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I Consigli del Lunedì #40: West of Eden

West of EdenAutore: Harry Harrison
Titolo italiano: L’era degli Yilanè
Genere: Science-Fantasy / Ucronia
Tipo: Romanzo

Anno: 1984
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 490 ca.

Difficoltà in inglese: ***

What was to come would be a clash such as this world had never seen.
A savage battle between two races who were united in only one thing; their absolute hatred of one for the other.

Da grande, Kerrick sarà un vero cacciatore come suo papà Amahast. Insieme agli altri cacciatori della tribù di cui Amahast è a capo, il piccolo Kerrick è sceso alle coste meridionali, dove fa caldo, per fare scorta di cibo per l’inverno. Finché un giorno sulla costa non approdano delle strane creature, con l’aspetto di rettili ma che camminano come uomini, a bordo di un’orribile nave senziente. Sono gli Yilané. E sono venuti a prendersi questa terra.
Per millenni gli Yilané hanno dominato incontrastati nel Vecchio Mondo, trincerati nelle loro gigantesche città bioingegnerizzate. Ma ora le cose stanno cambiando: è in arrivo una nuova Glaciazione, e la morsa del gelo rende inospitali le loro terre. L’ambiziosa Vainté è stata incaricata dalla signora di Inegban di viaggiare verso climi più caldi, nel Nuovo Mondo, e lì preparare una nuova città che possa accogliere gli Yilané del Vecchio quando il freddo sarà diventato intollerabile. Ma gli uomini non sono pronti a cedere la propria casa a quegli esseri repellenti venuti dal mare. Nel Nuovo Mondo sta per scatenarsi una guerra come questo pianeta non ne ha mai viste.

Quando ero piccolo anche a me, come a tutti quelli della mia generazione, piacevano da matti i dinosauri. Alle elementari inventavo e scrivevo storie su dinosauri umanoidi e intelligenti. Crescendo grazie al cielo ho smesso, ma in compenso non ho mai smesso di trovare affascinante la domanda: cosa sarebbe successo se i dinosauri non si fossero mai estinti, e se anzi avessero avuto a disposizione trecento milioni di anni di tempo per evolvere? I mammiferi superiori sarebbero mai nati, e ci sarebbe l’uomo? E se sì, come convivrebbero queste due specie intelligenti? West of Eden è una possibile risposta a queste domande.
Harry Harrison immagina un mondo alternativo in cui l’estinzione di massa al termine del Cretaceo non è mai avvenuta, e quindi i rettili, e non i mammiferi, hanno ereditato la Terra. Nel corso di centinaia di migliaia di anni, gli Yilané hanno costruito una civiltà avanzatissima da una sponda all’altra del continente eurasiatico, mentre una forma di essere umano ha visto la luce nelle Americhe. L’Oceano Atlantico ha tenuto le due specie divise per tutto questo tempo e ignare le une delle altre. Ora, per la prima volta, le due specie stanno per entrare in contatto – West of Eden racconta quello che succede dopo. Il romanzo ha conosciuto anche un breve momento di celebrità in Italia negli anni ’90, col nome “L’era degli Yilané” – molti trentenni di mia conoscenza lo venerano come un libro di culto – ma oggi sta cadendo nel dimenticatoio. E’ dunque mio preciso dovere riportare questa piccola perla alla vostra attenzione.

Raptor Jesus

E’ andata così. Circa.

Uno sguardo approfondito
West of Eden è la storia di uno ‘scontro di civiltà’. E per raccontare al meglio questo scontro, Harrison fa una scelta interessante: prende come protagonisti un essere umano e una Yilané, alternando le vicende dell’uno e dell’altra, e quindi i punti di vista dell’una e dell’altra specie. Da una parte il piccolo Kerrick, che viene catturato dagli Yilané all’inizio del romanzo e condotto nella loro nuova colonia come prigioniero e oggetto di studio; dall’altro Vainté, la governatrice in carica della nuova colonia, con sulle spalle il compito di far crescere la città e sterminare la potenziale minaccia degli umani nativi.
Il risultato, è un’ambientazione e un’atmosfera che hanno pochi eguali nella narrativa fantastica. Sulle fondamenta di un romanzo ‘preistorico’, con protagoniste piccole tribù nomadi che si muovono tra giungle e pianure, sul tipo della saga Earth’s Children di Jean Auel o di The Inheritors di Golding, si innesta il mondo tecnologico degli Yilané, con tutte le sue storie di ambizione, gerarchia sociale, lotte politiche intestine, manipolazioni di DNA. Storie di caccia da una parte, discussioni di urbanistica dall’altra. E a questo si aggiunge il sapore tutto particolare dell’inversione: nel mondo di Harrison, noi uomini siamo la civiltà arretrata, i nativi americani di turno; la specie avanzata sono le lucertole.

Parlando di Kerrick e Vainté ho detto semplicemente “protagonisti” e non “personaggi pov”, ahimè, per una ragione: a Harrison sembra sfuggire completamente – e non solo qui, ma in tutti i suoi romanzo – il concetto di ‘punto di vista’. In West of Eden, la telecamera vive di vita propria e si sposta di luogo in luogo, di testa in testa ogni poche pagine. Il principio è: chiunque sia nel raggio visivo o mentale dell’attuale pov, potrebbe diventare in qualsiasi momento il nuovo pov. Abbiamo quindi le tipiche scene da mal di mare in cui si fa fatica a capire chi stia pensando o vedendo cosa perché la telecamera passa da un personaggio all’altro senza fissarsi a lungo su nessuno.
Abbondano naturalmente i pov usa-e-getta, usati per poche scene o anche una sola volta, in contesti in cui i normali punti di vista di tre o quattro personaggi chiave sarebbero stati sufficienti. Certe scelte sono particolarmente esilaranti nella loro inutilità, come il pov che a un certo punto va per poche righe su una tigre dai denti a sciabola (!), giusto il tempo di far guardare alla suddetta tigre un altro personaggio (umano) e poi passare la telecamera al personaggio suddetto. O ancora, nella seconda metà del libro, all’inizio di un capitolo, viene introdotto il pov di un ragazzino della tribù, con tutto il suo vissuto di sogni, paure, aspirazioni personali, solo per fargli fare una piccola scoperta che porta avanti la trama. Il ragazzino, inutile dirlo, non apparirà più nelle restanti centocinquanta pagine di romanzo.

Tigre dai denti a sciabol

“Mi sembra… mi sembra di vedere… un personaggio-pov!”

Non ci sono dubbi che a tenere la telecamera in mano per tutto il libro sia il Narratore Onnisciente. A volte la sua presenza si fa addirittura (e inutilmente) esplicita, con commenti su cose di cui il pov del momento non potrebbe mai rendersi conto. Ecco per esempio un passaggio con protagonista Kerrick: “If he had been of an introspective turn of mind, he might have compared the movement of the Yilané in their city to that of the ants in their own cities beneath the ground”. Ma nel caso non fossimo del tutto convinti che questo non è il pov di Kerrick, poco oltre l’autore ci tiene a toglierci ogni dubbio: “Not an exact analogy, but a close one that he never even considered”. Grazie, Harry, di questa preziosa precisazione.
La conseguenza di questa gestione criminale del pov è la solita che ormai conosciamo bene: il distacco del lettore. Entrare negli occhi e nella testa di tutti questi personaggi è come non entrare nella testa di nessuno, e infatti leggendo West of Eden sembra di essere un uccello che guarda dall’alto quello che succede, senza farsi coinvolgere. Le emozioni e i pensieri dei personaggi ci vengono continuamente raccontati, anche se quando vuole Harrison sa farli gesticolare in modo efficace. I dialoghi indiretti abbondano, così come i riassuntini di giorni e mesi di avvenimenti. Anche momenti cruciali come le battaglie campali tra le due specie finiscono per essere raccontate succintamente e senza interesse, come in questo passaggio di troisiana mestizia:

The slaughter was terrible, far worse than that of the day before. The hunters fired and fired and screamed with joy as they did. The Yilanè above them were brought down, the corpses of their towering mounts falling and slithering into the deadly chaos below.
[…] Twice more they ambushed the murgu. Twice more trapped them, killed them, disarmed them. And fled. The sun was dropping towards the horizon then as they stumbled up the trail.

Ma questo è il modo in cui Flaubert descriveva le battaglie campali nel suo Salammbò. Da allora alla pubblicazione di West of Eden sono passati quasi centocinquant’anni: non è concepibile che non ci sia stato un progresso.

Dinosauri che minimizzano

Consoliamoci con un’altra presa per il culo dei dinosauri.

Il distacco del lettore è una delle cose peggiori che possa accadere in un romanzo. Il lettore si sente meno coinvolto, si annoia e si distrae più facilmente, e può finire col ritenere la lettura del libro una perdita di tempo. E se questo è già un problema in un romanzo ambientato ai giorni nostri, figurarsi in un setting esotico come quello di West of Eden, in cui il lettore deve spendere più energie (a livello di immaginazione, sforzo intellettuale, emotivo) per immergersi.
Se sto raccontando la storia di Mario, neolaureato in lettere che studia per il concorso pubblico da insegnante, posso anche scrivere alla cazzo di cane, e ugualmente il lettore non farà fatica a mettersi nei suoi panni, e a gioire e soffrire con lui (circa). Ma nel romanzo di Harrison non c’è niente di familiare. Da una parte abbiamo i Tanu che, pur essendo innegabilmente esseri umani, sono però cacciatori-raccoglitori preistorici, con cui non condividiamo molto né come habitat, né come cultura, né come sogni. Dall’altra, abbiamo creature completamente aliene, rettili umanoidi con un modo di pensare, parlare e vivere che non ha molto a che vedere col nostro. Solo una gestione impeccabile del punto di vista e del mostrato potrebbe riuscire a farci percepire come *nostri* i sogni e le paure di queste due specie. Harrison non si pone neanche il problema, e il risultato è che si rimane abbastanza freddi anche quando vediamo i poveri umani massacrati a dozzine.

Il che è un peccato, perché nei personaggi principali di West of Eden c’era molto potenziale. Prendiamo Vainté, la leader degli Yilané coloni. Vainté è caratterizzata da una grande intelligenza, un’ambizione sfrenata e un odio viscerale per tutto ciò che si frappone fra lei e i suoi obiettivi. Da una parte, Vainté sta costruendo la città di Alpe’Asak per il bene della sua gente, per dare il suo contributo al futuro degli Yilané; ma dall’altro, odia il pensiero che un giorno, quando tutti gli abitanti del Vecchio Mondo si saranno spostati nel Nuovo, la governatrice della lontana Inegban la spodesterà e prenderà il posto di comando che le spetta. Per tutto il romanzo, Vainté lavorerà per perseguire il suo doppio obiettivo: far prosperare la città – e quindi ricevere i plausi di Inegban – ma preparare il terreno per non perdere il posto quando il trasferimento sarà effettivo. Al tempo stesso, Vainté prova un disprezzo sconfinato per i disgustosi “ustuzou” – così gli Yilané chiamano i mammiferi – ma una certa ambivalenza e un senso di protezione verso Kerrick, l’umano che ha imparato i costumi e il modo di fare della sua gente. Tutti questi livelli di conflitto (interiore, verso la sua gente, verso gli umani) fanno di Vainté un personaggio assai complesso e interessante.
Anche in Kerrick c’è grande potenziale. E’ l’umano che viene allevato dai rettili; che a mano a mano che impara il linguaggio e la mentalità degli Yilané, perde il ricordo della sua vita da Tanu. Il dramma di Kerrick è quello di non avere più un’identità, non sapere più che cos’è, e quindi non avere più un posto nel mondo. E poi ci sono i personaggi secondari, come Stallan, la spietata comandante dei cacciatori Yilané, che ha giurato alla sua gente che non si fermerà fino a che non avrà estirpato fino all’ultimo essere umano dalla faccia della terra; o Enge, sorella di nidiata di Vainté e Yilané ribelle, che con alcuni compagni ha fondato una religione della non violenza ed è per questo caduta in disgrazia. Tutti questi personaggi, per fortuna, sono sufficientemente interessanti da sopperire alla povertà della prosa di Harrison.

