Archivi del mese: agosto 2013

Il sondaggio lungo un anno

Philip K. DickJoe Fernwright è solo, al sicuro nel bunker. Ma tutti i suoi compagni sono là fuori, in balia di una creatura ancestrale emersa dagli abissi. E’ mezz’ora che non ha loro notizie. Il suo unico contatto col mondo esterno è la sua radio portatile. Disperato, decide di accendere la radio per sentire se ci sono notizie. E:

“Impotente?” disse la radio. “Incapace di raggiungere l’orgasmo? Hardovax trasformerà il vostro disappunto in gioia”. Quindi un’altra voce, quella di un uomo avvilito. “Diamine, Sally, non so cosa mi è successo. So che ti sei accorta che ultimamente sono del tutto floscio. Diamine, se ne sono accorti tutti.” Quindi una voce femminile: “Henry, tutto ciò di cui hai bisogno è una semplice pillola chiamata Hardovax. E in pochi giorni sarai un vero uomo.” “Hardovax?” le fece eco Henry. “Diamine, forse dovrei provarla.” E di nuovo la voce dell’annunciatore: “Nel più vicino drugstore, o puoi scrivere direttamente a…”.
A quel punto Joe spense la radio. Ora capisco cosa intendeva Willis.

A volte mi piace ricordarmi perché mi piace Philip K. Dick. E’ in brani come questi che Dick riluce, anche in romanzi malriusciti e obiettivamente bruttarelli come Galactic Pot-Healer (Guaritore galattico), da cui il brano è tratto. Proprio quest’anno, sempre in quella discutibile operazione di riesumazione sistematica di cui mi sono già lamentato in questo post, Galactic Pot-Healer è stato riportato alla luce in italiano da Fanucci. Sfogliandolo, mi sono tornati in mente gli anni in cui leggevo Dick, e della letteratura fantascientifica sapevo ancora molto poco. E mi è tornato in mente un sondaggio che avevo aperto quasi un anno fa.

Galactic Pot-Healer

Un restauratore di vasellame viene contattato da una divinità aliena a forma di enorme blob-cetaceo perché lo aiuti a riesumare dalle profondità dell’oceano del lontano Pianeta del Contadino una cattedrale gotica. WTF? Ah, giusto: è una storia di Dick.

Lo scorso Ottobre vi domandavo se voleste o meno una recensione di uno dei più celebri romanzi di Dick, The Man in the High Castle (in italiano, L’uomo nell’alto castello o La svastica sul sole). Per i ritardatari, il dilemma che ponevo era questo: si tratta di un romanzo molto interessante, ma abbastanza famoso anche in Italia. Fanucci lo tiene fisso in libreria. Ha senso parlarne in un blog votato prima di tutto ai libri poco (o non abbastanza) conosciuti?
Se ho lasciato aperto il sondaggio tutti questi mesi, è stato più per distrazione che per calcolo; finché non avessi raggiunto una decisione in merito, pensavo, tenerlo aperto non poteva fare male. Ormai però direi che il dado è tratto – non si sono aggiunti molti voti negli ultimi mesi, per cui i risultati possono dirsi definitivi. Pertanto ho chiuso il sondaggio; vediamo quali sono stati i risultati.

Il sondaggio chiedeva: volete un articolo su The Man in the High Castle? Basandomi sugli umori raccolti fra i frequentatori del blog in merito a Dick, avevo fornito tre opzioni:
– Sì, dai!
– Dick va bene, ma l’articolo lo vorrei su un altro dei suoi romanzi.
– Dick ha rotto il cazzo.
Ora, su un totale di 133 voti, ecco come si sono distribuite le risposte dei miei amati lettori:
– Il 48,12% dei votanti (64 voti) vuole la recensione.
– Il 41,35% dei votanti (55 voti) pensa che Dick abbia rotto il cazzo.
– Il 10,53% dei votanti (14 voti) non ha problemi con Dick, ma ce li ha con il romanzo in questione.
Da un punto di vista prettamente quantitativo, avrebbe quindi vinto il partito di quelli che vogliono un articolo sulla nostra ucronia nazista preferita. Ci sono però da fare un paio di considerazioni. In primo luogo, lo scarto è molto piccolo: solo 9 voti di differenza. Abbastanza perché non si possa formare un governo (ah! ah! ah!). In secondo luogo, se sommiamo i voti di chi non vuole recensioni su Dick e di chi le vorrebbe su un altro romanzo (cioè, per farla breve, le due posizioni contrarie a una recensione a High Castle), raggiungiamo il 51,88% dei votanti (69 voti). Quindi il partito “Sì, dai!” si troverebbe in realtà in minoranza.
C’è però anche un altro modo di guardare la questione. Possiamo anche dire che 64 + 14 = 78 votanti vorrebbero un articolo su un romanzo di Dick, contro i 55 che non la vogliono, e si tratta di una percentuale anche maggiore rispetto alla precedente (il 58,65%).

Nazi Abbey Road

…E SE FOSSE ANDATA COSI’?

Consideriamo anche i commenti. Solo 10 persone si sono espresse in merito, di cui 7 nei commenti all’articolo e 3 nei commenti inseribili nel programmino del sondaggio. Di questa decina di commentatori:
– 6 sono contrari o disinteressati a una recensione a High Castle (Siobhàn, Coscienza, Dunseny, mauro, reno, Piperita Patty) mentre 4 sono interessati (Giovanni, william crea, Amnell e Dago).
– 2 sono contrari in generale a recensioni su Dick (Coscienza e reno), uno è scettico ma non del tutto contrario (Dunseny), una non si esprime in merito (Siobhàn), mentre gli altri 6 sono interessati. Di passaggio, segnalo ad Amnell – benché con mesi di ritardo – che un Consiglio dedicato a The Three Stigmata of Palmer Eldritch, a cui lei era interessata, l’ho già pubblicato un anno e mezzo fa! Lo puoi trovare qui.
Bisogna anche dire che i commenti sono una frazione minima del totale dei voti sull’argomento.

