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Indiegames: To the Moon

To the MoonSviluppatore: Kan Gao
Casa di sviluppo: Freebird Games
Genere: Interactive Fiction, RPG
Genere Narrativo: Slipstream / Science Fiction / Slice of Life

Motore: RPG Maker XP
Piattaforme: Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2011

In un futuro non distante dal nostro, l’uomo ha inventato una macchina per entrare nei ricordi degli individui e alterarli, creando nuove memorie. La dottoressa Eva Rosalene e il dottor Neil Watts sono due agenti della Sigmund Corp., una società specializzata nel realizzare gli ultimi desideri di uomini in punto di morte. Il loro compito? Visitare i pazienti quando sono agli sgoccioli, farsi comunicare il loro desiderio, ed entrare nella loro mente per manipolare i loro ricordi e ricreare la loro vita sul presupposto che quel desiderio si sia realizzato. E strappare loro, così, un ultimo sorriso.
Ma questo caso è il più difficile della loro carriera. L’ultimo desiderio di Johnny Wyles, misterioso vecchio che abita in una villetta su una scogliera a ridosso di un faro, è di andare sulla Luna. Solo che non sa il perché. Eva e Neil dovranno viaggiare a ritroso nei ricordi di Johnny per scoprire come sia nato il suo desiderio e “piantare” nell’animo del suo io infantile l’impulso di diventare astronauta e andare sulla Luna. Ma è una lotta contro il tempo, perché il cuore di Johnny sta per cedere. Riusciranno i nostri eroi a realizzare il suo ultimo desiderio?

Quando leggi un romanzo di Heinlein ti senti così macho, ma così macho, che poi hai bisogno di disintossicarti. Per liberare il mio organismo da questo eccesso di testosterone, sento l’impellente bisogno di buttarmi su storie intimiste e romantiche. E visto che il Consiglio del Lunedì era dedicato alla storia di una società di uomini costretta a vivere sulla Luna e a non potersene più andare, perché non parlare, ora, della storia di un uomo che non è mai stato sulla Luna ma vorrebbe disperatamente andarci?
Come già The Stanley Parable, di cui abbiamo parlato questo inverno, anche To the Moon è un esempio di “walking simulator”, o “interactive fiction”: un gioco in cui si gioca poco, ma che fondamentalmente è un veicolo per raccontare una storia. Al comando dei due agenti Eva e Neil (che il giocatore impersona alternativamente), procederemo dall’inizio alla fine della storia con una limitata possibilità di interazione con l’ambiente e una ancor più limitata influenza sullo sviluppo della trama: più che giocatori siamo spettatori, con la differenza che dovremo muovere fisicamente il nostro avatar e risolvere alcuni enigmi e mini-giochi per andare avanti nella storia.
Ora: si può discutere all’infinito se esperienze come queste – o, ancora di più, come Stanley Parable o Gone Home – siano o meno categorizzabili come “videogiochi”; tuttavia, posto che venga dichiarato a chiare lettere e fin da subito all’acquirente di che tipo di gioco si tratta, è un genere assolutamente legittimo. Io, che macino abitualmente romanzi e film, sono del tutto in grado di godermi un gioco che ha valore esclusivamente dal punto di vista narrativo. Purché la storia sia bella e ben raccontata.

Trailer di To the Moon

Per farsi un’idea di cosa sia To the Moon, il paragone più immediato è col film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, il capolavoro di Michel Gondry (regista) e Charlie Kaufman (sceneggiatore) sbarcato in Italia col pietoso titolo “Se mi lasci ti cancello”. Anche qui, l’elemento fantascientifico – la macchina che fa entrare nei ricordi delle persone – ha il solo scopo di esplorare tematiche soft, ossia i rapporti tra le persone, l’inconscio, l’amore, la ricerca della felicità. Non si tarda a scoprire che al centro di To the Moon c’è una storia d’amore: proprio indagando la relazione tra Johnny e la sua amata, andando a ritroso dalla vecchiaia alla sua infanzia, i due protagonisti dovranno scoprire il mistero che aleggia sulla vita di Johnny e trovare così il modo di instillargli nell’inconscio il desiderio di andare sulla Luna.
Questo spiega anche perché, pur avendo sentito parlare di questo gioco da più di un anno, ho aspettato così a lungo prima di decidermi a provarlo. Non sono tipo da storia romantica, i film sentimentali mi fanno sbadigliare. Molte cose di questo gioco inoltre – dal tema della storia al tono del trailer (i cavalli ommioddio i cavalli!) – sembravano gridare “melodramma cheesy“. Se infine mi sono deciso a provarlo, è per una ragione completamente diversa: il fatto che fosse stato realizzato con RPG Maker.

Una digressione su RPG Maker
RPG Maker è un programma estremamente user-friendly per realizzare giochi di ruolo1 con la grafica bidimensionale di un Final Fantasy o di uno Zelda dell’epoca SNES. Per saper usare RPG Maker non bisogna essere dei programmatori, anzi – il punto di forza del programma è sempre stato il fatto di essere orientato proprio ad adolescenti incapaci, pieni di sogni dopo anni passati davanti ai titoli Square ma senza voglia di imparare sul serio l’arte della programmazione. L’iterazione di maggior successo – con cui anche questo To the Moon è stato realizzato – è RPG Maker XP, che non solo ha una grafica nettamente superiore a quella dei classici per SNES (è pure più bello di Chrono Trigger, che già è una gioia per gli occhi nel panorama dei giochi di ruolo in 2D), ma ha implementato un editor, l’RGSS (Ruby Game Scripting System), del linguaggio di programmazione Ruby. Questo significava che un utente un attimo più scafato, pur senza essere un grande programmatore, può utilizzare l’RGSS per customizzare il proprio gioco ben oltre le possibilità del programma base, e realizzare feature molto complesse.
Io stesso mi ero baloccato parecchio con questo programma intorno ai 15-16 anni, quando pensavo che un videogioco di ruolo fosse un veicolo più adatto della scrittura per dare forma alle mie fantasie. Quegli anni della mia vita sono un monumento al FAIL, una raccolta di progetti ambiziosissimi lasciati a metà, saghe da 300-400 ore di gioco che – a guardarle con il giusto distacco – erano morte ancora prima di cominciare. E in effetti, questo  è sempre stato il destino della maggior parte dei giochi di chi si cimentava nell’impresa. Le sezioni delle release sui siti e i forum dedicati a RPG Maker sono degli enormi cimiteri di elefanti, pieni di demo, promesse stupende, e autori scomparsi nel nulla.