Rettiliani

Giusto giusto… quella dei rettili intelligenti che governano il mondo è solo un’ucronia, no? No?

Ma la cosa più bella di West of Eden è certamente l’ambientazione. Con gli Yilané, Harrison è riuscito a creare una razza davvero aliena. Gli Yilané, per cominciare, non sanno mentire. Il loro linguaggio non è semplicemente un movimento delle corde vocali: ogni parola è fatta anche di movimenti (della testa, delle braccia, del collo) e del tingersi di alcune parti del corpo di certi colori, cosicché ogni conversazione è una danza. Parlare significa esprimere a voce alta ciò che si sta pensando in quel momento, cosicché non si può dire una bugia; l’unico modo che gli Yilané conoscono per celare i propri pensieri, è stare perfettamente immobile e guardare fisso. Se si muovessero, i loro movimenti tradirebbero i loro pensieri e il loro stato d’animo. In conseguenza di ciò, quella degli Yilané è una società estremamente conformista e conservatrice; i cambiamenti sono visti con fastidio e scetticismo; il bene della società prevale sempre su quello del singolo.
Ancora: a causa di questa natura ‘collettivista’, il singolo Yilané non può vivere al di fuori della società. Chi, per un crimine o una mancanza, viene esiliato dalla città, viene stroncato da infarto per lo shock o muore d’inedia pochi giorni dopo. Ancora: poiché nella loro specie sono i maschi a covare le uova, quella Yilané è una società femminista. Solo le femmine della specie godono di pieni diritti, possono muoversi liberamente per la città e rivestire posizioni di comando; gli uomini, creature grasse e torpide, vengono tenuti chiusi in degli harem per proteggerli dai pericoli esterni. Ancora: gli Yilané hanno sviluppato un’avanzatissima tecnologia della manipolazione genetica, ma non usano il fuoco. Di conseguenza, tutti i loro congegni (dall’architettura delle città ai mezzi di trasporto alle armi) sono creature vive e manipolate per servire a uno scopo, mentre non sono capaci di lavorare i metalli. Questo fa sì che la loro tecnologia sia un misto di avanzatissimo – la loro civiltà non conosce malattie perché le hanno debellate tutte a suon di eugenetica – e obsoleto – i loro eserciti ricordano quelli della nostra prima età moderna.

Altrettanto affascinante e ben riuscito è il modo in cui Harrison fa interagire tra loro le due specie – che poi sarebbe il perno del romanzo. Da un lato, Harrison evita di cadere nella morale buonista del “siamo tutti fratelli, perché non possiamo appianare le nostre divergenze e trovare un ragionevole compromesso”, a cui tanti scrittori – anche rispettatissimi, come la LeGuin – hanno ceduto. Dall’altro, adottando il punto di vista di entrambe le specie, non finiamo neanche nell’infantile sciovinismo alla Heinlein, stile: “questi bastardi stanno minacciando i nostri diritti costituzionali! Prendiamoli a calci nel culo fino all’estinzione, hell yeah!!”. Harrison lo pone, invece, quasi come un problema scientifico: come possono due specie del tutto ignare l’una dell’altra che si incontrano all’improvviso, e che non riconoscono l’altro come proprio simile ma come una bestia mostruosa, a trovare un’intesa? A provare gli uni per gli altri qualcosa di diverso da diffidenza, disgusto, odio, desiderio di distruzione totale?
Risposta: non possono. Le due specie sono troppo, troppo diverse per capirsi, o anche solo avviare una trattativa. Gli Yilané, abituati a essere l’unica specie intelligente, si trovano davanti questi primitivi impellicciati che vanno a caccia e grugniscono: pensano di avere davanti degli animali, e gli animali si cacciano, non ci si discute. All’inizio, la reciproca ostilità è data dalla repulsione istintuale per quell’altro che è al tempo stesso simile e diverso: si muovono come noi ma non sono come noi (qualcosa di molto simile, mi sembra, al concetto di uncanny valley della robotica). Nel tempo, questa ostilità assume connotati più razionali: le due specie combattono per lo stesso obiettivo, il possesso di quelle terre di cui entrambi hanno bisogno per sopravvivere. Sono costretti dalle circostanze a combattere.

Uncanny Valley

Diagramma della uncanny valley. Chissà dove si potrebbe collocare uno Yilané.

Se l’approccio di Harrison mi piace tanto, è anche perché sposa le mie convinzioni di determinista alla Jared Diamond. Gli uomini (e le lucertole umanoidi, in questo caso!) possiedono certamente il libero arbitrio, ma le loro possibilità di movimento sono determinate dall’ambiente in cui vivono. Nel romanzo di Harrison, il motore della storia è la Glaciazione che sta arrivando, e che costringerà le due specie a spostarsi e a convergere nello stesso posto.1
Ad un certo punto della storia, attraverso il punto di vista di un cacciatore Tanu, sentiamo sulla nostra pelle la sua disperazione nel realizzare che non c’è più scampo: a nord li attende il gelo perenne e la morte di fame; a ovest non c’è spazio, perché è tutto occupato dalle altre tribù umane, che si spartiscono i territori di caccia; a sud non si può, perché nel mondo di Harrison in cui i dinosauri non si sono mai estinti, le calde fasce equatoriali sono il territorio dei grandi rettili; e a est sono arrivati gli Yilané. Quanti popoli della storia reale – penso per esempio all’età delle Grandi Migrazioni in Europa, alla fine dell’antichità – devono aver provato queste stesse sensazioni, quando infine si decisero a scendere e premere alle mura dell’Impero Romano pur sapendo i rischi a cui andavano incontro?

Il romanzo si sviluppa dunque secondo le tappe di questo conflitto, dal primo contatto, alle prime schermaglie, fino alla guerra totale. In un romanzo così corposo – quasi cinquecento pagine – è un bene che ci sia questo elemento costante a dare direzione alla storia; permette all’autore di non divagare troppo, e al contempo rassicura il lettore che si sta andando a parare da qualche parte. Unito allo spazio ‘claustrofobico’ del romanzo – quel tocco di terra per cui Tanu e Yilané se le danno di santa ragione – dà un centro di gravità alla storia.
Peccato che, anche come architetto di trame, Harrison lasci molto a desiderare. Proprio nell’ultima parte del romanzo, il romanzo divaga dal tema del conflitto tra le due specie, introduce nuovi elementi e nuove sottotrame, parte un po’ per la tangente. Poi torna in carreggiata, ma un po’ della magia iniziale è persa. Il finale appare brusco e improvvisato, e ben poco appagante dopo tutto l’investimento emotivo sui personaggi principali e le cinquecento pagine di build-up. E quindi si chiude il libro con la sensazione di aver letto una storia geniale, sì, ma un po’ incompiuta.

Turok

Se non altro, West of Eden è scientificamente più credibile di Turok.

West of Eden è uno degli esempi più compiuti di commistione tra il fantasy e la fantascienza. La civiltà e la tecnologia degli Yilané sono una pura fantasia senza fondamento, ma Harrison cerca di renderli il più plausibili e attinenti possibili alle leggi fisiche come le conosciamo. Soprattutto, la mentalità che pervade il romanzo, nel descrivere le dinamiche dei gruppi e nel tratteggiare le caratteristiche ambientali di questo mondo, è scientifica e fattuale.
Ucronia, speculazione più fantastica che scientifica, storia di “contatto”, romanzo di guerra, excursus antropologico: West of Eden è tutto questo. Certo, a causa della prosa mongoloide di Harrison solletica la testa più che il cuore; e viene a volte da pensare: “Cristo, non potevano fargli fare il layout generale della trama e dei personaggi e poi commissionare la stesura a un altro più capace?”. Ma rimane comunque un grande romanzo, per l’incredibile ambizione e per l’immaginazione folle. Consigliato? Se avete sufficiente tempo libero, sì. Leggetevi i primi due capitoli, e decidete da voi se siete abbastanza presi da andare avanti.

Dove si trova?
In lingua originale, West of Eden si può scaricare senza problemi sia su BookFinder che su Library Genesis; in entrambi i casi è disponibile solo il formato pdf. Per la versione italiana, cercate “L’era degli Yilané” su Emule.

Su Harry Harrison
Anche negli Stati Uniti, Harrison è sempre stato considerato uno scrittore di serie B, un autore da “addetti ai lavori”. Conosciuto quand’era in vita soprattutto per le sue opere di fantascienza umoristica – la serie di The Stainless Steel Rat, il romanzo breve The Technicolor Time Machine – oggi viene ricordato per le sue poche opere ‘serie’. Oltre a West of Eden, ho letto altri due dei suoi romanzi:
Make Room! Make Room! Make Room! Make Room! (Largo! Largo!) è la risposta alla domanda: “cosa succederebbe se la popolazione mondiale crescesse in modo talmente incontrollato da far crollare la società così come la conosciamo?”. In una New York in cui la gente vive in miseria ammucchiata sulle strade e nelle palazzine diroccate, si intrecciano le vite di tre persone normali: un poliziotto, una ex prostituta e un ragazzino che ha ammazzato la persona sbagliata. Pur azzoppato dall’uso del narratore onnisciente e da problemi strutturali, è un romanzo che ti rapisce. Senti sulla pelle tutta la merda che quotidianamente viene schiaffata addosso ai personaggi. Un piccolo capolavoro su cui scriverò prima o poi un Consiglio; ma la lettura è sconsigliata quando si è depressi.
A Transatlantic Tunnel, Hurrah!A Transatlantic Tunnel, Hurrah! (noto anche con il titolo di Tunnel Through the Deeps) è un romanzo proto-steampunk ambientato in un mondo in cui gli Stati Uniti hanno perso la Guerra d’Indipendenza e l’Impero Britannico governa sulle due sponde dell’Atlantico. L’umanità si appresta a costruire l’opera più grande di tutti i tempi: un tunnel ferroviario sotterraneo che passa sotto l’oceano da un capo all’altro, collegando Londra e New York; ma l’ingegnere Augustine Washington, a capo del progetto, dovrà vedersela con infiniti problemi tecnici, un rivale invidioso,misteriosi sabotatori e una melodrammatica storia d’amore. Il romanzo è una sorta di Hard SF steampunk, tutta incentrata sul funzionamento della tecnologia di questo strano mondo e sul problem solving della costruzione del tunnel; personaggi e trama sono piatti come carta velina, e poco più che una scusa per imbastire speculazioni tecniche. Un libro per super-nerd col pallino per lo steampunk (un decennio prima che il genere nascesse!).
Spinto dal successo del libro originale, Harrison ha scritto anche due seguiti di West of Eden: Winter in Eden e Return to Eden. Come sapete però non sono un amante dei sequel; e ciò che il mondo di Eden aveva da dire, l’ha già detto nel primo romanzo. Non penso valga la pena di leggere i seguiti.

Qualche estratto
Dato che il romanzo è enorme, ho scelto la bellezza di tre estratti. Consiglio a tutti di leggere almeno il primo: cronologicamente è quello più avanti di tutti, ma sintetizza bene il tema centrale del romanzo. Il cacciatore Ulfadan, al confine tra la foresta e la terra dei “murgu” (i lucertoloni giganteschi che infestano le pianure tropicali), riflette sul destino dei Tanu, chiusi da tutti i lati da pericoli troppo grandi e condannati all’estinzione se non faranno qualcosa.
Il secondo brano, tratto dal primo capitolo, mostra il primo incontro tra Tanu e Yilané, ed è uno dei momenti più felici e “mostrati” della prosa di Harrison. All’opposto, il terzo brano – preso dal secondo capitolo – è un esempio di Harrison al suo peggio: telecamera neutra che mostra una serie di strane creature al servizio degli Yilané. Di per sé la scena – che è la prima esibizione della tecnologia genetica yilané del romanzo – sarebbe molto affascinante, ma è parecchio confusionaria dato che Harrison non la aggancia ad alcun personaggio-pov.

