Autore: Jack Finney
Titolo italiano: Indietro nel tempo
Genere: Slipstream / Fantasy / Slice of Life
Tipo: Romanzo
Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 400 ca.
Difficoltà in inglese: ***
Da grande Si Morley voleva fare l’artista. Invece è finito a lavorare come grafico pubblicitario e a trascinarsi giorno dopo giorno in una vita che non lo soddisfa. La New York degli anni ’60 lo deprime, e ogni volta che può evade nel passato, guardando vecchie foto color seppia o perdendosi nei cimeli dell’America dell’Ottocento. E’ così che ha conosciuto la sua attuale ragazza, Kate, proprietaria di un negozio di antiquariato. Così, quando un bel giorno Rube Prien, maggiore dell’esercito, compare alla porta del suo ufficio offrendogli di abbandonare la sua vecchia vita per partecipare a un progetto governativo supersegreto, Si non riesce a dire di no.
Il Dr. Danziger e il suo staff hanno scoperto un modo per viaggiare nel tempo. Non sono necessari complicati macchinari o l’energia di una stella. Ogni momento storico passato e futuro è simultaneamente presente attorno a noi, solo che non lo vediamo, ancorati come siamo al presente da tutti gli oggetti e le sensazioni che ci circondano; ma se si potesse convincere intimamente qualcuno di essere in un dato momento del passato, egli andrebbe davvero nel passato. Poche persone al mondo hanno capacità creative e di autosuggestione tali da poter compiere questo viaggio – e Si è una di loro. La sua destinazione? La New York del 1882.
Riuscirà Si Morley a viaggiare nel passato e a svelare il mistero che aleggia attorno agli antenati di Kate, o si tratta solo di un’illusione indotta dall’ipnosi? E cosa sceglierà, quando si troverà a dover decidere tra il presente e il passato?
Dopo un mese dall’ultimo post e ben due dall’ultimo Consiglio, torniamo con un nuovo romanzo sui viaggi nel tempo. Time and Again è un romanzo molto diverso da The End of Eternity, e non solo per l’impostazione Fantasy piuttosto che fantascientifica; mentre l’interesse di Asimov è quello di esplorare la logica del viaggio nel tempo, quello di Finney è la ricostruzione storica. Com’era la New York della fine dell’Ottocento, quando l’edificio più alto di Manhattan era ancora la cattedrale di St. Patrick, il Ponte di Brooklyn non era ancora stato completato e a nord di Central Park cominciavano le casette coloniali e i campi coltivati? Com’era la vita quotidiana in una New York in cui ci si spostava in carrozza, le donne perbene arrivavano illibate al matrimonio e il telefono era un lusso per i più ricchi? E come dev’essere, per un newyorkese moderno, ritrovarsi in quegli anni, per certi versi simili e per altri così diversi?
La passione di Finney per la ricostruzione è tale che spesso questo Time and Again sembra una commistione tra un romanzo e un documentario. Il libro è corredato di foto d’epoca, illustrazioni e ritagli di giornale, che fanno da contrappunto al testo scritto nel tentativo di immergere il lettore in quel periodo lontano – ne mostro qualcuna nel corso dell’articolo. Combinazione estremamente curiosa, che fa di Time and Again il candidato eccellente per il ritorno dei Consigli del Lunedì!
Uno sguardo approfondito
Per spiegare meglio cosa intendo quando parlo di “romanzo d’atmosfera”, voglio soffermarmi prima di tutto su come funziona il viaggio nel tempo in Time and Again. Il viaggio nel tempo è uno stato psicologico: si è così intimamente convinti di essere in un’altra epoca che ci si va davvero. Ma perché questo accada, l’ipnosi da sola non basta. E’ necessario liberarsi di qualsiasi oggetto, pensiero, sensazione che ci ancori al presente. I sotterranei della sede del progetto sono divisi in set che ricostruiscono fin nei minimi dettagli momenti del passato: uno scorcio di Denver agli inizi del Novecento, un campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale in Francia, la piazza di fronte a Notre Dame nella Parigi del ‘400, e così via.
Per viaggiare nell’Ottocento, Si Morley dovrà andare a vivere in un palazzo newyorkese d’epoca, il Dakota, lasciato nelle condizioni in cui era allora. Non solo: dovrà vestirsi come si usava nel 1880, lasciarsi crescere baffi e barba, mangiare quel che si mangiava all’epoca, leggere fedeli riproduzioni dei giornali d’epoca, eccetera. Viaggiare nel tempo significa scivolare giorno dopo giorno sempre più “nella parte”, eliminando dalla coscienza ogni elemento di disturbo – il clacson di un’automobile in strada, i motori di un aereo che ti passa sopra – e sentendosi sempre di più parte del passato. Il lettore viaggia a ritroso come il protagonista.