Cimitero degli elefanti

Riproduzione attendibile di una normale comunità di utilizzatori di RPG Maker.

Incappare in un gioco finito in quelle community è sempre stato un piacere raro. Quasi invariabilmente si trattava di titoli brevi, tra le 3 e le 10 ore totali, sviluppati da persone più realiste e pratiche di noialtri. Questo To the Moon non fa eccezione: con le sue 5 orette circa, si può completare in un pomeriggio o un paio di sere. Ancora più raro, tuttavia, è sempre stato incappare in un gioco non solo completo, ma anche ben fatto. Come per altre comunità di sviluppatori indie, anche i progetti di RPG Maker erano di norma portati avanti da una persona sola, che quindi doveva riunire in sé le capacità dell’autore di narrativa (ideare una buona storia, sceneggiarla, costruire l’ambientazione…) e del programmatore (benché di basso livello, si trattava di un lavoro che richiedeva tempo e anche una certa dose di creatività per fare cose più complesse). Anche in questo, To the Moon non fa eccezione, essendo creazione del solo Kan Gao – l’unico aiuto esterno che ha avuto è stato nella composizione di alcuni pezzi della colonna sonora.
Tutto ciò ha fatto sì che volessi scoprire come potesse essere venuto un gioco realizzato su RPG Maker che aveva ottenuto tutto quel successo e risonanza nella comunità indie. Ero persino disposto a sorbirmi una storia d’amore.

Uno sguardo approfondito
Immagino che il primo problema che si sia posto Kan Gao, mentre si metteva a scrivere la sceneggiatura, fosse: “ok, ho tra le mani un melodrammone, pieno di gente sul letto di morte, lacrime, baci e abbracci. Come faccio a rappresentarla senza nauseare a morte chiunque la vedrà?” E ha implementato un paio di rimedi efficaci.
Il primo, la scelta di utilizzare come protagonisti due scienziati che fanno il proprio lavoro. La storia di To the Moon è la storia di Johnny Wyles, ma noi la viviamo attraverso il punto di vista di Eva e Neil. In questo modo, benché la vicenda sia drammatica e coinvolgente, non veniamo avviluppati nella melassa o nell’autocommiserazione che sarebbero inevitabili adottando il pov di Wyles. I due scienziati naturalmente non rimarranno gelidi di fronte alle peripezie del loro paziente, ma il loro sguardo più distaccato e professionale è senza dubbio un antidoto al cheesy.

To the Moon Screenshot romantico

Panchina, altalena, ruscello, scogliera di notte col suono del mare, faro. Di cliché romantico ne abbiamo dimenticato nessuno?

A ciò si aggiunge che i due protagonisti sono personaggi piacevoli. Neil è il tipo brillante e un po’ cinico che tende sempre a sdrammatizzare e buttarla in caciara, mentre Eva fa la tipa algida e rassegnata, costretta a sopportare con imbarazzo il suo collega pagliaccio; insieme fanno una bella coppia e si prestano a una serie di siparietti. Certo, a volte questi sketch tendono a scadere un po’ nel ripetitivo e nel gratuito (specialmente alcune uscite di Neil), ma nel complesso sono ben gestite, fanno sorridere e danno un po’ più di ritmo a una trama che altrimenti sarebbe troppo drammatica e monocroma.
Alla fine, benché il focus narrativo non sia su di loro, Eva e Neil emergono come personaggi sufficientemente complessi, non delle semplici marionette per far progredire la storia di Johnny. Ognuno ha le proprie motivazioni per aver scelto questo mestiere, e una propria visione del proprio lavoro. E, verso la fine del gioco, saranno anche in grado di sorprendere con le loro scelte.

La narrazione oscilla tra il mystery – nella parte di investigazione, in cui i due scienziati cercano di dipanare i misteri attorno alla vita del paziente e si imbattono in una serie di particolari inquietanti – e il dramma d’amore – mano a mano che i dettagli della sua vita vengono alla luce. La storia della vita di Johnny mi ha sorpreso piacevolmente. Il personaggio di Rivers, l’amata di Johnny, è una figura sgradevole e difficile da prendere in simpatia, ma è costruita per essere così – suppongo che la capacità di affezionarsi o meno a lei dipenda in primo luogo da che tipo di persona siamo noi (per esempio: potrebbe piacere ai fan di Rei Ayanami, if you know what I mean).
La loro relazione non è una cosa banale alla Twilight; è sufficientemente complessa, e realistica, nel suo alternare momenti di intimità e momenti di scazzo. Dietro gli atteggiamenti dei due amanti ci sono motivazioni credibili e personalità consistenti. Certo, non mancano momenti veramente cheesy, né trovate cliché2. C’è anche quello che sembra essere un buco di trama abbastanza importante3. Ma tutto sommato mi aspettavo peggio.

To the Moon screenshot

Alcuni episodi della vita di Johnny sono piuttosto inquietanti.

