava nel vento che, insieme, dall’est si levava. Un bianco splendore di seta giaceva sulle distese del Ponto lento e fluttuante. La sabbia bruciava. Sotto l’argenteo azzurro scintillante dell’etere, davanti alle cabine della spiaggia, stavano stesi teli color ruggine, e si passavano le mattinate entro la macchia d’ombra nettamente delimitata che essi offrivano. Ma deliziosa era anche la sera, quando le piante del parco emanavano effluvi balsamici, quando gli astri danzando compivano il loro giro, il mormorio del mare notturno saliva lieve e parlava all’anima. Quelle sere portavano in sé la lieta promessa di un nuovo giorno di sole, all’insegna di un ozio leggero, ornato di innumerevoli dense occasioni di casi graditi.”

OMG.
Non saprei neanche da che parte cominciare: c’è l’utilizzo di termini arcaici o classicheggianti o desueti al posto di quelli ordinari per dare una patina di “poeticità” a immagini banalissime; c’è la valanga di aggettivi (“serico splendore biancastro”, “argenteo azzurro scintillante”, “infinite possibilità di cose gradevoli”, srsly?); c’è l’insulso tentativo di dare un andamento musicale alle parole; c’è l’assoluta piattezza di tutta la scena, perché, se leviamo gli infiorettamenti, ecco cosa rimane: che ogni giorno sorge il sole e percorre il cielo, e di primo pomeriggio fa molto caldo e la sabbia scotta, e ci si rilassa in spiaggia, dopodiché arriva la sera, che è piacevole, e la mattina dopo comincia una nuova giornata.
Sorprendente, vero? Signor Mann, ma come le è venuta quest’idea?

Thomas Mann

"Be', ma perché sono un genio, no?"

Qualche osservazione sparsa.
1. Non è che Thomas Mann non sappia scrivere. I Buddenbrook, il suo primo romanzo, è un bel libro scritto con onestà. C’è anche il sincero tentativo di mostrare invece che raccontare; le descrizioni fisiche dei personaggi tendono ad essere un po’ statiche, ma Mann cerca addirittura, quando li fa parlare, di riprodurre inflessioni diverse a seconda della regione di provenienza o di idiosincrasie personali! Abbiamo quello che arrota le erre, quello che strascica le parole, quello che parla come se avesse delle patate in bocca…
Questo, se possibile, rende le cose ancora peggiori – perché significa che Mann ha deciso apposta di cominciare a scrivere così, mano a mano che diventava più famoso. C’è evidentemente la convinzione che questo modo di scrivere così stucchevole sia migliore della scrittura trasparente e mostrata degli esordi.
2. La cultura classica e/o mitologica nobilita tutto. Dì che il mare era illuminato dalla luce del sole, e avrai una banalità; dì che il dio greco del sole illumina il Ponto, e avrai un capolavoro! Concetto che potrebbe anche essere così riformulato: per quanto banale sia la tua storia, infiorettala di riferimenti agli studi classici che hai fatto da adolescente, e sarai stimato come grande erudito che parla all’anima della gente. Malattia che infesta anche molti scrittori di fantasy, che credono basti infilarci un po’ di mitologia qua e un po’ di archetipi là per fare il buon libro.
Ma tutti quei fronzoli e tutta quella pesantezza hanno in realtà un solo scopo: nascondere la reale pochezza dell’intero passaggio. Così come l’uso di complicate mitologie thailandesi o l’idea che ciò che è rappresentato nel libro sia in realtà allegoria di qualcosa di più Alto, sono solo espedienti per distogliere l’attenzione del lettore dal fatto che sta leggendo il solito banalissimo fantasy. Se mentre scriviamo cominciamo a ricorrere a questi espedienti, vuol dire che forse, dopotutto, non siamo molto convinti che ciò che stiamo scrivendo sia di per sé interessante.

Febo Apollo

Il Febo Apollo si posa sulla serica bianchezza delle pigre, ondulate labbra del Ponto. O qualcosa del genere.

Ora, un lettore dotato anche di un minimo di cultura libraria e senso critico, trovandosi di fronte a quell’incipit potrebbe anche pensare: “Sticazzi, chemmerda!”. Ma poi si trova di fronte il nome dell’autore, il nome dell’opera – nomi pesanti. Comincia a sudare. Forse il suo giudizio è stato troppo affrettato, dopotutto? O forse, forse – forse la colpa è sua, che non è abbastanza colto, non è abbastanza preparato per un modo di scrivere tanto raffinato… Mh, dev’essere così che molte persone abbandonano la lettura.
No: sviluppare il senso critico, significa usare lo stesso metro di giudizio per valutare Thomas Mann e Licia Troisi. E io ho l’impressione che nemmeno la nostra Licia avrebbe mai potuto scrivere una schifezza come quella.