Il romanzo è scritto in prima persona col pov di Si. Tra tutti gli scrittori che mi sia mai capitato di leggere, Finney è uno di quelli che – a mio avviso – meglio realizzano ciò che Gamberetta chiamava “stile trasparente”, ossia uno stile che ti fa dimenticare che stai leggendo una stupida storia. Autori come Swanwick e Vandermeer sicuramente hanno un senso migliore della “scena” e sono più immaginifici, tuttavia il loro modo pomposo di scrivere ci ricorda costantemente che ci troviamo davanti a una pagina scritta. Mellick è più bravo di Finney, ma le sue voci narranti sopra le righe e l’atmosfera grottesca delle sue storie rende molto difficile una vera sospensione dell’incredulità. Leggendo Time and Again, invece, ho provato il raro piacere di immergermi completamente nell’atmosfera della storia, dimenticando per un po’ che fosse una finzione.
Il protagonista sembra fatto apposta per permettere a chiunque di identificarcisi, telecamera in prima persona dietro cui possiamo mettere noi stessi. Si Morley è una persona qualunque, l’archetipo del lettore occidentale di media cultura: ragionevole, riflessivo, insoddisfatto della propria vita, alla ricerca dell’amore. Il suo tratto distintivo, la nostalgia per un’epoca che non ha mai vissuto, a volte sfiora l’ossessione – chi sarebbe disposto a chiudersi per settimane in una casa autoconvincendosi di essere un gentiluomo dell’Ottocento? A parte il Duca, intendo – ma il tono della voce narrante suona sempre pieno di buonsenso. Un altro scrittore, per esempio un Dick, avrebbe forse sottolineato gli aspetti borderline di Morley e fatto di Time and Again un romanzo sull’alienazione; Finney invece fa di Morley un veicolo per il lettore, qualcosa di molto simile ai protagonisti muti di alcuni gdr giapponesi.

“Ehi, Protagonista, sei pronto a spaccare un po’ di culi demoniaci?” “…” “Mi piace il tuo stile!”
Intendiamoci, lo stile di Finney è lontano dalla perfezione. Molto spesso, quando ritiene una scena poco interessante, si abbandona al raccontato e ai riassuntoni sbrigativi invece che trovare una soluzione più elegante. Passaggi lunghi anche alcune pagine sono scritte più o meno così: “Parlammo di questo e quello, e poi andai da quell’altro e dicemmo queste altre cose, quindi tornai a casa e feci questo e quello e quell’altro. Per alcuni giorni feci così e così, poi una mattina feci cosà”. Proprio verso la fine del romanzo, alcune scene chiave sono raccontate in questo modo, il che mi ha parecchio irritato.
In compenso, quando vuole mostrare fa un gran lavoro. Ciò è vero soprattutto per le scene ambientate nella New York ottocentesca: Finney spende pagine e pagine a descrivere il baccano delle carrozze sul selciato delle strade, le case coloniali della periferia e le palazzine ingombre di insegne di legno del centro, le differenze tra la Quinta Avenue del 1882 e quella del 1970. Le uniche volte in cui le descrizioni sono parche, è quando l’autore piazza una foto o un’illustrazione – che nella finzione narrativa sono opera del protagonista. La gente è descritta in ogni dettaglio, dall’acconciatura alla forma e al materiale dei bottoni sul soprabito; ogni capo d’abbigliamento è chiamato col suo nome1. Il mostrato sfuma nel raccontato quando si tratta di descrivere gesti e atteggiamenti dei personaggi, ma nelle scene importanti – e in particolar modo in quelle d’azione – ogni movimento è descritto con precisione e vividezza.
Soprattutto, dalla prosa di Finney traspare l’amore per la materia trattata. L’autore si è documentato per anni sulla New York degli anni ’80 dell’Ottocento, e questo traspare nella precisione con cui racconta usi e costumi dell’epoca – dall’abitudine dei newyorkesi di andare a mezzogiorno di fronte alla torre della Western Union Telegraph Company per sincronizzare i loro orologi da taschino, ai giochi di società con cui si intrattengono alla sera i pensionanti della locanda di Gramercy Park. In molti momenti del romanzo, Si diventa spettatore passivo della quotidianità della New York ottocentesca, e il libro diventa un vero e proprio slice of life – quasi un documentario. La maniacalità di Finney è arrivata al punto da cercare di sincronizzare le situazioni del romanzo con eventi realmente avvenuti – e documentati nei giornali – tra il Gennaio e il Febbraio del 1882. Lascio a storici esperti dell’epoca l’ultima parola sull’attendibilità della ricostruzione; da lettore abbastanza ignorante del periodo storico, posso solo dire che non mi sono sentito preso in giro.
Discorso diverso per quello che chiamo “effetto nostalgia”, ossia la tendenza (giustamente presa in giro da Woody Allen in Midnight in Paris) a immaginare che le epoche passate fossero più felici della nostra. Su questo terreno Finney si muove in modo ambiguo. Da una parte, il suo protagonista deve ammettere che le condizioni sociali e mediche dell’epoca erano molto peggiori delle nostre; che la polizia agiva in modo molto più arbitrario, e la corruzione era più capillare e più difficile da stanare; che la New York moderna tratta male i suoi vagabondi e i suoi poveri, ma quella dell’Ottocento li trattava anche peggio. Morley si rende conto che ingentiliamo il passato nella nostra immaginazione solo perché non l’abbiamo vissuto, e perché tendiamo volutamente a ignorarne i lati peggiori. Ma dall’altro lato, traspare l’idea che gli uomini del 1880 stessero meglio, se non fisicamente, almeno spiritualmente. Un leitmotiv del romanzo è proprio la convinzione che nei visi dei newyorkesi dell’82 ci sia una vitalità, una gioia di vivere assenti nelle ‘spente’ facce del 1970. A qualcuno questa patina di idealismo farà piacere – io l’ho trovata solo irritante e autoindulgente.

Il Dakota, il palazzo usato da Morley per il viaggio nel tempo, sullo sfondo di Central Park nel gennaio 1882.
I problemi più grossi del romanzo, però, riguardano il ritmo. Time and Again è un romanzo lento, tranquillo, in cui le cose succedono poco alla volta. Questo in parte è dovuto all’approccio del libro – abbiamo detto che è un “romanzo d’atmosfera”, in cui le descrizioni e le sensazioni del protagonista hanno più importanza della trama. L’intreccio c’è, non viene mai dimenticato, ha dei momenti brillanti (anche dal punto di vista speculativo), qualche trovata geniale (il braccio della Statua della Libertà!) e raggiunge una conclusione dignitosa; ma possono anche passare 50 pagine prima che ci sia uno sviluppo nella trama, 50 pagine piene di scorci di Manhattan, conversazioni coi locali, sottotrame amorose. Nell’ultimo quarto del libro ci sono diverse scene d’azione e il ritmo si fa più serrato, ma ormai quel tipo di lettore si è già addormentato. Pure a me qualche volta è calata la palpebra.
E se a volte questa lentezza appare giustificata dal tipo di esperienza che questo libro vuole offrire, altre volte Finney sfocia nella pura e semplice logorrea alla King – intere pagine di dettagli e conversazioni inutili. Questo dilungarsi è particolarmente incomprensibile quando riguarda le parti ambientate nel presente, dove non c’è neanche la scusa dell’affresco storico. A che pro descrivere per pagine e pagine la via e la facciata esterna della sede del progetto governativo, o le allegre scampagnate di Si e Kate? Soltanto intorno a pagina 50 viene spiegato il meccanismo dei viaggi nel tempo e quale sia il ruolo di Si in tutto ciò; solo intorno a pagina 90 cominciano i primi esperimenti di viaggio nel passato. Time and Again è un romanzo così lento che il preambolo dura 50 pagine! Non siamo dalle parti del Silenzio di Lenth ma quasi. Persino scene movimentate come quella dell’incendio finiscono con l’essere troppo lunghe e ripetitive – alla quarta o quinta persona salvata dall’edificio in fiamme anche il lettore più fedele comincia ad averne abbastanza…
Time and Again è un romanzo molto particolare – forse la parola giusta è delicato – e sicuramente non è un romanzo per tutti. Forse potrà piacere più a color che vengono dal mainstream e dallo slice of life che non ai veterani del romanzo di genere, dato il ritmo morbido e la carenza di azione, a patto che riescano ad accettare la premessa fantastica del viaggio nel tempo.
Soprattutto, credo che questo sia il tipo di romanzo che risente tantissimo delle condizioni e dell’umore in cui lo si legge. Letto nei ritagli di tempo, nella pausa pranzo, nel trasbordo da un vagone della metro alla carrozza del tram, può (giustamente) far pensare: “Ma di che parla? Ma cos’è che è successo prima? Ma perché cazzo sto leggendo una roba simile? Che menata di libro”. Letto nella tranquillità di casa propria, magari durante un weekend lungo, senza distrazioni, può farci vivere la stessa magia che prova Si, chiusi anche noi nel nostro Dakota, che lentamente scivoliamo assieme a lui in un’altra epoca.
Nonostante qualche momento di stanca, a me è piaciuto molto, e sono felice di consigliarlo dopo un mese di silenzio. Un libro così insolito non lo dimenticherò facilmente.

Una cosa della fine dell’Ottocento non dimenticheremo mai: le BARBE.
Su Finney
Jack Finney è considerato in genere un autore di secondo piano, probabilmente non a torto. A parte Time and Again, il suo nome è legato a un solo altro romanzo, famoso per avere ispirato il film L’invasione degli Ultracorpi (The Invasion of the Body Snatchers, 1956):
The Body Snatchers (L’invasione degli Ultracorpi) è un classico romanzo di invasione silenziosa. Baccelli alieni capaci di replicare e sostituirsi a qualsiasi essere vivente atterrano in una piccola cittadina della campagna californiana, con l’intenzione di colonizzare tutta la Terra; toccherà al medico Miles Bennett e ai suoi amici tentare di fermarli. Il romanzo è carino ma non molto originale (neanche per l’epoca), e come sottolineato da Knight spesso i protagonisti si comportano in modo illogicamente stupido e ingenuo. Avrà anche un valore storico, ma si può tranquillamente fare a meno di leggerlo.
Dove si trova
Su Library Genesis, Time and Again si trova in due versioni differenti, pdf ed ePub – quest’ultima è anche completa di tutte le immagini originali. Tuttavia, anche se sono ottimizzate per la lettura su reader, forse un libro così è più comodo e preferireste leggerlo su carta; in questo caso, su Amazon potete trovare a circa 8.50 Euro la bella edizione dei Fantasy Masterworks.
Su Emule si trovano anche diverse traduzioni in italiano, e quanto ai formati c’è solo l’imbarazzo della scelta: ePub, pdf, doc, lit e rar.
Qualche estratto
Innanzitutto mi scuso, perché gli estratti che ho scelto sono molto lunghi; ma come ho già accennato, Finney è tutto meno che sintetico. Tagliare i brani più di quanto abbia già fatto rischiava di rovinarne il godimento – perciò portate pazienza.
Il primo estratto descrive il primo set per viaggi nel tempo che viene mostrato a Si, quando ancora non è stato messo a parte nei dettagli della teoria sul viaggio temporale; oltre a vedere un esempio del metodo autosuggestivo per viaggiare a ritroso, dà un’idea del buon mostrato di Finney. Il secondo estratto, molto più avanti nella storia (sigh), mostra uno dei primi tentativi di Si di viaggiare nel passato mediante ipnosi – è un pezzo molto delicato, ma spero che riesca a trasmettervi un po’ della magia che ha trasmesso a me.
1.
Five stories below and on the far side of the area over which we were standing, I saw a small frame house. From this angle I could see onto the roofed front porch. A man in shirt-sleeves sat on the edge of the porch, his feet on the steps. He was smoking a pipe, staring absently out at the brick-paved street before the house.
On each side of this house stood portions of two other houses. The side walls facing the middle house were complete, including curtains and window shades. So were half of each gable roof and the entire front walls, including porches with worn stair treads. A wicker baby-carriage stood on the porch of one of them. But except for the complete house in the middle these others were only the two walls and part of a roof; from here I could see the pine scaffolding that supported them from behind. In front of all three structures were lawns and shade trees. Beyond these were a brick sidewalk and a brick street, iron hitching posts at the curbs. Across the street stood the fronts of half a dozen more houses. On the porch of one lay a battered bicycle. A fringed hammock hung on the porch of another. But these apparent houses were only false fronts no more than a foot thick; they were built along the area wall behind them, concealing the wall.
Leaning on the rail beside me, Rube said, “From where the man on the porch is sitting and from any window of his house or any place on his lawn, he seems to be in a complete street of small houses. You can’t see it from here, but at the end of the short stretch of actual brick street he is facing now, there is painted and modeled on the area wall, in meticulous dioramic perspective, more of the same street and neighborhood far into the distance.”
While he was talking a boy on a bike appeared on the street below us; I didn’t see where he’d come from. He wore a white sailor cap, its turned-up brim nearly covered with what looked like colored advertising-and campaign-buttons; short brown pants that buckled just below the knees; long black stockings; and dirty canvas shoes that came up over the ankles. Hanging from his shoulder by a wide strap was a torn canvas sack filled with folded newspapers. The boy pedaled from one side of the street to the other, steering with one hand, expertly throwing a folded paper up onto each porch. As he approached the complete house, the man on the porch stood up, the boy tossed the paper, the man caught it, and sat down again, unfolding it. The boy threw a paper onto the porch of the false two-walled house next door, which stood on a corner. Then he pedaled around the corner, and — out of sight of the man on the porch now — got off his bike and walked it to a door in the area wall against which the little cross street abruptly ended. He opened the door and wheeled his bike on through it.
[…] I turned to look at Rube’s face, but he was watching the scene below, forearms on the guardrail, his hands clasped loosely together. I said, “I don’t see a camera but I assume you’re either making or rehearsing some kind of movie down there.” I couldn’t help sounding a little bit irritated.
“No,” said Rube. “The man on the porch is actually living in that house. It’s complete inside, and a middle-aged woman comes in to cook and clean for him. Groceries are delivered every day in a light horse-drawn wagon labeled HENRY DORTMUND, FANCY GROCERIES. Twice a day a mailman in a gray uniform delivers mail, mostly ads. The man is waiting to hear whether he’s been hired for any of several jobs he’s applied for in the town. Presently he’ll hear that he’s been accepted for one of these jobs. At that point his habits will change. He’ll begin going out into the town, to work.” Rube glanced at me, then resumed his contemplation of the scene below. “Meanwhile he putters around the house. Waters his lawn. Reads. Passes the time of day with neighbors. Smokes Lucky Strike cigarettes. From green packages. Sometimes he listens to the radio, although in this weather there’s lots of static. Friends visit him occasionally. Right now he’s reading a freshly printed copy, done an hour ago, of the town newspaper for September 3, 1926. He’s tired; it’s been over a hundred down there in the afternoons for the last three days, and in the high eighties even at night. A real Indian-summer heat wave with no air conditioning. And if he looked up here right now all he’d see is a hot blue sky.”
Keeping my voice patient, I said, “You mean they’re following some sort of script.”
“No, there’s no script. He does as he pleases, and the people he sees act and speak according to the circumstances.”
“Are you telling me that he actually believes he’s in a town in —”
“No, no; not that either. He knows where he is, all right. He knows he’s in a New York storage warehouse, in a kind of stage setting. He’s been careful never to walk around the corner and look, but he knows that the street ends there, out of his sight. He knows that the long stretch of street he sees at the other end is actually a painted perspective. And while no one has told him so, I’m sure he understands that the houses across the street are probably only false fronts.” Rube stood upright, turning from the railing to face me. “Si, all I can tell you right now is that he’s doing his damnedest to feel that he’s really and truly sitting there on the porch on a late-summer afternoon reading what Calvin Coolidge had to say this morning, if anything.”
“Is there actually a town and a street like this?”
“Oh, yes; a street with houses, trees, and lawns precisely like that, right down to the last blade of grass and the wicker baby-carriage on the porch. You’ve seen an aerial shot of it; it’s called Winfield, Vermont.” Rube grinned at me. “Don’t get mad,” he said gently. “You have to see it before you can understand it.”
Cinque piani più in basso, in un angolo remoto rispetto al punto in cui eravamo vidi una casetta di legno. Da quell’angolazione potevo vedere sotto la veranda frontale. Un uomo in maniche corte era seduto sui gradini. Stava fumando una pipa e guardava con aria assente la strada di mattoni che passava proprio davanti alla casa.
La casa era circondata da porzioni di altre case. I muri visibili da quella centrale erano completi in ogni particolare, con tanto di tendine alle finestre. Anche metà dei tetti era a posto, assieme alle facciate e alle verande con i loro scalini di legno. Su una veranda c’era una carrozzina di vimini. Ma solo la casa centrale era completa; le altre due erano composte da due soli muri e una parte di tetto; dal mio punto di vista potevo vedere le intelaiature di legno che sorreggevano i muri. Davanti alle case vi erano aiole e alberi. Più in là un marciapiede e una strada di mattoni, con paletti di ferro per attaccare i cavalli lungo i bordi del marciapiede. Dalla parte opposta vi erano le facciate di un’altra mezza dozzina di case. Sulla veranda di una di queste era appoggiata una bicicletta scassata. Su un’altra avevano sospe- so un’amaca. Ma si trattava solo di facciate, non più spesse di trenta centimetri, costruite sulla parete divisoria in modo da ricoprirla completamente.
Rube si appoggiò alla ringhiera al mio fianco. «Dal punto in cui è seduto quell’uomo» disse «o da qualsiasi finestra della sua casa o da qualsiasi punto del suo giardino, gli sembra di essere in una via piena di piccole casette. Da qui non puoi vederlo, ma in fondo a quel breve tratto di strada è stato dipinto e modellato con prospettiva meticolosa il proseguimento della strada e del quartiere, che si perde in lontananza».
Mentre parlava, sulla strada sotto di noi apparve un bambino in biciclet- ta; non capii da dove era sbucato. Aveva un cappellino da marinaio bianco, coperto di spille che sembravano pubblicitarie o di propaganda elettorale, e indossava pantaloni alla zuava abbottonati sotto il ginocchio e lunghe calze nere. Ai piedi aveva un paio di scarpe di tela consumate che arrivavano sopra la caviglia. Portava con sé una borsa di tela strappata con dentro un mucchio di giornali piegati in due. Il ragazzo pedalava da una parte all’altra della strada, guidando con una mano e lanciando, con l’altra, i giornali su ogni veranda. Quando si avvicinò all’unica casa intera, l’uomo si alzò in piedi, prese il giornale al volo, e si sedette di nuovo a leggerlo. Il ragazzo gettò un altro giornale sotto la veranda della casa accanto, quella con due sole pareti, e svoltò l’angolo, scomparendo alla vista dell’uomo seduto sugli scalini. Quindi scese dalla bici e aprì una porta nel muro dove finiva di colpo la strada. Accompagnò la bici attraverso la porta, e la chiuse alle sue spalle.
[…] Mi voltai per guardare Rube in faccia, ma il suo sguardo era rivolto in basso, e teneva gli avambracci appoggiati alla ringhiera e le mani unite. «Non vedo cineprese, ma immagino che stiate riprendendo o facendo le prove per qualche film, laggiù» dissi. Non potei fare a meno di assumere un tono leggermente irritato.
«No» rispose Rube. «Quell’uomo sta effettivamente vivendo in quella casa. Dentro è completa, e c’è una donna di mezza età che viene a cucinare per lui e a fare le pulizie. I generi alimentari gli vengono consegnati giornalmente da un carretto trainato da cavalli con la scritta HENRY DORTMUND, ALIMENTARI DI QUALITÀ. E due volte al giorno un postino in uniforme grigia gli porta la posta; soprattutto pubblicità. Quell’uomo sta aspettando una risposta a una delle richieste di lavoro che ha inoltrato in città. Fra poco apprenderà che è stato assunto, e la sua vita cambierà. Andrà in città tutti i giorni, a lavorare». Rube mi lanciò un’occhiata, poi tornò a contemplare la scena sottostante. «Nel frattempo non fa altro che bighellonare per casa. Innaffiare il giardino. Leggere. Passare le giornate con i vicini. Fumare Lucky Strike. Col pacchetto verde. A volte ascolta anche la radio, anche se con questo caldo la ricezione è un po’ difettosa. Ogni tanto riceve la visita di qualche amico. In questo momento sta leggendo una copia fresca di stampa, uscita meno di un’ora fa, del giornale locale del 3 settembre 1926. È molto stanco; la temperatura negli ultimi tre giorni ha superato i trentacinque gradi tutti i pomeriggi, e non scende sotto i venticinque neanche la sera. Una calura tremenda da sopportare senza condizionatori. E se ora alzasse lo sguardo, non vedrebbe altro che un caldo cielo azzurro».
Mantenendo un tono paziente, dissi: «Vuoi dire che si attengono a una sceneggiatura?»
«No, non c’è nessuna sceneggiatura. Lui fa ciò che gli pare, e la gente che incontra parla e si comporta in maniera diversa a seconda delle circostanze».
«Non dirmi che lui crede effettivamente di vivere in un paese nel…»
«No, no, non è nemmeno così. Lui sa bene dove si trova. Sa bene di es- sere in un magazzino a New York, in una specie di scenario cinematografico. Si trattiene dal girare l’angolo per guardare ma sa bene che la strada finisce lì. E sa anche che la via che vede perdersi in lontananza non è altro che una prospettiva dipinta. E anche se non gliel’ha detto nessuno, sono certo che si rende conto che le case dall’altra parte della strada non sono altro che facciate dipinte». Rube lasciò la ringhiera, e mi guardò. «Simon, tutto quello che ti posso dire per il momento è che quell’uomo sta facendo del suo meglio per credere di trovarsi veramente sotto quella veranda in un pomeriggio di tarda estate a leggere quello che ha da dire oggi Calvin Coolidge».
«Ed esiste un paese con una strada come questa?»
«Oh si; una strada con case, alberi e aiole esattamente come questa, u- guale in ogni minimo particolare; dal modo in cui è tagliata l’erba alla carrozzina sotto la veranda. È quella della foto aerea che hai visto; Winfield, nel Vermont». Rube mi sorrise. «Non ti arrabbiare» disse con tono cortese. «Devi vedere prima di capire».

Ah! Ridatemi gli anni ’20 e i ragazzini che consegnavano i giornali casa per casa!
2.
“But you know what the world is like; you know that very well. You know all about it. Why shouldn’t you know what the world is like tonight, January 21, 1882? Because that is the date; that is the time we’re in, of course. That’s why I’m dressed as I am, and you as you are. That’s why this room is as it is. Don’t sleep quite yet, Si. Hold your eyes open just a bit. For just a few seconds longer.
“Now, hear what I say. I am going to give you a final, irrevocable instruction; you will hear it, you will obey it. You will sleep for twenty minutes. You will awake rested. You will go out for a walk. Just a little walk, a breath of air before you go to bed. You will be as careful as you possibly can be… that no one sees you. You will be absolutely certain to speak to no one. You will allow no act of yours, however small, to influence anyone in any way, however trivial.
“Then you will come back here, go to bed, and sleep all night. You will awaken in the morning as usual, free of all hypnotic suggestion. So that as you open your eyes, all your knowledge of the twentieth century will light up in your mind again. But you will remember your walk. You will remember your walk. You will remember your walk. Now… let go. And sleep.”
[…] I felt rested now; alive and energetic, a little too restless to feel like going to bed, and I decided to take a walk. It was still snowing, but big soft flakes. There was no wind, I’d been indoors too long, and I wanted to get out, into that snow, breathing chill fresh air; and I walked to the closet and put on my overcoat, chest protector, boots, and my round fur cap of black lamb’s wool.
I walked down the building stairs, somehow glad to encounter no one; I didn’t feel like chatting, and if I’d heard someone on the stairs I think I’d have stood waiting till he’d gone. Downstairs I walked out of the building, glancing quickly around, but saw not a soul — tonight I didn’t want to see anyone — and I turned toward Central Park just across the street ahead. It was a fine night, a wonderful night. The air was sharp in my lungs, and snowflakes occasionally caught in my lashes, momentarily blurring the streetlamps just ahead, already misty in the swirls of snow around them.
Just ahead the street was almost level with the curbs, unmarked by steps or tracks of any kind. I crossed it and walked into the park. […] I plodded on just a little way more, feet lifting high, boots clogged with damp snow, enjoying the exercise of it, exhilarated by the feel of this snowy luminous night, and my aloneness in it. Behind me and to the north I heard a distant rhythmical jingle, perceptibly louder each time it sounded, and I turned to look back toward the street once again. For a moment or two I stood listening to the jink-jink-jingle sound, and then just beyond the silhouetted branches, down the center of the lighted street, there it came, the only kind of vehicle that could move on a night like this: a light, airy, one-seated sleigh drawn by a single slim horse trotting easily and silently through the snow. The sleigh had no top; they sat out in the falling snow, bundled snugly together under a robe, a man and a woman passing jink-jink-jingle through the snow-swirled cones of light under each lamp. They wore fur caps like mine, and the man held a whip and the reins in one hand. The woman was smiling, her face tilted to receive the snow, and the only sounds were the bells, the muffled hoof-clops, and the hiss of the sleigh runners. Then their backs were to me, the sleigh drawing away, diminishing, the steady rhythm of the sleigh bells receding.
They were nearly gone when I heard the woman laugh momentarily, her voice muffled by the falling snow, the sound distant and happy.
«Eppure sai com’è fatto il mondo; lo sai molto bene. Sai tutto del mon-do. Perché mai non dovresti sapere come è fatto il mondo in questa notte del 21 gennaio 1882? Perché questa è la data, naturalmente; questo è il giorno che stiamo vivendo. È per questo che io sono vestito a questo modo, e anche tu. Ed è per questo che questa stanza è così com’è. Non addormentarti ancora, Simon. Tieni gli occhi aperti ancora per un istante. Solo qualche secondo ancora.
«Ora, ascolta ciò che ti dico. Ti darò delle istruzioni finali e irrevocabili; tu le ascolterai, e ubbidirai. Dormirai per venti minuti, e ti sveglierai riposato. Quindi uscirai a fare una passeggiata. Giusto quattro passi per prendere un po’ d’aria prima di andare a dormire. Starai attentissimo… a non farti vedere da nessuno. Farai in modo di non parlare con nessuno, assolutamente. E non permetterai a nessun tuo gesto, per quanto piccolo, di in- fluenzare nessuno in nessun modo, nemmeno il più insignificante.
«Quindi tornerai in questo appartamento, te ne andrai a letto, e dormirai per tutta la notte. Ti risveglierai domani mattina come al solito, libero da qualsiasi genere di suggestione ipnotica. Quando aprirai gli occhi, tutto ciò che sai del Ventesimo secolo sarà di nuovo disponibile nella tua memoria. Ma ricorderai la tua passeggiata. Ricorderai la tua passeggiata. Ricorde- rai la tua passeggiata. E ora, lasciati pure andare… e dormi».
[…] Ora mi sentivo riposatissimo; pieno di vitalità ed energia, tanto che non me la sentivo di andare subito a letto, e decisi di fare una passeggiata. Nevicava ancora, ma i fiocchi erano grossi e morbidi. Non c’era un alito di vento, ero stato in casa fin troppo tempo, e avevo voglia di uscire, in mezzo alla neve, a respirare quell’aria fresca. Mi avvicinai all’armadio, dove presi il soprabito, gli stivali e il mio cappello di astrakan.
Discesi le scale dell’edificio, stranamente contento di non incrociare altri inquilini; non me la sentivo di chiacchierare, e credo che se avessi sentito qualche rumore sulle scale mi sarei fermato ad aspettare che la via fosse libera. Una volta fuori mi guardai attorno rapidamente, ma non vidi anima viva. Stasera non volevo proprio incontrare nessuno. Mi diressi verso Central Park, dalla parte opposta della strada. Era una bella serata; una serata meravigliosa. L’aria era fredda nei miei polmoni, e ogni tanto un fiocco di neve mi si fermava sulle ciglia, annebbiando momentaneamente i lampioni, già offuscati dai vortici di nevischio che li avvolgevano.
La strada era alla stessa altezza del marciapiede, ed era completamente intatta da orme o tracce di qualsiasi genere. La attraversai ed entrai nel parco. […] Procedetti ancora per un poco, sollevando i piedi a fatica a ogni passo, con gli stivali coperti di neve umida, godendomi l’esercizio, esaltato dalla sensazione di quella notte luminosa e innevata nella quale mi trovavo in solitudine. A un certo punto udii alle mie spalle un tintinnare ritmico e distante, che diventava sempre più vicino. Mi voltai nuovamente verso la strada. Rimasi per un attimo ad ascoltare il tintinnio, poi, da dietro i rami degli alberi, in mezzo alla strada illuminata, la vidi; l’unico veicolo che po- teva aggirarsi in una notte come questa: una slitta aperta, leggera, trainata da un solo cavallo, piuttosto magro, che trottava tranquillo e silenzioso sulla neve. Un uomo e una donna sedevano sulla slitta, sotto la neve, avvolti in una coperta di lana. Attraversarono tintinnando i coni di luce innevati di ogni lampione. Avevano entrambi cappelli di pelliccia come il mio, e l’uomo teneva le redini e la frusta in una mano. La donna sorrideva, il viso inclinato all’indietro, godendosi la neve, e si udivano solo i campanelli, i passi soffocati del cavallo, e il leggero sibilo della slitta sulla neve. Mi passarono davanti, e li seguii con lo sguardo finché non scomparvero nel nevischio, il tintinnio sempre più distante.
Poco prima che scomparissero del tutto, sentii la donna che rideva; una risata distante e felice, attutita dalla neve.
Tabella riassuntiva
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(1) La precisione è pure troppa! Come quando Finney descrive l’abbigliamento ottocentesco: usa una valanga di termini che non solo io non avevo mai sentito nominare, ma che non conosce neppure il dizionario del mio reader! Dannazione.Torna su