Il problema principale, nell’immedesimazione nei personaggi e nei loro drammi, è il fatto di non poterli guardare in faccia. Come in tutti i videogiochi in 2D con presa dall’alto, tutti i personaggi sono dei piccoli sprite con la stessa personalità di Super Mario in Super Mario World. Da decenni, gli sviluppatori hanno risolto il problema in uno di due modi: inserendo dei quadrati con i close-up dei volti dei personaggi nelle finestre di dialogo, o disegnando i personaggi a mezzobusto sopra le medesime finestre. Così facendo si può avere a buon mercato un’immagine ravvicinata per ogni personaggio, e un set di espressioni da usare nelle diverse situazioni. Uno stratagemma così semplice può avvicinare molto l’audience ai personaggi del gioco.
Kan Gao non fa niente di tutto ciò; le finestre di dialogo di To the Moon sono vuote come nei vecchi Final Fantasy. La ragione non mi è ben chiara. Certo, disegnare i vari personaggi e un ventaglio di espressioni per ciascuno di essi non è semplice; e, nel caso in cui Gao non sapesse disegnare, avrebbe dovuto reclutare una terza persona. Tuttavia, non sarebbe stato un lavoro così logorante, considerando l’esiguo numero di personaggi della storia. E poi, i vantaggi sono così di gran lunga superiori agli svantaggi – soprattutto per una storia così centrata sulle emozioni come questa – che ne sarebbe comunque valsa la pena.

Altrettanto discutibili sono gli sporadici elementi di gioco presenti in To the Moon. Forse per giustificare l’appellativo di “videogioco”, Kan Gao lo ha tappezzato di mini-giochi. Ogni volta che si entra in una scena della vita di Johnny, per passare a quella successiva bisogna rintracciare una serie di ricordi, che facciano da ponte tra una memoria all’altra. Questo concetto, che narrativamente ha anche un suo senso, si traduce in una “caccia al tesoro” in giro per la mappa, a recuperare oggetti (foto, ombrelli, peluche, e così via) che fungono da ricordo. Una volta raggiunto il numero necessario, per aprire il portale verso la nuova memoria parte il secondo minigioco: un puzzle-game in cui bisogna ricomporre una figura a partire dai suoi tasselli.
Spero che a descriverli per iscritto suonino altrettanto idioti che a giocarli, perché è proprio questa la sensazione che danno. Il primo, in particolare, può diventare snervante: ricordo, ad esempio, una volta in cui non riuscivo a trovare l’ultimo ricordo e alla fine, per disperazione, mi sono messo a cliccare tutti i cazzo di oggetti che trovavo nella mappa. Quando un mini-gioco, invece che essere un momento di divertimento, diventa un peso, qualcosa che ostacola la fruizione della storia invece di un elemento che la rafforza, you’re doing it wrong ed è il caso di toglierlo. Più in generale, il problema in To the Moon è che le fasi di gioco sono completamente scollate da quelle narrative – una fonte di distrazione, l’ostacolo tra un pezzo di trama e quello successivo. Voglio godermi la storia e invece devo ricomporre uno stupido puzzle col disegno di un vaso di fiori.

To the Moon screensaver

What the fuck is this shit.

Io avrei fatto così!
Ci sarebbero due soluzioni a questo problema. Quella più semplice e onesta, semplicemente, sarebbe di eliminare tutti i mini-giochi, e lasciare solo la trama. Come per The Stanley Parable e Gone Home, abbandonare anche le ultime velleità di videogioco tradizionale, e limitarsi a raccontare una storia in cui il giocatore deve muovere il personaggio dall’evento X all’evento Y. Esiste un pubblico per giochi del genere, quindi non vedo il problema.
La mia soluzione preferita, ovviamente, è quella più complicata. E prevede, in sostanza, un completo ripensamento del gioco. Pensateci un attimo: partendo dalle sue premesse narrative, cos’è in fondo To the Moon? Una storia d’investigazione. Una lotta contro il tempo per scoprire il segreto nella vita di un vecchio e riuscire a realizzare il suo ultimo desiderio prima che muoia. Ergo: avrei realizzato un vero e proprio gioco investigativo con un tempo limite e finale multiplo.

Al giocatore spetterebbe il compito di mettere insieme gli indizi trovati nei ricordi di Johnny e risolvere il mistero. Se non riuscisse a farlo in tempo, si otterrebbe il bad ending della morte del vecchio senza che il suo desiderio venga realizzato. O si potrebbe scoprire il suo segreto, ma non riuscire a farlo andare sulla Luna. E ancora, cosa anche più interessante, ci potrebbero essere più modi per realizzare il suo desiderio. In questo modo, si avrebbe finalmente un sistema di gioco completamente integrato nella trama, e che incentiva a giocare e sperimentare. La brevità del gioco, inoltre, aumenterebbe la replay value e spingerebbe anche il giocatore che si è beccato il bad ending a riprovare.
Una volta sbloccata una nuova memoria, il giocatore dovrebbe poter tornare ogni volta che vuole a quella e a tutte le precedenti – così da recuperare indizi eventualmente persi o rivivere certe scene per reinterpretarle alla luce di nuove informazioni. L’orologio interno che stabilisce quanto tempo manchi alla morte di Johnny non dovrebbe essere un vero e proprio timer – non vogliamo che il giocatore sia costretto a muoversi di fretta e non riesca più a godersi la storia – ma potrebbe dipendere, per esempio, dagli spostamenti tra i ricordi. Ogni spostamento, muove l’orologio di un’unità verso la morte. In questo modo il giocatore dovrebbe imparare a gestire con oculatezza i propri spostamenti, ma una volta arrivato in un ricordo potrebbe con calma esaminare la scena e riflettere sul da farsi.
Se sentissimo, in questo modo, che la vita di Johnny non è semplicemente un elemento della trama ma dipende veramente dalle nostre azioni, ed è veramente appesa a un filo, forse ci sentiremmo più responsabili. E sentiremmo la sua tragedia più vicina a noi.

To the Moon Screenshot

Kan Gao realizza delle scene che onestamente non credevo possibili su RPG Maker.