1.
But the sammad must eat. Yet the food they searched and hunted for was growing scarcer and scarcer. The world was changing and Ulfadan did not know why. The alladjex told them that ever since Ermanpadar had shaped Tanu from the mud of the river bed the world had been the same. In the winter they went to the mountains where the snow lay deep and the deer were easy to kill. When the snow melted in the spring they followed the fast streams down to the river, and sometimes to the sea, where fish leaped in the water and good things grew in the earth. Never too far south though, for only murgu and death waited there. But the mountains and the dark northern forests had always provided everything that they had needed.
This was no longer true. With the mountains now wrapped in endless winter, the herds of deer depleted, the snow in the forests lying late into the spring, their timeless sources of food were no more. They were eating now, there were fish enough in the river at this season. They had been joined at their river camp by sammad Kellimans; this happened every year. It was a time to meet and talk, for the young men to find women. There was little of this now for although there was enough fish to eat there was not enough to preserve for the winter. And without this supply of food very few of them would see the spring.
There was no way out of the trap. To the west and east other sammads waited, as hungry as his and Kellimans’. Murgu to the south, ice to the north – and they were trapped between them. No way out. Ulfadan’s head was bursting with this problem that had no solution. In agony he wailed aloud like a trapped animal, then turned and made his way back to the sammad.

2.
They became aware that someone was standing under a nearby tree, also looking out over the bay. Another hunter perhaps. Amahast had opened his mouth to call out when the figure stepped forward into the sunlight. The words froze in his throat; every muscle in his body locked hard.
No hunter, no man, not this. Man-shaped but repellently different in every way.
The creature was hairless and naked, with a colored crest that ran across the top of its head and down its spine. It was bright in the sunlight, obscenely marked with a skin that was scaled and multicolored.
A marag. Smaller than the giants in the jungle, but a marag nevertheless. Like all of its kind it was motionless at rest, as though carved from stone. Then it turned its head to one side, a series of small jerking motions, until they could see its round and expressionless eye, the massive out-thrust jaw. They stood, as motionless as murgu themselves, gripping their spears tightly, unseen, for the creature had not turned far enough to notice their silent forms among the trees.
Amahast waited until its gaze went back to the ocean before he moved. Gliding forward without a sound, raising his spear. He had reached the edge of the trees before the beast heard him or sensed his approach. It snapped its head about, stared directly into his face.
The hunter plunged the stone head of his spear into one lidless eye, through the eye and deep into the brain behind. It shuddered once, a spasm that shook its entire body, then fell heavily. Dead before it hit the ground. Amahast had the spear pulled free even before that, had spun about and raked his gaze across the slope and the beach beyond. There were no more of the creatures nearby.
Kerrick joined his father, standing beside him in silence as they looked down upon the corpse.
It was a crude and disgusting parody of human form. Red blood was still seeping from the socket of the destroyed eye, while the other stared blankly up at them, its pupil a black, vertical slit. There was no nose; just flapped openings where a nose should have been. Its massive jaw had dropped open in the agony of sudden death to reveal white rows of sharp and pointed teeth.
“What is it?” Kerrick asked, almost choking on the words.
“I don’t know. A marag of some kind. A small one, I have never seen its like before.”
“It stood, it walked, like it was human, Tanu. A marag, father, but it has hands like ours.”
“Not like ours. Count. One, two, three fingers and a thumb. No, it has only two fingers —and two thumbs.”
Amahast’s lips were drawn back from his teeth as he stared down at the thing. Its legs were short and bowed, the feet flat, the toes claw-tipped. It had a stumpy tail. Now it lay curled in death, one arm beneath its body.

3.
The enteesenat cut through the waves with rhythmic motions of their great, paddle-like flippers. One of them raised its head from the ocean, water streaming higher and higher on its long neck, turning and looking backward. Only when it caught sight of the great form low in the water behind them did it drop beneath the surface once again.
There was a school of squid ahead—the other enteesenat was clicking with loud excitement, Now the massive lengths of their tails thrashed and they tore through the water, gigantic and unstoppable, their mouths gaping wide. Into the midst of the school.
Spurting out jets of water the squid fled in all directions. Most would escape behind the clouds of black dye they expelled, but many of them were snapped up by the plate- ridged jaws, caught and swallowed whole. This continued until the sea was empty again, the survivors scattered and distant. Sated, the great creatures turned about and paddled slowly back the way they had come.
Ahead of them an even larger form moved through the ocean, water surging across its back and bubbling about the great dorsal fin of the uruketo. As they neared it the enteesenat dived and turned to match its steady motion through the sea, swimming beside it close to the length of its armored beak. It must have seen them, one eye moved slowly, following their course, the blackness of the pupil framed by its bony ring. Recognition slowly penetrated the creature’s dim brain and the beak began to open, then gaped wide.
One after another they swam to the wide open mouth and pushed their heads into the cave-like opening. Once in position they regurgitated the recently caught squid. Only when their stomachs were empty did they pull back and spin about with a sideways movement of their flippers. Behind them the jaws closed as slowly as they had opened and the massive bulk of the uruketo moved steadily on its way.
Although most of the creature’s massive body was below the surface, the uruketo’s dorsal fin projected above its back, rising up above the waves. The flattened top was dried and leathery, spotted with white excrement where sea birds had perched, scarred as well where they had torn the tough hide with their sharp bills. One of these birds was dropping down towards the top of the fin now, hanging from its great white wings, webbed feet extended. It squawked suddenly, flapping as it moved off, startled by the long gash that had appeared in the top of the fin. This gap widened, then extended the length of the entire fin, a great opening in the living flesh that widened further still and emitted a puff of stale air.
The opening gaped, wider and wider, until there was more than enough room for the Yilanè to emerge. It was the second officer, in charge of this watch.

Tabella riassuntiva

Immagina cosa sarebbe successo se i rettili avessero ereditato la terra! Ignora le più basilari regole di gestione del pov.
Gli Yilané sono creature realmente aliene. Difficoltà a immergersi nei personaggi e nei loro drammi.           .
Interazione drammatica e realistica tra le due specie. Si ammoscia nell’ultima parte.
Protagonisti complessi e conflittuali.


(1) Sarebbe ragionevole pensare che è assurdo che una civiltà avanzata come quella Yilané non abbia ancora colonizzato i quattro angoli del globo. Anch’io, all’inizio, la credevo un’ingenuità dell’autore. In realtà, Harrison l’ha pensata bene.
Primo: gli Yilané, in quanto animali a sangue freddo, soffrono il gelo ancor più che gli uomini. Di conseguenza, non si sono mai avventurati ai poli del pianeta, né, sembra, nelle aree più settentrionali delle fasce temperate. Ed è proprio qui che vivono gli esseri umani. In un mondo in cui i grandi rettili non si sono mai estinti, infatti, pare che la maggior parte dei mammiferi abbia trovato la propria nicchia ecologica negli unici luoghi non raggiungibili dai rettili.
Secondo: per costituzione – sia biologica che culturale – gli Yilané sono, come già avevo accennato, ostili al cambiamento. Non hanno la stessa spinta di curiosità degli esseri umani (se non in singoli individui isolati), e il loro bisogno fisico di stare in armonia con la comunità fa sì che non ci siano molte spinte verso l’esterno. Di conseguenza, gli Yilané sono stati perfettamente felici di vivere chiusi nelle proprie super-città al calduccio senza alcun desiderio di uscire a esplorare il resto del pianeta, finché non sono stati costretti da necessità contingenti – la Glaciazione, appunto.Torna su

Bonus Track: The Inheritors

The InheritorsAutore: William Golding
Titolo italiano: Uomini nudi
Genere: Prehistorical Fiction / Horror
Tipo: Romanzo

Anno: 1955
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 230 ca.

Difficolta in inglese: ***

Lok, Fa, la piccola Liku, il vecchio Mal e i loro compagni stanno migrando dal mare verso le montagne per la primavera. Devono raggiungere la sporgenza rocciosa in cima alla cascata prima di notte, e rendere omaggio alla signora dei ghiacci che dimora tra le colline. Ma il posto non è più come lo ricordavano, e Mal è ormai troppo vecchio per arrampicarsi tra le rocce.
E c’è dell’altro. Non sono più soli ai piedi della cascata. C’è della gente nuova che si aggira nel bosco e tra le rocce ai lati della cascata. Hanno preso possesso dell’isola al centro del fiume, che le gente credeva irraggiungibile, e ora minacciano la vita del gruppo. E quando i loro compagni cominceranno a sparire misteriosamente, Lok e Fa capiranno che bisogna fare qualcosa – perché in gioco c’è la sopravvivenza della loro stessa specie.

Con oggi chiudo la serie dei consigli “preistorici” dedicati ai partecipanti all’antologia Deinos, recensita su questo blog ormai tre settimane fa.
William Golding è famoso soprattutto per Il signore delle mosche, ma in realtà lo scrittore britannico è autore di una valanga di altri romanzi. The Inheritors, la sua seconda fatica, nonché la sua opera preferita, è un breve romanzo che racconta il destino degli ultimi uomini di Neanderthal d’Inghilterra il giorno che sulle loro coste approdano i primi esemplari di Homo Sapiens. Appartiene quindi al genere poco esplorato delle storie ad ambientazione preistorica, con in più quella sfumatura horror che ci piace tanto.
Se la trama del romanzo è estremamente semplice e lineare, i suoi obiettivi sono piuttosto ambiziosi: cercare di farci entrare nella testa di un uomo di Neanderthal e capire come pensa; speculare su come potrebbero essersi svolti i primi rapporti tra due specie umane imparentate ma differenti; mostrarci perché i Sapiens sono sopravvissuti e si sono moltiplicati, mentre i Neandhertal si sono estinti. Soprattutto, mostrarci i nostri antenati dal punto di vista di un’altra specie. Sembra che Golding sia stato appassionato di paleontologia e del rapporto tra Sapiens e Neanderthal fin da piccolo; sarà riuscito a coniugare pazienza, serietà scientifica e abilità narrativa?

The Neanderthal Man

Lo stato della ricerca scientifica sull’uomo di Neanderthal ai tempi di Golding.

Uno sguardo approfondito
The Inheritors mi sembra la dimostrazione perfetta di come anche la migliore delle idee possa essere rovinata almeno in parte da una prosa inadeguata.
Dato che il punto di maggior interesse del romanzo è la possibilità di immedesimarsi nel punto di vista di un uomo di Neanderthal, uno si aspetterebbe un romanzo raccontato in prima o terza persona appiccicata. Invece no. Come gia’ in Lord of the Flies, Golding si affida a un narratore onnisciente posto “nei pressi” di Lok, uno dei Neanderthal, e che si avvicina o si allontana dalla sua testa a seconda del momento. E se col progredire del romanzo la connessione col pov di Lok diventa (fortunatamente) sempre piu’ solida, nei primissimi capitoli, quando ancora il gruppo è molto compatto, la telecamera pare schizzare ora verso uno, ora verso l’altro dei Neanderthal.

Questo crea fin dall’inizio due grossi problemi.
Primo: dato che non si capisce mai esattamenta che angolazione si sta guardando la scena, mappare l’esatta disposizione degli elementi dello scenario è oltremodo difficile. Piu’ volte mi sono trovato a dover rivedere la mia immagine mentale degli ambienti del libro, o a non capire piu’ in quali posizione reciproca palude, boschi, fiume, cascata, colline, terrazza e montagne fossero; il che è sempre grave, ma lo è ancora di piu’ in una storia – come questa – in cui la topografia è così importante.
Secondo: poiché il filtro dell’autore ci distanzia dai protagonisti della storia, ci sentiamo meno coinvolti. Espressioni come questa: “Then, as so often happened with the people, there were feelings between them”, ci ricorda che noi lettori non siamo membri della ‘gente’, non siamo nella testa dei Neanderthal, ma ci troviamo nella testa dell’autore che via via ci racconta le vicende dei suoi poveri personaggi. Non solo si perde l’occasione di vivere l’esperienza straniante di vivere ‘dentro la testa’ di un Neanderthal, ma difficilmente proveremo brividi di ansia e paura quando i primi membri del gruppo cominceranno a sparire senza lasciare traccia.

The Neanderthal Man

La lotta per la sopravvivenza tra Neanderthal e Sapiens. Sentite il brividino d’ansia corrervi su per la schiena?

