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Il prezzo della magia

Spongebob magicIo ho un problema col fantasy. Il mio problema è la magia.
Messa nelle mani di uno scrittore inesperto, la magia è come una pistola carica data a un bambino: poco poco finisce che si spara nei piedi. Benché sia l’elemento caratterizzante del genere, ciò che lo distingue dai generi limitrofi del fantastico, ha una natura così indefinita che diventa molto difficile da manipolare per lo scrittore. La magia può essere qualsiasi cosa si voglia. Per questo, una delle prime cose che è necessario fare quando si inventa il proprio mondo fantasy (o anche quando solo si crea una storia fantasy nel nostro mondo) è definire quali saranno le regole del nostro sistema magico.
Se non ci chiariamo bene questo punto, se non facciamo emergere nel corso della storia le limitazioni della magia, e se non manteniamo una coerenza interna nell’uso della magia, tutto il nostro bel mondo sembrerà una costruzione arbitraria e finta. Cadremo nel “perché sì, perché è fantasy!”. Persa la sospensione dell’incredulità, il lettore si rende conto che sta solo leggendo un libro, non vivendo una storia; l’immersione viene meno a si rimette il libro nello scaffale (o si chiude il reader).

Che la magia sia più spesso una seccatura piuttosto che un interessante power-up da aggiungere alla nostra ambientazione, si capisce dal fatto che molti decani della narrativa fantasy abbiano cercato di arginarla in tutti i modi, limitandone la presenza nel mondo e il numero di persone in grado di usarla. Nel Signore degli Anelli troviamo una serie (ridotta) di artefatti e creature magiche, ma la quasi totalità dei personaggi non è in grado di usare la magia e non la usa; e chi è in grado di usarla è ove possibile allontanato dal party in modo tale da non sbilanciare gli incontri. Nella saga di Martin, il sovrannaturale è un elemento di cornice che viene rigorosamente tenuto il più lontano possibile dalla storia principale, e sembra quasi messo solo perché il reparto marketing possa pubblicizzarlo come Fantasy invece che come Beautiful fanta-storico di ambientazione medievale.
Altri autori hanno scelto una strada diametralmente opposta. Swanwick, nei suoi due romanzi più dichiaratamente fantasy (The Iron Dragon’s Daughter e The Dragons of Babel), ha creato un mondo volutamente impossibile. Qui la magia permea ogni cosa, ogni abitante, viola esplicitamente ogni logica. Ma Swanwick ambienta le sue storie a Faerie, il mondo sovrannaturale del folklore; e le regole della sua magia sono tutte meta-narrative: si ispirano più o meno fedelmente a leggende e miti delle tradizioni di questo o quel popolo terrestre. Benché l’effetto sia molto colorato e affascinante, e questi romanzi trasudino sense of wonder a palate, non è una scelta che mi piaccia troppo: è tutto molto meta-, tutto ha senso solo se si concepisce il mondo dei romanzi come uno specchio rovesciato del nostro. Si riesce a godere appieno i due romanzi a patto di concentrarsi sul percorso di crescita del protagonista e non tanto su come funzioni il mondo che lo circonda. Di fatto, la Faerie di Swanwick è tutta un grande (e consapevole) “perché sì, perché è fantasy!”.

Ratzinger magic

Quando bisogna decidere cosa sarà la “magia” nel nostro libro, si presentano due domande, una interna al mondo della narrazione, l’altra esterna. La prima è: “Che cos’è la magia nel mio mondo?”. E’ un potere interiore, una forza fisica, un patto con gli déi o degli spiriti sovrannaturali? Si acquisisce con lo studio, la meditazione, la preghiera, la masturbazione? La seconda è: “Qual’è il prezzo per lanciare una magia?” O in altre parole: quali sono le limitazioni all’uso della magia nella mia storia?
Che la magia richieda un costo è d’obbligo: se non ci fosse un prezzo da pagare, cosa impedirebbe a chiunque nell’ambientazione di utilizzarla di continuo? Se lanciare un incantesimo fosse facile come starnutire, come fanno gli abitanti del tuo mondo a coesistere in società più o meno ordinate, invece di essere ciascuno un dio immortale all’interno del proprio sistema solare personale? Alcuni scrittori hanno risolto facendo della magia una prerogativa di alcuni individui, persone speciali che hanno un “dono”. Ma in realtà, il problema è solo spostato: perché anche queste persone, non vivono lanciando magie continuamente. Per dirla con Orson Scott Card:

First, you don’t want your readers to think that anything can happen. Second, the more carefully you work out the rules, the more you know about the limitations on magic, the more possibilities you open up in the story.

Si può partire da qualsiasi delle due domande, per decidere come funzioni il proprio sistema magico – ma trovo più interessante e utile partire dalla seconda. E’ partendo da quale sia il prezzo della magia, che si definisce chi potrà essere un mago e chi no, cosa sia possibile fare con la magia e cosa no, che ruolo ricopriranno i maghi all’interno della società, e quale livello di sviluppo tecnologico (o dovrei dire tecnomagico?) la suddetta società potrà avere.

Se la magia è accessibile a pochi, ma per questi pochi lanciare il singolo incantesimo è poco costoso, cosa impedisce questi pochi fortunati di essere i governanti, la cima della piramide sociale del nostro mondo? Se viceversa la magia è accessibile a tutti, ma il singolo incantesimo ha un costo elevato (ad esempio: ogni volta che lanciamo un incantesimo perdiamo un anno di vita), i maghi non governeranno la società ma saranno probabilmente dei subordinati. Una volta deciso quale sarà il costo, insomma, si può a ritroso definire tutte le regole del nostro sistema, e infine stabilire che cosa sia più in generale la magia nel nostro mondo, quale ne sia l’origine. Insomma, partire da ciò che serve effettivamente alla trama che vogliamo sviluppare per arrivare a definire, alla fine, i massimi sistemi della nostra ambientazione.

Oppure fai come la Rowling e scrivi la prima cosa che ti viene in mente. A lei è andata bene no?

Più facile a dirsi che a farsi. Ma proprio perché è difficile chiarirsi le idee sulla magia, ho sempre cercato romanzi fantasy che mi offrissero un approccio nuovo all’argomento. Il mese scorso abbiamo visto ad esempio la bilogia Dark Fantasy di James Blish, composta da Black Easter e The Day After Judgement. Come per la Faerie di Swanwick, anche in questi due romanzi il sistema magico non è inventata di sana pianta ma è ripresa dal nostro folklore – nel caso di Blish, dalla demonologia dei grimori medievali e rinascimentali.  E come le fiabe, anche i grimori non sembrano essere mai stati troppo precisi nel definire le regole della magia.  Diversa però è l’ottica dei due autori. Blish infatti, benché sia sempre stato affascinato dalla religione cristiana, dalla teodicea e dalla magia nera, non ha mai abbandonato il suo approccio razionalista alle cose.
In Black Easter, c’è un passaggio in cui il mago nero Theron Ware cerca di spiegare la sua arte all’ingegnere Rudolf Hess, uno degli uomini del magnate Baines. Nell’ambientazione di Blish, chiunque può imparare a usare la magia – benché poi ci siano individui più talentuosi e altri meno, come in tutte le arti. Se non tutti lo sono, però, è perché imparare a usare la magia è un’attività molto dispendiosa, in termini di tempo ed energie. Bisogna forgiare da sé tutti gli oggetti che si impiegheranno nei rituali. Bisogna sottoporsi a pratiche di purificazioni complicate ed estenuanti, come digiunare o meditare perfettamente immobili per giorni.

Il potere magico, inoltre, non è in possesso degli uomini, ma deriva direttamente dai demoni: fare una magia significa indurre un demone a fare qualcosa per noi. L’attività principale del mago nero è dunque quella di convocare il debole e piegarne la volontà, per farsi offrire una prestazione. E’ un’attività che logora il fisico e la psiche, perché il demone non aspetta altro che commettiate un passo falso per divorarvi l’anima. Un’unica evocazione – che servirà a chiamare un solo demone per un unico compito – richiede giorni di preparazione, uno sforzo terribile durante il rituale, e altri giorni per purificarsi a rito finito.
Non sorprende che ci siano così pochi maghi in circolazione, allora, in un’epoca in cui la maggior parte delle azioni che si possono compiere con la magia possono essere più facilmente eseguite senza (un omicidio? Si può usare un sicario. Soldi a palate? Qualche speculazione azzeccata in Borsa). Né sorprende che anche un mago eviti volentieri la magia quando può. In questo caso, la magia è a portata di tutti ma il costo per ogni singolo incantesimo è elevato. Per dirla con Theron Ware:

One thing you must understand is that magic is hard work. I don’t use it out of laziness, I am not a lazy man, but by the same token I do take the easier ways of getting what I want if easier ways are available.

Demon's Souls

I demoni sono crudeli. Chi ha giocato a Demon’s Souls lo sa.

Riflettere sul costo della magia è interessante anche perché può diventare il fulcro di tutta una serie di problemi morali. In Final Fantasy VII, la magia è ricavata estraendo e raffinando l’energia vitale stessa del pianeta. Questo significa che ogni volta che si crea e si usa magia, si sta a poco a poco distruggendo il mondo in cui viviamo. Un simile problema etico, se ben gestito, può diventare il cuore stesso della storia.
L’argomento è ben illustrato da Orson Scott Card nel suo manuale How To Write Science Fiction & Fantasy (di cui vi avevo già parlato in un vecchio articolo). Al tema della magia Scott Card dedica due misere paginette, ben lontane dall’esaurire l’argomento; tuttavia, le idee che menziona sono abbastanza suggestive da meritare di essere riportate:

The price of magic might be the loss of parts from the human body. It’s simple, it’s painful, and it’s grotesque to imagine—sounds like a great idea to me. And there are as many variations here as there were with time travel. Here are several different ways you might turn this idea into a useful magic system:

1. When the magic user casts a spell, he loses bits off his own body, always starting with the extremities. He’s never sure quite how much he’s going to lose. Inevitably, however, missing fingers or hands or feet or limbs begin to be taken in society as a sign of great power—so that young people who wish to seem formidable pay to have fingers and, sometimes, limbs removed, with scars artfully arranged to look like those that magicians have. It’s hard to tell who really has power and who only seems to. (Your story might be about somebody who refuses to mutilate himself; he’s universally regarded as a powerless coward. Which, in fact, he is—until there comes a time when a spell is needed to save his city, a spell so powerful that only a person with his entire body intact can cast it—and the spell will use up all his limbs at once. Does he do it? If so, why?)

2. The magic user must actually cut off a part of his own body, or have it cut off, casting the spell while the bone is being incised. The longer he endures the pain and the larger the section of his body being removed, the more power he obtains. A whole profession of Removers would spring up, people skilled at the excruciatingly slow removal of limbs, using drugs that, while they don’t dull the pain, do allow the magician to remain lucid enough to perform the spell. (Here’s a chance for an interesting twist on a science fiction staple: a future society devoted to “harmless” recreational drugs. Why not have a Remover who goes into the underground apothecary trade, selling the drugs to people who just want the heightened mental effects? What will the magicians do to him then?)

Harry Potter junkie

3. The magic user does not have to cut off his own body part; he can cut off somebody else’s. Thus magicians keep herds of human beings—social rejects, mental defectives, and so on—to harvest their limbs for power. In most places this practice would be illegal, of course, so that their victims would be concealed or masquerade as something else. (A good horror story using this magic system might be set in our contemporary world, as we discover people living among us who are secretly harvesting other people’s limbs.)

4. The magic user can only obtain power when someone else voluntarily removes a body part. Thus magic is only rarely used, perhaps only at times of great need. If a private person wishes to hire a spell done, he must provide not only payment to the wizard, but also a part of his body. And at a time of great public need, the hero is not the wizard, but the volunteer who gives up part of his body so the
spell can be cast to save the town. (How about a psychological study of a pair of lovers, one a magician, the other a voluntary donor, as we come to understand why the one is willing to give up his or her body parts for the other’s use?)

5. When the magician casts a spell, someone loses part of his body, but he can’t predict who. It has to be someone known to him, however, someone connected to him in some way. And, while wizards all know this dark secret of their craft, they have never told anyone, so that nobody realizes that what causes limbs to wither up and fall off is really not a disease, but rather the wizard up the street or off there in the woods or up in the castle tower. (And here’s the obvious variation: What if some common but nasty disease in our world is really the work of secret magicians? That’s why certain diseases go in waves: twenty years ago it was bleeding ulcers; now it’s colon cancer. And the hero of our story is a wizard who is trying to stop the suffering he and others like him are causing.)

6. When a wizard casts a spell, body parts wither and fall off the person he loves the most. The love can’t be faked; if he loves himself most, it is himself who loses body parts. The greater the love, the greater the power—but also the greater the suffering of the wizard when he sees what has happened to the person he loves. This makes the most loving and compassionate people the ones with the most potential power and yet they’re the ones least likely to use it. (Here’s a monstrous story idea: The child of loving parents who wakes up one morning without a limb and, seeing her devoted father getting paid, begins to suspect the connection between her maiming and his wealth.)

You get the idea. There are at least this many permutations possible with every other source of magic I’ve ever heard of. And the stories you tell, the world you create, will in many ways be dependent on the decisions you make about the rules of magic.

La magia è un’arma a doppio taglio. E’ un concetto così nebuloso che se non lo trattiamo con la cura dovuta (ma solo come power-up per i nostri personaggi maghi) rischia di non avere senso e vanificare la credibilità del nostro mondo; ma al tempo stesso sono possibili talmente tante combinazioni, che può diventare un’infinita fonte di idee e conflitti e ambiguità morali per le nostre storie.
E’ mia intenzione presentarvi, nelle prossime settimane e mesi, altri autori e storie che hanno fatto un uso creativo e intelligente della magia – proprio come ho fatto con le due novellas di James Blish. Storie in cui la magia non è un elemento di contorno ma il cuore stesso del worldbuilding e dei conflitti che vi si svolgono. Ne vedremo un piccolo esempio – se tutto va bene – lunedì prossimo. Intanto, se avete degli spunti creativi che volete condividere, sono tutti bene accetti.

Magic trick

La lezione di Swanwick

Io“Scrivi di ciò che sai”: questo vecchio adagio vale anche per la narrativa fantastica. Joe Haldeman ha potuto scrivere The Forever War, uno dei classici della fantascienza militare, perché era un veterano della guerra nel Vietnam. Asimov ha potuto scrivere The Gods Themselves – che nasce dalla domanda: “sotto che condizioni potrebbe esistere l’isotopo plutonio-186”? – perché era un chimico. I romanzi marinareschi di Conrad – La follia di Almayer, Cuore di tenebra, La linea d’ombra – nascono dai viaggi che realmente fece, come marinaio, nelle terre semi-selvagge del Sud-Est Asiatico e del Congo belga.
E ciò che non sai? Ti documenti per saperlo. Alcuni scrittori hanno avuto una vita noiosissima, ma questo non li ha fermati. Né Gibson né Sterling sono vissuti nell’Ottocento, eppure hanno scritto The Difference Engine. Guardate però alla mole di lavoro che c’è dietro: gli studi sulla Londra vittoriana dell’Ottocento reale, sulla situazione politica mondiale dell’epoca, su Babbage e sull’informatica ottocentesca. Questo romanzo è diventato il punto di riferimento dello steampunk in letteratura in larga parte per tutto il lavoro di ricerca che c’è a monte (anche perché dal punto di vista della trama è noiosotto). E lo stesso Haldeman, a prescindere dal fatto di aver assaggiato la guerra sulla propria pelle, non avrebbe potuto scrivere con cognizione di causa di tute potenziate e battaglie nello spazio senza una preparazione in fisica.

E la fantascienza? Bisogna essere dei post-graduate di qualche scienza naturale per poterne scrivere? In effetti, gli autori ‘seri’ degli anni ’40 e ’50 erano per la maggior parte chimici, fisici, ingegneri. C’erano anche gli umanisti, come Philip K. Dick; ma nel loro caso l’elemento ‘scientifico’ era talmente tenue e implausibile da far girare i coglioni a più di un purista. Buona parte dei lavori di Dick si potrebbero tranquillamente definire ‘Fantasy con le pistole a raggi’. Poi negli anni ’60 e ’70 sono arrivati quelli della New Wave: Ballard, la Le Guin, Moorcock, Spinrad. Ma la loro fantascienza era quasi invariabilmente molto soft.
Ora, però, facciamo un salto nel tempo e arriviamo agli anni ’80. Chi si affaccia sulla scena fantascientifica? Michael Swanwick, William Gibson, Bruce Sterling, Kim Stanley Robinson: tutti personaggi di estrazione umanistica. Trattano con nonchalance nozioni scientifiche, talvolta arrivano a rasentare l’Hard SF, e scrivono pure meglio. Sterling immagina intere civiltà che vivono in colonie artificiali in orbita attorno alla Terra, a Marte, alle lune di Giove, o annidate negli asteroidi; Swanwick astronavi alimentate da querce bioingegnerizzate e alberi di Dyson che crescono sulle comete; Gibson ci parla di IA che colonizzano il cyberspazio e Stanley Robinson dedica tre libri alla terraformazione di Marte. Com’è possibile?

Minecraft terraforming

Un esempio di terraformazione.

Flogging Babel
Da un mesetto a questa parte ho cominciato a seguire Flogging Babel, il blog di Michael Swanwick. Mi ci sono imbattuto per caso: neanche mi era venuto in mente che potesse averne uno. Ma dato che Swanwick è uno dei miei scrittori preferiti e lo ritengo un uomo intelligente, ho passato le ultime settimane a spulciarmi qua e là i suoi post in cerca di roba interessante. E l’ho trovata. Nel 1997, Swanwick pubblica un racconto intitolato “The Very Pulse of the Machine”, che l’anno dopo vince il premio Hugo. Lo scenario è quello di Io, la più interna delle lune di Giove, nonché il corpo celeste più vulcanicamente attivo del Sistema Solare. Nel corso del racconto, Io è descritta nel dettaglio: dalle sue spianate di zolfo allo stato solido ai moti convettivi che coinvolgono il suo oceano sotterraneo, dai fiori di cristalli di zolfo che sbocciano sulla superficie al flusso di ioni che corre tra i poli di Io e quelli di Giove. Una mattina di Settembre del 2012, un utente fa a Swanwick questa domanda:

Where you got all the information and research for your short story “Pulse of the Machine” that dealt with the magnificent descriptions of Io. I would like to write a story about Io, but I can’t find any of the background information you found for this story. Any help would be appreciated.

La risposta a questa domanda è diventato il breve articolo Researching Io. Non starò a riportare tutto il post; leggetevelo. Prendiamo soltanto un paio di brani, all’inizio e alla fine:

As it chances, I was inspired to write “The Very Pulse of the Machine” by a remark by (I think) Geoff Landis, who told a mutual friend that he was baffled by the fact that NASA had spent billions of dollars exploring the Solar System and then put all the information they found up on the Web available for free — and yet almost no SF writers were taking advantage of it.
So I chose Io because it seemed an interesting place to me and went to the NASA website to see what they had to say.
[…]
I realize this rather sidesteps your question — how to find these sources. But I’ve had no formal training on running searches (when I was a student, my college had exactly one computer, an IBM mainframe), nor was I particularly ingenious in my research. I just kept poking around, looking and finding until I had what I needed.
Go thou and do likewise.

E tenete conto che all’epoca non esisteva Wikipedia. Oggi, muovere i primi passi in un territorio che non si conosce – perché è a questo che può servire Wikipedia – è ancora più semplice di così.
Ma quanto ci vuole a condurre un lavoro del genere? Quanti giorni di lavoro può portar via una ricerca fatta bene? Sappiamo che Flaubert impiegò sei anni a scrivere Salammbò, il suo romanzo storico ambientato nell’antica Cartagine ai tempi della rivolta dei mercenari. Ma Flaubert non aveva bisogno di guadagnarsi da vivere coi suoi romanzi, quindi poteva permetterselo. E uno scrittore che ci deve campare, invece? Swanwick ci dice anche questo. In questo articolo (che vi consiglio di leggere) cita a titolo esemplificativo il suo racconto The Mask, ispirato alla storia di Venezia e alla figura dei dogi. Il racconto è lungo 1700 parole – circa sei pagine.

From Stan’s story to publication in the April, 1994 issue of Asimov took a mere thirteen years. I’ll leave it as an exercise for the student to work out how much I was earning by the hour.

Ancora sicuri di voler fare gli scrittori?

Vulcanismo di Io

Un esempio dell’attività vulcanica di Io. Le immagini sono state prese dalla sonda Galileo rispettivamente nel 1999 e nel 2000.

The Very Pulse of the Machine
Martha è sola sulla superficie di Io. E’ a quarantacinque miglia dalla navicella di atterraggio, e ha solo quaranta ore prima di finire l’ossigeno. Non può fermarsi, neanche per dormire. Dietro di sé, su una slitta messa insieme alla bell’e meglio, trascina il cadavere di Juliet Burton, la sua compagna di avventure. Andava tutto bene finché non si sono schiantate col moonrover contro un sasso, e un buco grande come un pugno si è aperto nella faccia di Burton. Ora Martha può contare solo su sé stessa. Finché alla radio comincia a sentire la voce di Burton che cita poesie del Settecento e dichiara di essere Io.
OK, documentarsi è importante, abbiamo afferrato il concetto; alla fine, però, ciò che conta è che la storia sia figa, no? E questo The Very Pulse of the Machine, stringi stringi, com’è? Cercherò di essere analitico: è bello in maniera esagerata. Il senso di solitudine di Martha, le routine della sua lunga marcia verso la navetta, l’assenza di vita della superficie di Io, sono rese alla perfezione dal ritmo lento e calmo (ma non noioso) della narrazione. Le descrizioni della ‘natura’ di Io si alternano con i tentativi di Martha di psicanalizzarsi (la ragazza si odia abbastanza…) e coi dialoghi folli con la voce che viene dalla radio.

La cosa più interessante – anche ai fini di questo articolo – è che Io non fa semplicemente da sfondo alla vicenda, non è un pianetino buono come un altro. La geologia e la magnetosfera di Io diventano un vero e proprio personaggio. L’idea del pianeta autocosciente non è affatto nuova nella fantascienza – ad esempio, la troviamo nel romanzo Nemesis di Asimov – nuovo è invece come questa idea è veicolata e spiegata scientificamente. E allora si capisce che tutti i dettagli fisici che Swanwick ci centellina su Io non sono un semplice show-off (“avete visto quanto ho studiato?”), e neanche descrizioni-per-il-gusto-delle-descrizioni alla Tolkien.
Senza tutta quella ricerca, semplicemente The Very Pulse of the Machine non avrebbe potuto essere scritto. Ed è un peccato, perché ad oggi è il miglior racconto di Swanwick che abbia mai letto.
Potete leggere il racconto qui. Ci vorrà mezz’ora, quaranta minuti al massimo: credetemi, ne vale la pena. E non abbiate timore: pur con tutta questa scienza “dura”, The Very Pulse of the Machine rimane essenzialmente un racconto psicologico.

Magnetosfera di Giove

La magnetosfera di Giove e la sua interazione con Io (in giallo). Nel racconto di Swanwick si parla anche di questo!

Tornerò a parlare di Swanwick nel prossimo, e più corposo, articolo.

I Consigli del Lunedì #34: The Egg Man

The Egg ManAutore: Carlton Mellick III
Titolo italiano: –
Genere: Horror / Bizarro Fiction / Distopia
Tipo: Novella

Anno: 2008
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 150 ca.

Difficoltà in inglese: **

Her vagina opened wide and released the babies. Hundreds, maybe thousands, of tiny fetus flies fluttered out of her.

Lincoln è uno Smell (Olfatto); significa che l’olfatto è il suo senso dominante, e può sentire odori che gli altri non sentono. Come tutti i bambini allevati dalla Georges Organization, deve diventare un artista, e ha deciso che diventerà un pittore. Ora che ha finito il periodo di apprendistato, l’organizzazione gli ha assegnato una stanza in un palazzo fatiscente dove dovrà mettere a frutto ciò che ha imparato. Ha quattro anni di tempo per dimostrare il suo talento e la sua unicità, o la GO lo disenfranchiserà e lo butterà in mezzo a una strada. A quel punto sarà una persona senza diritti e senza un soldo.
In un mondo in cui tutti gli esseri umani nascono come mosche-feto indifese; in cui quelle che sopravvivono all’infanzia e acquistano un aspetto umano, vengono spartite tra le compagnie e allevate nelle loro scuole, dove vengono indottrinati con i valori dell’azienda; dove gli unici diritti che possiedi sono quelli dati dalla compagnia a cui appartieni; dove la povertà e la miseria sono ovunque; in un mondo simile, la vita è dura per tutti. Ma è particolarmente dura per uno Smell che vuole fare il pittore ed è circondato da gente ostile. E ora c’è una donna disgustosa e incinta, Luci, una Sight (Vista), che lo perseguita; e il suo ragazzo, che crede che Lincoln se la voglia portare a letto e ha giurato che lo ammazzerà; e una faida che si sta preparando nel suo palazzo tra gli uomini della OSM e quelli della MSM; e il puzzo disgustoso di fico e carne di hamburger macinata che filtra dalla stanza accanto a quella di Lincoln, e che si dice appartenga al misterioso uomo-uovo. E Lincoln sente di essere spacciato: non ha un briciolo di talento.

Si può far puzzare un libro? Scrivere con una prosa talmente vivida da evocare odori, profumi, puzze così come si evocano immagini o suoni? E’ quello che ha provato a fare Mellick in questa novella di poco più che un centinaio di pagine, scegliendo come protagonista un uomo che vive di odori, che filtra la realtà prima di tutto attraverso il suo naso.
E’ quasi un anno che questo blog non ospitava una recensione sul più bravo autore di Bizarro Fiction, per cui mi sembra opportuno rimediare. The Egg Man è una delle sue opere meno conosciute, ma anche una delle più particolari. Se infatti la Bizarro Fiction, e Mellick in particolare, con la sua prosa quasi infantile, ci ha abituato ad atmosfere leggere, e più grottesche che drammatiche, questa novella – che prende a prestito diversi elementi del cyberpunk distopico tradizionale per farne qualcosa di nuovo – è di una cupezza e di un cinismo disperanti. E’ anche una storia particolarmente autobiografica (per stessa ammissione di Mellick), in quanto parla del processo creativo e di come un artista possa smettere di fare schifezze e produrre qualcosa di buono.
Mellick ha dichiarato sul suo blog di trovare The Egg Man una delle cose migliori che abbia mai scritto. Io ho scritto nella mia classifica che a mio avviso è proprio il miglior libro di Mellick. Ora proverò a spiegarvi perché.

Fico e carne di hamburger

E questo accostamento è ancora nulla.

Uno sguardo approfondito
Cosa rende la prosa di Mellick così piacevole da leggere? Tre cose: l’uso del mostrato, la semplicità nella costruzione delle frasi e il timbro caldo della voce narrante. Come molti suoi libri, la storia è raccontata in prima persona. Questo permette all’autore di commentare le cose che accadono e inserire piccoli brani di informazione in modo naturale, senza mai dare l’impressione di fare infodump. Il timbro lineare, molto matter-of-fact di Lincoln, rende per contro le cose che vede e le persone che incontra ancora più inquietanti; e al contempo, il suo tono lamentoso e rassegnato ci dice molto su di lui. E dato che un esempio vale più di mille parole: “The inside of the building smelled like vinegar-ham and a nutty variety of pipe tobacco smoke. It could have been worse. Some of these buildings smell like urine and dead rats. I couldn’t handle a place that smelled like urine or dead rats.”
Ed è molto anche importante l’ordine in cui si inseriscono le scene. Per esempio, l’incipit del romanzo fa così: “The fetus fly wasn’t yet dead when my steel-toed boot squished into it. The thing was lying there, half dead. It was trying to cry but its vocal cords were dried out.” Un’immagine che già di per sé è abbastanza disgustosa. Ma poi, nel capitolo successivo: “I wondered what it was like when I was just a fetus fly. I wondered why I was the one to survive out of all of those that I was born with.” BAM! Salta fuori solo adesso che il protagonista ha spiaccicato un proprio simile. Peggio: un neonato.

Ma questi concetti li abbiamo già detti e stradetti. Ciò che ci interessa adesso è: è riuscito Mellick a dare corpo al mondo di odori del suo protagonista? La risposta: in parte. La soluzione di Mellick è quella degli elenchi – la stanza dell’Henry Building dove vive sa di vaniglia artificiale mescolata a lucido per legno e pelo di cane bagnato; Luci puzza di chiodi di garofano.
Detto così può suonare un po’ asettico, ma inserito nel flusso della storia funziona abbastanza bene e presto mi sono trovato avviluppato nelle variegate puzze del mondo di The Egg Man. Alla definizione degli odori in sé e per sé si sommano le reazioni (più o meno disgustate) di Lincoln e i dati mandati dagli altri sensi (gli aloni di sudore sotto le ascelle di Luci, la nuvola di fumo della sigaretta ai chiodi di garofano che fuma, i piedi lerci…). E se alcuni accostamenti sembrano messi lì a caso, i primi che gli venivano in mente, altri suonano azzeccati. Il risultato è soddisfacente, e del resto non saprei come esprimere gli odori in un modo migliore.

Mosca morta

Un caso di omicidio?

Ma non pensate che scrivere in questo modo sia semplice o banale. Anzi: proprio la sinteticità delle descrizioni richiede una certa abilità nel sapere cosa e quanto tagliare. Del resto è impressionante pensare a quante cose, quante trovate e dettagli del suo mondo Mellick abbia potuto condensare in una novella che si leggere in un pomeriggio. E come cazzo gli sono venute in mente?
Dal fatto che tutti gli esseri umani nascano nella forma di mosche, che poi si ingrossano giorno dopo giorno, sempre più indifese e disgustose, finché perdono le ali e acquistano sembianze umanoidi; all’immagine di corporativi che vanno in giro per le strade armati di retino per acchiappare le mosche-bambino e portarle dietro i recinti degli asili nido della loro compagnia; all’idea che tutti gli esseri umani siano divisi in cinque tipologie, ciascuna con un senso dominante (i Sight, i Sound, i Taste, i Feel e naturalmente gli Smell); a piccoli dettagli come il fatto che ogni azienda abbia proprio la lingua, e che ad esempio agli uomini della Toyota sia insegnato solo il Toyotese e non la lingua comune perché siano leali alla casa madre e non fraternizzino con le altre; al modo in cui Lincoln mescoli pittura e odori per creare le sue tele. E così via, e così via.

Molti lettori, probabilmente la maggior parte, troveranno quest’atmosfera di crudeltà e cose schifose asfissiante e illeggibile. Per quanto mi riguarda, lo trovo affascinante proprio per la capacità di Mellick di rendere onnipresente questa sensazione di sporco. Sporco fisico come sporco morale. Tutti i personaggi di The Egg Man sono figure ambigue, di cui non ci si può fidare fino in fondo neanche quando sono amichevoli (le rare volte in cui questo accade); ma di cui del resto non si può neanche dire che siano cattivi perché sì. Luci è una sanguisuga, una donna che si approfitta degli ingenui per campare sulle loro spalle, ma è anche l’unica a dare del calore e una direzione alla vita di Lincoln – e allora chi sta usando chi? E del resto, Lincoln è buono, o è semplicemente un vigliacco, un debole, che si comporta in modo educato solo per aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza? E come si comporterà se dovesse trovarsi con il coltello dalla parte del manico?
Soprattutto, The Egg Man racconta una storia. Va in una direzione. Tutti quegli elementi strani non sono messi lì a caso, ma sviluppano il dramma personale di Lincoln e i suoi tentativi di affermarsi come artista, per salvarsi dal finire in mezzo a una strada con un coltello piantato nella schiena e dare un senso alla propria vita. Il ritmo è rapido, e diventa sempre più rapido mano a mano che si va avanti e gli eventi si accavallano gli uni agli altri. E tra gli esami settimanali di fronte alla severa commissione artistica della GO, il rapporto di attrazione e diffidenza con Luci, gli sprazzi di violenza che si moltiplicano nel palazzo, la follia artistica che cova dentro Lincoln, e l’uomo-uovo, c’è sempre qualcosa a tenere impegnata la curiosità del lettore. E con personaggi così ambigui, davvero non si sa mai dove la storia andrà a finire e cosa ne sarà dei nostri “eroi”. Gli ultimi capitoli sono spiazzanti – o almeno, lo sono stati per me – e il finale è un vero pugno nello stomaco.

Bear Grylls e la piscia

La fuori è una giungla.

Quasi tutti i libri di Mellick che ho letto rientrano in una di due categorie. Ci sono – soprattutto nel Mellick del primo periodo – i tour-de-force di Bizarro, storie con una ricchezza immaginativa e trovate che non avrei avuto nemmeno nei miei incubi migliori, mostrate con un pov saldissimo; e che però mancano di una trama vera e propria, sembrano andare un po’ a casaccio e finiscono spesso senza un finale. E ci sono – soprattutto nel Mellick degli ultimi anni – storie costruite più attorno alla trama, all’interplay tra i personaggi, più coerenti; che tuttavia rinunciano a un po’ di bizzarria per seguire canovacci più tradizionali, e spesso hanno una gestione del pov più approssimativa. Per rimanere su libri di cui ho già parlato sul blog, un esempio del primo tipo è il racconto lungo The Baby Jesus Butt Plug, mentre un esempio del secondo tipo è il romanzo Warrior Wolf Women of the Wasteland. 1
The Egg Man prende il meglio dell’uno e dell’altro tipo, e ci dà una storia breve che è al contempo immaginazione selvaggia, prosa materica, una storia consistente e personaggi interessanti. Il Bizarro non ostacola lo sviluppo della trama, ma anzi la rinforza. L’unico difetto (molto soggettivo) è che The Egg Man è disgustoso, cinico e deprimente quant’altri mai. Ma se vi piace il Bizarro, l’odore di piedi e pus non vi spaventa e magari volete farvi un po’ del male, be’, dovete leggerlo.

Dove si trova?
Purtroppo, a differenza di molti altri libri di Mellick, The Egg Man non è mai stato piratato – o quantomeno, non sono mai riuscito a trovarlo in nessuno dei canali di mia conoscenza – e forse è per questo che è poco noto anche tra molti suoi fan. Comunque, è disponibile su Amazon un’edizione kindle a 5,99 Euro. Trattandosi di una novella il prezzo è un po’ alto, ma io non me ne sono pentito.

Su Mellick, di nuovo
Sul mio Anobii puntualmente non aggiornato, Mellick figura come l’autore di cui ho letto più libri dopo Dick. Non è strano, considerando quanto scriva e quanto ci si mette in media a leggerne uno. Ecco quindi una seconda cernita di suoi libri che mi hanno in qualche modo colpito (anche se soltanto l’ultimo dei tre merita davvero di essere letto). Se ve lo state chiedendo, i primi due appartengono ai libri mellickiani del ‘primo tipo’, il terzo a quelli del secondo.
Adolf in Wonderland (new cover) Adolf in Wonderland è una novella ambientata in un mondo in cui l’utopia nazista ha conquistato il mondo. Un giovane ufficiale ariano delle SS è mandato in missione in una terra sperduta, a trovare ed eliminare l’ultimo essere imperfetto sulla Terra; ma il mondo nel quale sta entrando è ben lontano dalla perfezione, e lo precipiterà da un’assurdità all’altra. Malgrado il plot promettente e un protagonista interessante, il libro si perde in una successione di avvenimenti abbastanza sconnessi tra loro e non va a parare da nessuna parte; l’argomento della “perfezione” è un po’ il pretesto della storia ma non viene davvero approfondito. Occasione sprecata. Ah, quella è la nuova copertina!
Ugly HeavenUgly Heaven è un’altra novella di esplorazione di un mondo assurdo. Due uomini si risvegliano, dopo la morte, in Paradiso; ma l’aldilà è ormai diventato un luogo spaventoso, colmo di sofferenza e pericoli, e Dio sembra scomparso o morto. Tree e Salmon andranno alla ricerca di un senso e di un luogo che possano chiamare casa. Il Paradiso di Mellick è pieno di idee interessanti – soprattutto quelli inerenti alla trasformazione dei corpi umani e dei nuovi sensi – ma anche questo libro non risponde ai suoi perché e non conclude niente; si vede che la storia manca di un finale. Migliore di Adolf in Wonderland, ma con gli stessi difetti. 2
Zombies and Shit Zombies and Shit è un romanzo lungo che mischia insieme Battle Royale e un post-apocalittico zombesco. I ricchi annoiati organizzano un programma televisivo in cui una serie di vittime vengono rapite dai quartieri poveri e gettati in mezzo agli zombie. L’unica via di salvezza: un elicottero posto all’altro capo del percorso, che può ospitare una sola persona. Chi riuscirà a salvarsi e a tornare alla propria vita, in questo tutti contro tutti letale? Il miglior romanzo lungo di Mellick: personaggi divertenti, un sacco di storyline che si intrecciano, adrenalina e cose schifose. Persino gli zombie sono interessanti (e schifosissimi)!

Qualche estratto
Il primo estratto dovrebbe dare un’idea chiara di come gli odori impregnino ogni scena o quasi di questa novella, e della fantasia di Mellick nell’utilizzarli e descriverli. Il secondo mostra in un colpo solo i personaggi principali della storia (Lincoln e Luci), come sono scritti i dialoghi in The Egg Man e il modo naturale e non-fastidioso in cui l’autore ci dà frammenti del background del suo mondo.

1.
In the dark, I smelled the air and tried to identify my surroundings by their scent. It’s kind of a weird thing to do, but all Smells do it. We can’t help ourselves. I wish I would have been a Sight or maybe a Sound, but my dominant sense had to be Smell.
I sniffed about 17 different scents in the air. The dominant scent was the cigarette smoke that was issuing into my room from under the door. The second most dominant smell was the sink. There were actually four different scents coming from the sink. One was the rust of the faucet metal, one was the light sewage flavor coming out of the drain, one was a rotten odor coming from the scum that lined the drain, and the last was an odd black pepper smell that seemed to come from the water.
I continued smelling the room. There were four varieties of dust aroma. There was a maple syrup odor coming from the closet. There was a greasy smell hidden behind the toilet. There were a few smells coming in from the outside; two forms of pollution from the nearby factories and a burnt spaghetti sauce from the window of an above neighbor’s kitchen. After a couple hours, I had figured out the origins of 16 of the 17 smells. But there was one that I couldn’t figure out. It smelled like fig and raw hamburger meat. It issued from the west wall of my apartment.
After smelling the wall for several minutes, I had to turn on the light to see if there was a stain there. It could have been a strange cocktail that was thrown at the wall, or maybe the grease of a sweet and spicy Asian meal was wiped along the bricks. But, after close examination, I couldn’t find anything unusual about the wall. There wasn’t a sticky film anywhere.
The smell didn’t seem to come from the wall itself, but from something on the other side of the wall. It must have been something extremely pungent for me to be able to smell it through brick. I wondered what the heck that smell could be, racked my brain trying to figure it out, but it remained a mystery.
I fell asleep close to dawn with the room’s smells attacking my nostrils.

Weird smells everywhere

2.
On the way home, I ran into the pregnant woman again. She was sitting on the sidewalk without any pants on. She was crying and breathing hard. Her eyes were covered by a pair of ashy smog goggles and her sweaty white tank top was being held up by her chin.
As I passed her I said are you okay?
No she said.
I said what’s wrong?
She said what the fuck do you think?
I then realized what was happening. She was about to give birth.
I said is there anything I can do?
She said I’ve done this dozens of times before.
I said I’ve never seen a birth before and want to help anyway.
She asked if I had anything to put under her ass.
She said my ass is killing me.
I said I have a package of paper towels.
She said give it a try.
Then she lifted her bare butt off of the pavement and waved me over.
I slid the 4-pack of paper towels under her and she sat down on it.
Not much better she said.
Sorry I said.
I watched her huffing and puffing for a while.
She said are you just going to stand there?
I shrugged at her.
I knelt down and held one of her hands. I didn’t know what else to do.
She gave me an annoyed look, but she didn’t refuse my hand. Her palm was gritty and cold. When her breathing got heavy, she squeezed my hand as tight as she could.
Once it happened, she leaned back into my arm and the sweat from her hip got onto my wrist.
She said here it comes.
Her vagina opened wide and released the babies. Hundreds, maybe thousands, of tiny fetus flies fluttered out of her. They swarmed into the air and created a small cloud. I’d never seen so many fetus flies before. I’d never seen them so tiny. They were only the size of small moths. I watched as the swarm of tiny babies spread apart and went their separate ways. Half of them wouldn’t survive the night. Those that made it would double in size every day. Only a few of them, if any, would live long enough to see adulthood.
After they were all gone, the woman said leave me alone.
I left her alone.
She looked exhausted. Her head slumped to her knees. She pushed the package of paper towels out from under her. They were covered in a black goop. I thought she better keep them. I didn’t want to know what that black afterbirth smelled like.
Upon entering the Henry Building, I looked back at the fetus flies dissipating in the distance. I wondered what it was like when I was just a fetus fly. I wondered why I was the one to survive out of all of those that I was born with. Luck, most likely. Luck had a lot to do with it. Too many fetus flies were unlucky. They died from the cold, they got zapped by bug lights, they got trapped in spider webs, they got eaten by birds, they got splattered across car windshields. And once they grew larger they were hunted by alley cats and shot with pellet guns by the neighborhood children. They got caught in the machines on the industrial side of town and they got poisoned from drinking the water in the river.
You had to be really lucky to survive infancy.

Tabella riassuntiva

Una distopia che trasuda sporcizia e crudeltà da ogni poro! Troppa insistenza sullo schifoso e il deprimente per il lettore medio.
Ottima prosa mostrata, dominata da puzze e profumi. La descrizione degli odori non è sempre convincente al massimo.
La quest artistica del protagonista è affascinante.
Ambiguità morale che rende la storia imprevedibile.


(1) Restando in argomento, The Haunted Vagina è forse l’unico altro romanzo di Mellick che trovi una buona sintesi tra i due tipi di storia. Gli altri due libri mellickiani che adoro, Zombies and Shit e Apeshit, sono entrambi del secondo tipo: alla fine continuo a preferire i libri con una storia.Torna su


(2) Scrive Mellick nell’introduzione alla novella che non gli dispiacerebbe tornare nell’ambientazione di Ugly Heaven con alcuni seguiti, in cui spiegherebbe finalmente perché il Paradiso è diventato quel che è diventato e che ne è stato di Dio. Ma per farlo, vuole aspettare che dei lettori gli chiedano attivamente di farlo (per esempio, sul suo blog), mostrando interesse. Io credo che lo farò, perché bene o male sono curioso, e deluso dal finale tronco di Ugly Heaven.Torna su

Il Cyberpunk era ieri

Google GlassQualche giorno fa, Google ha annunciato le specifiche tecniche del suo nuovo gioiellino, Google Glass.
Se qualcuno di voi non sapesse di cosa sto parlando, visualizzate questa immagine: uno smartphone che si indossa come un paio di occhiali. Definizione approssimata e un po’ imprecisa, ma rende l’idea. Google Glass funziona a comando vocale – attraverso istruzioni introdotte dalla frase “ok, glass”, come: “ok, glass, take a photo” – e permette di scattare foto o registrare video e condividerli immediatamente con i propri contatti, ma anche essere informati istantaneamente sul meteo o sugli orari degli aerei, o può fungere da GPS, e così via. Il tutto, concentrato in un dispositivo posto sopra e a lato dell’occhio.
Il Google Glass non è certo il primo tentativo di “computer oculare”; uno dei suoi illustri predecessori, l’EyeTap, risale nella sua prima versione addirittura ai primi anni ’80. Ma c’è una differenza. Il Google Glass non è solo roba sperimentale, per addetti ai lavori; è un prodotto per il mass market. L’uscita per il grande pubblico è prevista per la fine del 2013 o l’inizio del 2014, ma un numero limitato di Google Glass sarà consegnato a una cerchia selezionata di early adopters già in questi mesi. Molti di questi fortunati sono essi stessi sviluppatori, appositamente invitati da Google a provare il prodotto per poi pensare e realizzare delle app dedicate.

Insomma, di qui a poco il Google Glass dovrebbe entrare nelle nostre vite, che lo vogliamo o no. C’è già chi comincia a preoccuparsi dei pericoli per la privacy, come questo locale di Seattle; altri pensano che, nonostante le prime rassicurazioni di Google a riguardo, un giorno non lontano ci troveremo tempestati di banner pubblicitari agli angoli del campo visivo. Quanto a me, la prima e unica cosa che ho pensato la prima volta che ho sentito parlare, è stato: “Siamo nel cyberpunk!”. Conseguente scarica di adrenalina.


Un video vale più di mille parole.
Notare le furbizie da markettari, che mostrano per pochi secondi l’utilità del Glass in situazioni cruciali: il ciclista che dribbla il traffico, i ragazzi che stanno per perdere l’aereo, il padre con la figlia distante e le mani occupate dalla torta…

Pensiero ingenuo, certo. Me ne sono accorto poco dopo.
Perché se è vero che l’idea di un computer che interagisce con l’occhio è particolarmente iconica e ‘trasuda cyberpunk’ da ogni poro, è anche vero che è parecchio, ormai, che viviamo nel cyberpunk. Non saprei dire quando è cominciato. A istinto, direi che abbiamo iniziato a entrarci alla fine degli anni ’90, quando Internet e il 56k entravano nelle nostre case. Guardiamo Neuromante. Per quanto il romanzo sia molto bello, per quanto le sue atmosfere noir siano coinvolgenti, e molti dei concetti coinvolti fighi, quando si viene alla descrizione di Gibson della Rete, del cyberpsazio, viene da ridere. Quell’ambiente virtuale fatto di cubi, piramidi e filamenti di luce, in cui i navigatori si muovono con una sorta di corpo, oggi suona datato, ingenuo e improbabile. Internet è stato, credo, il primo ‘concetto’ in cui la realtà ha superato il cyberpunk.
E cos’è oggi un qualsiasi fighetto con lo smartphone e l’abbonamento Internet a 10 Euro al mese, se non un net-runner? Sempre connesso, capace di accedere all’istante a quasi qualsiasi informazione abbia bisogno. Anche il clima economico e sociale, dal 2008 in poi, sembra diventare sempre di più quello cinico e senza speranza, dominato da banche e supercorporation, del primo cyberpunk. Non siamo ancora arrivati a intonare inni aziendali o a chiudere i nostri dipendenti migliori in dei bunker, ma la dedizione e lo spirito di sacrificio richiesti agli aziendalisti verso la corporation ormai quasi ovunque ci si avvicinano molto.

Certo, non abbiamo ancora la modificazione biomeccanica di massa, né le cose più esotiche (lame che escono dalle braccia? Un mitragliatore al posto della mano?), ma la sensazione è che potremmo, se solo fosse legale e se ci fosse un mercato – guardate le protesi che siamo in grado di fare oggi. In generale, la tecnologia è stata meno invasiva e concettualmente ‘ambigua’ di come era stata dipinta dalla fantascienza – niente chip innestati nel cervello, ‘solo’ una stanghetta con le lenti finte che si appoggia sul naso – ma a livello di funzioni ci siamo arrivati. E dove non siamo arrivati, ci stiamo arrivando.
Senza dubbio il cyberpunk ha perso, almeno in parte, la sua magia; la magia di farti assaggiare cose che sono molto di là da venire. Quelle cose oggi non sono più il futuro, sono il presente, e in qualche caso – come l’Internet di Gibson – il passato.  E’ una cosa che abbiamo già visto accadere a larga parte dell’Hard SF della Golden Age – quella che ti racconta come l’umanità abbia fondato colonie pure sulle lune di Giove, ma poi interagisca con computer grandi come un hangar attraverso schede perforate. Oggi, con l’eccezione di pochi titoli selezionatissimi, ormai quella vecchia fantascienza non si legge più. Non c’è più motivo per leggerla.

Google Glass

Scopri nuovi modi di perseguitare i tuoi amici: con Google Glass.

Prendiamo Prelude to Space, del 1947. L’autore non è esattamente l’ultimo dei mongoloidi: è Arthur C. Clarke, uno dei Big Three della Golden Age, e in generale un genio visionario che ha popolato sia la narrativa fantastica che l’ingegneria spaziale e aeronautica di idee brillanti. Prelude to Space racconta, con un approccio quasi documentaristico e un po’ lirico, della preparazione del lancio del primo razzo che dovrà andare sulla Luna. Clarke racconta nel dettaglio come sia fatto questo razzo, come funzionino i suoi motori, come è stato pianificato il viaggio; le speranze di scienziati e ingegneri che lavorano al progetto, gli ostacoli sul loro cammino, fino al decollo della navicella.
Alla fine degli anni ’40, il progetto Apollo non esisteva nemmeno, e una cospicua parte della comunità scientifica era scettica circa la possibilità di andare sulla Luna. In quegli anni, un romanzo come Prelude to Space doveva essere qualcosa che faceva brillare gli occhi. Il libro riscosse anche grande successo di critica (la critica del settore, ovviamente). Ma oggi – oggi chi se lo incula più? Childhood’s End, Rendezvous with Rama, 2001: A Space Odyssey, questi sono i romanzi di Clarke che leggiamo ancora, e curiosamente sono quelli meno Hard e più fantasy. The Fountains of Paradise, anche, perché un ascensore orbitale ancora non ce l’abbiamo e forse non ce l’avremo mai. Che interesse può avere invece – se non un interesse storico, o da collezionista di Clarke – una storia tutta incentrata su come si fa a portare un razzo sulla Luna, se noi quel razzo ce l’abbiamo già portato?

Costruire un romanzo su nient’altro che un concetto o, ancora peggio, un’invenzione, è una delle strade più sicure per mettergli sopra una data di scadenza. Il che può anche andare bene, se uno sa cosa sta facendo, e soprattutto se non ha la fissa di vivere in eterno tipica dell’artista. Prendiamo Charles Stross e il suo Accelerando, un fix-up di racconti che immagina la storia futura dell’umanità a partire dal verificarsi (nella nostra epoca) di una singolarità tecnologica. L’argomento è affascinante e l’oggetto del libro di là da venire, eppure lo stile di Stross è un pout-pourri di slang contemporaneo e neologismi modellati su quest’ultimo:

Manfred holds out a hand, and they shake. His PDA discreetly swaps digital fingerprints, confirming that the hand belongs to Bob Franklin, a Research Triangle startup monkey with a VC track record, lately moving into micromachining and space technology. Franklin made his first million two decades ago, and now he’s a specialist in extropian investment fields.
Operating exclusively overseas these past five years, ever since the IRS got medieval about trying to suture the sucking chest wound of the federal budget deficit.

PDA, VC, blog, per non parlare di altri termini che alludono ai sistemi cloud, e via dicendo. Stross non parla semplicemente di queste cose, usa proprio i loro nomi. Ma se le cose restano, i nomi cambiano; e tra dieci anni chissà se sapremo ancora cos’è un PDA, o se FedEx ci sarà ancora, o se diremo ancora la parola “blog”. E la faccenda si fa particolarmente divertente se consideriamo la parola PDA, che indicava i vecchi “palmari” e che già oggi è considerata piuttosto obsoleta, sorpassata dalle ultime generazioni di smartphone. Un romanzo che parla di futuro e di singolarità, che utilizza terminologie che già oggi sono vecchie: fa ridere.
Eppure Stross lo sapeva. Secondo Stross, una storia di fantascienza (o almeno, le sue storie) dev’essere scritta per l’oggi, deve essere goduta negli anni in cui è stata pubblicata, e avrà necessariamente una life-span breve, diciamo di una decina d’anni. Non è pensata per durare di più, men che meno in eterno. Dal 2005 ad oggi ne sono passati otto, e infatti Accelerando è già visibilmente invecchiato.

Singolarità tecnologica

Se ci pensate, la singolarità tecnologica è l’unica cosa che potrebbe sconfiggere il komunismo. Riflettiamo.

I casi di Prelude to Space e Accelerando ci dicono però qualcosa. Il fatto che il romanzo di Clarke parli di qualcosa di sorpassato è solo una faccia della medaglia. L’altra è che Clarke – l’ho detto più e più volte – scrive da cani. La debolezza del suo stile, dei suoi personaggi, del ritmo delle sue storie, sono fatti su cui critici e appassionati sono d’accordo in modo abbastanza unanime. I romanzi di Clarke si reggono unicamente sull’idea, sull’elemento speculativo, e sul sense of wonder che questo genera; il che significa che una volta che l’idea non ha più appeal, una volta che sulla Luna ci siamo andati davvero, la sua storia non ha più valore.
Allo stesso modo, Accelerando prende idee ancora oggi pregne di sense of wonder ma le affoga in un gergo che è prepotentemente ancorato a un’epoca, un’epoca che se ne sta andando. E questo stridore ci butta fuori dalla storia, e renderà Accelerando, forse, del tutto illeggibile tra cinque o dieci anni (già adesso è un bel pugno in faccia, e non solo per il gergo).

Una dimostrazione? Prendiamo un terzo romanzo – Make Room! Make Room! di Harry Harrison1. L’ho scelto proprio per l’assurdità, oggi manifesta, della sua premessa. Harrison, che scrive nel 1966, parte da questa considerazione: se il genere umano continuasse a moltiplicarsi al ritmo della sua epoca, come sarebbe il mondo al volgere del terzo millennio? Il romanzo è ambientato nella New York del 1999 – una città di quindici milioni di abitanti, immersa nella miseria e nella sporcizia, dove le auto non vanno più, non c’è più cibo, né acqua corrente nelle case, non c’è lavoro, la gente si ammazza per una crosta di pane e si vive accalcati sui marciapiedi, nei tunnel della metropolitana, sotto i cavalcavia, ovunque.
Visto con gli occhi di oggi, Make Room! Make Room! è ingenuo da impazzire. Non solo perché non si è nemmeno lontanamente avverato, ma perché le premesse sono doppiamente sbagliate: non si tiene conto del fatto che nel nostro sistema economico-produttivo, fino al completo esaurimento delle risorse non rinnovabili, la crescita della capacità produttiva globale è più rapida della crescita della popolazione; né si considera che fattori come l’innalzamento del livello culturale, la diffusione di contraccettivi a basso costo e la cultura individualistica orientata alla carriera sono tutte barriere che scoraggiano naturalmente la tendenza ad avere figli. Eppure è un romanzo che, letto ancora oggi, coinvolge. Commuove, fa disperare, ti innalza e ti abbassa con l’umore dei protagonisti. Ci interessa il destino di Andy, poliziotto malpagato e costretto a fare turni doppi per la carenza di personale, e che aggirandosi per le strade della sua New York cerca un senso alla propria vita.

Prelude to Space - Accelerando - Make Room! Make Room!

I tre romanzi incriminati.

La differenza, tanto per cambiare, la fa lo stile. La prosa di Harrison è ben lontana dalla perfezione e ha tante ingenuità (dal POV ballerino a stralci di raccontato), ma riesce ad avvicinarti ai suoi personaggi, a immergerti nel suo mondo sporco e deprimente, nonostante sia un 1999 che palesemente non è accaduto e non poteva accadere. Prelude to Space, invece, ha solo il concetto, e quindi non è più interessante.
Io, del resto, uso un trucco mentale un po’ da borderline: ogni volta che leggo della vecchia fantascienza, faccio finta che sia un’ucronia. Uno strano mondo in cui la tecnologia si è evoluta in modo differente, e quindi un tipo può andare a trovare sua figlia su Marte con un viaggio di tre ore, ma poi quando fa una chiamata interurbana deve chiamare il centralino. Se la storia è appassionante, se è scritta bene, se segue i principi della narrativa, è godibile anche se è invecchiata male. Questa, purtroppo, è una cosa che molti grandi della fantascienza degli anni ’30-’60 non hanno mai capito, e che alcuni continuano a non capire.

Lo stesso ragionamento vale per il Cyberpunk. Neuromante lo leggiamo ancora oggi, e ci piace ancora oggi – io l’ho letto solo l’anno scorso! – per lo stesso motivo. Per la sporcizia delle strade in cui si aggira Case, per il suo cinismo, per il ricatto con cui Armitage e l’IA Wintermute lo costringono a lavorare per loro in una missione assurda, per le cose che Sally ha dovuto fare per potersi permettere tutti i suoi innesti da ninja urbano, per la morsa delle supercorporation, per il senso di libertà e di rivalsa degli hacker – e magari a qualcuno piaceranno anche quei cubotti di luce virtuale che fanno molto Tron e quindi sono vintage. Il buon cyberpunk – quelli che sono anche bei romanzi e non solo bella speculative fiction – sopravviverà perché è affascinante a prescindere dal realizzarsi o meno del mondo che immagina2. Perché un libro immersivo ti fa dimenticare per qualche ora qual’è il mondo vero, e puoi davvero vivere come se Google non stesse per lanciare Google Glass e i motori di ricerca fossero piramidi filamentose immerse nel cyberspazio. Mi sento ottimista sul futuro del genere, o almeno su quelle poche opere (non solo libri) che gli danno dignità.
Ciò detto, Google Glass è figo. Per carità, farà diventare i mongoloidi ancora più mongoloidi, e sarà invaso di social network da ogni lato. Ma in teoria è figo. Datemi pure dell’hipster ma è così.


Un’interpretazione un po’ più libera di come potrebbe essere la vita con Google Glass. C’è pure qualcosina di inquietante.

(1) Make Room! Make Room! è candidato a diventare uno dei prossimi Consigli; ma se la gioca, tra gli altri, anche con un altro romanzo dello stesso Harrison, quindi non ho ancora deciso cosa farò.Torna su

(2) Un esempio di cyberpunk che a mio avviso continuerà ad essere interessante anche tra dieci, venti e trent’anni è un romanzo di Sterling su cui sto preparando un articolo… Aspettate e vedrete!Torna su

Gli Autopubblicati #04: La nave dei folli

La nave dei folliAutore: Alessandro ‘mcnab75’ Girola
Genere: Horror / Fantasy
Tipo: Novella

Anno: 2011
Pagine: 110




C’è qualcosa di strano nella galleria posta sulla linea ferroviaria che collega Vaiano, nel pratese, al paesino abbandonato di Monteflauto. Chi vi entra non sempre ne esce. Ultima vittima è la troupe di TG Enigma, scomparsa durante le riprese di un servizio sui misteri di Monteflauto e della galleria. Prima di scomparire, Martina, uno dei membri della troupe, ha inviato delle foto inquietanti a Enrico, il suo ragazzo: immagini di orribili mostri che ricordano i dipinti di Hieronymus Bosch, disegnate su un diario consunto trovato nel paese fantasma.
Ora Enrico, piccolo regista underground che sogna ancora di decollare, vuole ritrovare la sua ragazza, ma soprattutto vuole scoprire il mistero che si cela dietro il paese e la galleria di Monteflauto. Polizia e governo, infatti, sembrano ansiosi di insabbiare tutto. Lo accompagnano Fabrizio, Fernando e Astrid, amici e colleghi di lavoro; li guida Antonello Lucchini, vicequestore in pensione che sembra avere un conto in sospeso con i misteri di Monteflauto. Ad attenderli, il silenzio omertoso della campagna, e quella diabolica dimensione che i locali chiamano “Flegetonte”…

Abbiamo già incontrato Alessandro Girola come curatore dell’antologia Ucronie Impure. La nave dei folli è la sua ultima fatica.
La novella si presenta come un classico horror-fantasy investigativo: la vita quotidiana di persone normali è scossa da un evento inspiegabile, che cela misteri ancora più grandi. Mentre gli altri due romanzi autopubblicati di cui mi sono occupato, Marstenheim e L’ombra dell’incantatrice, erano essenzialmente delle trame politiche, basate sull’intreccio e sui personaggi, il libro di Girola è un libro che punta direttamente al sense of wonder, al viaggio nell’incredibile.
Il successo di La nave dei folli, quindi, dipenderà dalla sua capacità di spaventare e meravigliare il lettore. Ci sarà riuscito? Prima di andare a scoprirlo, riassumiamo velocemente gli ingredienti necessari a fare di un’idea, una scoperta, un’ambientazione, una fonte di sense of wonder, prendendo spunto dall’articolo di Gamberetta “Il senso del meraviglioso“:
Surprise, ovvero la capacità di sorprendere il lettore.
Sublime, ovvero la capacità di trasmettere al lettore un’immagine sensoriale potente.
Conceptual Brakethrough, ovvero la capacità di mostrare le cose sotto una nuova prospettiva.
Originalità, ovvero non deve trattarsi di qualcosa di già visto n volte.
In tutto questo, ha molta importanza anche la tecnica stilistica. Uno stile immersivo, ben mostrato, faciliterà il raggiungimento del secondo punto – ossia un’efficace visualizzazione sensoriale degli elementi “meravigliosi” – ma anche del primo, perché la sorpresa, lo shock, nascono tanto più facilmente quanto più ci si sente immersi nella vicenda.

La nave dei folli Bosch

La “stultifera navis”: un sistema all’avanguardia per prenderci cura dei nostri malati.

Uno sguardo approfondito
Partiamo quindi dallo stile. Ahimé, la scrittura di Girola è un disastro; un gradino sopra la prosa del Dr.Jack, ma comunque ampiamente nel campo del brutto. A parte la gestione del pov – sempre su Enrico, in terza persona ravvicinata – troviamo il campionario completo degli errori.
Poco mostrato e molto raccontato? Presente, con contorno di descrizioni di descrizioni vaghe e aggettivazione a pioggia. Per esempio, la tenuta dei Marzio di Monteflauto è descritta come “vecchia e bisognosa di ristrutturazioni, ma in possesso di un certo fascino, eco di un passato glorioso”. Potete toccarla, la gloriosità del passato che riecheggia nella tenuta? A volte la scrittura si fa particolarmente goffa; sempre parlando della tenuta, “sul lato opposto risposto all’ingresso ci sono delle ampie stalle da cui provengono muggiti insistenti e un odore bovino molto intenso”. Ci voleva tanto a dire puzza di merda di mucca? O anche solo un più prosaico puzza di letame?
Peraltro, quando vuole, Girola sa costruire anche delle belle scene. Sempre parlando della tenuta dei Marzio, dopo un paio di pagine di aggettivi a raffica, ecco che si entra nello studio del padrone: “Una robusta scrivania diplomatica in noce massello domina la stanza. Su di essa sono disposti rispettivamente un notebook Toshiba, un fax e il monitor di sorveglianza collegato alle telecamere a circuito chiuso.” Il contrasto tra la rusticità della magione e la modernità dell’attrezzatura dello studio è qualcosa che colpisce. Ma soprattutto, Girola non ci dice ‘la studio è moderno’: ci fa vedere il notebook, il fax, il monitor di sorveglianza, eccetera.

Abbiamo anche infodump a manetta, spesso resi ancora più irritanti perché del tutto inutili. Più o meno a metà del libro, così Fabrizio commenta le disavventure del gruppo: “Siamo finiti in uno zoo dimensionale popolato da aborti schifosi. Mi ricorda Serious Sam, quel videogioco dove il protagonista viaggia attraverso degli stargate per ammazzare una marea di mostri assurdi e ridicoli”. Ve lo immaginate, un vostro amico che fa una citazione e poi ve la spiega? Ma soprattutto, che valore ha questa precisazione inutile nell’economia del racconto? Non era meglio tagliarla? E il discorso si potrebbe estendere a molte delle citazioni sparse nel libro, raramente di qualche utilità, e talvolta talmente invadenti da occupare anche mezza pagina di discussioni. Per quanto riguarda invece gli infodump utili, ricordo che quasi sempre lo scrittore ha la possibilità di mascherarli o filtrarli nei dialoghi e nell’azione – lo spiattellamento nudo e crudo di informazioni è solo la soluzione più pigra.
A volte, poi, viene il dubbio che Girola non conosca bene la nostra lingua; o che non rilegga bene quello che scrive. Per esempio quando descrive le case di Monteflauto. Di esse ci dice che sono piene di polvere e ragnatele. Dopodiché, se ne esce con: “Il solaio non è altro che l’ennesimo locale vuoto e polveroso. L’unica variante è rappresentata dalle solite ragnatele, grosse e spesse, che pendono un po’ ovunque. E’ una costante degli edifici di Monteflauto.” L’unica variazione tra il solaio e gli altri locali sono le solite ragnatele, che peraltro sono una costante degli edifici di Monteflauto? Mmmh.

Ragnatela

Esempio di ragnatela diversa dalle solite ragnatele.

Fino ad arrivare a capolavori di prosa come questa presentazione della squadra di Enrico:

Fabbri, fedelissimo e irrinunciabile, per una miriade di motivi.
Fernando Marasso, pacato e sempre ottimista, fotografo di scena e all’occorrenza assistente operatore.
Astrid Volpi, operatrice di ripresa, nonché grande amica di Martina.

La bruttezza di questo passaggio è quasi comica nel modo in cui riecheggia un brano di Buio di Elena Melodia, giustamente sbeffeggiato sulla Barca dei Gamberi:

Seline, sempre allegra e curiosa, sarebbe capace di vivere una settimana solo facendo shopping. Agatha, taciturna e introversa, è indipendente e determinata. E Naomi, vivace ma equilibrata, è una di quelle che dicono sempre quello che pensano.

Anzi, nel brano della Melodia c’è persino più movimento che in quello di Girola!
Lezione di scrittura: se ai fini della caratterizzazione del personaggio è importante sapere che Fernando è fotografo di scena, mostralo mentre fa il fotografo di scena! Non fare l’elenco della spesa!

E non è solo un problema di presentazione. I personaggi di Girola sono piatti, insulsi, convenzionali. Per gran parte del libro – probabilmente anche a cause del fatto che hanno la stessa iniziale – ho continuato tranquillamente a confondere Fabrizio e Fernando. Enrico è lacerato da un conflitto morale potenzialmente interessante circa il suo interesse per il mistero di Monteflauto – da una parte il desiderio di ritrovare Martina, dall’altra quello di girare una figata di documentario e far così decollare la sua carriera. Ma Girola lo annacqua nel raccontato ed elimina sistematicamente ogni possibilità reale di conflitto (le litigate con Astrid sono ininfluenti a livello di trama).
I dialoghi sono triti e convenzionali, da film. I personaggi si incazzano e si calmano nel giro di poche battute, sempre pronti a scattare come una molla, nel modo subitaneo e improbabile delle cattive fiction. Gli alterchi di Fabrizio contro Lucchini non sono un brillante tentativo di dare profondità a un personaggio, e l’unico risultato che ottengono è di trasformare il Fabbri nella macchietta del sessantottino che odia i poliziotti. Allo stesso modo, gli scatti isterici di Astrid con Enrico sono quanto di più lontano dal comportamento di una persona vera – anche di una persona isterica.
L’unico personaggio che brilli un poco è proprio quello del vecchio Lucchini. E come mai? Guarda un po’, perché è quello più mostrato. Lucchini si muove, brandisce il fucile e lo sa usare, Lucchini è quello che discute con gli estranei e organizza il gruppo, Lucchini aggrotta le sopracciglia alla Lee Van Cleef (anche se Girola insiste troppo spesso sul paragone). Non è solo l’ombra dello scrittore o una pedina funzionale. E’ un buon personaggio. Purtroppo, da solo non può reggere tutto lo show.

Lee Van Cleef

Purtroppo non è previsto un mexican standoff tra Lucchini e i mostri del Flegetonte.

Ma scrittori tecnicamente incapaci come Clarke o mediocri come Asimov ci mostrano che è possibile meravigliare nonostante uno stile pessimo. Come se la cava Girola su questo punto?
I mostri, questo va detto, sono ben mostrati. Complice il fatto di non esserseli inventati da zero ma di averli presi dai bellissimi dipinti di Hieronymus Bosch, le creature del Flegetonte non sono generici orrori blasfemi o concentrati di malvagia malvagità – tradizione tutta italiana di descrivere i mostri – ma creature con un aspetto e un comportamento precisi. Abbiamo, per esempio, una scolopendra gigante con escrescenze a forma di volti umani sofferenti che spuntano dal dorso; ma anche enormi galline volanti con volti umani dalla bocca larga al posto del sedere e che volano al contrario; o grosse palle lardose e monocole, che si muovono su piedi palmati e sono punteggiati di pseudopodi che si muovono “come stelle filanti esposte al vento”.
Un po’ poco per raggiungere il “sublime” della definizione, ma almeno siamo sulla strada giusta.

In compenso, il Flegetonte è un mondo sbiadito.
Da una parte, manca quella complessità ecologica propria delle ambientazioni del buon Fantasy e della buona Science Fiction – quelle ambientazioni in cui ogni pezzo s’incastra come il tassello di un puzzle e dà l’impressione di una cosa viva, dall’astronave di Incontro con Rama allo “spazio conosciuto” di Ringworld al mondo atlantideo di Stations of the Tide.
Dall’altra, il mondo di Girola non può nemmeno competere con la fantasia sfrenata della Bizarro Fiction o del New Weird. I mostri sono carini, ma siamo ad anni luce di distanza da cose come le vagine che diventano portali dimensionali, le feto-mosche, le fabbriche di draghi bio-meccanici. Alla fin fine, ad eccezione degli uomini-gufo – che sono un minimo più complessi – le creature del Flegetonte sanno fare solo due cose: attaccare o non attaccare.
Il Flegetonte, insomma, non è che un’accozzaglia di ambienti e creature ostili sul modello “foresta di Lost“; i vari mostri praticamente non interagiscono tra loro 1. Salta quindi il terzo punto, il “conceptual brakethrough”; a meno che non pensiate che l’esistenza di dimensioni parallele sia ancora oggi una rottura di paradigma…

Scolopendra gigante

Una scolopendra. Non gigante.

Anche sul versante della tensione il romanzo latita. A parte un paio di scene – per esempio quella della galleria – non si prova mai paura o anche solo inquietudine per i nostri eroi. Sono quasi tutti troppo poco caratterizzati perché il lettore si leghi a loro, e c’è troppa poca immersività perché ci si immedesimi nel protagonista. Quando muore un personaggio, poi, succede tutto così lentamente, così per gradi, che non proviamo alcuna sensazione di shock. Insomma: anche qui, niente. Salta il primo punto – la “surprise”.
Inoltre, la storia segue un canovaccio estremamente classico, con il progressivo avvicinamento al luogo del mistero, il passaggio dall’altra parte, l’esplorazione e il ritorno. Le sorprese in mezzo sono ben poche, e non si discostano granché dal copione di infiniti romanzi e racconti del mistero e dell’orrore. Girola cerca di ampliare la sua ambientazione inserendo dei riferimenti qua e là: la selva oscura di Dante, Hieronymus Bosch, l’usanza della ‘stultifera navis’. Ma tutte queste belle idee sul piano della trama non aggiungono niente. Salta così il quarto punto – l’originalità.

Insomma, questo romanzo lo suscita o no, un po’ di sense of wonder? Meh. In proporzione inversa alla vostra cultura letteraria: ci sono centinaia di romanzi e racconti che, partendo da un’impostazione simile, raggiungono risultati molto più brillanti. La nave dei folli sembra un compito a casa – eseguito con onestà, ma senza particolare impegno né brillantezza. Pur essendo scritto meglio de L’ombra dell’incantatrice, paradossalmente è così ovvio e tradizionale da avermi colpito di meno. Il romanzo del Dr. Jack era scritto male ma aveva un po’ di potenziale.
Alla fine è proprio questo, il problema del romanzo. Se qualcuno mi chiedesse: “perché dovrei leggere La nave dei folli?”, non saprei cosa rispondergli. Non mi verrebbe in mente niente. Perché è gratis, forse? Ma anche i racconti di Lovecraft ormai sono gratis – essendo lui morto da più di 70 anni. Tanto vale che vi leggiate quelli, perché non c’è nulla di nuovo in Girola, rispetto ai racconti fantasy-horror che si scrivevano negli anni ’20-’30; anzi, Lovecraft è molto più appassionante. Allora, bisognerebbe leggerlo perché Girola è un italiano, un autopubblicato, uno che conoscete? Sono tutte ragioni extratestuali.
La nave dei folli è un libro modesto, senza ambizioni. Dimenticabile.

Bonus Track: Il treno di Moebius
Il treno di MoebiusAutore: Alessandro ‘mcnab75’ Girola
Genere: Horror / Fantasy
Tipo: Racconto

Anno: 2011
Pagine: 40

La nave dei folli nasce come espansione dell’ambientazione di questo racconto di quaranta pagine. Nella redazione del TG Enigma giunge un filmato amatoriale degli anni ’70, in cui si assiste alla scomparsa di un treno dentro la galleria di Monteflauto: è l’incidente che porterà alla chiusura della tratta e all’abbandono del paese. Il racconto prosegue con il viaggio della troupe a Monteflauto e le conseguenti disavventure.
Non ha senso leggere questo racconto se non prima de La nave dei folli, dato che ne è l’immediato prequel. Peraltro, a leggere entrambi, la sensazione di dé jà vu è molto forte: i personaggi dei due libri fanno quasi le stesse cose, visitano gli stessi posti e hanno anche esperienze simili. Lo stile è altrettanto brutto, anzi in certi punti è pure peggio. Per esempio, Girola ha l’ossessione di ricordarci che Richy è un’attore di soap opera fallito almeno una volta ogni tre che lo nomina.
Nel complesso fa un po’ più paura de La nave dei folli, forse perché i ragazzi di TG Enigma sono disarmati e meno preparati. L’ultima parte del racconto e il finale sono amari, e ho gradito il tentativo di scostarsi dal copione standard; purtroppo questo non basta a risollevare un racconto globalmente anonimo.
Solo per fan estremi di Girola.

Dove si trovano?
Entrambi gli e-book possono essere scaricati gratuitamente sul blog di Girola, Plutonia Experiment. Se le storie vi sono piaciute o se semplicemente vi sentite in colpa, donategli un Euro o più via Paypal.

Hieronymus Bosch

Dipingere sotto l’effetto di stupefacenti non è un invenzione del Novecento.

Qualche estratto
Il primo estratto è una panoramica di Monteflauto, nonché un ottimo esempio di come Girola riesca a sposare infodump, piogge di aggettivi e raccontato; il secondo è un raro caso di dialogo abbastanza ben riuscito, tra Enrico e Lucchini (nonostante il solito abuso di aggettivi tra una battuta e l’altra).

1.
Quando arrivano all’ingresso vero e proprio del paese, la ragazza dà lo stop e tutti si fermano per guardarsi intorno. «Voglio fare una panoramica da qui», afferma Astrid.
Le case di Monteflauto sono un mix di antico e moderno, dove per moderno s’intendono alcuni edifici costruiti probabilmente negli anni del boom economico. Essi stridono con la maggioranza delle abitazioni, che sono rustiche e semplici.
«Era un borgo di trecento abitanti circa.» spiega Lucchini, guardandosi intorno. «Coi pendolari che venivano da fuori per lavorare alla miniera di stagno, arrivava a quattrocento, anche se molti erano lavoratori stagionali.»
Enrico cerca di immaginarsi Martina a passeggio tra quei ruderi cadenti. Molte case sono conciate male, forse a causa del maltempo e delle erbacce infestanti, che in alcuni casi sembrano essere state in grado di sventrare intere pareti. Non è troppo sorpreso nello scoprirsi in diffoltà nel concentrarsi sulle sorti della sua ragazza. Forse è impazzito, ma trova quel posto tanto inquietante quanto irresistibile. È un po’ come quando da adolescente non puoi fare a meno di guardare un film horror anche se sei a casa da solo e sai che avrai gli incubi per tutta la notte.

2.
Enrico guarda il vecchio negli occhi. «Possiamo parlare un momento in privato?»
«Certo.»
«Un momento!» interviene Astrid. «Se dobbiamo decidere che cosa fare, credo che dovremmo votare per alzata di mano.»
Il regista si sforza di sorriderle. «Mi sembra giusto. Allora lo dirò qui davanti a tutti: Antonello, tu soffri di dipendenza da azione, vero? Non riesci a stare fermo e a goderti la vita da pensionato. Non desideravi altro che trovare qualche disperato disposto ad accompagnarti per tornare a indagare su Monteflauto. Ora che sei qui non ti basta ancora. È come una droga. Anzi, forse mi sbaglio. Dovrei parlare di dipendenza da indagine. Vuoi scoprire, scavare a fondo, avere tutte le risposte…» Enrico si accorge solo in quel momento che sta tremando. È colpa della tensione accumulata, ma anche dello shock di quanto è accaduto quando hanno attraversato il tunnel. Per un attimo, quel preciso attimo, vorrebbe tornare a casa, al sicuro, dimenticare tutto.
Lucchini lo guarda a occhi socchiusi, furente. Impugna ancora il Benelli. Potrebbe ammazzarlo su due piedi e nessuno farebbe in tempo a impedirlo. Invece replica con glaciale pacatezza. «Può darsi che tu abbia ragione. Io sono quello che sono e non posso diventare altro. Di certo non voglio trasformarmi in un pensionato bavoso con la prostata grossa come un melone e la dentiera da mettere in un bicchiere ogni fottuta sera. Scoprire cosa c’era alla fine del tunnel è un pensiero che ha tormentato fin dal giorno in cui mia moglie è morta. Prima, Monteflauto coi suoi misteri era un pensiero remoto del mio passato. Poi è riemerso tutto. L’ultima grande indagine. Un trucchetto per non impazzire, se preferisci. Ora il tunnel l’ho attraversato e sai una cosa? Non mi basta.»

Tabella riassuntiva

I mostri boschiani sono perlopiù ben riusciti. Trama lineare e priva di originalità.
Lucchini è un buon personaggio. Personaggi insulsi e dialoghi triti.
Uhm… è gratis?^^’ Il sense of wonder latita.
Scrittura sciatta, raccontata, infodumposa.

In conclusione: MEH, TENDENTE AL NOMeh

——

(1) Si potrebbe obiettare che Girola ha poco spazio per mostrare adeguatamente l’ecologia del suo mondo. Tuttavia a Swanwick, in Bones of the Earth, bastano poche pagine ambientate nel tardo Cretaceo per mostrarci l’interazione esistente tra diverse specie di dinosauri. Molti scrittori nostrani (specie se imbottiti di King) non riescono a immaginare quante informazioni si possano mostrare in poche pagine!Torna su