In conclusione
Le storie d’amore cariche di pathos, lo ribadisco, non fanno per me; e posso confermare, come sospettavo, che questo To the Moon non è indirizzato alle persone come me. E’ quindi interessante che, nonostante tutto ciò, io abbia divorato il gioco. A parte i primi quaranta minuti, mi sono passato tutto il gioco in una sola seduta – perché volevo sapere come andava a finire. To the Moon ha ritmo. Nonostante i mini-giochi stupidi, e nonostante alcune scene discutibili, non si avverte mai un momento di stanca. E la scena finale, devo ammetterlo, è stupenda; la dimostrazione della saggezza di quel vecchio adagio dei manuali di narrativa, “arrive late and leave early”.
Non è un gioco che consiglierei a tutti. Gli amanti della fantascienza rimarrebbero delusi, come anche chi si aspettasse un secondo Eternal Sunshine (quel film è parecchie spanne sopra l’opera di Kan Gao). Ma per gli amanti dei drammi psicologici, dello slice of life, e naturalmente delle storie d’amore, be’, To the Moon è un bel prodottino. Provatelo. Se siete indecisi, aspettate i prossimi saldi di Steam. L’ultima cosa che posso dirvi per convincerci è che: no, il “voglio andare sulla Luna” non è una forbita metafora. Parla proprio della Luna. E di andarci. Con uno shuttle. Della NASA.

Kan Gao ha annunciato da tempo di essere al lavoro su un secondo episodio, che vedrà i dottori Eve e Neil alle prese con un nuovo caso (spoiler: nessuno dei due muore). Prima di allora, però, dovrebbe uscire un episodio più breve – chiamato Bird Story che fungerebbe un prequel al secondo capitolo vero e proprio di To the Moon. Questo capitolo intermedio ruoterà attorno a “un bambino e un uccellino con un’ala spezzata”, e se possibile sembra ancora meno nelle mie corde del precedente. Bird Story non ha ancora una data di uscita ufficiale; se la storia dei programmatori di RPG Maker mi ha insegnato qualcosa, è facile che prima di allora Kan Gao sia scappato in Kirghizistan e abbia aperto un allevamento di cavalli (sembrano piacergli così tanto).
Quanto a me, la carrellata di articoli dedicati alla Luna e all’esplorazione spaziale non è ancora terminata. Ne riparleremo lunedì prossimo.

To the Moon Screenshot Horses

Figa i cavalli.


(1) Dico “giochi di ruolo” per semplificare. In realtà, benché RPG Maker sia impostato principalmente per realizzare gdr, un utente un po’ scafato può piegare il programma per realizzare (con fatica) altri tipi di gioco, dallo sparatutto al platform.Torna su


(2) Su tutte, il trauma infantile che sconvolge la vita di Johnny. L’incidente stradale che ti ammazza il fratellino è una delle trovate più abusate nella storia della narrativa drammatica. E il fatto che si passi un’ora di gioco buona a cercare di scoprire di cosa si tratti rende la delusione solo più cocente, quando finalmente il mistero è risolto.Torna su


(3) Il fulcro della relazione tra Johnny e Rivers è che lui si è dimenticato del loro primo incontro quand’erano piccoli, e lei non gliel’ha mai perdonato. Questa sua dimenticanza, a sua volta, è causata dal fatto che per dimenticare il trauma della perdita del fratello è stato imbottito di psicofarmaci.
Ora, per far nascere in Johnny il desiderio di andare sulla Luna, Eva rimuove dai suoi ricordi il secondo incontro con Rivers, al liceo; in questo modo, lui continuerà inconsciamente a “inseguirla” sulla Luna. Tuttavia Eva fa anche una seconda cosa, ossia cancella la morte del fratello. Ma questo fa crollare tutto il castello di carte.
Se suo fratello non muore, Johnny non comincerà mai a prendere psicofarmaci. Non perderà mai la memoria, ergo tornerà nel ‘posto magico’ con Rivers l’anno dopo. Il secondo incontro al liceo non avverrà mai, semplicemente perché i due non smetteranno di vedersi. Ma allora Johnny, non avendo smarrito Rivers, non proverà mai la tentazione di andare sulla Luna. Se risparmi il fratello, altre cose potranno cambiare, ma non è chiaro che direzioni prenderà il rapporto tra i due; Johnny potrebbe ritrovarsi di nuovo infelice alla fine della sua vita.

Datemi del cinico, ma io avrei preferito semplicemente che Eva rimuovesse Rivers dalla vita di Johnny (cambiando solo l’episodio del liceo). Lui sarebbe stato molto più felice. Forse sarebbe andato sulla Luna. Forse no. Ma non avrebbe vissuto una vita inutile accanto a una donna come Rivers.Torna su

Le tettone di Catherine

Le tettone di Catherine“La bigamia è avere una moglie di troppo. La monogamia anche.”
Oscar Wilde

Che l’industria giapponese dei videogiochi sia in crisi da anni, ormai lo sanno anche i sassi. La caduta in picchiata della qualità dei Final Fantasy è solo la punta di un’iceberg che ormai coinvolge quasi tutte le case nipponiche e anche i piccoli team. Pure la Tri-Ace, che all’epoca della PS2 aveva sfornato i bei Star Ocean 3 e Valkyrie Profile: Silmeria, me l’ha messa nel culo qualche anno fa con l’atroce Eternal Sonata (non ci credete che è atroce? Riguardatevi questo).
Per trovare un GDR decente che non sia l’ennesimo prodotto in serie pensato per un dodicenne cresciuto a Naruto e a retardness, devo rivolgermi a case più piccole e a prodotti a medio o basso budget (quei giochi che non sono un flop se vendono meno di venti milioni di copie e quindi non hai un minimo di libertà creativa). In particolare la Atlus – produttrice delle serie di Shin Megami Tensei, Digital Devil Saga e Persona – negli ultimi dieci anni si è sempre o quasi distinta per originalità, un target un poco più maturo, e meccaniche di gioco insolite. E soprattutto, per l’assenza di protagonisti che maneggiano spade lunghe otto metri, pesanti quaranta chili e a forma di clavicembalo. Grazie Atlus per averci risparmiato le spade retard.