Il risultato finale, considerando sia voti che commenti, è una situazione di quasi pareggio. Prevale un leggero scetticismo verso un articolo sull’ucronia nazista, ma c’è anche una certa voglia di Dick (questa in inglese suonerebbe malissimo). Pertanto, dopo attente riflessioni, sono giunto alla seguente soluzione – una soluzione di cui, per inciso, sono molto orgoglioso: UN NUOVO SONDAGGIO!!!11!!!!! Dio santo, sono troppo un genio. Potremmo chiamare questo nuovo sondaggio: quale Dick preferisci? (senonché anche questa in inglese…). Proporrò tre diversi romanzi dickiani tra cui scegliere. Tre romanzi che ai tempi mi sono molto piaciuti  – figurano tutti e tre nella mia classifica – ma che ho letto in italiano e non mi dispiacerebbe rileggere in inglese. Tre romanzi molto diversi tra loro, ma tutti strani. Oltre a The Man in the High Castle, che rimane uno dei tre candidati, abbiamo l’allucinato viaggio negli inferi di Flow My Tears, the Policeman Said e il messianico VALIS. In Flow My Tears assisteremo al conflitto che si scatena tra Jason Taverner, ex star televisiva diventata msteriosamente una non persona costretta a nascondersi, e Felix Buckman, il cinico commissario che gli dà la caccia; mentre in VALIS, parteciperemo alle folli ricerche esistenziali di un alter-ego di Philip Dick, convinto di ricevere messaggi da una divinità aliena e costretto a barcamenarsi tra ambigui film di fantascienza e cultisti fanatici. In altre parole: High Castle è sociale, Flow My Tears è psicologico-individuale, VALIS è metafisico. Dovendo scegliere, quale vi stuzzica di più?

Tre romanzi di Dick

You Decide.

Il sondaggio questa volta sarà una cosa molto più piccolo. Niente programmini per votare: mi interessano solo i commenti. Ditemi quale vi interessa di più e (possibilmente) perché; dare motivazioni da più peso al proprio voto. Potete anche approfittarne per ribadire il concetto che Dick se ne deve andare affanculo.
Anche i tempi saranno stringati: mi piacerebbe chiudere il sondaggio entro un mese. A quel punto deciderò cosa fare. Se riceverò troppe poche risposte recepirò il messaggio e la cosa finirà lì. Sono curioso di scoprire come andrà a finire!

Vi lascio con una perla di saggezza del buon Phil, un altro piccolo episodio di Galactic Pot-Healer:

 Getting to his feet he crossed the waiting room to the Padre booth; seated inside he put a dime into the slot and dialed at random. The marker came to rest at Zen.
“Tell me your torments,” the Padre said, in an elderly voice marked with compassion. And slowly; it spoke as if there were no rush, no pressure. All was timeless.
Joe said, “I haven’t worked for seven months and now I’ve got a job that takes me out of the Sol System entirely, and I’m afraid. What if I can’t do it? What if after so long I’ve lost my skill?”
The Padre’s weightless voice floated reassuringly back to him. “You have worked and not worked. Not working is the hardest work of all.”
That’s what I get for dialing Zen, Joe said to himself. Before the Padre could intone further he switched to Puritan Ethic.
“Without work,” the Padre said, in a somewhat more forceful voice, “a man is nothing. He ceases to exist.”
Rapidly, Joe dialed Roman Catholic.
“God and God’s love will accept you,” the Padre said in a faraway gentle voice. “You are safe in His arms. He will never—”
Joe dialed Allah.
Kill your foe,” the Padre said.
“I have no foe,” Joe said. “Except for my own weariness and fear of failure.”
“Those are enemies,” the Padre said, “which you must overcome in a
jihad; you must show yourself to be a man, and a man, a true man, is a fighter who fights back.” The Padre’s voice was stern.
Joe dialed Judaism.
“A bowl of Martian fatworm soup—” the Padre began soothingly, but then Joe’s money wore out; the Padre closed down, inert and dead—or anyhow dormant.
Fatworm soup, Joe reflected. The most nourishing food known. Maybe that’s the best advice of all, he thought. I’ll head for the spaceport’s restaurant.

Alzatosi, attraversò la sala d’aspetto, dirigendosi alla cabina del Padre; si sedette all’interno, infilò dieci centesimi nella fessura e scelse a caso. L’indicatore si fermò sullo Zen.
«Dimmi i tuoi tormenti,» chiese il Padre con una voce attempata e venata di compassione. Parlava lentamente, come se non ci fosse alcuna urgenza, alcuna pressione. Tutto era fuori dal tempo.
«Sono sette mesi che non lavoro e adesso ho ricevuto un incarico che mi porterà lontano dal Sistema Solare. Ho paura. Che succederà se non sarò in grado di svolgere il lavoro? Se dopo tanto tempo avessi perso le mie capacità?»
La voce fievole del Padre accarezzò l’aria rispondendo con tono rassicurante. «Tu hai lavorato e non hai lavorato. Non lavorare è il lavoro più duro che esista!»
Ecco cosa si ottiene scegliendo lo Zen, si disse Joe. Prima che il Padre proseguisse, digitò Etica Puritana.
«Senza lavoro,» riprese il Padre con una voce in qualche modo più aggressiva, «l’uomo è una nullità. Egli cessa di esistere.»
Rapido, Joe cambiò: Cattolicesimo.
«Dio e il Suo amore ti accoglieranno,» disse una voce gentile e remota. «Nelle Sue braccia sarai salvo. Lui non ti-»
Joe passò ad Allah.
«Uccidi il tuo nemico,» sentenziò il Padre.
«Ma io non ho nemici! Solo la mia stanchezza, la noia, la paura di fallire.»
«Anche quelli sono avversari,» proseguì il Padre, «che dovrai superare in una jihad; devi dimostrare a te stesso di essere un uomo; e un uomo, un vero uomo, è un combattente che risponde colpo su colpo.» La voce del Padre era severa.
Joe selezionò il Giudaismo.
«Una ciotola di zuppa di bruconi Marziani-» iniziò pacato il Padre, ma il denaro di Joe finì. Il Padre si interruppe, restò inerte, morto- o, in ogni caso, inattivo.
Zuppa di bruconi, rifletté Joe. Il cibo più nutriente finora conosciuto. Forse questo è il consiglio migliore. Andrò al ristorante dello spazioporto.

Meditate, gente. Meditate.

Brucone marziano

Il cibo più nutriente finora conosciuto.

Bonus Track: Le avventure post-utopiche di Darger e Surplus

Michael Swanwick Darger and Surplus“Behold! A careful accounting of your perfidy and deceit. Which you tried to conceal from me. To begin: You obtained your current situations as my secretaries by presenting me with forged letters of commendation from the Sultan of Krakow—a personage and indeed a position which, under later investigation, turned out not to exist.”
“Sir, everybody puffs their resume. ’Tis a venial sin, at worst.”
[…] “Further, it says here, you are both notorious confidence-men and swindlers who have defrauded your way through the entirety of Europe.”
“Swindlers is such a harsh word. Say rather that we live by our wits.”
[…] “In Paris, you sold a businessman the location of the long-lost remains of the Eiffel Tower. In Stockholm, you dispensed government offices and royal titles to which you had no claim. In Prague, you unleashed a plague of golems upon an unsuspecting city.”
“The golem is a supernatural creature, and thus nonexistent,” Darger stipulated. His mount whickered, as if in agreement. “Those you speak of were either robots or androids—the taxonomy gets a bit muddled, I admit—and in either instance, revenant technology from the Utopian era. We did Prague a favor by discovering their existence before they had the chance to do any real damage.”
“You burned London to the ground!”
“We were there when it burned, granted. But it was hardly our fault. Not entirely.”

C’è stato un tempo in cui gli uomini vivevano nell’abbondanza, e le macchine facevano tutto per loro. Industrie automatizzate, mezzi di trasporto rapidissimi, navicelle mandate nello spazio, un network virtuale – il leggendario Internet – che metteva in comunicazione ogni parte del globo con qualsiasi altra. Ubriachi della loro tracotanza, gli uomini avevano delegato tutto alle macchine. Finché l’Utopia è tramontata: le IA che popolavano il cyberspazio si sono ribellate e nel giro di un attimo hanno preso il controllo delle macchine e della rete elettrica mondiale. La guerra è durata pochi giorni, ma in quei giorni la civiltà come la conosciamo è stata spazzata via. Finché i superstiti hanno reciso ogni legame con la Rete, intrappolando le malefiche entità nei reami virtuali, e hanno costruito una nuova civiltà libera dalle macchine. Il mondo è regredito a una tecnologia pre-elettrica e a costumi vittoriani, un mondo di piccoli Stati regionali dove le distanze sono tornate immense e i viaggi pericolosi.
Ma un’epoca post-utopica ha bisogno di eroi post-utopici. Aubrey Darger è un gentiluomo londinese col dono di una faccia talmente banale da passare completamente inosservato; Sir Blackthorpe Ravenscairn de Plus Precieux (per gli amici Sir Plus o Surplus) è un cane umanoide geneticamente modificato, nonché un diplomatico giunto in Europa dal favoleggiato Feudo del Vermont Occidentale, oltreoceano. I due si incontrano per caso sulla banchina del Tamigi – ma un furfante ne riconosce subito un altro. Cominciano così le avventure di Darger e Surplus, partner nel crimine, e i loro viaggi in lungo e in largo in quest’Europa neo-vittoriana alla ricerca del colpaccio che li renderà ricchi e felici. Seminando distruzione sul loro cammino…

Snake? Yes this is Dog

Scusate, ma a noi ci piacciono i cani parlanti.

La ‘saga’ di Darger e Surplus nasce per caso dalla penna di Michael Swanwick nel 2001, con il racconto “The Dog Said Bow-Wow” (Il cane disse bau bau). All’epoca, Swanwick non aveva alcuna intenzione di riprendere in mano i due personaggi. Ma il finale aperto del racconto sembrava implorare un seguito. Così, negli anni successivi, Swanwick ha scritto altri due racconti sui viaggi della strana coppia in giro per l’Europa post-utopica, e infine un vero e proprio romanzo che li vede arrivare nel favoleggiato Ducato di Moscovia.
Darger e Surplus sono stati più volte paragonati ad altre coppie storiche del fantasy, come Fafhrd e il Gray Mouser delle storie di Fritz Leiber. In effetti le storie di Swanwick hanno diverse cose in comune con lo sword & sorcery cazzone: le avventure autoconclusive in giro per un mondo vasto e ‘magico’, il tono leggero e umoristico, il ritmo plot-driven. Molti altri elementi, però, lo distinguono. Le storie di Darger e Surplus non sono ambientate in un mondo secondario ma in un’Europa del futuro remoto; sono storie molto più ciniche, e i due protagonisti dei veri e propri anti-eroi amorali, che cercano di cavarsela in ogni situazione non con la forza ma con l’astuzia e il raggiro; la magia vera e propria è sostituita da una bioingegneria pseudo-scientifica, che però non è mai spiegata e quindi (come direbbe Clarke) sembra magia. 1
Ma andiamo a vederle nel dettaglio.

The Dog Said Bow-Wow

The Dog Said Bow-Wow Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / Science Fiction
Tipo: Raccolta di racconti

Anno: 2006
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 256

Difficoltà in inglese: **

Questa raccolta contiene i racconti scritti da Swanwick tra il 2001 e il 2007, e in particolare i primi tre racconti di Darger e Surplus. In “The Dog Said Bow-Wow”, ambientato a Londra, i due furfanti – che si sono appena conosciuti – improvvisano un colpaccio a Buckingam Labyrinth, il palazzo neo-vittoriano dove vive e governa l’immortale Regina e dove si raduna la corte britannica. Il piano? Vendere agli annoiati aristocratici un vecchio cimelio dell’epoca Utopica, facendolo passare per un modem ancora connesso con le perverse intelligenze che abitano la Rete, e levare le tende prima che quelli si accorgano di essere stati gabbati. Ma i piani di Darger e Surplus non vanno mai a finire come previsto.
La prima cosa che si nota leggendo il racconto è il tono; un tono che risalta soprattutto nei dialoghi, ma filtra anche nelle descrizioni del narratore. Gli abitanti del mondo post-utopico parlano e si comportano come gentiluomini ottocenteschi; gente che gira col bastone da passeggio, dice sir, lad, rapscallion, most pleased, intriguing scheme, ed è sempre posata e imperturbabile. Lo stridore tra l’atteggiamento compunto dei due furfanti e l’immoralità delle loro azioni è alla base di buona parte degli sketch, e più in generale dell’atmosfera umoristica del racconto.

La seconda cosa che si nota è il ritmo della storia. Nel giro di una pagina i due protagonisti si sono conosciuti; nel giro di due hanno definito il loro piano; alla terza pagina siamo già arrivati sul luogo della truffa. La narrazione è rapida, succede sempre qualcosa, ci si lascia trasportare e prima di essersene accorti il racconto è finito. E nel frattempo, Swanwick riesce a buttare in poche righe tutti i dettagli fondamentali dell’ambientazione: la storia di come l’era utopica è tramontata, l’odio incontrollato che le IA intrappolate nella Rete nutrono per gli esseri umani, e così via. Un’intero pianeta Terra del futuro prende vita nelle poche pagine del racconto, benché nella storia si veda la sola Londra.
I due racconti successivi, The Little Cat Laughed to See Such Sport” (2003) e “Girls and Boys, Come Out to Play” (2006) seguono la stessa struttura. Sono ambientati rispettivamente a Parigi e in Arcadia (la Grecia del futuro): nel primo, i due confidence-men tenteranno di vendere l’ubicazione perduta della Torre Eiffel a un ricco e ingenuo borghese, mentre nel secondo dovranno confrontarsi con i piani perversi del Governo Scientificamente Razionale del Grande Zimbabwe, che attraverso l’ingegneria genetica intende ricreare gli dèi dell’antica Grecia e utilizzarli come armi di distruzione di massa. Il racconto parigino non mi ha lasciato molto, e a mio avviso è il meno riuscito dei tre; quello arcadico invece ha parecchi bei momenti – come l’orgia che si scatena in città al passaggio di Dioniso, o l’epilogo.

Dioniso / Pan

Racconti piacevoli e facili da leggere, insomma; ma anche racconti che, alla fin fine, scivolano un po’ via. Se vogliamo trovarvi un difetto, si può dire che al centro di queste storie non c’è né il concetto che ti fa fare “WOW”, né l’immagine che ti arriva come un pugno nello stomaco, né risvolti psicologici affascinanti. Sono storie leggere. Darger e Surplus rimangono personaggi superficiali. Certo, nel corso delle loro avventure impariamo qualcosa del loro carattere: Darger ha un temperamento melanconico e un certo afflato poetico, mentre Surplus è più pragmatico, nonché un seduttore nato e capace di acrobazie sessuali fuori dalla portata dei comuni mortali; ma in alcuni dialoghi in cui non erano indicati i loro nomi mi era anche difficile dire chi dicesse cosa.
Insomma, le tre avventure di Darger e Surplus, benché molto divertenti e immaginose, non sono i migliori racconti della raccolta. Tra i miei preferiti:
– “‘Hello’ Said the Stick”, la storia che apre l’antologia, è molto breve e deliziosa, e ruota attorno lo strano incontro tra un soldato in armatura medievaleggiante e un bastoncino parlante.
– “Slow Life” ricorda “The Very Pulse of the Machine” (di cui ho parlato nello scorso articolo): è ambientato su un planetoide remoto, i protagonisti sono la prima spedizione umana che lo visita, e la storia ruota attorno a una specie senziente che abiterebbe la luna e alla morte. Non è altrettanto bello, ma ha un sacco di belle trovate – come l’obbligo degli scienziati di rispondere alle domande cretine degli utenti loggati sul sito che finanzia della spedizione – e il finale è del tutto diverso.
– “Triceratops Summer” è un racconto tranquillo e suggestivo in cui, ancora una volta, Swanwick mette insieme dinosauri e viaggi nel tempo. E’ tutto costruito sul piacevole colpo di scena finale.
– “Tin Marsh” è un racconto morboso che prova a immaginare come potrebbe essere la vita dei cercatori d’oro del futuro su Venere. I cercatori si muovono a coppie a bordo di pesanti esoscheletri, e sono legati da un perverso rapporto di intimità mentale totale; ma gli esseri umani non sono fatti per condividere tutta quella intimità, e ora McArthur e Patang vorrebbero solamente uccidersi a vicenda…
– “The Bordello in Faerie” è il mio preferito, benché sia uno dei pochi a non aver ricevuto né premi né nominations. L’atmosfera è quella da fairytale fantasy cinico-darkettone che abbiamo imparato a conoscere con The Iron Dragon’s Daughter e The Dragons of Babel: ai confini tra il mondo degli umani e quello fatato, c’è un bordello nascosto dove giovani intraprendenti possono assaporare piaceri indicibili; un luogo visitato da elfi, amazzoni, ninfe, e anche divinità… ma tutto ha un prezzo. Swanwick purtroppo non scende mai nei dettagli delle scene di sesso (in questo campo Mellick è insuperato), ma rende bene l’atmosfera. Il finale ha un che di convenzionale, ma Swanwick lo presenta in un modo convincente.

Tra gli altri racconti, “The Skysailor’s Tale” è una menatona molto literary, “Legions in Time” è una storia rocambolesca ‘alla Van Vogt’ che mi ha fatto abbastanza cagare e “The Last Geek” non l’ho ben capito. “An Episode of Stardust” e “A Small Room in Koboldtown” sono due storielle del mondo di Faerie, poi confluite in The Dragons of Babel – il che conferma la mia sensazione che troppo spesso Swanwick metta insieme i suoi romanzi a partire dai racconti.
In conclusione, si tratta di un’ottima raccolta – benché non tutti i racconti siano riusciti e qualcuno sia proprio brutto; familiarizzare con il mondo di Darger e Surplus è solo una delle ragioni, e non la principale, per cui vale la pena di leggersela.

Dancing with Bears

Dancing with Bears Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / New Weird / Biopunk / Commedia
Tipo: Romanzo

Anno: 2011
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 300 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Una carovana è in viaggio attraverso le steppe del Kazakistan. E’ la delegazione del Principe Achmed, ambasciatore del Califfo di Bisanzio, che si sta recando alla corte del Duca di Moscovia per offrirgli un dono da parte del Califfo suo cugino: le Perle Senza Valore, sette donne bioingegnerizzate per essere le più belle e seducenti creature su cui occhio umano si possa mai posare. E chi potrebbero essere i segretari personali dell’Ambasciatore, se non Darger e Surplus? Il loro piano? Infiltrarsi nelle alte sfere del Ducato per mettere a segno un colpo leggendario, naturalmente!
Ma non sanno cosa li aspetta. Il Duca di Moscovia è una figura misteriosa che non riceve mai nessuno, se non i suoi più stretti collaboratori; le Perle, che non hanno mai provato le delizie del sesso, diventano di giorno in giorno più irrequiete; nel sottosuolo di Moscovia si muovono strane genti e circolano strane droghe; e Chortenko, il capo della polizia, sembra avere piani tutti suoi per il destino della grande Russia. Ma soprattutto, le macchine stanno tornando. Nella remota Baikonur, la città spaziale dell’Unione Sovietica da cui decollarono gli Sputnik, le macchine sono sopravvissute; e stanno preparando il più grande piano per cancellare per sempre il genere umano dalla faccia della terra.

Con Dancing with Bears, Swanwick tenta il salto dal racconto breve al romanzo. Ma come può una serie basata sugli sketch e sui piccoli “colpi” reggere il lungo respiro del romanzo? Swanwick risolve il problema con la moltiplicazione dei pov e dei comprimari. Se nei primi tre capitoli – ambientati nelle steppe kazake e incentrate sul faticoso viaggio di avvicinamento dei nostri eroi al Ducato – il pov è quasi sempre di uno dei due con-men, a partire dall’arrivo a Moscovia la prospettiva comincia ad allargarsi. Arkady, giovane debosciato che vive ubriacandosi di poesia e sogna la Perla Aetheria; Koschei, il vecchio strannik invasato religioso; Anna Pepsicolova, la spia che abita il sottosuolo di Moscovia; e poi Chortenko, il ladruncolo Kyril, la baronessa Lukoil-Gazproma, il gaio tenente Evgeny.
Molti pov – pure troppi. Tutti i capitoli a partire dal quarto sono spezzati in quattro, cinque, sei o anche più capoversi, ciascuno con un pov diverso. E se da un lato questa struttura accelera il ritmo narrativo (perché succede sempre qualcosa a qualcuno, e mentre seguiamo la storyline di un personaggio nel frattempo tutti gli altri continuano a muoversi), dall’altro il lettore si trova continuamente catapultato da una situazione all’altra. Inoltre alcuni pov – come quelli di Evgeny o della baronessa – sono abbastanza inutili, non aggiungono nulla alla storia e distraggono dagli eventi personaggi. Infine, il ruolo di Darger e Surplus è ridimensionato fin troppo. Non solo – per numero di apparizioni – non sono più i protagonisti del romanzo ma dei comprimari, non solo non sono più (se non molto indirettamente) il motore della storia, ma alla fin fine il loro ruolo si rivelerà marginale.

Baikonur

Baikonur. Ora è una città in mano alle macchine…

La dilatazione delle storie di Darger e Surplus a romanzo mette in luce un altro difetto, che nella forma racconto passava inosservato: l’abuso di raccontato. Swanwick non è mai stato un purista del mostrato, ma qui intere scene o episodi vengono raccontati, riassunti e pesantemente aggettivati; i sentimenti e i ragionamenti dei personaggi vengono spesso spiegati. A volte l’uso del raccontato ha uno scopo umoristico, per esempio in questa descrizione di come Darger, legato a una barella, evade: “Darger eyed the blade yearningly. It might be just possible, he judged, that a desperate and determined man to, by shifting his weight vigorously and repeatedly, overtopple the gurney. Then, by various stratagems, he could draw the knife to himself and so cut through one of his restraints. After which, the rest would be a breeze.
A harrowing, difficult, and suspenseful half hour later, it was done.”
Ma alla lunga questo modo di narrare stanca, si ha voglia di più immagini e meno riassuntini.
Non me la sento invece di indicare come difetto oggettivo l’uso del narratore onnisciente. Non c’è dubbio che Swanwick utilizzi l’onnisciente. A partire dal primo capitolo, dove il narratore parte descrivendo i piani machiavellici nella mente del Duca di Moscovia per riunire la Madre Russia, per poi restringere progressivamente il campo visivo sulla carovana bizantina fino a fermarsi sui nostri eroi (e qui, il pov onnisciente arriva a coincidere con quello di Darger). Altre volte, il narratore commenta le gesta dei suoi personaggi. L’effetto è sicuramente distanziante, anti-immersivo, e ci ricorda che stiamo leggendo una storia inventata – ma Dancing with Bears è prima di tutto una commedia, una storia comica, un romanzo che non si prende sul serio. Calcare sul grottesco, sul finto, è uno scopo dichiarato.
Inoltre, l’uso dell’onnisciente rende più facili – e meno traumatico per il lettore – i continui passaggi da un personaggio all’altro. Poiché non siamo mai davvero nella testa del personaggio (ma nei suoi pressi), non ci identifichiamo, e quindi seguiamo con maggiore facilità tante sottotrame contemporaneamente. E quindi, vada pure il narratore onnisciente!

Contemporaneamente, emerge in Swanwick un grande amore per la Russia. In alcuni passaggi – come quando si mette a parlare di linguistica, o una in modo corretto i diminutivi o i vezzeggiativi – sembra che per scrivere il romanzo si sia davvero messo a imparare il russo! E poi il fatalismo rassegnato, il misticismo confuso della classe media e dell’aristocrazia, le figure degli strannik invasati e le loro dissertazioni sull’ineffabilità dell’Uno e Trino. Così come il romanzo è pieno delle invenzioni fantastiche a cui Swanwick di ha abituato, dalla poesia in bottiglia (sicché ci si può sbronzare di sonetti di Puskin) ai nanetti bioingegnerizzati per essere delle specie di Wikipedia ambulanti. E poi – c’è Lenin! LENIN!
Dancing with Bears, insomma, è divertente. Non perde mai di ritmo, e l’ultimo centinaio di pagine (un terzo del romanzo) è un’escalation che si legge tutto d’un fiato. Può non piacere l’idea di un divertissement lungo 300 pagine, ma si tratta di un giudizio soggettivo. E soprattutto, è cinico: non ci sono buoni e non ci sono cattivi, ognuno segue il proprio interesse particolare, e due o tre diversi piani per il dominio della Russia (e del mondo) si contendono la vittoria. Insomma, Darger e Surplus sono i personaggi più positivi di tutto il romanzo! L’impressione globale è Pirati dei Caraibi incontra Jack Vance e tutti e due 1997: Fuga da New York, con una punta di Tre Uomini in Barca – se riuscite a immaginare una cosa del genere.

Mummia di Lenin

IT LIVES!!

Quello che invece è un difetto oggettivo, soprattutto in un romanzo di trama come questo, è l’uso sistematico che Swanwick fa di deus ex machina ed escamotage da quattro soldi. Alcuni personaggi sembrano semplicemente troppo “livellati”: escono senza difficoltà da qualunque situazione, e anche episodi a lungo preparati e percepiti dal lettore come estremamente pericolosi e tensivi (come la cattura da parte di Chortenko) si risolvono in un anti-climax. Zoesophia, in particolare, è troppo brava: riesce a fare qualsiasi cosa. Il che va bene finché si tratta di un comprimario visto dall’esterno, ma non è più accettabile quando diventa un personaggio-pov: semplicemente, non c’è più tensione, perché sappiamo già che qualsiasi cosa vorrà fare riuscirà a farla.
La risoluzione finale del romanzo è letteralmente un deus ex machina.2 E anche l’epilogo, benché perfettamente in linea con quello delle storie di Darger e Surplus, è un po’ deludente.3

Tabella riassuntiva

Una Mosca neo-Ottocentesca con bizzarie bioingegnerizzate. Troppi pov, alcuni quasi usa-e-getta.
Una galassia di sottotrame dal ritmo rapido. Troppi raccontati e scene riassunte.
Darger e Surplus parlano in un modo delizioso! Deus-ex-machina e personaggi a cui riesce tutto facile.
Pirati dei Caraibi incontra Jack Vance e Fuga da New York!

Il futuro di Swanwick
Nel 2011, poco dopo la pubblicazione di Dancing with Bears, Swanwick veniva intervistato da Amazon. L’intervista è stata riportata su Shelfari da Jeff VanderMeer (sì, l’autore di City of Saints and Madmen che piace tanto a Gamberetta e non dispiace neanche a me), e potete leggerla qui. Riporto la parte finale dell’intervista:

Amazon.com: Please tell readers we will soon see Darger and Surplus again?
Michael Swanwick: Absolutely. I’m working on stories about them at this very moment. Also, I realized some time ago that Darger and Surplus are on an accidental trip around the world. There are secrets about Surplus’s youth in the Demesne of Western Vermont that need to be explored. And they both must ultimately return to London to confront the consequences of their first adventures. Alas, the next novel, which I already have in broad outline in my mind, can’t begin until I’ve returned to China for some necessary research. Next spring, I hope.

Dall’intervista sono passati due anni, e ad oggi Dancing with Bears rimane l’ultimo romanzo pubblicato da Swanwick. Ma si sa che Swanwick ha ritmi lenti: dalla pubblicazione di Bones of the Earth a quella di The Dragons of Babel, per esempio, ne erano passati sette. E l’attesa potrebbe stare per finire.
Spulciando qua e là il suo blog Flogging Babel, ho recuperato un po’ di informazioni. Stando a questo articolo di marzo, il nuovo romanzo di Darger e Surplus potrebbe essere finito in pochi mesi, e ha il titolo provvisorio di Chasing the Phoenix. Swanwick non ha cambiato idea, ed effettivamente sarà ambientato in Cina, come racconta in questo articolo di gennaio sulla città di Guilin.
E non è tutto – proprio questo maggio Swanwick, nell’antologia Rogues curata da Gardner Dozois e George R.R. Martin, ha pubblicato un nuovo racconto sulla strana coppia. Si chiama “Tawny Petticoat” ed è ambientato a New Orleans, per cui sospetto sia cronologicamente posteriore al romanzo cinese non ancora uscito. Non l’ho letto ma vedrò di procurarmelo.

Meanwhile in China...

Insomma, sembra che i prossimi anni lo vedranno ancora al lavoro su questi personaggi e questa ambientazione. Chissà – magari proprio alla fine dell’anno, o l’anno prossimo, mi ritroverò a scrivere un Consiglio sul prossimo capitolo della saga. Certo è curioso che lo stesso uomo che a trenta e quarant’anni scriveva con piglio intellettualoide opere drammatiche e complicate come Vacuum Flowers o Stations of the Tide, nel suo inizio di vecchiaia si sia spostato verso la tragicommedia ‘leggera’. Alcuni storceranno il naso, ma a me la cosa non dispiace. Il ritmo, di sicuro, ci ha guadagnato.
Voglio leggere altre avventure di Darger e Surplus.

Dove si trovano?
The Dog Said Bow-Wow e Dancing with Bears si trovano in lingua originale sia su Bookfinder (qui e qui), sia su Library Genesis (qui e qui), nei formati ePub e pdf. Che io sappia, alas, nessuno dei due libri è mai stato tradotto in italiano.

Qualche estratto
Per gli estratti di oggi ho scelto due incipit. Il primo è quello di The Dog Said Bow-Wow, in cui Darger e Surplus si incontrano per la prima volta e capiscono che è loro destino diventare partner nel crimine; il secondo è quello di Dancing with Bears, in cui, come avevo accennato, la telecamera si sposta dalla mente quasi onnisciente del Duca di Moscovia ai nostri piccoli eroi…
Il tono di questi incipit setta il mood di tutta la serie di Darger e Surplus!

1.
THE DOG LOOKED like he had just stepped out of a children’s book. There must have been a hundred physical adaptations required to allow him to walk upright. The pelvis, of course, had been entirely reshaped. The feet alone would have needed dozens of changes. He had knees, and knees were tricky.
To say nothing of the neurological enhancements.
But what Darger found himself most fascinated by was the creature’s costume. His suit fit him perfectly, with a slit in the back for the tail, and — again — a hundred invisible adaptations that caused it to hang on his body in a way that looked perfectly natural.
“You must have an extraordinary tailor,” Darger said.
The dog shifted his cane from one paw to the other, so they could shake, and in the least affected manner imaginable replied, “That is a common observation, sir.”
“You’re from the States?” It was a safe assumption, given where they stood — on the docks — and that the schooner Yankee Dreamer had sailed up the Thames with the morning tide. Darger had seen its bubble sails over the rooftops, like so many rainbows. “Have you found lodgings yet?”
“Indeed I am, and no I have not. If you could recommend a tavern of the cleaner sort?”
“No need for that. I would be only too happy to put you up for a few days in my own rooms.” And, lowering his voice, Darger said, “I have a business proposition to put to you.”
“Then lead on, sir, and I shall follow you with a right good will.”
The dog’s name was Sir Blackthorpe Ravenscairn de Plus Precieux, but “Call me Sir Plus,” he said with a self-denigrating smile, and “Surplus” he was ever after.
Surplus was, as Darger had at first glance suspected and by conversation confirmed, a bit of a rogue — something more than mischievous and less than a cut-throat. A dog, in fine, after Darger’s own heart.
Over drinks in a public house, Darger displayed his box and explained his intentions for it. Surplus warily touched the intricately carved teak housing, and then drew away from it. “You outline an intriguing scheme, Master Darger —”
“Please. Call me Aubrey.”
“Aubrey, then. Yet here we have a delicate point. How shall we divide up the… ah,
spoils of this enterprise? I hesitate to mention this, but many a promising partnership has foundered on precisely such shoals.”
Darger unscrewed the salt cellar and poured its contents onto the table. With his dagger, he drew a fine line down the middle of the heap. “I divide — you choose. Or the other way around, if you please. From self-interest, you’ll not find a grain’s difference between the two.”
“Excellent!” cried Surplus and, dropping a pinch of salt in his beer, drank to the bargain.

2.
Deep in the heart of the Kremlin, the Duke of Muscovy dreamt of empire. Advisors and spies from every quarter of the shattered remnants of Old Russia came to whisper in his ear. Most he listened to impassively. But sometimes he would nod and mumble a few soft words. Then messengers would be sent flying to provision his navy, redeploy his armies, comfort his allies, humor those who thought they could deceive and mislead him. Other times he sent for the head of his secret police and with a few oblique but impossible to misunderstand sentences, launched a saboteur at an enemy’s industries or an assassin at an insufficiently stalwart friend.
The great man’s mind never rested. In the liberal state of Greater St. Petersburg, he considered student radicals who dabbled in forbidden electronic wizardry, and in the Siberian polity of Yekaterinburg, he brooded over the forges where mighty cannons were being cast and fools blinded by greed strove to recover lost industrial processes. In Kiev and Novo Ruthenia and the principality of Suzdal, which were vassal states in all but name, he looked for ambitious men to encourage and suborn. In the low dives of Moscow itself, he tracked the shifting movements of monks, gangsters, dissidents, and prostitutes, and pondered the fluctuations in the prices of hashish and opium. Patient as a spider, he spun his webs. Passionless as a gargoyle, he did what needed to be done. His thoughts ranged from the merchant ports of the Baltic Sea to the pirate shipyards of the Pacific coast, from the shaman-haunted fringes of the Arctic to the radioactive wastes of the Mongolian Desert. Always he watched.
But nobody’s thoughts can be everywhere. And so the mighty duke missed the single greatest threat to his ambitions as it slipped quietly across the border into his someday empire from the desolate territory which had once been known as Kazakhstan…
The wagon train moved slowly across the bleak and empty land, three brightly painted and heavily laden caravans pulled by teams of six Neanderthals apiece. The beast-men plodded stoically onward, glancing neither right nor left. They were brutish creatures whose shaggy fleece coats and heavy boots only made them look all the more like animals. Bringing up the rear was a proud giant of a man on a great white stallion. In the lead were two lesser figures on nondescript horses. The first was himself nondescript to the point of being instantly forgettable. The second, though possessed of the stance and posture of a man, had the fur, head, ears, tail, and other features of a dog.
“Russia at last!” Darger exclaimed. “To be perfectly honest, there were times I thought we would never make it.”
“It has been an eventful journey,” Surplus agreed, “and a tragic one as well, for most of our companions. Yet I feel certain that now we are so close to our destination, adventure will recede into memory and our lives will resume their customary placid contours once more.”
“I am not the optimist you are, my friend. We started out with forty wagons and a company of hundreds that included scholars, jugglers, gene manipulators, musicians, storytellers, and three of the best chefs in Byzantium. And now look at us,” Darger said darkly. “This has been an ill-starred expedition, and it can only get worse.”

Cane parlante ottocentesco


(1) Un anti-eroe sicuramente più vicino allo spirito di Darger e Surplus è il Cugel di Jack Vance, di cui ho parlato nelle Tales of the Dying Earth. Lo spirito è lo stesso. Cugel però viaggia da solo.Torna su


(2) Ovviamente (per chi abbia letto il romanzo) mi riferisco al risveglio del Duca di Moscovia. E’ davvero un deus ex machina: il Duca domanda un miracolo, e all’improvviso si sveglia. Questo è l’atto che distrugge i piani degli underlords di Moscovia, perché poi il gigante ucciderà il falso Lenin, disperderà la folla e stopperà la rivoluzione.Torna su


(3) Mi sarei aspettato un finale del romanzo ambientato a Baikonur, qualche sprazzo di epica lotta all’ultimo sangue tra gli uomini e le macchine. O quantomeno, Darger e Surplus costretti a infiltrarsi nella città delle macchine. Cazzo, quell’ambientazione è così suggestiva!
E invece, non è minimamente sfruttata. La sua distruzione è appena accennata e rimane tagliata fuori dalla pagina scritta.Torna su

La lezione di Swanwick

Io“Scrivi di ciò che sai”: questo vecchio adagio vale anche per la narrativa fantastica. Joe Haldeman ha potuto scrivere The Forever War, uno dei classici della fantascienza militare, perché era un veterano della guerra nel Vietnam. Asimov ha potuto scrivere The Gods Themselves – che nasce dalla domanda: “sotto che condizioni potrebbe esistere l’isotopo plutonio-186”? – perché era un chimico. I romanzi marinareschi di Conrad – La follia di Almayer, Cuore di tenebra, La linea d’ombra – nascono dai viaggi che realmente fece, come marinaio, nelle terre semi-selvagge del Sud-Est Asiatico e del Congo belga.
E ciò che non sai? Ti documenti per saperlo. Alcuni scrittori hanno avuto una vita noiosissima, ma questo non li ha fermati. Né Gibson né Sterling sono vissuti nell’Ottocento, eppure hanno scritto The Difference Engine. Guardate però alla mole di lavoro che c’è dietro: gli studi sulla Londra vittoriana dell’Ottocento reale, sulla situazione politica mondiale dell’epoca, su Babbage e sull’informatica ottocentesca. Questo romanzo è diventato il punto di riferimento dello steampunk in letteratura in larga parte per tutto il lavoro di ricerca che c’è a monte (anche perché dal punto di vista della trama è noiosotto). E lo stesso Haldeman, a prescindere dal fatto di aver assaggiato la guerra sulla propria pelle, non avrebbe potuto scrivere con cognizione di causa di tute potenziate e battaglie nello spazio senza una preparazione in fisica.

E la fantascienza? Bisogna essere dei post-graduate di qualche scienza naturale per poterne scrivere? In effetti, gli autori ‘seri’ degli anni ’40 e ’50 erano per la maggior parte chimici, fisici, ingegneri. C’erano anche gli umanisti, come Philip K. Dick; ma nel loro caso l’elemento ‘scientifico’ era talmente tenue e implausibile da far girare i coglioni a più di un purista. Buona parte dei lavori di Dick si potrebbero tranquillamente definire ‘Fantasy con le pistole a raggi’. Poi negli anni ’60 e ’70 sono arrivati quelli della New Wave: Ballard, la Le Guin, Moorcock, Spinrad. Ma la loro fantascienza era quasi invariabilmente molto soft.
Ora, però, facciamo un salto nel tempo e arriviamo agli anni ’80. Chi si affaccia sulla scena fantascientifica? Michael Swanwick, William Gibson, Bruce Sterling, Kim Stanley Robinson: tutti personaggi di estrazione umanistica. Trattano con nonchalance nozioni scientifiche, talvolta arrivano a rasentare l’Hard SF, e scrivono pure meglio. Sterling immagina intere civiltà che vivono in colonie artificiali in orbita attorno alla Terra, a Marte, alle lune di Giove, o annidate negli asteroidi; Swanwick astronavi alimentate da querce bioingegnerizzate e alberi di Dyson che crescono sulle comete; Gibson ci parla di IA che colonizzano il cyberspazio e Stanley Robinson dedica tre libri alla terraformazione di Marte. Com’è possibile?

Minecraft terraforming

Un esempio di terraformazione.

Flogging Babel
Da un mesetto a questa parte ho cominciato a seguire Flogging Babel, il blog di Michael Swanwick. Mi ci sono imbattuto per caso: neanche mi era venuto in mente che potesse averne uno. Ma dato che Swanwick è uno dei miei scrittori preferiti e lo ritengo un uomo intelligente, ho passato le ultime settimane a spulciarmi qua e là i suoi post in cerca di roba interessante. E l’ho trovata. Nel 1997, Swanwick pubblica un racconto intitolato “The Very Pulse of the Machine”, che l’anno dopo vince il premio Hugo. Lo scenario è quello di Io, la più interna delle lune di Giove, nonché il corpo celeste più vulcanicamente attivo del Sistema Solare. Nel corso del racconto, Io è descritta nel dettaglio: dalle sue spianate di zolfo allo stato solido ai moti convettivi che coinvolgono il suo oceano sotterraneo, dai fiori di cristalli di zolfo che sbocciano sulla superficie al flusso di ioni che corre tra i poli di Io e quelli di Giove. Una mattina di Settembre del 2012, un utente fa a Swanwick questa domanda:

Where you got all the information and research for your short story “Pulse of the Machine” that dealt with the magnificent descriptions of Io. I would like to write a story about Io, but I can’t find any of the background information you found for this story. Any help would be appreciated.

La risposta a questa domanda è diventato il breve articolo Researching Io. Non starò a riportare tutto il post; leggetevelo. Prendiamo soltanto un paio di brani, all’inizio e alla fine:

As it chances, I was inspired to write “The Very Pulse of the Machine” by a remark by (I think) Geoff Landis, who told a mutual friend that he was baffled by the fact that NASA had spent billions of dollars exploring the Solar System and then put all the information they found up on the Web available for free — and yet almost no SF writers were taking advantage of it.
So I chose Io because it seemed an interesting place to me and went to the NASA website to see what they had to say.
[…]
I realize this rather sidesteps your question — how to find these sources. But I’ve had no formal training on running searches (when I was a student, my college had exactly one computer, an IBM mainframe), nor was I particularly ingenious in my research. I just kept poking around, looking and finding until I had what I needed.
Go thou and do likewise.

E tenete conto che all’epoca non esisteva Wikipedia. Oggi, muovere i primi passi in un territorio che non si conosce – perché è a questo che può servire Wikipedia – è ancora più semplice di così.
Ma quanto ci vuole a condurre un lavoro del genere? Quanti giorni di lavoro può portar via una ricerca fatta bene? Sappiamo che Flaubert impiegò sei anni a scrivere Salammbò, il suo romanzo storico ambientato nell’antica Cartagine ai tempi della rivolta dei mercenari. Ma Flaubert non aveva bisogno di guadagnarsi da vivere coi suoi romanzi, quindi poteva permetterselo. E uno scrittore che ci deve campare, invece? Swanwick ci dice anche questo. In questo articolo (che vi consiglio di leggere) cita a titolo esemplificativo il suo racconto The Mask, ispirato alla storia di Venezia e alla figura dei dogi. Il racconto è lungo 1700 parole – circa sei pagine.

From Stan’s story to publication in the April, 1994 issue of Asimov took a mere thirteen years. I’ll leave it as an exercise for the student to work out how much I was earning by the hour.

Ancora sicuri di voler fare gli scrittori?

Vulcanismo di Io

Un esempio dell’attività vulcanica di Io. Le immagini sono state prese dalla sonda Galileo rispettivamente nel 1999 e nel 2000.

The Very Pulse of the Machine
Martha è sola sulla superficie di Io. E’ a quarantacinque miglia dalla navicella di atterraggio, e ha solo quaranta ore prima di finire l’ossigeno. Non può fermarsi, neanche per dormire. Dietro di sé, su una slitta messa insieme alla bell’e meglio, trascina il cadavere di Juliet Burton, la sua compagna di avventure. Andava tutto bene finché non si sono schiantate col moonrover contro un sasso, e un buco grande come un pugno si è aperto nella faccia di Burton. Ora Martha può contare solo su sé stessa. Finché alla radio comincia a sentire la voce di Burton che cita poesie del Settecento e dichiara di essere Io.
OK, documentarsi è importante, abbiamo afferrato il concetto; alla fine, però, ciò che conta è che la storia sia figa, no? E questo The Very Pulse of the Machine, stringi stringi, com’è? Cercherò di essere analitico: è bello in maniera esagerata. Il senso di solitudine di Martha, le routine della sua lunga marcia verso la navetta, l’assenza di vita della superficie di Io, sono rese alla perfezione dal ritmo lento e calmo (ma non noioso) della narrazione. Le descrizioni della ‘natura’ di Io si alternano con i tentativi di Martha di psicanalizzarsi (la ragazza si odia abbastanza…) e coi dialoghi folli con la voce che viene dalla radio.

La cosa più interessante – anche ai fini di questo articolo – è che Io non fa semplicemente da sfondo alla vicenda, non è un pianetino buono come un altro. La geologia e la magnetosfera di Io diventano un vero e proprio personaggio. L’idea del pianeta autocosciente non è affatto nuova nella fantascienza – ad esempio, la troviamo nel romanzo Nemesis di Asimov – nuovo è invece come questa idea è veicolata e spiegata scientificamente. E allora si capisce che tutti i dettagli fisici che Swanwick ci centellina su Io non sono un semplice show-off (“avete visto quanto ho studiato?”), e neanche descrizioni-per-il-gusto-delle-descrizioni alla Tolkien.
Senza tutta quella ricerca, semplicemente The Very Pulse of the Machine non avrebbe potuto essere scritto. Ed è un peccato, perché ad oggi è il miglior racconto di Swanwick che abbia mai letto.
Potete leggere il racconto qui. Ci vorrà mezz’ora, quaranta minuti al massimo: credetemi, ne vale la pena. E non abbiate timore: pur con tutta questa scienza “dura”, The Very Pulse of the Machine rimane essenzialmente un racconto psicologico.

Magnetosfera di Giove

La magnetosfera di Giove e la sua interazione con Io (in giallo). Nel racconto di Swanwick si parla anche di questo!

Tornerò a parlare di Swanwick nel prossimo, e più corposo, articolo.