Di conseguenza, più spesso che no si spande sulle pagine di The Inheritors quella sostanza grigia e appiccicosa che è la noia. Da una parte, le lunghe descrizioni della boscaglia, del fiume, del rombo della cascata, degli scherzi che la luce del sole fa sulla vallata in differenti momenti della giornata; dall’altra, il ritmo lentissimo con cui gli episodi chiave del libro si succedono, intervallati da pagine e pagine di attività triviali e/o inconcludenti. All’inizio è interessante vedere i Neanderthal alle prese con occupazione quotidiana, vedere come risolvono i problemi più semplici legati alla sopravvivenza, vedere quante difficoltà incontrino in attività che per noi Sapiens sarebbero (o dovrebbero essere?) di una banalità estrema. Ma dopo un po’ il lettore capisce come funziona, e comincia a spazientirsi all’idea di doversi sorbire altre decine di pagine che ribadiscono il concetto, aspettando che accada qualcosa.
Nella ‘lotta’ tra Neanderthal e Sapiens, assistiamo a molte sortite inconcludente, a molti giri a vuoto, a piani che vengono tentati e rielaborati più e più e più volte. In parte questo riflette il carattere dei Neanderthal di Golding – l’incapacità a rimanere focalizzati per troppo tempo sulla stessa cosa, la tendenza a lasciarsi distrarre dalla prima minchiata, la volubilità emotiva, l’estrema difficoltà a sviluppare pensiero astratto. In questo senso, il comportamento irrazionale e ripetitivo dei protagonisti del romanzo è corretto. Tuttavia questa ripetitività diventa alla lunga indigeribile per il lettore medio (e so per esperienza che io ho più pazienza del lettore medio).

Se Golding non poteva certo far comportare i suoi Neanderthal diversamente da come si comportano, pena la perdita di credibilità/coerenza, dall’altra nulla gli impediva di ricorrere a un legittimo espediente: cioè di accelerare e vivacizzare la storia ad opera di qualcosa di esterno, come i Sapiens, gli animali, o qualche calamità naturale, eccetera. O ancora, si sarebbero potute fare delle cesure temporali, tagliando tutto ciò che sta in mezzo tra due momenti importanti della trama (o almeno, i meno significativi di questi episodi, che sono la maggior parte). Il fatto che i Neanderthal vivano la vita a un ritmo placido non significa che anche il mondo attorno a loro (o soprattutto, il mondo della storia) debba fare altrettanto.
Sono ragionevolmente sicuro che si sarebbe potuto scrivere The Inheritors con la metà delle pagine (o anche meno) senza perdere nulla dal punto di vista del contenuto. Probabilmente, data la ‘semplicità’ e linearità dell’argomento del libro, il formato della novella avrebbe funzionato alla perfezione.

Cranio di Neanderthal

Cranio di un uomo di Neandertha. Trasuda intelligenza da tutti i pori.

Tutto questo è un peccato, perché di per sé i Neanderthal di Golding sarebbero anche interessanti.
Tra le loro caratteristiche principe, il fatto che pensino (perlopiù) tramite immagini statiche invece che mediante parole o astrazioni; il loro modo di ricordare un evento passato, o di fare un piano per il futuro, o di spiegarsi un fenomeno, è creando un’immagine mentale (make a picture nel testo). Alcune volte ho avuto l’impressione che Golding approfittasse un po’ di questa locuzione, mascherando quelli che di fatto erano dei pensieri identici a quelli di noi umani Sapiens; ma il più delle volte si nota in effetti una certa differenza, una certa lentezza nello sviluppare un pensiero o l’incapacità di spiegare le tappe di un processo, avendo a disposizione solo la situazione iniziale e l’immagine del risultato finale.
Quando all’inizio del libro i Neanderthal vanno in crisi perché non c’è più il tronco che collegava le due sponde di un rigagnolo, continuano a prodursi nella testa immagini del tronco, e immagini di altri possibili tronchi da metterci, e ci mettono parecchio tempo (e parecchio brainstorming) prima di capire come fare a far sì che lì ci sia un altro tronco.
Non essendo né un paleontologo né un antropologo forense, non sono in grado di dirvi quanto il suo ritratto sia scientificamente attendibile. I suoi Neanderthal non sono in grado di costruire manufatti, né di decorarsi, mentre Piperita Patty mi ha raccontato che ci sono casi documentati di uomini di Neanderthal con perline tra i capelli – ma bisogna tenere conto che The Inheritors è stato scritto negli anni ’50, quando si sapevano meno cose sull’argomento. Interessante, piuttosto, che Golding abbia anticipato la possibilità di interbreeding tra Sapiens e Neanderthal (oggi si stima che noi Sapiens dell’Eurasia portiamo nel nostro codice genetico dall’1 al 4% di DNA Neanderthal; qui un brevissimo articolo sull’argomento e qui il paper di Science a cui si riferisce il primo articolo)1.

Golding fa invece appello alla licenza poetica quando i suoi Neanderthal di una debole forma di telepatia di gruppo. I Neanderthal comunicano di rado a voce tra di loro, perché il più delle volte possono comunicarsi a vicenda immagini (share a picture). Personalmente ho apprezzato questa caratteristica, e contribuisce a differenziare il comportamento dei Neanderthal da quello dei Sapiens nel romanzo. Mi ha lasciato molti dubbi, invece, la decisione di attribuire loro una specie di culto della non-violenza, per cui non mangiano altri animali a meno che non li abbiano trovati già morti.
Ho apprezzato anche l’idea di scegliere come protagonista Lok, il più stupido della ‘gente’, nonché quello che ha più difficoltà a produrre immagini e a condividerle col resto del gruppo. Di default, in questo tipo di storie l’autore sceglie come protagonista il personaggio più sveglio, più indipendente, l’outsider; Lok invece è il più “irrimediabilmente Neanderthal”, il meno evoluto della sua specie, quello che fa più fatica a capire quello che sta succedendo. Nonostante la presenza costante del filtro dell’autore, il pov di Lok amplifica l’effetto straniante di stare nella testa di una specie più stupida e più lenta. Questo fa sì che spesso gli eventi vengano descritti in modo semplice e scabro, come una sequenza di azioni che dev’essere il lettore a interpretare, perché Lok non ne è in grado. Questa variazione sul tema dell’unreliable narrator è interessante, anche se a volte ho avuto serie difficoltà a capire cosa stesse succedendo – ma potrebbe essere colpa del mio inglese non sufficientemente allenato, e non del libro.

Parentela Neanderthal Sapiens

Ha! Niente genoma Neanderthal per voi, negri!

Insomma, c’erano tutti gli elementi perché venisse fuori un bel romanzo. Se questo non succede, le ragioni stanno in una gestione barbina del pov – che vanificano in parte il buon tentativo di farci vedere il mondo attraverso gli occhi e gli atti di una specie più ‘stupida’ – e nell’organizzazione sbagliata dei tempi narrativi. Io stesso ho fatto parecchia fatica a portare a termine la lettura, nonostante la curiosità di sapere come Golding l’avrebbe fatto finire 2. Di conseguenza, sarei molto cauto nel consigliare The Inheritors, anche agli appassionati di preistoria. Quello che posso dirvi è: soppesate bene i pro e i contro che vi ho presentati prima di imbarcarvi nell’acquisto, anche considerato che è molto difficile trovare delle copie piratate del romanzo.
Oh! Ora che me ne accorgo, questa Bonus Track mi è venuta persino più lunga dell’ultimo Consiglio. E dire che avevo promesso che le Bonus Track sarebbero state brevi e sintetiche. Ah! Ah! Ah! Che deficiente.

Dove si trova?
Purtroppo, come dicevo poc’anzi, The Inheritors è uno di quei pochi romanzi di Golding che è molto difficile trovare piratato. Una versione kindle è comunque disponibile su Amazon a un prezzo tollerabile (6,24 Euro al momento in cui scrivo). Una traduzione italiana è storicamente esistita, ma è molto vecchia, e dubito che riuscirete a procurarvene un esemplare.

Chi devo ringraziare?
Come tutti, conoscevo Golding per Il signore delle mosche; ma se ho deciso di leggere questo The Inheritors lo devo soprattutto a Piperita Patty / Conigliettoassassino (saltuaria commentatrice di questo blog), che dopo lunga frequentazione è riuscita a trasmettermi un po’ di curiosità per il mondo preistorico e per i nostri antenati biologici. Ora sta cercando disperatamente di convincermi a leggere i libri della Auel – si vedrà.

The Clan of the Cave Bear

Primo libro della saga degli Earth’s Children di Jean Auel. Non l’ho letto.

Qualche estratto
Il primo estratto viene dal secondo capitolo, quando la ‘gente’ si riunisce per discutere e dà una dimostrazione del suo modo di pensare mediante parole e condivisione di immagini. Dà anche un’idea della posizione del protagonista Lok all’interno del gruppo. Il secondo estratto, più avanti nel libro, mostra invece i Sapiens attraverso lo sguardo di uno stupito Lok.

1.
Then Fa came and leaned her body against Mal so that three of them shut him in against the fire. He spoke to them between coughs.
“I have a picture of what is to be done.”
He bowed his head and looked into the ashes. The people waited. They could see how his life had stripped him. The long hairs on the brow were scanty and the curls that should have swept down over the slope of his skull had receded till there was a finger”s-breadth of naked and wrinkled skin above his brows. Under them the great eye-hollows were deep and dark and the eyes in them dull and full of pain. Now he held up a hand and inspected the fingers closely.
“People must find food. People must find wood.”
He held his left fingers with the other hand; he gripped them tightly as though the pressure would keep the ideas inside and under control.
“A finger for wood. A finger for food.”
He jerked his head and started again.
“A finger for Ha. For Fa. For Nil. For Liku—–”
He came to the end of his fingers and looked at the other hand, coughing softly. Ha stirred where he sat but said nothing. Then Mal relaxed his brow and gave up. He bowed down his head and clasped his hands in the grey hair at the back of his neck. They heard in his voice how tired he was.
“Ha shall get wood from the forest. Nil will go with him, and the new one.” Ha stirred again and Fa moved her arm from the old man”s shoulders, but Mal went on speaking.
“Lok will get food with Fa and Liku.”
Ha spoke:
“Liku is too little to go on the mountain and out on the plain!”
Liku cried out:
“I will go with Lok!”
Mal muttered under his knees:
“I have spoken.”
Now the thing was settled the people became restless. They knew in their bodies that something was wrong, yet the word had been said. When the word had been said it was as though the action was already alive in performance and they worried. Ha clicked a stone aimlessly against the rock of the overhang and Nil was moaning softly again. Only Lok, who had fewest pictures, remembered the blinding pictures of Oa and her bounty that had set him dancing on the terrace. He jumped up and faced the people and the night air shook his curls.
“I shall bring back food in my arms”–he gestured hugely–“so much food that I stagger—–so!”
Fa grinned at him.
“There is not as much food as that in the world.”
He squatted.
“Now I have a picture in my head. Lok is coming back to the fall. He runs along the side of the mountain. He carries a deer. A cat has killed the deer and sucked its blood, so there is no blame. So. Under this left arm. And under this right one—-he held it out—-the quarters of a cow.”
He staggered up and down in front of the overhang under the load of meat. The people laughed with him, then at him. Only Ha sat silent, smiling a little until the people noticed him and looked from him to Lok.
Lok blustered:
“That is a true picture!”
Ha said nothing with his mouth but continued to smile. Then as they watched him, he moved both ears round, slowly and solemnly aiming them at Lok so that they said as clearly as if he had spoken: I hear you! Lok opened his mouth and his hair rose. He began to gibber wordlessly at the cynical ears and the half-smile.
Fa interrupted them.
“Let be. Ha has many pictures and few words. Lok has a mouthful of words and no pictures.”

2.
At last they saw the new people face to face and in sunlight. They were incomprehensibly strange. Their hair was black and grew in the most unexpected ways. The bone-face in the front of the log had a pine-tree of hair that stood straight up so that his head, already too long, was drawn out as though something were pulling it upward without mercy. The other bone-face had hair in a huge bush that stood out on all sides like the ivy on the dead tree.
There was hair growing thickly over their bodies about the waist, the belly and the upper part of the leg so that this part of them was thicker than the rest. Yet Lok did not look immediately at their bodies; he was far too absorbed in the stuff round their eyes. A piece of white bone was placed under them, fitting close, and where the broad nostrils should have shown were narrow slits and between them the bone was drawn out to a point. Under that was another slit over the mouth, and their voices came fluttering through it. There was a little dark hair jutting out under the slit.
The eyes of the face that peered through all this bone were dark and busy. There were eyebrows above them, thinner than the mouth or the nostrils, black, curving out and up so that the men looked menacing and wasp-like. Lines of teeth and seashells hung round their necks, over grey, furry skin. Over the eyebrows the bone bulged up and swept back to be hidden under the hair. As the log came closer, Lok could see that the colour was not really bone white and shining but duller. It was more the colour of the big fungi, the ears that the people ate, and something like them in texture. Their legs and arms were stick-thin so that the joints were like the nodes in a twig.

Tabella riassuntiva

La lotta per la sopravvivenza tra Neanderthal e Sapiens! Gestione barbina del punto di vista che rovina le buone intenzioni.
Una speculazione su come pensavano e si comportavano i Neanderthal. Spesso è difficile farsi una mappa mentale dell’ambientazione.
Ritmo inesistente e noia a palate.

(1) Ecco un interessante estratto dall’articolo di Science a proposito dell’espansione dei primi Sapiens dall’Africa in Eurasia e dell’incontro (fisico e genetico) con i Neanderthal:

Implications for modern human origins. One model for modern human origins suggests that all present-day humans trace all their ancestry back to a small African population that expanded and replaced archaic forms of humans without admixture. Our analysis of the Neandertal genome may not be compatible with this view because Neandertals are on average closer to individuals in Eurasia than to individuals in Africa. Furthermore, individuals in Eurasia today carry regions in their genome that are closely related to those in Neandertals and distant from other present-day humans. The data suggest that between 1 and 4% of the genomes of people in Eurasia are derived from Neandertals. Thus, while the Neandertal genome presents a challenge to the simplest version of an “out-of-Africa” model for modern human origins, it continues to support the view that the vast majority of genetic variants that exist at appreciable frequencies outside Africa came from Africa with the spread of anatomically modern humans.

A striking observation is that Neandertals are as closely related to a Chinese and Papuan individual as to a French individual, even though morphologically recognizable Neandertals exist only in the fossil record of Europe and western Asia. Thus, the gene flow between Neandertals and modern humans that we detect most likely occurred before the divergence of Europeans, East Asians, and Papuans. This may be explained by mixing of early modern humans ancestral to present-day non-Africans with Neandertals in the Middle East before their expansion into Eurasia. Such a scenario is compatible with the archaeological record, which shows that modern humans appeared in the Middle East before 100,000 years ago whereas the Neandertals existed in the same region after this time, probably until 50,000 years ago.

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(2) Da questo punto di vista mi ritengo soddisfatto. Il finale di The Inheritors è costruito in modo intelligente e mi è piaciuto – consolandomi della noia dei capitoli precedenti.Torna su

I Consigli del Lunedì #16: Childhood’s End

Le guide del tramontoAutore: Arthur C. Clarke
Titolo italiano: Le guide del tramonto
Genere: Science-Fantasy / Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1953
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 220 ca.

Difficoltà in inglese: **

Un bel giorno, verso la fine del XX secolo, dal cielo piomba una flotta di gigantesche navicelle aliene. Le astronavi si piazzano sopra ognuna delle principali città terrestri, e lì restano, sospese e immobili, come monito. Ma non c’è da avere paura. Attraverso la voce di Karellen, Supervisore per la Terra, i Superni (Overlords) dichiarano di essere venuti per impedire che gli esseri umani si distruggano con le proprie mani, e per traghettarli verso una nuova era di pace globale e prosperità.
La superiorità dei Superni è talmente evidente che l’opposizione è inesistente. I governi terrestri mantengono un’autonomia limitata, ma tutte le questioni di reale importanza vengono decise dagli alieni. Tuttavia i Superni non si mischiano con gli esseri umani; al contrario, rimangono chiusi nelle astronavi e rifiutano di farsi vedere. L’umanità non è ancora pronta, dice Karellen – dovranno passare cinquant’anni dal loro arrivo, prima che si risolvano a mostrare il loro aspetto. Solo un uomo è autorizzato a parlare con i Superni e a comunicare le loro decisioni ai governi terrestri: Rikki Stormgren, segretario finlandese delle Nazioni Unite. Ma neanche a lui è permesso di vedere in faccia gli invasori; Karellen gli parla solo attraverso un microfono in una stanza oscurata della sua astronave.
Cosa nascondono i Superni, e quali sono i loro progetti per la Terra? Quel che è certo, è che il destino politico e biologico dell’umanità sembra destinato a cambiare per sempre…

Arthur C. Clarke, uno dei Big Three della fantascienza della Golden Age, è noto soprattutto per i suoi romanzi di Hard SF – le sue vaste competenze di matematica, fisica e ingegneria gli permettevano infatti di speculare sulle modalità del viaggio spaziale, della fondazione di colonie nel Sistema Solare e della terraformazione di pianeti e satelliti, e sulla società del futuro.
Ma questo Childhood’s End, che secondo il parere mio e di molti altri fan è il migliore in assoluto di Clarke, ha ben poco di hard. La tecnologia degli Overlord, e il mondo che portano con sé, appartengono a quel grado di scienza che, secondo la legge formulata dallo stesso Clarke, diventa indistinguibile dalla magia. L’intero romanzo è una speculazione puramente fantastica sul nostro mondo dopo un’invasione “benevola” di una civiltà infinitamente superiore, e sul destino sociale e genetico del genere umano.
Da Olaf Stapledon (che considerava suo maestro spirituale) e dai suoi Last and First Men (di cui ho parlato qui) e Star Maker, Clarke riprende l’idea di raccontare una storia dell’umanità più che quella di pochi individui – anche se sceglie di farlo attraverso le storie di alcuni personaggi. Similmente a A Canticle for Leibowitz, il romanzo è diviso in tre parti che corrispondono a tre diversi periodi cronologici (anche se l’intervallo tra una parte e l’altra è di solo mezzo secolo anziché 500 anni). Ogni parte ha i suoi personaggi, anche se alcuni ricorrono in più di una parte; e in ogni caso Clarke è pronto ad abbandonarli appena non gli servono più. Qui l’unico protagonista è il genere umano.

Indipendence Day

Ecco, immaginatevi una cosa del genere. Solo che poi gli alieni non sparano un megaraggio della morte sopra Los Angeles.

Uno sguardo approfondito
Lasciatemi subito chiarire una cosa, così poi non ci pensiamo più: Clarke è un cane della scrittura. La sua è una delle prose peggiori che potrete mai trovare tra i “grandi” della fantascienza, e forse persino la Troisi scrive meglio. La storia è raccontata con una “bella” terza persona onnisciente, che a seconda delle circostanze si avvicina o si allontana dal personaggio pov del momento. Nelle scene con la maggior concentrazione di personaggi pov (per esempio all’inizio della seconda parte), la telecamera è anche capace di saltare dall’uno all’altro nello spazio di poche righe.
Il lettore è bombardato per tutto il romanzo da battaglioni di infodump, che quando va bene vengono filtrati dal pensiero del personaggio pov, quando va male ti vengono schiaffati addosso direttamente dal Narratore. Interi periodi della storia sono raccontati in modo statico e riassuntivo, come se Clarke volesse preparare il setting della prossima scena saliente ma fosse troppo pigro per farlo in modo immersivo. Completano il quadro un uso indiscriminato di aggettivi e avverbi.

I personaggi sono poco più che burattini nelle mani dell’autore, la cui funzione si esaurisce nel mostrare da un’ottica “a misura d’uomo” le progressive trasformazioni della nostra civiltà. E fin qui, non ci sarebbe nulla di male. I problemi cominciano quando Clarke tenta di dare a questi manichini una falsa patina di profondità, facendo incursioni nella loro testa o soffermandosi su dei momenti drammatici. Ma poiché le loro tribolazioni ci sono “raccontate” dall’autore anziché mostrate con gesti concreti, e poiché la loro generale piattezza impedisce al lettore di mettersi più che tanto nei loro panni, è difficile provare della vera empatia. Ad alcuni dei protagonisti succederanno delle cose veramente brutte, ma l’impatto emotivo è smorzato dalla pochezza della prosa di Clarke. Bisogna scegliere: o si decide che è un romanzo scientifico, e allora i personaggi sono semplici “veicoli” della speculazione e stanno ai margini della trama; o si decide di approfondire il mondo interiore dei personaggi, ma allora si abbandona il pov onnisciente, si impara a mostrare lo stato emotivo delle persone e si studia meglio la psiche umana!1
Alcuni dei protagonisti di Childhood’s End fanno parziale eccezione. Il segretario Rikki Stormgren, per esempio, combattuto tra la sincera ammirazione e fiducia verso il Sovrintendente alieno, e la sua lealtà alla propria razza, privata della propria indipendenza. Il bisogno un po’ infantile di scoprire, almeno lui, il vero aspetto degli alieni, diventerà l’obiettivo più importante della sua vita, e il lettore lo segue con simpatia e partecipazione nella sua quest. Oppure Jan Rodricks, astrofisico nero insoddisfatto della fine del progresso e della stagnazione che gli alieni hanno portato sulla Terra, che sogna di imbarcarsi clandestinamente su una delle astronavi per conoscere il pianeta d’origine degli Overlord. O lo stesso Karellen – personaggio titanico, come ogni alieno superevoluto che si rispetti, insondabile nelle sue motivazioni, e con una sfumatura di ironia triste nella voce che ti fa chiedere cosa nasconda.

Spaventapasseri

Un essere umano, nell’immaginario di Clarke.

Fa il paio con i personaggi deboli la divisione del romanzo in più periodi storici. Il lettore abituato alle storie a intreccio – magari sul tipo delle interminabili Cronache di Martin – potrebbe fare fatica ad andare avanti nella lettura, con un tale ricambio di personaggi e situazioni. In parte il problema è caratteristico di questo tipo di romanzo, e non può essere evitato. In parte è colpa di Clarke, che nel tessuto della storia principale apre troppe sotto-trame, alcune delle quali non riesce neanche a chiudere (o non in modo convincente). Per esempio la storia della colonia di Nuova Atene, potenzialmente molto interessante, è messa in piedi in modo raccogliticcio (con la tipica descrizione statica del Narratore che va avanti per pagine e pagine), e conclusa in modo sbrigativo quando il focus del romanzo si sposta da un’altra parte.
Un tipo diverso di lettore, però, potrebbe rimanere affascinato proprio per l’abbondanza di spunti e avvenimenti. I colpi di scena, la risposta a vecchie domande e la proposizione di nuove domande si succede a un ritmo rapido, tanto che mi sono rifiutato di svelare più delle prime pagine del romanzo per timore di farvi degli spoileroni. Succede un sacco di roba, e su ordini di grandezza sempre più alti.

Soprattutto, Childhood’s End è un romanzo che trasuda sense of wonder da tutti i pori – e non quello pervasivo ma modesto di molti romanzi di New Weird o Bizarro Fiction, ma proprio quello che – per usare le parole di Gamberetta – ti fa dire WOW! in lettere maiuscole. Prendendo le mosse da un’invasione aliena, Clarke ci parla di evoluzione, di poteri esp, di teologia, della struttura stessa del cosmo, del destino ultimo della razza umana. Ci parla di un universo in cui le forze in gioco sono talmente grandi, che un misero uomo non può fare nient’altro che stare a guardare.
Fin troppo, forse. Alcuni passaggi, specialmente verso la fine, sanno un po’ troppo di deus-ex-machina, un po’ troppo di “eh, gli insondabili misteri dell’Universo!”. E a volte potrebbe sembrare che Clarke si abbandoni a una crudeltà gratuita – anche se io ho apprezzato molto la sua mancanza di buonismo; del resto la natura non è ‘buona’, al cosmo non gliene frega niente del benessere degli esseri umani. E alcune risposte agli enigmi disseminati da Clarke non sono convincenti: per esempio, la spiegazione del perché gli esseri umani siano terrorizzati dall’immagine del diavolo con le corna e la coda a punta è un po’ tortuosa. Ma sono dettagli.

It was ALIENS

Childhood’s End è un romanzo pieno di tutti i difetti tipici della scrittura clueless di Clarke; ma è anche uno dei libri che mi ha più colpito negli ultimi anni. A differenza di molta fantascienza invecchiata male, questo romanzo ha il potere di lasciarti basito anche a settant’anni dalla pubblicazione. Leggetelo: è un ordine!

Dove si trova?
Purtroppo le ultime volte che ho controllato sia Bookfinder che Library Genesis erano down, perciò non ho potuto controllare se Childhood’s End si trova. Confermo però che è disponibile sul canale #ebooks di irchighway (mIRC).
In italiano, quasi tutti i romanzi di Clarke sono facilmente rintracciabili su Emule.

Su Clarke
Clarke è uno degli autori di fantascienza più famosi in assoluto, perciò con ogni probabilità conoscerete già (e magari avrete già letto) i suoi romanzi. Ma in Italia Clarke è stato sempre ripubblicato poco, ed è difficile trovare sue opere in libreria. Ecco perciò una breve carrellata delle sue opere più meritevoli:
Polvere di Luna A Fall of Moondust (Polvere di Luna), ambientato in un XXI secolo in cui la Luna è stata ampiamente colonizzata, racconta le vicende di una piccola navetta passeggeri, che durante una crociera sulla superficie del satellite, in seguito a un terremoto, “affonda” nella superficie del pianeta. La storia segue i tentativi dell’equipaggio e di un team di soccorso di recuperare la navetta, in una corsa contro il tempo. Una disaster story carina e scientificamente accurata, ma senza pretese.
2001: Odissea nello spazio  2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) lo conoscerete tutti. Rispetto al film, il libro, che Clarke ha scritto in contemporanea al lavoro di sceneggiatura con Kubrick, si prende più tempo per approfondire le vicende e in generale è molto più comprensibile. La parte ambientata nel paleolitico e l’ultima parte sono rese meglio nel libro, e il finale ha un senso. Comunque non è bello come Childhood’s End, benché i temi si assomiglino.
Rendezvous with Rama  Rendezvous with Rama (Incontro con Rama) è il romanzo BDO per eccellenza. Una grossa navicella spaziale di origine aliena entra nel Sistema Solare senza dichiarare le sue intenzioni; una squadra di militari e scienziati viene inviata ad esplorarla. Ma la navicella, ribattezzata ‘Rama’, si rivelerà un ecosistema artificiale completamente autosufficiente… Rama è il miglior libro di Clarke dopo Childhood’s End e, nonostante la solita pochezza della sua prosa e molte potenzialità sprecate, un piccolo capolavoro dell’Hard SF. Se non l’avete già fatto, leggetelo.
The Fountains of Paradise  The Fountains of Paradise (Le fontane del paradiso) segue la storia del dottor Vannevar Morgan, talentuoso ingegnere che sogna di costruire il primo ascensore spaziale – una piattaforma che possa salire dalla cima di una montagna dello Sri Lanka fino ad un satellite in orbita geostazionaria a 36000 km d’altezza. Il romanzo seguirà tutte le fasi del progetto, tra ostilità dei nativi, mancanza di fondi, incidenti e cambi di rotta, intrecciando la trama principale con flashback sul periodo leggendario dell’isola. Romanzo pieno di idee affascinanti, benché il ritmo sia piano e la suspence spesso ai minimi termini.
Tra i romanzi minori di Clarke, consigliati solo ai fan sfegatati, aggiungo i mediocri The Sands of Mars (Le sabbie di Marte), Imperial Earth (Terra imperiale) e Songs of the Distant Earth (Voci di Terra lontana). Un caso di romanzo promettente ma miseramente fallito è invece The City and the Stars (La città e le stelle) che in futuro mi piacerebbe includere in un articolo sui romanzi abortiti.

Chi devo ringraziare?
Tanto per cambiare, ho saputo dell’esistenza di questo libro grazie all’articolo su Il senso del meraviglioso di Gamberi Fantasy, benché ovviamente conoscessi già Clarke di fama. Gamberetta l’ha definito “come The End of Evangelion, solo che ha un senso”, il che è abbastanza vero.

Qualche estratto
Ho scelto due estratti dal primo capitolo della prima parte; ho preferito non spingermi molto oltre nel libro, per non rovinare qualche colpo di scena. Il primo estratto è un’infodumpata sgraziata ma affascinante sulle modalità dell’invasione degli Overlord; il secondo mostra il modo in cui il segretario Stormgren si mette in contatto con il Supervisore Karellen.

1.
It was, of course, only a very small operation from their point of view, but to Earth it was the biggest thing that had ever happened. There had been no warning when the great ships came pouring out of the unknown depths of space. Countless times this day had been described in fiction, but no one had really believed that it would ever come. Now it had dawned at last; the gleaming, silent shapes hanging over every land were the symbol of a science Man could not hope to match for centuries. For six days they had floated motionless above his cities, giving no hint that they knew of his existence. But none was needed; not by chance alone could those mighty ships have come to rest so precisely over New York, London, Paris, Moscow, Rome, Cape Town, Tokyo, Canberra…
Even before the ending of those heart-freezing days, some men had guessed the truth. This was not a first tentative contact by a race which knew nothing of Man. Within those silent, unmoving ships, master psychologists were studying humanity’s reactions. When the curve of tension had reached its peak, they would act.
And on the sixth day, Karellen, Supervisor for Earth, made himself known to the world in a broadcast that blanketed every radio frequency. He spoke in English so perfect that the controversy it began was to rage across the Atlantic for a generation. But the context of the speech was more staggering even than its delivery. By any standards, it was a work of superlative genius, showing a complete and absolute mastery of human affairs. There could be no doubt that its scholarship and virtuosity, its tantalizing glimpses of knowledge still untapped, were deliberately designed to convince mankind that it was in the presence of overwhelming intellectual power. When Karellen had finished, the nations of Earth knew that their days of precarious sovereignty had ended. Local, internal governments would still retain their powers, but in the wider field of international affairs the supreme decisions had passed from human hands. Argument — protests — all were futile.
It was hardly to be expected that all the nations of the world would submit tamely to such a limitation of their powers. Yet active resistance presented baffling difficulties, for the destruction of the Overlord’s ships, even if it could be achieved, would annihilate the cities beneath them. Nevertheless, one major power had made the attempt. Perhaps those responsible hoped to kill two birds with one atomic missile, for their target was floating above the capital of an adjoining and unfriendly nation.
As the great ship’s image had expanded on the television screen in the secret control room, the little group of officers and technicians must have been torn by many emotions. […] The screen became suddenly blank as the missile destroyed itself on impact, and the picture switched immediately to an airborne camera many miles away. In the fraction of a second that had elapsed, the fireball should already have formed and should be filling the sky with its solar flame.
Yet nothing whatsoever had happened. The great ship floated unharmed, bathed in the raw sunlight at the edge of space. Not only had the bomb failed to touch it, but no one could ever decide what had happened to the missile. Moreover, Karellen took no action against those responsible, nor even indicated that he had known of the attack. He ignored them contemptuously, leaving them to worry over a vengeance that never came. It was a more effective, and more demoralizing, treatment than any punitive action could have been. The government responsible collapsed in mutual recrimination a few weeks later.

Dal loro punto di vista, si era trattato di una missione trascurabile, ma per i terrestri era l’evento più importante che li avesse mai colpiti. Non c’erano state avvisaglie quando le grandi astronavi avevano cominciato a scendere dalle sconosciute profondità
dello spazio. Innumerevoli volte quel momento era stato descritto nelle opere di fantascienza, ma nessuno aveva mai creduto che un giorno potesse succedere veramente.
Ma quel giorno era venuto: le lucenti sagome che ondeggiavano silenziose sopra ogni nazione erano il simbolo di un progresso scientifico che l’uomo non avrebbe raggiunto per chissà quanti secoli. Per sei giorni erano rimaste sospese nella più assoluta immobilità sulle metropoli della Terra, senza fare niente, quasi ne ignorassero l’esistenza. Ma non c’era bisogno che dimostrassero di
sapere cosa c’era sotto di loro. Non poteva essere per caso che quelle astronavi si fossero fermate sopra New York, Londra, Parigi,
Mosca, Roma, Città del Capo, Tokyo, Canberra…
Anche prima che giungessero quei giorni di panico, qualcuno aveva intuito la verità. Quello non era che un primo tentativo di contatto da parte di una razza che ignorava tutto dell’uomo. Dentro le silenziose astronavi immobili, studiosi di psicologia stavano
certamente esaminando le reazioni dei terrestri. E, quando la tensione sarebbe arrivata all’apice, allora avrebbero agito.
Il sesto giorno, Karellen, Supercontrollore per la Terra, si fece conoscere agli uomini in una trasmissione radio che bloccò tutte
le radiofrequenze. Parlò in inglese perfetto, scatenando discussioni che infuriarono oltre l’Atlantico per una generazione intera. Ma il
significato del discorso fu più sbalorditivo della lingua usata per pronunciarlo. Fu indubbiamente il discorso di un genio che dimostrò
di conoscere alla perfezione le questioni terrestri. Nessun dubbio che la virtuosità di quel discorso, gli accenni a conquiste scientifiche ancora lontane per l’uomo erano destinati a convincere il genere umano che si trovava di fronte a forze intellettuali infinitamente superiori, Quando Karellen ebbe finito, ogni nazione seppe che i suoi giorni di precaria sovranità erano finiti. I governi
locali avrebbero conservato il potere, ma nel campo più vasto degli affari internazionali non sarebbero più stati gli uomini a decidere. Polemiche, proteste, fu tutto inutile.
Naturalmente non ci si poteva aspettare che tutte le nazioni avrebbero accettato con passiva rassegnazione un tale limite ai loro
poteri. Ma la ribellione aperta si rivelò irta di difficoltà, perché la distruzione delle astronavi dei Superni, ammesso che l’impresa
fosse possibile, avrebbe comportato la distruzione delle città sotto di esse.
Tuttavia, una delle grandi potenze aveva tentato. Forse quella nazione aveva sperato di prendere due piccioni… con un missile atomico, dato che il bersaglio era l’astronave sopra la capitale di una nazione confinante e ostile.
Nel momento in cui l’immagine della grande astronave si dilatava sullo schermo televisivo della segreta sala d’operazioni, i militari e i tecnici presenti dovevano essere stati travolti dalle loro stesse emozioni. […]
Di colpo, nell’attimo in cui il missile si disintegrava all’impatto, l’immagine sparì dallo schermo e immediatamente passò ad una telecamera aerea lontana chilometri e chilometri. In quella frazione di secondo, la sfera di fuoco formatasi in seguito all’esplosione
avrebbe dovuto riempire il cielo con la sua incandescenza.
Invece non era successo niente. L’astronave si librava illesa, illuminata dal sole ai limiti dello spazio visibile. Non solo non era stata colpita, ma nessuno avrebbe saputo dire cosa fosse successo al missile.
Karellen non prese nessun provvedimento contro i responsabili dell’attacco, e si sarebbe detto perfino che non se ne fosse accorto.
Ignorò sdegnosamente il fatto lasciando i responsabili a tormentarsi nell’attesa di una rappresaglia che non venne mai. Un atteggiamento
più efficace e più demoralizzante di qualsiasi azione punitiva. Poche settimane dopo, il governo responsabile entrò in crisi per le accuse reciproche dei suoi membri.

Reddito e alieni

Gli alieni pagheranno per questo.

2.
Karellen never kept him waiting for long. There was a sudden “Oh!” from the crowd, and a silver bubble expanded with breath-taking speed in the sky above. A gust of air tore at Stormgren’s clothes as the tiny ship came to rest fifty meters away, floating delicately a few centimeters above the ground, as if it feared contamination with Earth. As he walked slowly forward, Stormgren saw that familiar puckering of the seamless metallic hull, and in a moment the opening that had so baffled the world’s best scientists appeared before him. He stepped through it into the ship’s single, softly-lit room. The entrance sealed itself as if it had never been, shutting out all sound and sight.
It opened again five minutes later. There had been no sensation of movement, but Stormgren knew that he was now fifty kilometers above the earth, deep in the heart of Karellen’s ship. He was in the world of the Overlords; all around him, they were going about their mysterious business. He had come nearer to them than had any other man; yet he knew no more of their physical nature than did any of the millions on the world below.
The little conference room at the end of the short connecting corridor was unfurnished, apart from the single chair and the table beneath the vision screen. As was intended, it told absolutely nothing of the creatures who had built it. The vision screen was empty now, as it had always been. Sometimes in his dreams Stormgren had imagined that it had suddenly flashed into life, revealing the secret that tormented all the world. But the dream had never come true; behind the rectangle of darkness lay utter mystery. Yet there also lay power and wisdom — and, perhaps most of all, an immense and humorous affection for the little creatures crawling on the planet beneath.
From the hidden grille came that calm, never-hurried voice that Stormgren knew so well though the world had heard it only once in history. Its depth and resonance gave the single clue that existed to Karellen’s physical nature, for it left an overwhelming impression of sheer
size. Karellen was large — perhaps much larger than a man. It was true that some scientists, after analyzing the record of his only speech, had suggested that the voice was that of a machine. This was something that Stormgren could never believe.
“Yes, Rikki, I was listening to your little interview. […] The details of the World Federation have been out for a month now. Has there been a substantial increase in the seven percent who don’t approve of me, or the twelve percent who Don’t Know?”
“Not yet. But that’s of no importance: what
does worry me is a general feeling, even among your supporters, that it’s time this secrecy came to an end.”
Karellen’s sigh was technically perfect, yet somehow lacked conviction.
“That’s your feeling too, isn’t it?”
The question was so rhetorical that Stormgren did not bother to answer it.
“I wonder if you really appreciate,” he continued earnestly, “how difficult this state of affairs makes my job?”
“It doesn’t exactly help mine,” replied Karellen with some spirit. “I wish people would stop thinking of me as a dictator, and remember I’m only a civil servant trying to administer a colonial policy in whose shaping I had no hand.”

Karellen non lo faceva mai aspettare a lungo. Ci fu un’esclamazione improvvisa della folla, e una bolla argentea si dilatò nel cielo con velocità incredibile. Una raffica di vento investì Stormgren nell’istante in cui il piccolo veicolo spaziale si fermava a una
cinquantina di metri, restando sospeso a pochi centimetri dal suolo, quasi timoroso di un contatto con la Terra. Mentre camminava
lentamente verso la folla, Stormgren vide il familiare raggrinzarsi dello scafo metallico apparentemente senza connessure, e un attimo dopo l’apertura che aveva tanto stupito i più celebri scienziati del pianeta si rivelò. Lui entrò nell’unica sala scarsamente illuminata della piccola astronave. L’apertura si richiuse senza lasciare traccia, escludendo ogni suono e ogni vista dall’esterno.
Si riaprì cinque minuti più tardi. Non aveva avuto nessuna sensazione di movimento, ma Stormgren sapeva di essere a cinquanta chilometri sopra la Terra, profondamente incuneato nel cuore della nave cosmica di Karellen. Era tra i Superni: intorno a lui essi erano intenti alle loro misteriose faccende. Stormgren era spesso andato più vicino a loro di qualsiasi altro uomo, eppure come ogni altro terrestre ignorava tutto del loro aspetto fisico.
La saletta delle riunioni in fondo al breve passaggio era arredata unicamente con una sedia e un tavolino sotto il teleschermo e, secondo le intenzioni, non rivelava assolutamente nulla delle creature che l’avevano costruita. Lo schermo era vuoto e spento, come l’aveva sempre visto Stormgren. Talvolta in sogno, lui immaginava di vederlo accendersi improvvisamente, rivelando il segreto che assillava il mondo. Ma il sogno non si era mai avverato: dietro quel rettangolo di tenebra si annidava il mistero più impenetrabile. Ma vi si nascondeva anche potenza e saggezza, e soprattutto una infinita
tolleranza, una specie di divertito sentimento di affetto per le piccole creature che si affannavano sul pianeta Terra.
Dalla grata nascosta venne la voce calma, mai assillata dalla fretta, che Stormgren conosceva tanto bene e che il mondo aveva sentito una volta sola nella sua storia. La profondità e la risonanza di quella voce erano la sola indicazione sulla natura fisica di Karellen, e dava una chiara impressione delle sue dimensioni: Karellen doveva essere altissimo, più grande di un essere umano.
Alcuni scienziati, però, dopo avere analizzato la registrazione del suo discorso, avevano prospettato l’ipotesi che la voce fosse quella di una macchina, ma Stormgren non poteva crederci.
«Sì, Rikki, ho seguito il vostro breve colloquio. […] Da un mese ormai si conoscono i particolari sull’andamento della Federazione
Mondiale. C’è stato un sensibile aumento sulla vecchia percentuale del sette per cento dei miei oppositori, o sul dodici per cento
degli agnostici?»
«No, ma non è questo il punto più importante. Mi preoccupa, piuttosto, il sentimento generale, diffuso anche tra i vostri sostenitori, che è tempo di svelare il mistero di cui vi circondate.»
Il sospiro di Karellen fu tecnicamente perfetto, ma mancava di convinzione.
«Ed è anche il vostro sentimento, non è vero?»
La domanda era retorica, e Stormgren non si preoccupò di rispondere.
«Mi domando se vi rendete conto» continuò seriamente «di come questa situazione renda difficile il mio lavoro…»
«Credetemi, non facilita nemmeno il mio» rispose Karellen, con una certa vivacità.
«Vorrei che la gente la smettesse di considerarmi un dittatore e si ricordasse che sono soltanto un funzionario incaricato di seguire una politica coloniale nella cui elaborazione non ha messo mano.»

Tabella riassuntiva

L’apocalisse più tranquilla nella storia della fantascienza! Clarke scrive come un cane.
Ritmo rapido che accende sempre nuovi interrogativi. Personaggi subordinati a una storia più grande di loro.
Sense of wonder maiuscolo e a palate. Alcune trovate sanno un po’ troppo di deus-ex-machina.

(1) Questo difetto accompagnerà Clarke fino alla fine della sua carriera. E’ un particolarmente sentito in quei romanzi in cui le idee di fondo non sono abbastanza buone da mascherare la debolezza dei personaggi.
Spesso si cita The Songs of Distant Earth come esempio di un Clarke più attento alla psicologia dei personaggi. Sì, è vero che in quel romanzo Clarke si concentra molto sui rapporti sentimentali tra i protagonisti – peccato che il risultato sia osceno! Il risultato, infatti, è una specie di Dawson’s Creek sullo sfondo di navicelle spaziali e missioni planetarie, solo che gli sceneggiatori di Dawson’s Creek sono più bravi. Sembra che Clarke sia del tutto incapace di tratteggiare il mondo interiore di un essere umano in modo decente.Torna su

Dawson's Creek

“Presto, Dawson! Dobbiamo prendere la Magellano e andare a terraformare Sagan 2!!!”
“…eh?”

I Consigli del Lunedì #11: Last and First Men

Last and First MenAutore: Olaf Stapledon
Titolo italiano: Infinito
Genere: Science Fiction / Pseudo-trattato
Tipo: Romanzo

Anno: 1930
Nazione:
 UK
Lingua:
 Inglese
Pagine:
 340 ca.

Difficoltà in inglese: *

Immaginate che un’entità aliena che dice di venire dal futuro e di appartenere alla razza degli Ultimi Uomini vi entri nella mente e cominci a parlare attraverso di voi. Immaginate che questa creatura, infinitamente più evoluta di voi, sfrutti il corpo di uno scrittore – Olaf Stapledon per esempio – per lasciare, sotto le spoglie di un’opera di fantascienza, un messaggio all’Umanità. E immaginate che tale messaggio consti del resoconto dei prossimi due miliardi di anni di evoluzione umana.  Di come, a partire dal dopoguerra della Prima Guerra Mondiale, l’umanità sia progredita, attraverso una successione di balzi evolutivi e regressioni bestiali, verso stadi dell’esistenza sempre più alieni. E immaginate che, mentre vi racconta ciò, questa creatura vi chieda aiuto – a voi, insignificanti Primi Uomini – per un compito che neanche loro, Ultimi Uomini, possono risolvere da soli.
Bene; adesso, invece che starvi a immaginare tutte queste cose, andate a leggervi Last and First Men.

Negli ultimi anni, prima da Gamberetta, poi da parte mia e di altri commentatori, Last and First Men è stato indicato come un romanzo che, pur violando praticamente tutte le regole della narrativa di genere e della catarsi, è in grado di incuriosire e meravigliare.
A rigor di logica, sarebbe più corretto chiamarlo un anti-romanzo, più ancora che non Flatland – lo stile infatti è quello di un trattato, di un reportage, o di un’autobiografia razziale. Non ci sono personaggi, se non lo scorrere del tempo, e l’Umanità in generale. Il buon vecchio Olaf da questo punto di vista è stato onesto, precisando fin dall’introduzione che il suo non è un romanzo, ma una speculazione filosofico-scientifica in forma di romanzo.
Last and First Men è infatti speculative fiction allo stato puro: quale potrebbe essere il futuro, prossimo e remoto, del genere umano?

Cibo per Cthulhu

Uno sguardo approfondito
La voce narrante dell’Ultimo Uomo è senza infamia e senza lode. Il suo tono è quello didattico e paternalistico di un’entità infinitamente superiore che si rivolge a un suo antenato e tenta di spiegargli cose più grandi di lui. Aldilà dei passaggi più colloquiali, la narrazione adotta un punto di vista onnisciente a volo d’uccello, per cui noi vediamo intere nazioni e masse di uomini che si muovono sulla scena come fossero individui – proprio come in un manuale di storia, solo che la storia è inventata. Ma la voce narrante non scompare mai: come uno storico, commenta i fatti mentre li racconta, con tono pacato e uniforme. Insomma – siamo dalle parti del narratore intrusivo primo-ottocentesco, con l’attenuante che quantomeno questa voce narrante è essa stessa un personaggio della storia 1.
La catarsi è impossibile. Se i primi capitoli si concentrano sull’evolversi dei rapporti politici tra le grandi potenze del Novecento, con ancora un certo livello di dettaglio, man mano che la storia va avanti la visuale si alza e si allarga, e la narrazione diventa più sbrigativa, parlando delle nuove razze di uomini in termini generali e descrivendo soltanto gli eventi più importanti. Dei due miliardi di storia umana promessi, il secondo, intero miliardo è sintetizzato nei capitoli finali.
A onor del vero, occasionalmente la visuale si abbassa per mostrarci una scena madre, ossia un momento storico di straordinaria importanza Ma non è che queste scene siano più immersive del resto: i personaggi sono figure anonime e funzionali, e il lettore sa già che spariranno dalla narrazione nel giro di poche pagine. Anzi, talvolta queste scene nella loro ingenuità sono imbarazzanti. Su tutte, l’atroce scena del meeting notturno tra i leader mondiali, nel Capitolo 3, in cui l’imprevista irruzione di una bellissima indigena nuda cambierà il futuro politico del nostro mondo. SRSLY?

Sul piano formale, Last and First Men ha tutti i limiti tipici dello pseudo-trattato; ma il romanzo ha due grossi problemi anche sul piano dei contenuti.
Primo problema è che, come molte altre opere di fantascienza di questo periodo, è invecchiato male. Non solo il Novecento ha imboccato una strada diversa rispetto a quella da lui immaginata; ma molti dei progressi e delle scoperte che Stapledon scriveva sarebbero avvenute nell’arco di millenni e ad opera di razze umane infinitamente superiori alla nostra, si sono in realtà verificati già nell’arco di decine di anni.
Un esempio eclatante è il viaggio spaziale. Nel romanzo, la nostra razza non scoprirà mai il modo di viaggiare nello spazio; bisognerà aspettare la razza dei Quinti Uomini, creature intelligentissime che esisteranno tra milioni di anni. Inoltre, e nonostante tutta la loro intelligenza, Stapledon ci racconta come, prima di riuscire a portare a termine una missione, una vagonata di navicelle finirà esplosa o si perderà nello spazio. E dire che, nella realtà, la nostra razza è riuscita a mandare con successo l’uomo sulla Luna solo quarant’anni dopo la pubblicazione del romanzo!
Insomma, Stapledon pecca costantemente di sottovalutazione della razza umana, immaginando tempi lunghissimi per progressi che in realtà hanno richiesto molto meno tempo.

Cane astronave

I Quinti Uomini costruiscono la loro prima navicella. Funzionerà?

L’altro problema è il peso eccessivo che, nella storia delle guerre e dei progressi tecnologici, Stapledon sembra dare a fattori spirituali ed etici, a detrimento dei fattori materiali. Per esempio, nei primi capitoli, quando si parla delle guerre che coinvolgeranno Europa, America e Asia, l’autore dà grandissimo rilievo alla tipicità dei popoli, come la flemma britannica o l’industriosità tedesca. Grazie a Dio i fattori economici e politici non sono completamente dimenticati, ma giocano un ruolo marginale. I conflitti tra gli uomini hanno così spesso l’aria di scaramucce tra bambini nervosi, che si sarebbero potute evitare con un po’ più di onestà, fiducia reciproca, equilibrio psichico. Il che – non bisognerebbe neanche dirlo – è terribilmente ingenuo.
La fissazione di Stapledon diventa meno fastidiosa mano a mano che si va avanti nella storia, e i popoli e le nazioni che conosciamo vengono sostituiti con esseri completamente inventati. Ma alcune regole basilari del mondo animale (e, in particolare, dell’essere umano) continuano a essere ignorate, come ad esempio la naturale tendenza ad espandersi ovunque possibile e ad occupare le nicchie ecologiche vuote: come già detto sopra, gli esseri umani di Stapledon aspettano milioni di anni prima di azzardare il viaggio spaziale, e anche allora, si spostano il meno possibile.
Ma rimane in lui l’idea che all’incremento dell’intelligenza e delle capacità tecnica corrisponda, o tenda a corrispondere, un aumento della sensibilità, del senso, dell’equilibrio psichico. Di conseguenza, l’evoluzione umana assume nel libro di Stapledon i tratti di una corsa verso la perfezione psicofisica che alla lunga è castrante per la fantasia dell’autore e un po’ noiosa per il lettore.

Non che questa evoluzione sia lineare, per fortuna. Anzi: Stapledon immagina una vasta gamma di disastri – dall’olocausto nucleare all’invasione marziana, da una guerra di sterminio tra razze a cataclismi cosmici – che avranno come conseguenza un ristagno o una regressione evolutiva, quando non addirittura la quasi completa estinzione dell’essere umano.
A compensare i difetti del libro, infatti, troviamo una vasta gamma di idee curiose sul destino della nostra razza, tra cui supercervelli bioingegnerizzati o uomini alati con le ossa cave; la scoperta del viaggio nel tempo e la comunione mistica di più coscienze in un’unica superentità. Ma soprattutto, l’idea di una storia vastissima, durante la quale i continenti cambiano di posto, gli ecosistemi si alterano in maniera irreversibile, l’intero Sistema Solare cambia faccia, e l’essere umano diventa qualcosa di quasi completamente alieno rispetto a noi.
Proprio da questo senso di enormità deriva il sense of wonder del romanzo di Stapledon. Fosse stato scritto diversamente, sarebbe potuto essere un capolavoro; così com’è, nonostante tutto, rimane una raccolta di idee affascinanti corredate da una serie di falle e un retrogusto di sano vekkiume primo-novecentesco. Last and First Men è soprattutto una curiosità storica, ma credo abbia ancora la capacità di impressionare.

Gli eroi del crepuscolo

Gli elfi della Strazzulla non sono riusciti in 250.000 anni a uscire dalla Sicilia, i superuomini di Stapledon impiegano un milione di anni per andarsene dalla Terra. Separati alla nascita?

Su Olaf Stapledon
Di Stapledon ho letto altri tre libri – in pratica, tutte le sue opere più celebri. Purtroppo, in misura diversa, tutti i romanzi di Stapledon tendono ad assomigliarsi: tutti hanno più l’aria di saggi, resoconti o biografie, che di narrativa; e condividono tutti gli stessi temi e conclusioni simili.
Perciò, leggerseli tutti è una perdita di tempo. Ma se Last and First Men dovesse piacervi, potreste provare un altro tra questi:

Odd JohnOdd John (Q.I. 10000) è la biografia immaginaria di John Wainwright, giovane membro di un nuovo stadio genetico della razza umana. Dalla sua nascita, nei primi del Novecento, alla sua scoperta di essere “diverso” dagli altri, dai tentativi per rintracciare suoi simili alla fine di lui e della sua gente per mano degli ottusi governi mondiali, il libro ci racconta tutta la vita dello Strano John. Come impostazione ricorda un po’ i romanzi di formazione del periodo, come Demian o Siddharta di Herman Hesse, ma è un pochino meglio.

Costruttore di stelleStar Maker (Costruttore di stelle) racconta l’esperienza metafisica e quasi dantesca di un uomo che, senza motivo apparente, si ritrova ad essere un puro spirito incarnato e a viaggiare per il cosmo. Nel suo viaggio nel tempo e nello spazio conoscerà una moltitudine di razze aliene e di strani corpi celesti, e assisterà all’universale corsa evoluzionistica verso lo Star Maker, la divinità celeste creatrice di ogni cosa. Questo strano saggio-romanzo cosmogonico riprende l’impostazione e anche la storia di Last and First Men, ma su scala più grande: se il primo vi è piaciuto, dateci un’occhiata.

SiriusSirius riprende l’impostazione biografica di Odd John come Star Maker quella di Last and First Men. Lo scienziato Thomas Trelone crea in laboratorio il primo cane superintelligente, e lo affida alle cure amorevoli della sua famiglia, in una fattoria del Galles. Qui Sirius, il cane, stringerà un legame speciale con la figlia appena nata dello scienziato, Plaxy. Il romanzo racconta, dal punto di vista del ragazzo di Plaxy, la storia di Sirius nel suo tentativo di trovare un posto nel mondo, entrare in rapporto col mondo degli uomini e risolvere la dicotomia tra la sua natura ferina di cane e quella intellettuale di uomo.

Dove si trova?
L’opera omnia – o quasi – di Stapledon si può trovare gratuitamente in lingua originale su Feedbooks. Tre i formati: epub, kindle e pdf. Gli altri due non li ho provati, ma posso dire che gli epub della Feedbooks sono formattati benissimo (perlomeno quando non ci sono immagini, come in questo caso).
In italiano, ahimè, Stapledon è pressoché introvabile – o quantomeno, io non ho avuto fortuna. Ma Stapledon è un autore facile da leggere in inglese, per cui approfittatene per fare pratica!

Chi devo ringraziare?
Avevo già sentito vagamente parlare di Stapledon, se non altro come uno dei padri ispiratori di Arthur C. Clarke; ma a convincermi a leggerlo è stata la menzione che di Last and First Men fa Gamberetta nel suo bellissimo articolo sul sense of wonder.

Evoluzione Pokémon

Qualche estratto
Il primo estratto viene dall’incipit dell’introduzione, in cui la voce narrante aliena si presenta e traccia il piano dell’opera; e dà un’idea del timbro e del ritmo di tutto il romanzo. Il secondo estratto viene da uno dei momenti che mi sono piaciuti di più: la descrizione dei marziani.

1.
This book has two authors, one contemporary with its readers, the other an inhabitant of an age which they would call the distant future. The brain that conceives and writes these sentences lives in the time of Einstein. Yet I, the true inspirer of this book, I who have begotten it upon that brain, I who influence that primitive being’s conception, inhabit an age which, for Einstein, lies in the very remote future.
The actual writer thinks he is merely contriving a work of fiction. Though he seeks to tell a plausible story, he neither believes it himself, nor expects others to believe it. Yet the story is true. A being whom you would call a future man has seized the docile but scarcely adequate brain of your contemporary, and is trying to direct its familiar processes for an alien purpose. Thus a future epoch makes contact with your age. Listen patiently; for we who are the Last Men earnestly desire to communicate with you, who are members of the First Human Species. We can help you, and we need your help.
You cannot believe it. Your acquaintance with time is very imperfect, and so your understanding of it is defeated. But no matter. Do not perplex yourselves about this truth, so difficult to you, so familiar to us of a later aeon. Do but entertain, merely as a fiction, the idea that the thought and will of individuals future to you may intrude, rarely and with difficulty, into the mental processes of some of your contemporaries. Pretend that you believe this, and that the following chronicle is an authentic message from the Last Men. Imagine the consequences of such a belief. Otherwise I cannot give life to the great history which it is my task to tell.
When your writers romance of the future, they too easily imagine a progress toward some kind of Utopia, in which beings like themselves live in unmitigated bliss among circumstances perfectly suited to a fixed human nature. I shall not describe any such paradise. Instead, I shall record huge fluctuations of joy and woe, the results of changes not only in man’s environment but in his fluid nature.

2.
On the Earth a single organism was without exception a continuous system of matter, which maintained a certain constancy of form. But from the distinctively Martian subvital unit there evolved at length a very different kind of complex organism, in which material contact of parts was not necessary either to coordination of behaviour or unity of consciousness. These ends were achieved upon a very different physical basis. The ultra-microscopic subvital members were sensitive to all kinds of etherial vibrations, directly sensitive, in a manner impossible to terrestrial life; and they could also initiate vibrations. Upon this basis Martian life developed at length the capacity of maintaining vital organization as a single conscious individual without continuity of living matter. Thus the typical Martian organism was a cloudlet, a group of free-moving members dominated by a “group-mind.” But in one species individuality came to inhere, for certain purposes, not in distinct cloudlets only, but in a great fluid system of cloudlets. Such was the single-minded Martian host which invaded the Earth.
The Martian organism depended […] on an immense crowd of mobile “wireless stations,” transmitting and receiving different wave-lengths according to their function. The radiation of a single unit was of course very feeble; but a great system of units could maintain contact with its wandering parts over a considerable distance.
One other important characteristic distinguished the dominant form of life on Mars. Just as a cell, in the terrestrial form of life, has often the power of altering its shape (whence the whole mechanism of muscular activity), so in the Martian form the free-floating ultra-microscopic unit might be specialized for generating around itself a magnetic field, and so either repelling or attracting its neighbours. Thus a system of materially disconnected units had a certain cohesion. Its consistency was something between a smoke-cloud and a very tenuous jelly. It had a definite, though ever-changing contour and resistant surface. By massed mutual repulsions of its constituent units it could exercise pressure on surrounding objects; and in its most concentrated form the Martian cloud-jelly could bring to bear immense forces which could also be controlled for very delicate manipulation. Magnetic forces were also responsible for the mollusc-like motion of the cloud as a whole over the ground, and again for the transport of lifeless material and living units from region to region within the cloud.
The magnetic field of repulsion and attraction generated by a subvital unit was much more restricted than its field of “wireless” communication. Similarly with organized systems of units. Thus each of the cloudlets which the Second Men saw in their sky was an independent motor unit; but also it was in a kind of “telepathic” communication with all its fellows. Indeed in every public enterprise, such as the terrestrial campaigns, almost perfect unity of consciousness was maintained within the limits of a huge field of radiation.

Tabella riassuntiva

Due miliardi di storia umana in trecento pagine! Tono cronachistico e narratore onnisciente possono annoiare.
Evoluzione non lineare, piena di alti e bassi. Fantascienza invecchiata male.
Un sacco di organismi strani. Ingenuità dell’autore nell’immaginare le dinamiche storiche.

(1) L’unico lato positivo di questa prosa uniforme e colloquiale è che è molto semplice da leggere anche se non si mastica troppo bene l’inglese. In generale, trovo che Stapledon sia un’ottima palestra per prendere la mano con la lettura in lingua inglese.Torna su