Catherine, l’ultima fatica dello studio che ha realizzato Persona, è uno dei giochi più strani a cui abbia mai giocato. Oltre che uno di quelli con la maggior concentrazione di primi piani di tettone ballonzolanti. Che si tratti di libri o film o videogiochi, amo la bizzarria (e le tettone), e del resto questo blog è una vetrina di cose curiose, no? E poi non potevo tacere del responsabile di tante ore di tempo libero allegramente buttate nel cesso ^-^

Catherine seduce Vincent

Per chi non conoscesse già il gioco, ecco la storia in soldoni. Vincent è un ingegnere informatico di trent’anni un po’ immaturo, che ha sempre voglia di andare al bar con gli amici la sera e nessun voglia di “sistemarsi”. Ama la sua sua sexy fidanzata con le tettone, Katherine, ma la loro è una relazione stressante: lei è una donna in carriera e con la testa a posto, che gli dice sempre cosa fare e lo tratta come un bambino. Perdipiù continua a fargli discorsi sul fatto che dovrebbero cominciare a metter su famiglia e Vincent dovrebbe assumersi le sue responsabilità.
Quando, una sera al bar, dopo che se ne sono andati via tutti, gli appare una dolce fanciulla bionda e disinibita, non capisce più nulla. Prima che se ne accorga sono a letto insieme. Orrore si aggiunge a orrore quando Vincent scopre che la tipa si chiama Catherine, e che non ha più intenzione di lasciarlo andare.
Contemporaneamente, Vincent comincia a fare degli strani incubi. Tutte le notti si ritrova in uno strano mondo fatto di blocchi, con delle corna di pecora in testa. Ci sono delle pecore tutt’attorno a lui, che si arrampicano velocissime sulle torri di blocchi. Lo mettono in guardia: se non sarà abbastanza svelto ad arrampicarsi precipiterà nell’abisso, e chi muore nel sogno muore anche nella realtà. Sembra che qualcuno abbia lanciato una maledizione sugli uomini infedeli, condannati notte dopo notte ad arrampicarsi per non fare una fine orribile. E sono molti a venire ritrovati morti nel loro letto la mattina dopo.
Come farà Vincent a liberarsi dei suoi incubi e a risolvere la sua aggrovigliata situazione sentimentale?

La serie di Persona è famosa per combinare un gioco di ruolo classico con meccaniche da gioco gestionale. Di giorno si va a scuola, si interagisce con i compagni, si fa in giro per la città, ci si fa amici, eccetera; di notte – o, nel caso di Persona 4, in alcuni giorni particolari – si entra in una dimensione alternativa e si esplorano dungeon disseminati di mostri. Catherine ricorda questa logica, con la differenza che le parti notturne non sono un GDR ma un puzzle game.
Tirando e spingendo blocchi in modo da creare delle scale, bisogna salire delle torri fino a raggiungere la cima, mentre gradualmente i piani inferiori crollano uno dopo l’altro. E se la corsa contro il tempo non bastasse, bisogna anche guardarsi le spalle da blocchi trappola di vario tipo (da quelli che ti infilzano a quelli che ti si frantumano sotto i piedi, da quelli fatti di ghiaccio e quindi scivolosi, a quelli che esplodono) e dalle altre pecore, che spesso proveranno a spingerci giù.


Un livello del puzzle game, piuttosto avanti nel gioco. Notare che il giocatore del video è un pazzo, e che io ho risolto il livello in un modo diverso. Inoltre il doppiatore americano di Vincent non sembra un ritardato come quello giapponese. Giuro.

Molti sono rimasti spiazzati dall’amalgama di gestionale e puzzle game, anche perché i seguaci della Atlus sono appassionati di GDR e dallo studio che ha realizzato Persona si aspettavano un GDR. In realtà, ritengo che l’elemento puzzle sia quello meglio riuscito del gioco. Esso infatti ha tutta la bellezza e l’eleganza di un gioco semplice e con poche regole; la complessità del gioco sta nelle infinite varianti in cui quelle poche regole possono essere combinate. Il che significa che le basi del puzzle si capiscono in una manciata di minuti, ma per tutto il resto del gioco si continua a imparare nuove tecniche e ad affrontare nuove sfide. Il tutto con l’angoscia del tempo limite: sotto di noi, piano dopo piano, i blocchi precipitano nell’oscurità…
Il tasso di sfida è ottimo. Da una parte la curva della difficoltà continua a salire – e alcuni degli ultimi livelli sono semplicemente folli – dall’altra il gioco mette a disposizione del giocatore l’opzione Undo, che gli permette di tornare indietro fino a 9 mosse per correggere errori irrimediabili o provare altre soluzioni1. Difatti c’è quasi sempre più di un modo per scalare le torri, e spesso quali soluzioni sono a nostra disposizione dipendono dalle nostre mosse e soluzioni precedenti (dato che i piani superiori tendono a collassare e a prendere forme diverse a seconda di come abbiamo spinto e tirato blocchi ai piani inferiori).

La parte deludente è invece quella gestionale. Ora, Persona ci aveva abituato bene. In Persona, l’attività principale della parte gestionale era la costruzione dei Social Link; ossia, incontrare nuove persone partecipando a varie attività (per esempio, un club sportivo, o il gruppo di teatro, o un lavoretto part-time), farsi delle amicizie, coltivarsele uscendo insieme e dando le risposte giuste alle loro domande. La nostra capacità di farci degli amici nel mondo reale influenzava poi le nostre esplorazioni notturne. Oltre a questo, era anche possibile girare per la città, comprare armi e oggetti nei negozi, raccogliere informazioni, eccetera. Tutto questo dava l’impressione di un ambiente vivo e complesso aldilà del GDR.
Ora, non mi aspettavo un sistema così raffinato, ma neanche il deserto che è Catherine. Al di fuori degli incubi, l’azione del gioco si limita al bar frequentato da Vincent e amici, lo Stray Sheep. Al di fuori di questo, ci sono solo filmati, filmati, filmati – a un certo punto mi sembrava di essere finito in un gioco di Hideo Kojima. E anche nel bar, tutto quel che si può fare è tenersi al corrente delle morti guardando la tv, chiacchierare con gli amici, rispondere agli sms di Katherine e Catherine, giocare a un mini-gioco chiamato Rapunzel (che all’inizio è divertente ma dopo dieci minuti vorresti cavarti occhi e orecchie) o dare una mano ad alcuni frequentatori del bar che sono anche vittime degli incubi come te. Queste ultime sottomissioni sono particolarmente tristi: di fatto si tratta semplicemente di scambiare due parole con loro e incoraggiarli (sia al bar che durante gli incubi) in modo che non si perdano d’animo e non si lascino ammazzare.

