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Bonus Track: A Parliament of Crows

A Parliament of Crows

Autore: Alan M. Clark
Titolo italiano: –
Genere: Psicologico / Storico / Horror
Tipo: Romanzo

Anno: 2012
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 188
Editore: Lazy Fascist Press

Difficoltà in inglese: **

A quasi sessant’anni, le tre sorelle Mortlow – Vertiline, la maggiore, e le due gemelle Carolee e Mary – vengono arrestate nello stato del New Jersey. L’accusa? L’omicidio della figlia di Carolee, trovata annegata nella sua vasca da bagno imbottita di psicofarmaci, per intascare la sua sua assicurazione sulla vita. Ma Vertiline non ha intenzione di arrendersi alla giustizia americana – intende dare battaglia in quell’aula di tribunale, e salvare l’onore della sua famiglia.
E’ tutta la vita che Vertiline combatte per proteggere le sue sorelle. Da quando era un’adolescente, suo padre le aveva affidato il compito di educare quelle sorelle minori che si divertivano a spingere gli schiavi negri giù dalle scale; da quando la guerra di secessione aveva distrutto la sua famiglia e le aveva condannate a una vita di espedienti. In quell’aula di tribunale, e nelle celle della prigione di stato, nell’anno del signore 1908, Vertiline, Carolee e Mary ripercorrono la loro vita e le scelte che le hanno portate fino a quel triste epilogo. La giovane Orphia è stata solo l’ultima delle loro vittime, e loro sono senza rimorsi.

Abbiamo conosciuto Alan M. Clark sulle pagine di questo blog in questo articolo dedicato ai suoi “esercizi di dilatazione”. Clark comincia la sua carriera negli anni ’80 come illustratore di opere di narrativa fantastica, principalmente fantascienza. Negli ultimi anni si è avvicinato al movimento della Bizarro Fiction, realizzando molte copertine della Eraserhead Press, ed è proprio sulle pagine di Bizarro Central che ho fatto la sua conoscenza. Quello che non sapevo era che Clark fosse anche uno scrittore. Ha cominciato negli anni 2000, ma non ha scritto molto prima di cominciare a pubblicare con Lazy Fascist Press, la casa editrice gestita dall’autore di Bizarro Cameron Pierce; A Parliament of Crows è il suo secondo romanzo vero e proprio.
Pur essendo pubblicato dalla Lazy Fascist ed essendo associato agli scrittori di quell’ambiente, le storie di Alan Clark non possono essere definite Bizarro Fiction nemmeno nella più lasca delle definizioni. A Parliament of Crows è prima di tutto un romanzo storico: il caso e la vita delle sorelle Mortlow sono ispirate a una storia realmente accaduta, quella delle sorelle Wardlaw, e l’interesse di Clark a ricostruire il mondo del Sud americano della seconda metà dell’Ottocento è evidente. Un tiepido elemento horror c’è, nel senso che la vicenda delle tre sorelle sudiste è costellata di episodi macabri e attraversata da una spessa vena di follia; ma l’interesse primario dell’autore è l’approfondimento psicologico di una famiglia così borderline. Cos’avevano in testa donne capaci di fare quello che hanno fatto?

A Parliament of Crows - The Imagination Fully Dilated

Un’illustrazione di Clark ispirata a A Parliament of Crows.

Cito dall’introduzione:

Because the information about the Wardlaw sisters gives a rather two dimensional view of them, I can’t help but wonder about their emotional characteristics. I’m curious about the choices they made that led to their crimes, and how they justified to themselves what they did even as they went about their dreadful business. A Parliament of Crows is my exploration of the possibilities with the use of fictional characters and the fun of storytelling.

Affascinato dai propositi di Clark – che già stimavo come disegnatore e come blogger – e curioso di approfondire la galassia di scrittori che ruotano attorno al movimento Bizarro, ho deciso di dare una chance al suo libro.

Uno sguardo approfondito
Il romanzo si muove su due timeline differenti. La prima ci mostra il processo penale nei confronti delle sorelle Mortlow, alla fine della loro carriera delittuosa, e i loro tentativi di venirne fuori. A partire dai pensieri e dalle reminiscenze delle tre sorelle, sul banco degli imputati o tra le quattro pareti delle loro celle, si snoda la seconda timeline: flashback che ricostruiscono episodi salienti della loro vita, dall’infanzia alla cattura. Questi episodi non seguono un vero andamento cronologico, ma piuttosto associazioni di idee con la situazione della prima timeline; per esempio, da Mary che sdraiata sul pavimento della cella pensa a sua sorella, sboccia il racconto di come sia nato il legame speciale tra le due gemelle.
L’idea di questa doppia timeline è buona: da un lato non ha nessun effetto “spoiler”, perché il lettore sa già dalla quarta di copertina del libro com’è andata a finire; dall’altro, dà dinamicità a una vicenda che raccontata in modo cronologico sarebbe stata probabilmente più noiosa. Ottima scelta strutturale, quindi – peccato che Clark la rovini con uno stile assolutamente pessimo, ossia un eterno raccontato con il punto di vista del narratore onnisciente. Seriously. A seconda della scena la telecamera si avvicina o si allontana, anche penetrando nella testa di una delle tre protagoniste e confondendosi col pov della stessa, ma l’effetto complessivo è di una bella barriera tra il lettore e i personaggi.

A Parliament of Crows - The Imagination Fully Dilated

Un’altra illustrazione ispirata a A Parliament of Crows

Il raccontato investe ogni aspetto del romanzo come una colata di fango. Lunghi riassuntoni distaccati in apertura di una scena o anche al posto della scena, emozioni e stati d’animo raccontati invece che mostrati attraverso le azioni, infodump – non manca niente. Leggete queste poche righe tratte dalla primissima pagina, e guardate quante occasioni sprecate in un colpo solo:

In the long delay before the trial, during which the sisters were kept in a separate jail cells, Mary had become increasingly ill (Vertiline had good reason to think Mary was intentionally starving herself) and Carolee had gone mad from the isolation.
As the time drew near for the sisters to appear in court, Vertiline felt an unaccountable excitement despite her dread. After endless days of boredom spent in her lonely cell, she anticipated that the trial might provide intellectual and emotional stimulation. She hated herself for looking forward to the event.
But on the first day of trial, which was the first time she’d seen the twins in over a month, Vertiline found nothing about the experience desirable. She became sick with worry over the condition of her sisters while riding in the police van to the courthouse. Mary was emaciated and uncommunicative, and would look away every time Vertiline tried to make eye contact. Carolee was highly agitated. Her eyes darted about warily and when spoken to she appeared startled.

Che piattume. Quanti spunti interessanti, annacquati nel grigiore uniforme di un raccontato con pov onnisciente. E il testo non migliora andando avanti, con l’eccezione di poche scene più vivide, specialmente dialoghi (come il botta e risposta serrato tra Vertiline e l’avvocato dell’accusa durante l’interrogatorio processuale).
Anche lo stile, non solo l’ambientazione, sembra essere regredito all’Ottocento – dalle parti di Balzac, Stendhal e tutti quegli scrittori che ignoravano la costruzione a scene e lo show don’t tell. Potrebbe venire da pensare che l’abbia fatto apposta, per ‘meglio calarci’ nel clima dell’epoca. Ma, aldilà del fatto che è un’idea demente, non mi sembra il caso: Clark non si fa problemi, nelle introduzioni come altrove, a parlare della propria opera, di come l’abbia costruita e perché. Parla ad esempio della sua volontà di far usare ai personaggi termini dell’epoca – ad esempio “fiend” per indicare una creatura spregevole, un assassino o un corruttore – ma non fa mai menzione al ritorno ad uno stile ottocentesco. Pertanto mi sento di escluderlo, e di concludere che Clark lo fa per pura ignoranza.

Oltre ad essere una pessima scelta in sé, questa prosa è particolarmente infelice trattandosi di un romanzo psicologico – un romanzo, cioè, che pone come cosa più importante il ‘catturare’ e mostrare ogni tratto, esteriore o interiore, dei suoi protagonisti. Ed è un peccato, perché in compenso i personaggi sono molto affascinanti. Vertiline, la sorella maggiore e quella più ‘sana’ del gruppo, è la persona matura della famiglia; proteggere le sue sorelle – la loro vita come il loro onore – è tutto per lei, e sacrificherebbe qualsiasi cosa per la famiglia, anche le vite degli altri. Carolee è la sorella degenerata: cinica, amorale, atea, vede la vita come una lotta per la sopravvivenza e il mondo come un luogo crudele e ostile, e non si fermerebbe davanti a nulla pur di proteggere la quiete familiare. Mary è la sorella pia, ipocrita, fragile; sobilla le altre ma non si esporrebbe mai personalmente, è soggetta a svenimenti e crisi mistiche. Crede fermamente in Dio, ed è certa che Lui protegga la loro famiglia e legittimi ogni loro azione.
Insieme, le tre sorelle hanno un’alchimia spettacolare; il rapporto tra loro e il mondo esterno, e le loro azioni, suonano sempre credibili. Clark non fa di loro le classiche macchiette del serial killer. I loro delitti sono compiuti spesso in modo accidentale o improvvisato, le loro azioni sono maldestre, e la loro ignoranza di donne della campagna sudista fa commettere loro molti errori. Non c’è una perfetta armonia familiare, anzi – spesso gli assassinii sono provocati contro le intenzioni della razionale (ma connivente) Vertiline. Il risultato è un ritratto molto credibile, e non mi sorprenderei se le motivazioni dietro le autentiche sorelle Wardlaw fossero state esattamente le stesse. Forse Clark non sarà un “fine psicologo” quanto Kundera, ma si difende bene. L’unica caduta di stile, a mio avviso, è l’episodio traumatico che a un tratto Clark inscena nella loro giovinezza, e che fa tanto “ecco, sono diventate così efferate perché hanno vissuto un trauma!” 1

Trauma

Il romanzo, insomma, ha anche quella piacevole impressione di verità, di ricostruzione storica accurata che tanto mi piace. Le scelte compiute dalle sorelle per rimettersi dai loro guai finanziari, come diventare istitutrici o contrarre matrimoni vantaggiosi, mi hanno ricordato i cento romanzi dell’Ottocento che ho letto. L’importanza di essere donne rispettabili, di proteggere il proprio onore, la freddezza della terminologia e degli atteggiamenti tra coppie sposate che non si amano, il rapporto isterico col sesso. Ho trovato tutto convincente e mi sono sentito trasportato nell’America rurale del sud-ovest, benché indubbiamente io non sia un esperto del periodo e quindi sia attendibile fino a un certo punto.
E’ quasi completamente assente, invece, l’elemento fantastico: l’horror è quello che scaturisce dalle azioni e dalla psicologia borderline di esseri umani normali. L’unico elemento weird è la connessione sovrannaturale che sembra esistere tra le due gemelle, per cui una sa sempre (con il minimo sforzo) quello che sta facendo o sta provando l’altra; Mary è convinta che Carolee possa spingerla a fare quello che vuole con la sola forza della volontà. Ma potrebbe anche trattarsi di un caso estremo di autosuggestione: non è mai provato nel romanzo che si tratti realmente di qualcosa di paranormale, e in fondo è meglio così.

In un vecchio articolo sulla potenza del mostrato e di una solida gestione del pov, avevo detto che un bravo scrittore di narrativa dovrebbe essere in grado di farti identificare persino in Hitler, farti parteggiare persino per Hitler, se è lui il protagonista della storia. E’ affascinante immergersi nella psiche di un personaggio moralmente riprovevole; nel lettore si creano sentimenti ambigui, il desiderio di “staccarsi” da un personaggio che ci disgusta e al tempo stesso l’identificazione con esso. E’ come se nel romanzo si creasse un ulteriore livello di conflitto: non solo tra il protagonista e il mondo esterno o tra il protagonista e sé stesso, ma tra il lettore e il pov. E se è vero che il conflitto aumenta il coinvolgimento, aggiungendo questo livello si schizza alle stelle!
Con A Parliament of Crows, Clark aveva questa possibilità: quella di incatenarci in un misto di repulsione ed empatia alla follia delle sorelle Mortlow. Ma lo stile raccontato ammazza l’immersione sul nascere, e il lettore non arriva mai all’identificazione, se non in pochissime scene concitate e mostrate con telecamera ravvicinata. Si può al massimo arrivare a una certa comprensione distaccata per le tre gelide serial killer, ma poco altro; e in questo forse Clark ha fallito anche nei suoi stessi propositi. Il romanzo è comunque godibile per la psicologia dei personaggi e la ricostruzione della società dell’epoca; e dopotutto, in queste storie macabre, un po’ di fascino rimane anche quando la prosa è debole.

Hitler al telefono

In fondo anche lui aveva un lato tenerone, no?

Su Alan M. Clark
Come ho accennato in apertura di articolo, Clark ha scritto un altro romanzo prima di questo. Si chiama Of Thimble and Threat, è un altro romanzo ad ambientazione ottocentesca e racconta la storia personale di una delle prostitute vittime di Jack lo Squartatore, dall’infanzia alla morte. La cosa più affascinante è che Clark tenta di scrivere la storia di Catherine Eddowes partendo dall’inventario degli oggetti trovatile addosso al momento della morte. Una sorta di romanzo-reportage, dove la fantasia interviene laddove non sia stato possibile ricostruire il fatto reale.
Ciononostante, non credo leggerò questo romanzo di Clark, a meno che proprio non abbia di meglio da leggere. Il suo stile raccontato mi ha molto deluso, e non ritengo che meriti un ulteriore esborso di denaro. Se qualche appassionato però volesse fare la prova, sarò lieto di sentire poi cosa ne pensa.
Ecco alcune parole di Clark sul romanzo:

In writing Of Thimble and Threat, my effort was not to create a character we would relate to as one from our time, but one whose words and actions were shaped by her environment and circumstances and whose driving emotions were seen as reasonable within that context. Victorian England, with it’s social structure, polluted environment, the quality of sustenance, labor conditions, the state of scientific and medical knowledge, the prevalence and pervasiveness of disease and the ease with which people became ill and slipped quickly into death, was a very different world from the one in which I live. All these elements created different priorities for the people of that time from what most of us experience today. The average person was likely much more aware of mortality day to day, since something as simple as a cut on the finger could easily fester and lead to death. Choosing an occupation–if one were lucky enough to have a choice–was to choose between compromising one or another aspects of one’s health.

That’s not to say we don’t have these concerns today, but time and experience has led to systems which mitigate much of the extremes seen in Victorian London. Human beings haven’t truly changed–we experience the same emotions we always have. The stimulus for those emotions is what changes from generation to generation. We would certainly relate to those of another time, but having a conversation with someone from the 1800s would be a singular experience for someone today.

The possessions of Catherine Eddowes started that conversation with me, and Of Thimble and Threat is my response.

Of Thimble and Threat

Il romanzo d’esordio di Clark su Lazy Fascist Press.

Dove si trova?
A Parliament of Crows è troppo poco famoso perché qualcuno si sia preoccupato di piratarlo, a quanto pare. Su Amazon.it si può trovare l’edizione kindle al prezzo di 5,50 Euro; prezzo un po’ alto, anche in rapporto all’effettiva qualità del libro, ma ancora abbordabile se la storia vi ha appassionato.

Qualche estratto
Per i due estratti ho scelto due scene che mi sono particolarmente piaciute. Il primo è una brano del processo, quando a interrogare Vertiline è l’avvocato difensore (che lei ha ottimi motivi per disprezzare); da notare l’uso di termini desueti deliziosi come “busybodies” o “what a dolt!”. il secondo è un flusso di pensieri di Carolee in carcere, in cui viene rievocato un episodio triste della sua infanzia che trovo particolarmente riuscito.

1.
Despite her discomfort, Vertiline continued to sit up as straight as possible in the witness chair. She might do a better job still if she believed her attorney did her any good.
After going over the events surrounding Orphia’s death, Mr. Hitchens turned to other discoveries dredged up during the police investigation: those elements of the state’s case presented to make Vertiline and her sisters look like cold-hearted criminals. The family’s dirty laundry would be aired once again before strangers in the courtroom, but this time, Vertiline hoped Mr. Hitchens would help her take it all down, fold it neatly, and put it away looking much cleaner.
Doing her best to soften her facial features, adopt a less formal posture, and appear open in response to her attorney, Vertiline hoped the jury’s impressions of her were improving as she spoke.
“Do you remember well the time before your family moved to New Jersey, Miss Mortlow,” Mr. Hitchens asked, “when you and your two sisters, the deceased, and her husband all lived in the apartment in Brooklyn?”
“Yes, sir.”
“Were you surprised to hear that two of your neighbors, a Mrs. Biermann and a Miss Calise, called as witnesses, referred to it as a ‘mystery house’ and a ‘baby farm?’”
“Yes, sir.” Vertiline remembered the women well. She considered them troublemakers and busybodies.
Mr. Hitchens consulted his notes at the defense table. “The relevance to this case was not established,” he said. “How many children were born to your niece during that time?”
“Orphia had one child shortly after we removed to Brooklyn,” Vertiline said evenly, “and another a few years later.”
“She gave her first child, a girl named Alberta, up for adoption. Can you tell us why?”
No—the question is too pointed! The dolt wasn’t characterizing events to put them in a good light! He left that up to her, and she struggled to find the proper words.
“Orphia’s husband…” she began haltingly, “had…run away.”
Vertiline paused to reflect on her good-for-nothing nephew, Fletcher. She wondered where he’d gone and if he ever found work he was willing to do.
“Is that all?” Mr. Hitchens asked.
“The child…” she began, but her voice trailed off. Vertiline didn’t want to admit they had gotten rid of the child merely because Alberta had kept them all up day and night with her crying. Vertiline had not admitted that to herself until the present moment. With the realization, came distress. She glanced quickly at the jury and saw several of the men frown.
“Miss Mortlow?” Mr. Hitchens said.
Vertiline shook off the reverie. “I—I’m sorry.” She took a deep breath. “My niece was ill and suffering from severe melancholy. My sisters and I were busy organizing our new business venture, a tutoring service. Orphia neglected the child.”
I must appear more caring, and present my decisions as more than merely practical.
“What happened to the second infant—John, was it?”
Again, a blunt question regarding a delicate subject. Does he have no sense at all? He made no effort to help her set the scene and create a scenario sympathetic to Vertiline and her sisters. She glared at Mr. Hitchens, then regretted it, for she knew the jury saw the expression.

2.
Carolee was a survivor. When she thought about what that meant, she often remembered the emaciated feral dog that prepared a whelping den and gave birth to a litter of pups under an azalea in the garden behind the house on Spring Street. Because the war had finally come to Milledgeville and Union forces moved through the city, Mr. Mortlow had instructed his daughters to confine themselves to the upstairs of the house. They were not allowed to go outside at all. Carolee snuck out to the garden anyway, and was attracted by the small squeals of the pups. The bitch and her suckling litter was such a sweet vision, Carolee had an impulse to pick up and cuddle one of the cute puppies. A glaring look and snarls from the mother persuaded her to keep her distance. Carolee did not begrudge the bitch such brute protection of her young. She dragged a couple of the wrought-iron outdoor chairs over to the exposed side of the azalea to help block the cold November wind from the den. Having something warm and tender to think about, Carolee returned to the house without being caught. For the first time in a long while, she looked forward to the next day when she would find another opportunity to sneak out and look in on the nursery.
When the next day came, Vertiline kept a close watch on her, insisting that she play games with her twin and help with various small tasks while remaining in either their father?s upstairs study or the hiding place accessible through the wall panel in that room. Mr. Mortlow created the secret room months before in preparation for a time when the family might need to hide from marauding Union troops. The family currently slept there every night. Carolee was sick of the cramped, smelly space.
Mr. Mortlow had been asleep in his chair at his desk in the study all day. He was white as bedlinen and sleeping soundly. The four of them took naps in the afternoon. Mr. Mortlow often slept in his chair while his daughters lay on piles of quilts in the hiding place. When nap time came, Carolee said, “I’m going to take a quilt into the study and sleep with Father today.”
Vertiline didn’t argue with that, but because she left the panel to the hiding place open, Carolee would have to make sure everyone was asleep before she snuck out to see the puppies. She made a little bed beside her father’s desk near the opening, just out of her sisters’ line of sight. When she heard them breathing deeply in sleep, she got up and snuck out of the study, tiptoed down the stairs, through the hall, the dining room, the kitchen, and out the back door.
She crept through the garden, approaching the whelping den quietly to keep from startling the bitch and her litter. As she slowly pulled one of the chairs away, she heard growling. Light spilled into the den, revealing the bitch licking her bloody mouth. The litter was gone, all but for one tiny leg. The bitch lunged and Carolee gasped, dropped the chair and stumbled back. Heartbroken, she turned and ran for the house.
All day, Carolee struggled to hide her tears.
Finally, Vertiline asked her, “Why are you so sad today?”
“I wish the War was over,” Carolee said, “and we could all have plenty to eat again.”

Tabella riassuntiva

Le sorelle Mortlow sono assassine non stereotipate e complesse. Prosa raccontata  che appiattisce la storia.
Ricostruzione credibile del Sud americano del tardo Ottocento. Pov onnisciente che distanzia il lettore.
What a dolt! Qualche episodio appare un po’ forzato.


(1) In realtà non è vero, perché Carolee e Mary erano fuori di testa tutt’e due anche prima. Però l’episodio, raccontato com’è raccontato e messo a quel punto del romanzo, sembra voler dare questo tipo di messaggio.Torna su

I Consigli del Lunedì #30: Time and Again

Time and AgainAutore: Jack Finney
Titolo italiano: Indietro nel tempo
Genere: Slipstream / Fantasy / Slice of Life
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 400 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Da grande Si Morley voleva fare l’artista. Invece è finito a lavorare come grafico pubblicitario e a trascinarsi giorno dopo giorno in una vita che non lo soddisfa. La New York degli anni ’60 lo deprime, e ogni volta che può evade nel passato, guardando vecchie foto color seppia o perdendosi nei cimeli dell’America dell’Ottocento. E’ così che ha conosciuto la sua attuale ragazza, Kate, proprietaria di un negozio di antiquariato. Così, quando un bel giorno Rube Prien, maggiore dell’esercito, compare alla porta del suo ufficio offrendogli di abbandonare la sua vecchia vita per partecipare a un progetto governativo supersegreto, Si non riesce a dire di no.
Il Dr. Danziger e il suo staff hanno scoperto un modo per viaggiare nel tempo. Non sono necessari complicati macchinari o l’energia di una stella. Ogni momento storico passato e futuro è simultaneamente presente attorno a noi, solo che non lo vediamo, ancorati come siamo al presente da tutti gli oggetti e le sensazioni che ci circondano; ma se si potesse convincere intimamente qualcuno di essere in un dato momento del passato, egli andrebbe davvero nel passato. Poche persone al mondo hanno capacità creative e di autosuggestione tali da poter compiere questo viaggio – e Si è una di loro. La sua destinazione? La New York del 1882.
Riuscirà Si Morley a viaggiare nel passato e a svelare il mistero che aleggia attorno agli antenati di Kate, o si tratta solo di un’illusione indotta dall’ipnosi? E cosa sceglierà, quando si troverà a dover decidere tra il presente e il passato?

Dopo un mese dall’ultimo post e ben due dall’ultimo Consiglio, torniamo con un nuovo romanzo sui viaggi nel tempo. Time and Again è un romanzo molto diverso da The End of Eternity, e non solo per l’impostazione Fantasy piuttosto che fantascientifica; mentre l’interesse di Asimov è quello di esplorare la logica del viaggio nel tempo, quello di Finney è la ricostruzione storica. Com’era la New York della fine dell’Ottocento, quando l’edificio più alto di Manhattan era ancora la cattedrale di St. Patrick, il Ponte di Brooklyn non era ancora stato completato e a nord di Central Park cominciavano le casette coloniali e i campi coltivati? Com’era la vita quotidiana in una New York in cui ci si spostava in carrozza, le donne perbene arrivavano illibate al matrimonio e il telefono era un lusso per i più ricchi? E come dev’essere, per un newyorkese moderno, ritrovarsi in quegli anni, per certi versi simili e per altri così diversi?
La passione di Finney per la ricostruzione è tale che spesso questo Time and Again sembra una commistione tra un romanzo e un documentario. Il libro è corredato di foto d’epoca, illustrazioni e ritagli di giornale, che fanno da contrappunto al testo scritto nel tentativo di immergere il lettore in quel periodo lontano – ne mostro qualcuna nel corso dell’articolo. Combinazione estremamente curiosa, che fa di Time and Again il candidato eccellente per il ritorno dei Consigli del Lunedì!

New York nel 1882

Uno sguardo approfondito
Per spiegare meglio cosa intendo quando parlo di “romanzo d’atmosfera”, voglio soffermarmi prima di tutto su come funziona il viaggio nel tempo in Time and Again. Il viaggio nel tempo è uno stato psicologico: si è così intimamente convinti di essere in un’altra epoca che ci si va davvero. Ma perché questo accada, l’ipnosi da sola non basta. E’ necessario liberarsi di qualsiasi oggetto, pensiero, sensazione che ci ancori al presente. I sotterranei della sede del progetto sono divisi in set che ricostruiscono fin nei minimi dettagli momenti del passato: uno scorcio di Denver agli inizi del Novecento, un campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale in Francia, la piazza di fronte a Notre Dame nella Parigi del ‘400, e così via.
Per viaggiare nell’Ottocento, Si Morley dovrà andare a vivere in un palazzo newyorkese d’epoca, il Dakota, lasciato nelle condizioni in cui era allora. Non solo: dovrà vestirsi come si usava nel 1880, lasciarsi crescere baffi e barba, mangiare quel che si mangiava all’epoca, leggere fedeli riproduzioni dei giornali d’epoca, eccetera. Viaggiare nel tempo significa scivolare giorno dopo giorno sempre più “nella parte”, eliminando dalla coscienza ogni elemento di disturbo – il clacson di un’automobile in strada, i motori di un aereo che ti passa sopra – e sentendosi sempre di più parte del passato. Il lettore viaggia a ritroso come il protagonista.

Il romanzo è scritto in prima persona col pov di Si. Tra tutti gli scrittori che mi sia mai capitato di leggere, Finney è uno di quelli che – a mio avviso – meglio realizzano ciò che Gamberetta chiamava “stile trasparente”, ossia uno stile che ti fa dimenticare che stai leggendo una stupida storia. Autori come Swanwick e Vandermeer sicuramente hanno un senso migliore della “scena” e sono più immaginifici, tuttavia il loro modo pomposo di scrivere ci ricorda costantemente che ci troviamo davanti a una pagina scritta. Mellick è più bravo di Finney, ma le sue voci narranti sopra le righe e l’atmosfera grottesca delle sue storie rende molto difficile una vera sospensione dell’incredulità. Leggendo Time and Again, invece, ho provato il raro piacere di immergermi completamente nell’atmosfera della storia, dimenticando per un po’ che fosse una finzione.
Il protagonista sembra fatto apposta per permettere a chiunque di identificarcisi, telecamera in prima persona dietro cui possiamo mettere noi stessi. Si Morley è una persona qualunque, l’archetipo del lettore occidentale di media cultura: ragionevole, riflessivo, insoddisfatto della propria vita, alla ricerca dell’amore. Il suo tratto distintivo, la nostalgia per un’epoca che non ha mai vissuto, a volte sfiora l’ossessione – chi sarebbe disposto a chiudersi per settimane in una casa autoconvincendosi di essere un gentiluomo dell’Ottocento? A parte il Duca, intendo – ma il tono della voce narrante suona sempre pieno di buonsenso. Un altro scrittore, per esempio un Dick, avrebbe forse sottolineato gli aspetti borderline di Morley e fatto di Time and Again un romanzo sull’alienazione; Finney invece fa di Morley un veicolo per il lettore, qualcosa di molto simile ai protagonisti muti di alcuni gdr giapponesi.

“Ehi, Protagonista, sei pronto a spaccare un po’ di culi demoniaci?” “…” “Mi piace il tuo stile!”

Intendiamoci, lo stile di Finney è lontano dalla perfezione. Molto spesso, quando ritiene una scena poco interessante, si abbandona al raccontato e ai riassuntoni sbrigativi invece che trovare una soluzione più elegante. Passaggi lunghi anche alcune pagine sono scritte più o meno così: “Parlammo di questo e quello, e poi andai da quell’altro e dicemmo queste altre cose, quindi tornai a casa e feci questo e quello e quell’altro. Per alcuni giorni feci così e così, poi una mattina feci cosà”. Proprio verso la fine del romanzo, alcune scene chiave sono raccontate in questo modo, il che mi ha parecchio irritato.
In compenso, quando vuole mostrare fa un gran lavoro. Ciò è vero soprattutto per le scene ambientate nella New York ottocentesca: Finney spende pagine e pagine a descrivere il baccano delle carrozze sul selciato delle strade, le case coloniali della periferia e le palazzine ingombre di insegne di legno del centro, le differenze tra la Quinta Avenue del 1882 e quella del 1970. Le uniche volte in cui le descrizioni sono parche, è quando l’autore piazza una foto o un’illustrazione – che nella finzione narrativa sono opera del protagonista. La gente è descritta in ogni dettaglio, dall’acconciatura alla forma e al materiale dei bottoni sul soprabito; ogni capo d’abbigliamento è chiamato col suo nome1. Il mostrato sfuma nel raccontato quando si tratta di descrivere gesti e atteggiamenti dei personaggi, ma nelle scene importanti – e in particolar modo in quelle d’azione – ogni movimento è descritto con precisione e vividezza.

Soprattutto, dalla prosa di Finney traspare l’amore per la materia trattata. L’autore si è documentato per anni sulla New York degli anni ’80 dell’Ottocento, e questo traspare nella precisione con cui racconta usi e costumi dell’epoca – dall’abitudine dei newyorkesi di andare a mezzogiorno di fronte alla torre della Western Union Telegraph Company per sincronizzare i loro orologi da taschino, ai giochi di società con cui si intrattengono alla sera i pensionanti della locanda di Gramercy Park. In molti momenti del romanzo, Si diventa spettatore passivo della quotidianità della New York ottocentesca, e il libro diventa un vero e proprio slice of life – quasi un documentario. La maniacalità di Finney è arrivata al punto da cercare di sincronizzare le situazioni del romanzo con eventi realmente avvenuti – e documentati nei giornali – tra il Gennaio e il Febbraio del 1882. Lascio a storici esperti dell’epoca l’ultima parola sull’attendibilità della ricostruzione; da lettore abbastanza ignorante del periodo storico, posso solo dire che non mi sono sentito preso in giro.
Discorso diverso per quello che chiamo “effetto nostalgia”, ossia la tendenza (giustamente presa in giro da Woody Allen in Midnight in Paris) a immaginare che le epoche passate fossero più felici della nostra. Su questo terreno Finney si muove in modo ambiguo. Da una parte, il suo protagonista deve ammettere che le condizioni sociali e mediche dell’epoca erano molto peggiori delle nostre; che la polizia agiva in modo molto più arbitrario, e la corruzione era più capillare e più difficile da stanare; che la New York moderna tratta male i suoi vagabondi e i suoi poveri, ma quella dell’Ottocento li trattava anche peggio. Morley si rende conto che ingentiliamo il passato nella nostra immaginazione solo perché non l’abbiamo vissuto, e perché tendiamo volutamente a ignorarne i lati peggiori. Ma dall’altro lato, traspare l’idea che gli uomini del 1880 stessero meglio, se non fisicamente, almeno spiritualmente. Un leitmotiv del romanzo è proprio la convinzione che nei visi dei newyorkesi dell’82 ci sia una vitalità, una gioia di vivere assenti nelle ‘spente’ facce del 1970. A qualcuno questa patina di idealismo farà piacere – io l’ho trovata solo irritante e autoindulgente.

Il Dakota, il palazzo usato da Morley per il viaggio nel tempo, sullo sfondo di Central Park nel gennaio 1882.

I problemi più grossi del romanzo, però, riguardano il ritmo. Time and Again è un romanzo lento, tranquillo, in cui le cose succedono poco alla volta. Questo in parte è dovuto all’approccio del libro – abbiamo detto che è un “romanzo d’atmosfera”, in cui le descrizioni e le sensazioni del protagonista hanno più importanza della trama. L’intreccio c’è, non viene mai dimenticato, ha dei momenti brillanti (anche dal punto di vista speculativo), qualche trovata geniale (il braccio della Statua della Libertà!) e raggiunge una conclusione dignitosa; ma possono anche passare 50 pagine prima che ci sia uno sviluppo nella trama, 50 pagine piene di scorci di Manhattan, conversazioni coi locali, sottotrame amorose. Nell’ultimo quarto del libro ci sono diverse scene d’azione e il ritmo si fa più serrato, ma ormai quel tipo di lettore si è già addormentato. Pure a me qualche volta è calata la palpebra.
E se a volte questa lentezza appare giustificata dal tipo di esperienza che questo libro vuole offrire, altre volte Finney sfocia nella pura e semplice logorrea alla King – intere pagine di dettagli e conversazioni inutili. Questo dilungarsi è particolarmente incomprensibile quando riguarda le parti ambientate nel presente, dove non c’è neanche la scusa dell’affresco storico. A che pro descrivere per pagine e pagine la via e la facciata esterna della sede del progetto governativo, o le allegre scampagnate di Si e Kate? Soltanto intorno a pagina 50 viene spiegato il meccanismo dei viaggi nel tempo e quale sia il ruolo di Si in tutto ciò; solo intorno a pagina 90 cominciano i primi esperimenti di viaggio nel passato. Time and Again è un romanzo così lento che il preambolo dura 50 pagine! Non siamo dalle parti del Silenzio di Lenth ma quasi. Persino scene movimentate come quella dell’incendio finiscono con l’essere troppo lunghe e ripetitive – alla quarta o quinta persona salvata dall’edificio in fiamme anche il lettore più fedele comincia ad averne abbastanza…

Time and Again è un romanzo molto particolare – forse la parola giusta è delicato – e sicuramente non è un romanzo per tutti. Forse potrà piacere più a color che vengono dal mainstream e dallo slice of life che non ai veterani del romanzo di genere, dato il ritmo morbido e la carenza di azione, a patto che riescano ad accettare la premessa fantastica del viaggio nel tempo.
Soprattutto, credo che questo sia il tipo di romanzo che risente tantissimo delle condizioni e dell’umore in cui lo si legge. Letto nei ritagli di tempo, nella pausa pranzo, nel trasbordo da un vagone della metro alla carrozza del tram, può (giustamente) far pensare: “Ma di che parla? Ma cos’è che è successo prima? Ma perché cazzo sto leggendo una roba simile? Che menata di libro”. Letto nella tranquillità di casa propria, magari durante un weekend lungo, senza distrazioni, può farci vivere la stessa magia che prova Si, chiusi anche noi nel nostro Dakota, che lentamente scivoliamo assieme a lui in un’altra epoca.
Nonostante qualche momento di stanca, a me è piaciuto molto, e sono felice di consigliarlo dopo un mese di silenzio. Un libro così insolito non lo dimenticherò facilmente.

Barbe di fine Ottocento

Una cosa della fine dell’Ottocento non dimenticheremo mai: le BARBE.

Su Finney
Jack Finney è considerato in genere un autore di secondo piano, probabilmente non a torto. A parte Time and Again, il suo nome è legato a un solo altro romanzo, famoso per avere ispirato il film L’invasione degli Ultracorpi (The Invasion of the Body Snatchers, 1956):
The Body SnatchersThe Body Snatchers (L’invasione degli Ultracorpi) è un classico romanzo di invasione silenziosa. Baccelli alieni capaci di replicare e sostituirsi a qualsiasi essere vivente atterrano in una piccola cittadina della campagna californiana, con l’intenzione di colonizzare tutta la Terra; toccherà al medico Miles Bennett e ai suoi amici tentare di fermarli. Il romanzo è carino ma non molto originale (neanche per l’epoca), e come sottolineato da Knight spesso i protagonisti si comportano in modo illogicamente stupido e ingenuo. Avrà anche un valore storico, ma si può tranquillamente fare a meno di leggerlo.

Dove si trova
Su Library Genesis, Time and Again si trova in due versioni differenti, pdf ed ePub – quest’ultima è anche completa di tutte le immagini originali. Tuttavia, anche se sono ottimizzate per la lettura su reader, forse un libro così è più comodo e preferireste leggerlo su carta; in questo caso, su Amazon potete trovare a circa 8.50 Euro la bella edizione dei Fantasy Masterworks.
Su Emule si trovano anche diverse traduzioni in italiano, e quanto ai formati c’è solo l’imbarazzo della scelta: ePub, pdf, doc, lit e rar.

Qualche estratto
Innanzitutto mi scuso, perché gli estratti che ho scelto sono molto lunghi; ma come ho già accennato, Finney è tutto meno che sintetico. Tagliare i brani più di quanto abbia già fatto rischiava di rovinarne il godimento – perciò portate pazienza.
Il primo estratto descrive il primo set per viaggi nel tempo che viene mostrato a Si, quando ancora non è stato messo a parte nei dettagli della teoria sul viaggio temporale; oltre a vedere un esempio del metodo autosuggestivo per viaggiare a ritroso, dà un’idea del buon mostrato di Finney. Il secondo estratto, molto più avanti nella storia (sigh), mostra uno dei primi tentativi di Si di viaggiare nel passato mediante ipnosi – è un pezzo molto delicato, ma spero che riesca a trasmettervi un po’ della magia che ha trasmesso a me.

1.
Five stories below and on the far side of the area over which we were standing, I saw a small frame house. From this angle I could see onto the roofed front porch. A man in shirt-sleeves sat on the edge of the porch, his feet on the steps. He was smoking a pipe, staring absently out at the brick-paved street before the house.
On each side of this house stood portions of two other houses. The side walls facing the middle house were complete, including curtains and window shades. So were half of each gable roof and the entire front walls, including porches with worn stair treads. A wicker baby-carriage stood on the porch of one of them. But except for the complete house in the middle these others were only the two walls and part of a roof; from here I could see the pine scaffolding that supported them from behind. In front of all three structures were lawns and shade trees. Beyond these were a brick sidewalk and a brick street, iron hitching posts at the curbs. Across the street stood the fronts of half a dozen more houses. On the porch of one lay a battered bicycle. A fringed hammock hung on the porch of another. But these apparent houses were only false fronts no more than a foot thick; they were built along the area wall behind them, concealing the wall.
Leaning on the rail beside me, Rube said, “From where the man on the porch is sitting and from any window of his house or any place on his lawn, he seems to be in a complete street of small houses. You can’t see it from here, but at the end of the short stretch of actual brick street he is facing now, there is painted and modeled on the area wall, in meticulous dioramic perspective, more of the same street and neighborhood far into the distance.”
While he was talking a boy on a bike appeared on the street below us; I didn’t see where he’d come from. He wore a white sailor cap, its turned-up brim nearly covered with what looked like colored advertising-and campaign-buttons; short brown pants that buckled just below the knees; long black stockings; and dirty canvas shoes that came up over the ankles. Hanging from his shoulder by a wide strap was a torn canvas sack filled with folded newspapers. The boy pedaled from one side of the street to the other, steering with one hand, expertly throwing a folded paper up onto each porch. As he approached the complete house, the man on the porch stood up, the boy tossed the paper, the man caught it, and sat down again, unfolding it. The boy threw a paper onto the porch of the false two-walled house next door, which stood on a corner. Then he pedaled around the corner, and — out of sight of the man on the porch now — got off his bike and walked it to a door in the area wall against which the little cross street abruptly ended. He opened the door and wheeled his bike on through it.
[…] I turned to look at Rube’s face, but he was watching the scene below, forearms on the guardrail, his hands clasped loosely together. I said, “I don’t see a camera but I assume you’re either making or rehearsing some kind of movie down there.” I couldn’t help sounding a little bit irritated.
“No,” said Rube. “The man on the porch is actually living in that house. It’s complete inside, and a middle-aged woman comes in to cook and clean for him. Groceries are delivered every day in a light horse-drawn wagon labeled HENRY DORTMUND, FANCY GROCERIES. Twice a day a mailman in a gray uniform delivers mail, mostly ads. The man is waiting to hear whether he’s been hired for any of several jobs he’s applied for in the town. Presently he’ll hear that he’s been accepted for one of these jobs. At that point his habits will change. He’ll begin going out into the town, to work.” Rube glanced at me, then resumed his contemplation of the scene below. “Meanwhile he putters around the house. Waters his lawn. Reads. Passes the time of day with neighbors. Smokes Lucky Strike cigarettes. From green packages. Sometimes he listens to the radio, although in this weather there’s lots of static. Friends visit him occasionally. Right now he’s reading a freshly printed copy, done an hour ago, of the town newspaper for September 3, 1926. He’s tired; it’s been over a hundred down there in the afternoons for the last three days, and in the high eighties even at night. A real Indian-summer heat wave with no air conditioning. And if he looked up here right now all he’d see is a hot blue sky.”
Keeping my voice patient, I said, “You mean they’re following some sort of script.”
“No, there’s no script. He does as he pleases, and the people he sees act and speak according to the circumstances.”
“Are you telling me that he actually believes he’s in a town in —”
“No, no; not that either. He knows where he is, all right. He knows he’s in a New York storage warehouse, in a kind of stage setting. He’s been careful never to walk around the corner and look, but he knows that the street ends there, out of his sight. He knows that the long stretch of street he sees at the other end is actually a painted perspective. And while no one has told him so, I’m sure he understands that the houses across the street are probably only false fronts.” Rube stood upright, turning from the railing to face me. “Si, all I can tell you right now is that he’s doing his damnedest to feel that he’s really and truly sitting there on the porch on a late-summer afternoon reading what Calvin Coolidge had to say this morning, if anything.”
“Is there actually a town and a street like this?”
“Oh, yes; a street with houses, trees, and lawns precisely like that, right down to the last blade of grass and the wicker baby-carriage on the porch. You’ve seen an aerial shot of it; it’s called Winfield, Vermont.” Rube grinned at me. “Don’t get mad,” he said gently. “You have to see it before you can understand it.”

Cinque piani più in basso, in un angolo remoto rispetto al punto in cui eravamo vidi una casetta di legno. Da quell’angolazione potevo vedere sotto la veranda frontale. Un uomo in maniche corte era seduto sui gradini. Stava fumando una pipa e guardava con aria assente la strada di mattoni che passava proprio davanti alla casa.
La casa era circondata da porzioni di altre case. I muri visibili da quella centrale erano completi in ogni particolare, con tanto di tendine alle finestre. Anche metà dei tetti era a posto, assieme alle facciate e alle verande con i loro scalini di legno. Su una veranda c’era una carrozzina di vimini. Ma solo la casa centrale era completa; le altre due erano composte da due soli muri e una parte di tetto; dal mio punto di vista potevo vedere le intelaiature di legno che sorreggevano i muri. Davanti alle case vi erano aiole e alberi. Più in là un marciapiede e una strada di mattoni, con paletti di ferro per attaccare i cavalli lungo i bordi del marciapiede. Dalla parte opposta vi erano le facciate di un’altra mezza dozzina di case. Sulla veranda di una di queste era appoggiata una bicicletta scassata. Su un’altra avevano sospe- so un’amaca. Ma si trattava solo di facciate, non più spesse di trenta centimetri, costruite sulla parete divisoria in modo da ricoprirla completamente.
Rube si appoggiò alla ringhiera al mio fianco. «Dal punto in cui è seduto quell’uomo» disse «o da qualsiasi finestra della sua casa o da qualsiasi punto del suo giardino, gli sembra di essere in una via piena di piccole casette. Da qui non puoi vederlo, ma in fondo a quel breve tratto di strada è stato dipinto e modellato con prospettiva meticolosa il proseguimento della strada e del quartiere, che si perde in lontananza».
Mentre parlava, sulla strada sotto di noi apparve un bambino in biciclet- ta; non capii da dove era sbucato. Aveva un cappellino da marinaio bianco, coperto di spille che sembravano pubblicitarie o di propaganda elettorale, e indossava pantaloni alla zuava abbottonati sotto il ginocchio e lunghe calze nere. Ai piedi aveva un paio di scarpe di tela consumate che arrivavano sopra la caviglia. Portava con sé una borsa di tela strappata con dentro un mucchio di giornali piegati in due. Il ragazzo pedalava da una parte all’altra della strada, guidando con una mano e lanciando, con l’altra, i giornali su ogni veranda. Quando si avvicinò all’unica casa intera, l’uomo si alzò in piedi, prese il giornale al volo, e si sedette di nuovo a leggerlo. Il ragazzo gettò un altro giornale sotto la veranda della casa accanto, quella con due sole pareti, e svoltò l’angolo, scomparendo alla vista dell’uomo seduto sugli scalini. Quindi scese dalla bici e aprì una porta nel muro dove finiva di colpo la strada. Accompagnò la bici attraverso la porta, e la chiuse alle sue spalle.
[…] Mi voltai per guardare Rube in faccia, ma il suo sguardo era rivolto in basso, e teneva gli avambracci appoggiati alla ringhiera e le mani unite. «Non vedo cineprese, ma immagino che stiate riprendendo o facendo le prove per qualche film, laggiù» dissi. Non potei fare a meno di assumere un tono leggermente irritato.
«No» rispose Rube. «Quell’uomo sta effettivamente vivendo in quella casa. Dentro è completa, e c’è una donna di mezza età che viene a cucinare per lui e a fare le pulizie. I generi alimentari gli vengono consegnati giornalmente da un carretto trainato da cavalli con la scritta HENRY DORTMUND, ALIMENTARI DI QUALITÀ. E due volte al giorno un postino in uniforme grigia gli porta la posta; soprattutto pubblicità. Quell’uomo sta aspettando una risposta a una delle richieste di lavoro che ha inoltrato in città. Fra poco apprenderà che è stato assunto, e la sua vita cambierà. Andrà in città tutti i giorni, a lavorare». Rube mi lanciò un’occhiata, poi tornò a contemplare la scena sottostante. «Nel frattempo non fa altro che bighellonare per casa. Innaffiare il giardino. Leggere. Passare le giornate con i vicini. Fumare Lucky Strike. Col pacchetto verde. A volte ascolta anche la radio, anche se con questo caldo la ricezione è un po’ difettosa. Ogni tanto riceve la visita di qualche amico. In questo momento sta leggendo una copia fresca di stampa, uscita meno di un’ora fa, del giornale locale del 3 settembre 1926. È molto stanco; la temperatura negli ultimi tre giorni ha superato i trentacinque gradi tutti i pomeriggi, e non scende sotto i venticinque neanche la sera. Una calura tremenda da sopportare senza condizionatori. E se ora alzasse lo sguardo, non vedrebbe altro che un caldo cielo azzurro».
Mantenendo un tono paziente, dissi: «Vuoi dire che si attengono a una sceneggiatura?»
«No, non c’è nessuna sceneggiatura. Lui fa ciò che gli pare, e la gente che incontra parla e si comporta in maniera diversa a seconda delle circostanze».
«Non dirmi che lui crede effettivamente di vivere in un paese nel…»
«No, no, non è nemmeno così. Lui sa bene dove si trova. Sa bene di es- sere in un magazzino a New York, in una specie di scenario cinematografico. Si trattiene dal girare l’angolo per guardare ma sa bene che la strada finisce lì. E sa anche che la via che vede perdersi in lontananza non è altro che una prospettiva dipinta. E anche se non gliel’ha detto nessuno, sono certo che si rende conto che le case dall’altra parte della strada non sono altro che facciate dipinte». Rube lasciò la ringhiera, e mi guardò. «Simon, tutto quello che ti posso dire per il momento è che quell’uomo sta facendo del suo meglio per credere di trovarsi veramente sotto quella veranda in un pomeriggio di tarda estate a leggere quello che ha da dire oggi Calvin Coolidge».
«Ed esiste un paese con una strada come questa?»
«Oh si; una strada con case, alberi e aiole esattamente come questa, u- guale in ogni minimo particolare; dal modo in cui è tagliata l’erba alla carrozzina sotto la veranda. È quella della foto aerea che hai visto; Winfield, nel Vermont». Rube mi sorrise. «Non ti arrabbiare» disse con tono cortese. «Devi vedere prima di capire».

Newspaper boy

Ah! Ridatemi gli anni ’20 e i ragazzini che consegnavano i giornali casa per casa!

2.
“But you know what the world is like; you know that very well. You know all about it. Why shouldn’t you know what the world is like tonight, January 21, 1882? Because that is the date; that is the time we’re in, of course. That’s why I’m dressed as I am, and you as you are. That’s why this room is as it is. Don’t sleep quite yet, Si. Hold your eyes open just a bit. For just a few seconds longer.
“Now, hear what I say. I am going to give you a final, irrevocable instruction; you will hear it, you will obey it. You will sleep for twenty minutes. You will awake rested. You will go out for a walk. Just a little walk, a breath of air before you go to bed. You will be as careful as you possibly can be… that no one sees you. You will be absolutely certain to speak to no one. You will allow no act of yours, however small, to influence anyone in any way, however trivial.
“Then you will come back here, go to bed, and sleep all night. You will awaken in the morning as usual, free of all hypnotic suggestion. So that as you open your eyes, all your knowledge of the twentieth century will light up in your mind again. But you will remember your walk. You will remember your walk. You will remember your walk. Now… let go. And sleep.”
[…] I felt rested now; alive and energetic, a little too restless to feel like going to bed, and I decided to take a walk. It was still snowing, but big soft flakes. There was no wind, I’d been indoors too long, and I wanted to get out, into that snow, breathing chill fresh air; and I walked to the closet and put on my overcoat, chest protector, boots, and my round fur cap of black lamb’s wool.
I walked down the building stairs, somehow glad to encounter no one; I didn’t feel like chatting, and if I’d heard someone on the stairs I think I’d have stood waiting till he’d gone. Downstairs I walked out of the building, glancing quickly around, but saw not a soul — tonight I didn’t want to see anyone — and I turned toward Central Park just across the street ahead. It was a fine night, a wonderful night. The air was sharp in my lungs, and snowflakes occasionally caught in my lashes, momentarily blurring the streetlamps just ahead, already misty in the swirls of snow around them.
Just ahead the street was almost level with the curbs, unmarked by steps or tracks of any kind. I crossed it and walked into the park. […] I plodded on just a little way more, feet lifting high, boots clogged with damp snow, enjoying the exercise of it, exhilarated by the feel of this snowy luminous night, and my aloneness in it. Behind me and to the north I heard a distant rhythmical jingle, perceptibly louder each time it sounded, and I turned to look back toward the street once again. For a moment or two I stood listening to the jink-jink-jingle sound, and then just beyond the silhouetted branches, down the center of the lighted street, there it came, the only kind of vehicle that could move on a night like this: a light, airy, one-seated sleigh drawn by a single slim horse trotting easily and silently through the snow. The sleigh had no top; they sat out in the falling snow, bundled snugly together under a robe, a man and a woman passing jink-jink-jingle through the snow-swirled cones of light under each lamp. They wore fur caps like mine, and the man held a whip and the reins in one hand. The woman was smiling, her face tilted to receive the snow, and the only sounds were the bells, the muffled hoof-clops, and the hiss of the sleigh runners. Then their backs were to me, the sleigh drawing away, diminishing, the steady rhythm of the sleigh bells receding.
They were nearly gone when I heard the woman laugh momentarily, her voice muffled by the falling snow, the sound distant and happy.

«Eppure sai com’è fatto il mondo; lo sai molto bene. Sai tutto del mon-do. Perché mai non dovresti sapere come è fatto il mondo in questa notte del 21 gennaio 1882? Perché questa è la data, naturalmente; questo è il giorno che stiamo vivendo. È per questo che io sono vestito a questo modo, e anche tu. Ed è per questo che questa stanza è così com’è. Non addormentarti ancora, Simon. Tieni gli occhi aperti ancora per un istante. Solo qualche secondo ancora.
«Ora, ascolta ciò che ti dico. Ti darò delle istruzioni finali e irrevocabili; tu le ascolterai, e ubbidirai. Dormirai per venti minuti, e ti sveglierai riposato. Quindi uscirai a fare una passeggiata. Giusto quattro passi per prendere un po’ d’aria prima di andare a dormire. Starai attentissimo… a non farti vedere da nessuno. Farai in modo di non parlare con nessuno, assolutamente. E non permetterai a nessun tuo gesto, per quanto piccolo, di in- fluenzare nessuno in nessun modo, nemmeno il più insignificante.
«Quindi tornerai in questo appartamento, te ne andrai a letto, e dormirai per tutta la notte. Ti risveglierai domani mattina come al solito, libero da qualsiasi genere di suggestione ipnotica. Quando aprirai gli occhi, tutto ciò che sai del Ventesimo secolo sarà di nuovo disponibile nella tua memoria. Ma ricorderai la tua passeggiata. Ricorderai la tua passeggiata. Ricorde- rai la tua passeggiata. E ora, lasciati pure andare… e dormi».
[…] Ora mi sentivo riposatissimo; pieno di vitalità ed energia, tanto che non me la sentivo di andare subito a letto, e decisi di fare una passeggiata. Nevicava ancora, ma i fiocchi erano grossi e morbidi. Non c’era un alito di vento, ero stato in casa fin troppo tempo, e avevo voglia di uscire, in mezzo alla neve, a respirare quell’aria fresca. Mi avvicinai all’armadio, dove presi il soprabito, gli stivali e il mio cappello di astrakan.
Discesi le scale dell’edificio, stranamente contento di non incrociare altri inquilini; non me la sentivo di chiacchierare, e credo che se avessi sentito qualche rumore sulle scale mi sarei fermato ad aspettare che la via fosse libera. Una volta fuori mi guardai attorno rapidamente, ma non vidi anima viva. Stasera non volevo proprio incontrare nessuno. Mi diressi verso Central Park, dalla parte opposta della strada. Era una bella serata; una serata meravigliosa. L’aria era fredda nei miei polmoni, e ogni tanto un fiocco di neve mi si fermava sulle ciglia, annebbiando momentaneamente i lampioni, già offuscati dai vortici di nevischio che li avvolgevano.
La strada era alla stessa altezza del marciapiede, ed era completamente intatta da orme o tracce di qualsiasi genere. La attraversai ed entrai nel parco. […] Procedetti ancora per un poco, sollevando i piedi a fatica a ogni passo, con gli stivali coperti di neve umida, godendomi l’esercizio, esaltato dalla sensazione di quella notte luminosa e innevata nella quale mi trovavo in solitudine. A un certo punto udii alle mie spalle un tintinnare ritmico e distante, che diventava sempre più vicino. Mi voltai nuovamente verso la strada. Rimasi per un attimo ad ascoltare il tintinnio, poi, da dietro i rami degli alberi, in mezzo alla strada illuminata, la vidi; l’unico veicolo che po- teva aggirarsi in una notte come questa: una slitta aperta, leggera, trainata da un solo cavallo, piuttosto magro, che trottava tranquillo e silenzioso sulla neve. Un uomo e una donna sedevano sulla slitta, sotto la neve, avvolti in una coperta di lana. Attraversarono tintinnando i coni di luce innevati di ogni lampione. Avevano entrambi cappelli di pelliccia come il mio, e l’uomo teneva le redini e la frusta in una mano. La donna sorrideva, il viso inclinato all’indietro, godendosi la neve, e si udivano solo i campanelli, i passi soffocati del cavallo, e il leggero sibilo della slitta sulla neve. Mi passarono davanti, e li seguii con lo sguardo finché non scomparvero nel nevischio, il tintinnio sempre più distante.
Poco prima che scomparissero del tutto, sentii la donna che rideva; una risata distante e felice, attutita dalla neve.

Tabella riassuntiva

Un modo incredibilmente suggestivo di viaggiare nel passato! Trama minimale, subordinata alla ricostruzione storica.
Affascinante e precisa ricostruzione della New York del 1882. Ritmo lento che mette alla prova e tendenza alla logorrea.
Quando vuole, Finney è molto bravo a mostrare. Tendenza sentimentalista a idealizzare il passato.

(1) La precisione è pure troppa! Come quando Finney descrive l’abbigliamento ottocentesco: usa una valanga di termini che non solo io non avevo mai sentito nominare, ma che non conosce neppure il dizionario del mio reader! Dannazione.Torna su