Rapunzel

Una volta amavo le cose vintage. Poi ho giocato a Rapunzel.

Pigrizia degli sviluppatori? Mancanza di tempo o soldi? Non lo so; quel che è certo è che così l’esperienza sembra monca. Dato l’elemento mystery, investigativo del gioco, non sarebbe stato meglio dare al giocatore l’opportunità di girare per la città a raccogliere informazioni, a cercare di capire cosa stesse succedendo, magari andando a trovare a casa altre persone incontrate negli incubi? A seconda delle azioni compiute di giorno, sarebbe potuta cambiare la sua situazione nel mondo dei sogni; la risoluzione del mistero centrale (perché Vincent e le altre vittime hanno questi incubi? Chi li ha maledetti?) sarebbe potuta essere affidata al giocatore anziché alle cutscenes. In questo modo si sarebbe premiata la capacità investigativa del giocatore, che magari avrebbe sbloccato un finale differente a seconda che fosse riuscito o meno a liberarsi degli incubi.

Un altro elemento di disappunto è la gestione dell’allineamento di Vincent. A seconda delle azioni compiute dal giocatore – ad esempio, a seconda di come risponde ai messaggi delle due ragazze o a domande poste in alcuni momenti chiave del gioco – l’allineamento di Vincent si sposta verso la Legge o verso il Caos. Il che significa sia un avvicinamento a Katherine piuttosto che a Catherine, sia una preferenza verso una vita regolata e verso i valori tradizionali della società, o al contrario verso una vita sregolata.
L’idea è interessante, ma la realizzazione lascia a desiderare. In pratica, l’unico effetto dell’allineamento è il tipo di finale che si ottiene a gioco concluso (ce ne sono ben otto); per tutto il resto della storia, le scelte del giocatore sono del tutto ininfluenti. Questo ci fa sentire poco partecipi della trama, dato che Vincent fa quello che gli pare a prescindere dalle nostre scelte; e verso la fine del gioco, può portare a delle situazioni veramente assurde2. So già perché questa scelta: programmare bivi e variazioni costa di più. Ma è seccante lo stesso.

Catherine pecore

Salva le pecore. Salva il mondo.

Dove Catherine colpisce nel segno è nell’atmosfera. Il mondo dell’incubo, con le sue campane (che mentre si scalano le torri significano che ci si sta avvicinando alla cima del livello, e quindi verso la fine del gioco vengono in genere accolte dal giocatore con lacrime agli occhi), i confessionali dove una specie di prete-bambino ci fa domande sulla nostra moralità, le pecore che livello dopo livello si trasformano a seconda del loro comportamento, il senso di comunità che si viene a creare con gli altri arrampicatori. Tutta la simbologia delle pecore, in particolare, è un colpo di genio. Altrettanto azzeccata è la decisione di accompagnare tutte le fasi di caricamento con una citazione famosa sulla vita di coppia (di cui quella in calce all’articolo è un esempio) – sono quasi tutte carine.
Suggestiva è anche l’atmosfera che si respira allo Stray Sheep, che ha proprio l’aria da locale tranquillo per scapoloni, con tanto di sottofondo musicale da piano-bar. E gradita è la caratterizzazione degli amici di Vincent, che invece delle solite smielate buoniste sull’amicizia che sembrano un marchio di fabbrica del marketing Young Adult in generale e dei jappi in particolare, si comportano da stronzetti, fanno battute e sfottono il protagonista quando se lo merita. Sono anche in grado di dargli una mano, ma lo fanno evitando tutta la retorica zuccherocaramellosa che ci mangia il fegato da vent’anni. Vincent dice un sacco di parolacce, e quando si spaventa fa una faccia carinissima. Il personaggio di Thomas Mutton è delizioso (e anche molto secsi, anche se a Siobhàn non piace che lo dica).
Il tutto condito con le ottime musiche di Shoji Meguro – compositore storico della Atlus e uno dei miei preferiti – che oltre a molte tracce originali carine, per i livelli del puzzle game ha remixato una gran quantità di pezzi di musica classica – dall’overture del Guglielmo Tell di Rossini al famoso Revolutionary Etude di Chopin, da una fuga di Bach a uno dei miei pezzi preferiti, la Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvorak.


Il remix di Shoji Meguro del primo e del terzo movimento della Sinfonia del Nuovo Mondo di Dvorak.

Certo, alla fine neanche Catherine riesce a evitare la retorica standard della serie “quello che conta nella vita è realizzare i propri sogni”, “non importa cosa scegli, l’importante è che fai quello che vuoi veramente”, “potrò anche sbagliare ma almeno sarò rimasto fedele a me stesso” e tanti saluti. E’ così trita, così ricorrente che quasi non me ne accorgo neanche più.
In compenso mi è piaciuto come viene trattato il sesso. Pur non scendendo mai nel porno, Catherine ci regala un sacco di inquadrature maliziose, allusioni che capirebbe un bambino di otto anni e – nel caso in cui trattiamo bene Catherine – un sacco di pics di tettone sul nostro cellulare. Gli argomenti “sesso”, “relazioni”, “matrimonio” non sono trattati in maniera incredibilmente profonda od originale, ma si tratta pur sempre di un passo avanti in un mondo – quello dei videogiochi – che dal punto di vista narrativo è molto arretrato. Se Catherine fosse un romanzo non sarebbe un granché, ma per la media dei suoi concorrenti si piazza bene. E poi viene a occupare una zona che non era mai stata toccata da molti altri videogiochi.

A differenza di Portal, di cui avevo già parlato su queste pagine, Catherine non è un capolavoro manco per sbaglio. Ciononostante, si tratta di un bel gioco, originale e bizzarro, e mi sono divertito moltissimo a giocarci. E io appoggio sempre gli esperimenti, quando non si tratta di robaccia involuta ma del serio desiderio di dare qualcosa di nuovo ai videogiocatori, spettatori, lettori.

Catherine sadica

Un altro buon motivo per giocare a questo gioco.

(1) Questo ai livelli di difficoltà Facile e Normale. In modalità Difficile l’Undo è stato tolto, il che mi sembra anche giusto.Torna su

(2) ATTENZIONE: SPOILER (in bianco). A prescindere dall’allineamento, durante la Settima Giornata Vincent deciderà che vuole stare con Katherine e mollare Catherine. Questo anche se la barra dell’allineamento è tutta dalla parte del Caos (e quindi di Catherine). La cosa si fa ancora più assurda quando, all’inizio dell’Ottava Giornata, bisogna scappare con Katherine e aiutarla ad arrampicarsi, con Catherine come boss. In questo modo, solo i giocatori che avessero scelto di stare con Katherine (e quindi un percorso legale) non si accorgerebbero delle incongruenze.
Inoltre, se abbiamo un allineamento caotico e diamo tutte le risposte giù, nel finale Vincent ci proverà con Catherine (finalmente in linea con le decisioni del giocatore) anche se per tutta la Settima e l’Ottava Giornata aveva menato il cazzo a tutti su quanto volesse rivedere Katherine non volesse più saperne dell’altra. Nonsense.
E dire che non ci volevano queste spese folli per fare un bivio decente. Immaginando di tenere le spese al minimo, potevano cambiare qualche linea di dialogo negli ultimi giorni (in cui Vincent dichiara di volere Catherine e non Katherine) e modificare alcuni elementi del sogno dell’Ottavo Giorno: è Katherine a finire accoltellata, Vincent scappa con Catherine e insieme devono arrampicarsi con un boss-Katherine che li insegue. Fine. Ci voleva tanto?
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L’arte dell’eleganza, ovverosia: Potato Science!

PotatOS“So, how are you holding up? Because I’M A POTATO.”

Nelle ultime due-tre settimane, tra le altre cose, mi sono drogato di Portal 2. All’inizio ero un po’ scettico: come non amo le saghe in letteratura e i serial televisivi, allo stesso modo diffido dei seguiti dei videogiochi. E l’esperienza mi ha spesso dato ragione. Ma mi sono dovuto ricredere: Portal 2 è fikissimo.

E’ piaciuto un sacco anche a Siobhàn; tanto, che per la prossima fiera di Lucca ha deciso di fare il cosplay di Chell, la protagonista. E, navigando alla ricerca dei componenti del suddetto cosplay, la piccola Shò ha scoperto questo:

Portal 2 PotatOS Science Kit

Sono queste le cose che mi fanno sperare che il genere umano abbia uno Scopo nell’Universo!
Ecco una dimostrazione del Science Kit in azione:

Cosa c’entra tutto questo con un blog sulla narrativa?
Be’, intanto ero felice e volevo farvelo sapere. Ma se proprio avete bisogno di una motivazione meno egocentrica, be’, Portal 2 è un gioco che può insegnare molte cose a un aspirante narratore (e uso la formula “narratore” per prescindere dal tipo di medium utilizzato – scrittura, cinema, videogioco, eccetera).
Se non avete mai giocato a Portal – e qui ci scapperebbe un: vergogna – ecco un riassunto della trama. Un bel giorno, Chell (una donna di cui non sappiamo niente) si risveglia in una stanza bianca, con indosso soltanto una tutina dell’Aperture Science. Per ragioni sconosciute, si trova all’interno di un gigantesco laboratorio sotterraneo. Una voce sintetica, rispondente al nome di GLaDOS, la informa che potrà rivedere la luce del sole (e, incidentalmente, gustarsi una bella torta) se riuscirà a superare tutti i test proposti dal laboratorio. Con l’aiuto di una pistola che spara portali, Chell dovrà farsi largo attraverso tutte le stanze del laboratorio, sperando che davvero l’aspetti la libertà alla fine dell’ultima prova…
Il seguito del gioco originale ci vede ancora intrappolati nel complesso. E nel nostro secondo tentativo di fuga, scopriremo incidentalmente la storia dell’Aperture Science e dell’IA GLaDOS.

Portal è uno di quei giochi che, mentre ci giochi, ti fa venire voglia di non smettere più. Ma è anche uno di quei giochi che ti entra in testa, e a cui ti capita di ripensare anche mesi dopo averli finiti. Questo è in parte dovuto, di sicuro, al gameplay: la voglia di risolvere il puzzle e di scoprire come sarà il puzzle successivo; e magari, a gioco finito, il divertimento di costruirsi nella testa nuovi puzzle. E’ lo stesso tipo di piacere che porta altri a risolvere (e a inventare) cruciverba o rebus. Ma in parte è dovuto di sicuro all’intelaiatura narrativa dei due giochi.
Sceneggiare un videogioco è molto diverso da scrivere un romanzo, ovviamente. In un romanzo, la storia è tutto, mentre in un videogioco è solo uno degli elementi dell’opera. Nel gioco, la storia dev’essere al servizio del gioco, deve sostenerlo ma mai invaderlo – altrimenti si fa la fine di Metal Gear Solid 4, meglio noto come “il film con un po’ di videogioco intorno”. Viceversa, a scrivere un libro come se fosse una partita di gioco di ruolo si finisce a sommergere di aborti illeggibili la casella postale del povero Zwei.
La sceneggiatura di un videogioco può insegnare ben poco anche sul piano del puro stile, data la diversità del mezzo. Ma può insegnare molto sulla struttura, ossia su come vada pensata e orchestrata una storia. Ora, perché Portal è così appassionante? Perché è così bello entrare nel suo mondo, e così un peccato quando il gioco finisce? La chiave sta nella parola “eleganza”.

Chell

Ecco come vedremo Siobhàn questo autunno. Senza i lineamenti scimmieschi, per fortuna.

Eleganza
Con “eleganza” si intende: ottenere il massimo risultato con utilizzando un numero minimo di elementi. Un’equazione o una stringa formale che occupano poco spazio e utilizzano un numero limitato di simboli sono più eleganti di formule che per esprimere lo stesso concetto riempiono pagine e pagine; The Death of Grass di John Cristopher è più elegante di The Stand di King, perché per creare personaggi di pari complessità ed evoluzione psicologica impiega 200 pagine invece che un migliaio, e un cast molto più ridotto.
Il piacere dell’eleganza non è qualcosa di puramente intellettuale, anche se di certo stimola l’intelletto (che si chiede come sia stato possibile raggiungere un così buon risultato con una tale penuria di mezzi). E’ un piacere che arriva prima di tutto ai sensi, anche se non sempre ce ne si rende conto, e che si potrebbe chiamare piacere della semplicità. Il lettore (o lo spettatore, o il giocatore) si emoziona senza essere costretto a tenere a mente un sacco di personaggi o avvenimenti o background o sottotrame – sofferenza ben nota a tutti coloro che si imbarcano in epopee infinite come La ruota del tempo, Le cronache del ghiaccio e del fuoco o qualsiasi manga che superi la ventina di volumi (ma se è per questo, anche classici “insospettabili” come I demoni di Dostoevskij). Anche a leggersi la serie intera tutta di fila, è molto improbabile riuscire a tenere insieme tutti i fili della storia senza prendere appunti.

E’ stata una precisa scelta degli sceneggiatori di Portal 2 introdurre il minor numero di personaggi possibili e mantenere la stessa semplicità di trama che aveva fatto la fortuna del primo Portal. In tutto il gioco abbiamo solo quattro personaggi – la protagonista, che peraltro è muta, GLaDOS, Wheatley e Cave Johnson, che peraltro non compare mai di persona. Il primo Portal addirittura aveva solo due personaggi, ma è anche vero che in quel caso si poteva a malapena parlare di “trama”, dato che il tutto si riduceva alla formula ‘Protagonista vuole scappare / Antagonista che vuole tenerla dentro’ con un buffet di (squisite) battute in mezzo.
Portal 2 invece ha una trama vera e propria. E con poche battute (come la voce registrata di Cave Johnson, o gli scambi tra GlADOS e Wheatley) veniamo a sapere un sacco di cose, come la storia dell’Aperture Science, l’origine di GlADOS o perché le IA del complesso provino il desiderio compulsivo a fare test. Non c’è bisogno di ricreare l’intero background dell’America dagli anni ’40 in poi per mostrarci la storia dell’Aperture Science – basta una scelta mirata delle texture delle stanze e di poche battute preregistrate. Alcuni elementi non vengono mai nemmeno spiegati, ma semplicemente suggeriti al giocatore attraverso alcune immagini, come il perché i piani superiori del complesso all’inizio di Portal 2 siano infestati di piante.

Potato science

Let’s do some science!

La stessa eleganza si rispecchia nell’ambientazione. I laboratori dell’Aperture sono una scatola chiusa, non solo perché non si può uscire, ma anche perché tutto ciò che non riguarda ciò che accade all’interno del complesso è eliminato dalla storia. Qual’è la situazione politica del mondo fuori dal laboratorio? Il governo è al corrente di ciò che succede all’Aperture? In che anno siamo? La sceneggiatura non spende una parola su questi punti, perché esulano dall’ambientazione. Tagliare! Risparmiare! Economia di elementi! Chell è davvero stata adottata? Ma chissenefrega! L’unica domanda importante è: riusciremo a uscire dal laboratorio?
Questa economia di background non solamente permette al giocatore di concentrarsi sui pochi elementi importanti e goderseli come Dio comanda, ma trasmette quel tanto di claustrofobia e ansia che tanto ci piace. Laboratorio sigillato a n metri di profondità in mano a un’IA capricciosa = pericolo; è davvero così semplice!
I tizi di Valve hanno poi arricchito il tutto inserendo un elemento di contrasto: l’umorismo. Che siano i mezzucci improbabili con cui GLaDOS tenta di rassicurarci della propria onestà e della sua attitudine scientifica, o i suoi scambi con quel ritardato di Wheatley, o i messaggi deliranti di Cave Johnson, i dialoghi di Portal cercano sempre di essere ironici e vivaci. Umorismo nero: prendi una situazione di per sé drammatica e vedine il lato divertente.

Infine, anche i personaggi sono costruiti secondo i dettami dell’eleganza. Ciascuno di essi poggia su un ridotto numero di conflitti interni, in sé molto semplici, e che diventano complessi solo nell’interazione tra loro.
Prendiamo GLaDOS, il personaggio più riuscito. Qual’è il suo segreto? A un primo livello, troviamo il contrasto tra la sua voce innocua e impostata – che sembra uscita direttamente da un navigatore satellitare – e il potere di vita e di morte che si trova a esercitare su di noi. Sempre su questo livello sono costruiti i nomi degli articoli dell’Aperture Science; nomi contorti e rassicuranti che insultano l’intelligenza del giocatore, nascondendo palesi trappole mortali (bellissima presa in giro, tra l’altro, dell’ipocrisia aziendale). A un secondo livello, c’è la contraddizione tra la presunta super-intelligenza dell’IA e l’ingenuità dei suoi trucchetti, che peraltro ci propina con convinzione. A un terzo e più profondo livello, il conflitto tra il disprezzo di GLaDOS per gli umani e il bisogno che ha di loro per dare un senso alla propria vita. Il risultato è la versione un po’ autistica (e più simpatica) di HAL9000.
Lo stesso giochetto può essere fatto anche con gli altri personaggi.

Space Core Portal 2

Portal è anche una fabbrica di meme.

Andrei avanti per ore a parlare di Portal e delle ragioni per cui è tanto divertente, ma mi fermerò qui. Ma il succo della storia è: scrittori di fantastico, ambite all’eleganza! E cercate l’ispirazione anche nei videoGIUOCHI! E comprate anche voi un kit Potato Science!
Fatelo, se non altro, nell’interesse della scienza. Se non siete ancora convinti, vi lascio alle parole ispiratrici di Cave Johnson: