La maggior parte di voi, per un periodo della propria vita, avrà avuto il suo momento fanfiction. Un momento in cui, dopo la fine della vostra serie / videogioco / saga preferita, ne volevate ancora e, disperati, vi siete rivolti alle comunità dei fan. Per chi non lo sapesse: una fanfiction è per l’appunto l’opera di un appassionato che riprende setting e personaggi di un’altra storia (generalmente di una certa fama).
Anch’io ho avuto il mio momento fanfiction, ai bei tempi del ginnasio. Principalmente di Evangelion o Final Fantasy VII. E ho notato una cosa. Esistono fanfiction di tutti i tipi: seguiti della storia principale, spin-off su personaggi o situazioni secondarie, racconti che espandono momenti della storia principale appena accennati dall’opera originale, parodie, AU (storie che riprendono i personaggi dell’opera ma li calano in un contesto diverso), crossover tra serie diverse. Soprattutto – e con mio sommo sdegno – valanghe di racconti in cui tutti o quasi i personaggi maschili dell’opera originale si scoprono improvvisamente ghei e si danno alle ammucchiate selvagge. Un solo tipo di fanfiction si vede molto di rado: la riscrittura alternativa dell’opera originale.
Mi vengono in mente diversi motivi.
Innanzitutto, perché (in un ambito dove non girano soldi) la volontà di fare un remake parte dal presupposto che non si sia rimasti del tutto soddisfatti della storia originale, che si voglia migliorarla; mentre in genere i fan scrivono le fanfiction proprio perché amano alla follia l’opera originale. Al massimo sono disposti a modificare gli orientamenti sessuali dei personaggi così da fargli fare tutte le cosacce che gli vengono in mente.
Un altro motivo, è che un remake è un progetto lungo e ambizioso, difficile da portare a termine e che ti fa chiedere se ne valga davvero la pena; mentre un raccontino in cui Cloud e Sephiroth scoprono le ragioni profonde della loro fascinazione per gli spadoni si può buttare giù in due orette (considerando poi la cura stilistica che tradizionalmente viene messa in una fanfiction…).
Neanch’io mi sono mai cimentato nell’impresa del remake, ma la tentazione è stata molto forte. Soprattutto se parliamo di narrativa. Come forse avrete notato leggendo i miei Consigli – se non ve ne siete accorti in prima persona – il mondo della narrativa fantastica è un mare di libri riusciti a metà, capolavori mancati e occasioni sprecate.
Prendiamo 2001: Odissea nello spazio – il libro. La penultima parte: David Bowman, disattivato il perverso HAL9000, è rimasto solo sull’astronave Discovery, e il viaggio verso Giapeto e il monolite è ancora lungo. Sa che quelli del controllo missione l’hanno ingannato circa lo scopo della Discovery, e sa di essere condannato a morte, perché non c’è una riserva d’aria sufficiente nella navicella per tornare indietro o aspettare i soccorsi. Bowman passa un brutto periodo. Uno scrittore come Dick da una situazione simile avrebbe saputo tirar fuori qualcosa di grandioso; magari un Bowman paranoico e allucinato, che perde progressivamente contatto con la realtà mano a mano che la distanza dalla Terra aumenta. Con una buona costruzione degli ultimi capitoli, si potrebbe insinuare una certa ambiguità nell’incontro col monolite e la visione finale: è avvenuto realmente? E’ un’allucinazione di Bowman? La missione è fallita? E questa è solo una delle molte possibilità.
Ma Clarke, si sa, ha la delicatezza di un Gundam. Le tribolazioni di Bowman, e il modo in cui supera i suoi problemi ascoltando la musica classica immagazzinata nella memoria dei computer di bordo, sono raccontati in modo sbrigativo, riassunto, con pov onnisciente molto distante. Più piatto di così non si poteva fare. A Clarke gliene frega ben poco dello stato psicologico di Bowman; vuole farlo riprendere velocemente (e allora perché ti sei preso la briga di farlo star male?), così poi si può tornare a parlare di monoliti e alieni. Occasione sprecata.
E inevitabilmente, il pensiero: “Cazzo, questo libro sarebbe potuto essere così più bello…”
Ora: Odissea nello spazio resta comunque un bel libro – coerente, con una buona costruzione. Ma cosa succede quando un libro parte con ottime premesse, ti monta un casino di entusiasmo, e poi, per incapacità o pigrizia o malattia mentale dello scrittore, “si ammoscia a metà come il pisello di un vecchio” (cit. Duca)? Succede che ti viene voglia di mettere il libro (o il reader) nel microonde e girare la manopola tutta a destra. Succede che pensi “porcozzio, se avessi avuto io del materiale di partenza simile…!”, o “io saprei come riscriverlo!”. Questi sono i libri che chiamo aborti – potenziali capolavori che falliscono miseramente e ti fanno mangiare le dita dallo sconforto.
Queste storie meriterebbero una seconda chance. Un remake, che partendo dalle stesse premesse donino a questi aborti uno sviluppo e una conclusione degni. Gli scrittori veri, purtroppo, queste cose non le fanno di rado – un po’ per tabù culturale (l’unicità dell’opera, il rispetto dell’artista e bla bla bla), un po’ perché forse dovrebbero appiccicarci sopra il bollino “fanfiction” e non potrebbero guadagnarci un soldo. Abbondano le riscritture di dell’Alice di Carroll, o del Frankenstein di Mary Shelley, o della Macchina del Tempo di Wells, ma non accade praticamente mai con i romanzi degli ultimi 80 anni 1. Un peccato.
Un esempio di delicatezza.
Un peccato perché il remake insegna una cosa interessante. Ossia che nessun’opera è sacra e inviolabile; che un autore può migliorare qualcosa di scritto da un altro; e che in genere questi miglioramenti si possono ottenere seguendo una serie di regole, che sono sempre quelle.
Facciamo un esercizio.
Tre aborti
Nell’articolo di oggi vi presenterò tre aborti, libri che mi hanno provocato gran digrignar di denti e copiosa mole di bestemmie al cielo. Tre romanzi che sarebbero potuti ascendere all’Olimpo della Narrativa Fantastica e invece sono condannati a passare l’eternità nell’anticamera, a eterno monito per le giovani generazioni di scrittori. Sono anche tre romanzi molto diversi tra loro, per forma e contenuto; li ho scelti apposta sperando che ciascuno di voi sia incuriosito da almeno uno di essi.
A parte la solita introduzione, ognuno dei tre pezzi sarà articolato in tre parti: “Perché poteva essere una figata”, “Perché invece è un FAIL”, e “Io avrei fatto così!”. Credo che i titoli parlino da soli. Nell’immaginare possibili migliorie al romanzo originale, mi sono concentrato più sulla macrostruttura che sullo stile (per quello c’è sempre Gamberi Fantasy).
Attenzione: potrebbero esserci spoiler, soprattutto nelle ultime due sezioni.
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The City and the Stars
Autore: Arthur C. Clarke
Titolo italiano: La città e le stelle
Genere: Science-Fantasy / Dying Earth
Tipo: Romanzo
Anno: 1956
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 250 ca.
Diaspar è l’ultima città al mondo, in una Terra anziana e ridotta a un immenso deserto. E’ una città sigillata dal mondo esterno, e amministrata dalla IA del Computer Centrale. I suoi abitanti sono immortali: quando si avvicinano alla vecchiaia, il computer immagazzina le loro menti e dopo un lasso di tempo di migliaia di anni li rigenera in un corpo nuovo creato per l’occasione. Non solo: all’interno di Diaspar, i suoi abitanti hanno il potere di creare oggetti a piacere o di modificare le dimensioni dei propri appartamenti. E’ una vita serena, senza preoccupazioni, eternamente uguale.
Ma Alvin è diverso. A differenza degli altri abitanti, che alla sola idea di uscire sono terrorizzati, Alvin prova l’impulso irrefrenabile di conoscere il mondo esterno. La leggenda vuole che gli esseri umani si siano sigillati dentro Diaspar sotto la minaccia di invasori stellari, che avrebbero promesso di distruggerli se avessero riprovato ad avventurarsi fuori dal pianeta Terra – ma sarà davvero così? Aiutato dal giullare Khedron e ostacolato dal Computer Centrale, Alvin tenterà di fuggire da Diaspar e scoprire la verità.
Perché poteva essere una figata
Il romanzo di Clarke mette insieme un’ambientazione alla Matrix – in cui realtà materiale e realtà virtuale si confondono, e gli uomini hanno delegato l’autorità alle macchine – con il fascino della Terra morente. La città di Diaspar, città in cui gli esseri umani si reincarnano all’infinito, e vivono tra agi infiniti e strani divieti, è uno dei setting più affascinanti della narrativa fantastica. Il tema del ragazzo ribelle che vuole infrangere la proibizione e varcare i confini del mondo conosciuto è forse un po’ trito, ma funziona sempre, e mantiene accesa l’attenzione del lettore. Da una parte, si vuole esplorare Diaspar e scoprire il funzionamento di una civiltà tanto strana; dall’altra, si vuole scoprire cosa c’è oltre la città – e così, si continua a leggere.

Un'approssimazione della città di Diaspar. Ehm.
Perché invece è un FAIL
I problemi cominciano quando finalmente Alvin riesce ad evadere dalla città – e di lì in poi è un continuo di docce fredde. Lys, l’utopia bucolica condita di poteri psi, è quanto di più improbabile la penna di Clarke potesse inventare. Ma soprattutto, le rivelazioni sulla storia di Diaspar e del destino dell’umanità si accumulano in un infodump raccontato dopo l’altro, tanto da far sembrare Mark Menozzi (quello del Re Negro) uno che si contiene. Noiosissime nella forma – ti viene da pensare, “sto leggendo un romanzo o il canovaccio di un romanzo”? – sono pure raccapriccianti nel contenuto: tra Menti Pazze, creature malvage sigillate nello spazio e in attesa di risvegliarsi, e migrazioni di interi popoli imbarcati in una Grande Missione, sembra di essere precipitati nella mente di un dodicenne drogato di Zelda. Mancano solo le pietre del potere (rigorosamente quattro: una per ogni elemento!) e siamo apposto! E per un romanzo tutto costruito sulla suspence e sulla rivelazione, il peggio che possa capitare è che la rivelazione faccia schifo al cazzo.
A questo bisogna aggiungere la tradizionale bruttezza della prosa di Clarke, e il generale piattume dei personaggi, che non risparmia neppure il protagonista (più una marionetta del suo codice genetico che un individuo pensante). E poi il tema del “prescelto”, benché gestito meglio della media degli YA, è sempre irritante 2.
Io avrei fatto così!
Se la parte ambientata a Diaspar nelle sue linee guida è buona, il resto va completamente cambiato. Due sono le domande essenziali che dobbiamo porci: cosa c’è fuori da Diaspar, e perché è stato imposto il divieto di uscire? Le possibilità sono infinite. Per esempio, il deserto potrebbe essere una finzione, e magari non siamo un miliardo di anni nel futuro ma tipo nel 2100 d.C., e gli abitanti della città sono solo i soggetti di un esperimento modello Truman Show. Troppo scontato? Oppure: Alvin esce da Diaspar per scoprire che non è l’unica città, ma che ci sono altre centinaia o migliaia di città identiche e isolate, tutte convinte di essere l’ultima. Il deserto sarebbe reale, e l’umanità si sarebbe costruita le città e l’illusione di essere l’ultima per evadere dalla realtà. O ancora: Diaspar è davvero l’ultima città, e Alvin fuori dalle mura trova solamente i resti dell’antica umanità. Ma decide che la terra può essere resa di nuovo fertile e che i cittadini di Diaspar devono uscire dal grembo materno e ripopolare la Terra.
Ora, non è tanto importante quale soluzione narrativa venga adottata. Ciò che conta, è che non si riduca all’esposizione di una storia remota che non ha il minimo impatto sull’attimo presente del romanzo (come avviene nel libro di Clarke), ma al contrario getti una nuova luce tra Diaspar e il mondo esterno e porti a delle conseguenze immediate. Esempio: Alvin decide che la Terra è pronta a riaccogliere l’umanità. Problema: gli abitanti di Diaspar non vogliono uscire. Come li si convince? O li si costringe? Ci sarà una divisione in due fazioni agguerrite? O saranno tutti schierati contro Alvin, che dovrà scegliere tra l’esilio e la resa, e magari la riprogrammazione della propria mente? E così via.
A proposito. Il romanzo filerebbe senza problemi con il solo pov di Alvin. Ma se provassimo invece a giustapporre il suo pov con quello di un altro personaggio? Il giullare Khedron, per esempio: in teoria un individuo che porta disordine e scompiglio tra gli abitanti di Diaspar, Khedron è però un prodotto del Computer Centrale e in ultima analisi condivide la politica isolazionista. Khedron quindi è in contraddizione con sé stesso e con Alvin – potrebbe aiutarlo a scappare, ma anche metterglisi contro se osasse provare a cambiare lo stile di vita dei diaspariani. Mostrare la vicenda alternando i due punti di vista moltiplicherebbe esponenzialmente i livelli di conflitto del romanzo.
A questa rivisitazione massiccia, poi, andrebbe aggiunto un intervento più di cesello. Per esempio, invece che raccontare che Alvin è speciale, e non è come tutti gli altri, come fa Clarke, mostrarlo attraverso piccoli gesti, fraintendimenti, discrepanze tra il suo modo di comportarsi e quello di tutti gli altri. In questo modo il lettore sarebbe il primo a capire che in Alvin c’è qualcosa di diverso.
A Case of Conscience
Autore: James Blish
Titolo italiano: Guerra al grande nulla
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo
Anno: 1958
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 200 ca.
Agli occhi dei terrestri, il pianeta Lithia sembra il Paradiso terrestre. E’ graziato da una vegetazione rigogliosa e da un clima mite, da un ecosistema in cui ogni specie vivente ha la sua nicchia ecologica e vive in armonia con tutte le altre, e da una civiltà di lucertoloidi antropomorfi che sembra godere di una moralità naturale e non conosce conflitti. L’esatto contrario della Terra, in cui l’umanità, nel terrore di un’apocalisse nucleare, si è rifugiata sottoterra, in enormi città-rifugio sotterranea, e ogni giorno diventa più nevrotica.
Una commissione di quattro scienziati è inviata su Lithia per decidere se aprire liberi contatti con la Terra: il fisico Cleaver, il geologo Agronski, il chimico Michelis e il biologo Ramon Ruiz-Sanchez. Ma Padre Ramon Ruiz non è solo un biologo; è anche un gesuita, e un dottore di teologia morale. E’ l’anno del Giubileo, e la Chiesa l’ha mandato su Lithia affinché risolva un caso di coscienza: se i lithiani abbiano un’anima, cioè se siano veri homines, accomunati ad Adamo nella caduta nel peccato, e quindi evangelizzabili. Ma in Ramon Ruiz si fa strada un terribile sospetto. Che dietro l’apparente perfezione di Lithia si nasconda il pericolo più grande che la Cristianità, e l’umanità tutta, abbiano mai affrontato.
Perché poteva essere una figata
Per lo stesso motivo per cui A Canticle for Leibowitz è una figata: il conflitto tra le ragioni della scienza e le ragioni della teologia, tra ragione e fede. Questo conflitto è realizzato alla perfezione nella figura del protagonista, Padre Ruiz-Sanchez, che riesce contemporaneamente ad essere un ottimo biologo (e a pensare da biologo) e un fervente cattolico. Ramon è un personaggio complesso, pieno di timori e contraddizioni, il che non è la norma nella fantascienza degli anni ’50.
C’è poi il mistero dell’apparente perfezione di Lithia, che tiene il lettore col fiato sospeso, e il fascino dell’ambientazione (per esempio, giganteschi alberi utilizzati come torri di trasmissione delle onde radio). E ancora, il raro connubio della tematica etico-religiosa, cuore del romanzo, e l’Hard SF. Blish infatti affronta nel libro tutta una serie di argomenti scientifici, come il modo in cui un pianeta con risorse naturali molto diverse da quelle della Terra abbia prodotto una civiltà diversa dalla nostra. In appendice al romanzo, troviamo pure un rapporto che fa una panoramica completa di Lithia, dalla distanza dal suo sole all’inclinazione dell’asse, dal movimento tettonico alla composizione del suolo, alle varie fasi della diffusione della vita sulla superficie del pianeta. Blish è uno che ne sa, e le discussioni tra gli scienziati suonano sempre competenti.

Gesuiti: pronti a diffondere la buona novella in tutta la Galassia.
Perché invece è un FAIL
Due sono i problemi gravi del libro.
Primo, la quasi totale mancanza di azione. Blish è un professionista dell’infodump, nel senso che è capace di inanellarne anche tre o quattro uno dietro l’altro e che da soli probabilmente superano il 50% del testo dell’intero romanzo. Per il resto, i personaggi parlano, parlano, parlano, o riflettono, ma fanno poco. Azione nel romanzo ce ne sarebbe: ma per qualche strano motivo, Blish tende a tagliare queste parti, per poi farle riassumere nel capitolo successivo, con un dialogo, un pensiero del personaggio-pov o magari un bell’infodump. Una reticenza quasi da tragedia greca.
L’altro problema, è che A Case of Conscience tradisce fin troppo la sua natura di fix-up. Il romanzo infatti è l’espansione di una novella, che costituisce la prima metà del libro. La prima parte, interamente ambientata su Lithia e centrata sulla decisione che devono prendere i quattro scienziati, è anche la più interessante. La seconda invece – prevalentemente ambientata sulla Terra – è un disastro: il tema principale della storia viene sommerso da una marea di sottotrame, divagazioni, episodi isolati. A ciò si aggiunge una moltiplicazione dei pov (alcuni dei quali usa-e-getta), sviluppi banali, e la generale impressione che l’autore stesso non sappia più che pesci pigliare. La conclusione, che in sé sarebbe anche carina e si riallaccia finalmente alla trama principale, dopo quelle cento pagine di noia e schifo suona improvvisata, artificiosa e maldestra.
Tra le altre cose irritanti, i romani che dicono “che be’o” (sì, c’è una parte ambientata a Roma) e la tipa giapponese che si chiama ‘Liu Meid’. Inoltre il romanzo è invecchiato piuttosto male dal punto di vista della tecnologia futuristica – ma questo è un problema che affligge quasi tutta la Hard SF.
Io avrei fatto così!
Innanzitutto da aristotelico quale sono – cioè da amante dell’unità di tempo e di luogo – avrei svolto tutta la storia su Lithia. E’ l’ecosistema di Lithia il cuore della storia, nonché il centro dell’interesse del lettore. Eliminerei quindi tranquillamente tutta la seconda parte ambientata sulla Terra (e quindi anche il banale personaggio di Egvertchi); l’unica eccezione potrebbe essere la convocazione di Ramon Ruiz a San Pietro, che è una bella scena. In quel caso, Ramon Ruiz potrebbe volare a Roma e poi tornare su Lithia.
Oltre a questo, più azione. Il che non significa sparatorie e inseguimenti, ma semplicemente mostrare il team di scienziati che esplora il pianeta e studia i lithiani, invece di farli stare chiusi in una stanza a discutere. Qualcosa di simile a Stations of the Tide di Swanwick, strutturato come una graduale esplorazione di Miranda da parte del protagonista che, episodio dopo episodio, penetra sempre più a fondo nella natura del pianeta. Si potrebbe quindi anticipare l’inizio del romanzo di qualche settimana (A Case of Conscience inizia durante il penultimo giorno di permanenza del team di scienziati).

Lithiani e rettiliani: una somiglianza sospetta.
Quanto alla scelta dei pov, si potrebbe raccontare tutto dal punto di vista di Ramon Ruiz, oppure alternarlo con l’altro personaggio interessante del gruppo, l’agnostico Michelis. I vantaggi sarebbero due: poiché gli scienziati sono divisi in due squadre, ciascuno potrebbe fare le proprie esplorazioni e noi le vedremmo entrambe; inoltre vivremmo meglio il conflitto tra il punto di vista religioso e quello agnostico; e ancora, potremmo avere un pov che rimane sul pianeta anche quando Ramon Ruiz vola a Roma. Sull’altro lato, i vantaggi di usare un unico pov sono i soliti: maggiore facilità di immedesimazione e la possibilità di usare un timbro più forte (quello del personaggio-pov) come voce narrante. Quello della trasferta a Roma sarebbe poi un falso problema: Ramon Ruiz potrebbe tenersi aggiornato con Michelis via radio o via messaggi, oppure si potrebbe proprio puntare sulla suspence di non sapere cosa sta succedendo su Lithia in quelle ore cruciali.
Terrei fermi due momenti del romanzo originale: la fine della prima parte – con la discussione dei quattro scienziati circa il destino di Lithia – e il finale. Quanto al finale (e qui seguirà uno spoiler in bianco, che consiglio di leggere solo a chi abbia già letto il romanzo o abbia deciso che non lo leggerà mai), due sarebbero i modi sensati di raggiungerlo: dopo il colloquio col Papa, Ramon Ruiz potrebbe decidere che la cosa migliore per “purificare” Lithia sarebbe appunto di lasciare che quel pazzo di Cleaver la faccia esplodere con tutto l’impianto, e magari potrebbe persino attivarsi per far sì che Cleaver vinca la partita; oppure potrebbe rimanere contrario, ma la sua assenza da Lithia potrebbe far precipitare gli eventi e far vincere il partito di Cleaver. Il risultato sarebbe identico, cioè una versione rivista e migliorata del finale originale.
Now Wait for Last Year
Autore: Philip K. Dick
Titolo italiano: Illusioni di potere
Genere: Science Fiction / Social SF
Tipo: Romanzo
Anno: 1966
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 220 ca.
Il piemontese Gino Molinari, detto ‘la Talpa’, è il dittatore assoluto della Terra. Un tempo uomo forte e pragmatico, capace di infiammare il popolo dall’alto del suo pulpito, dieci anni di governo l’hanno ridotto a un individuo fiacco e ipocondriaco. Gli Starmen, alieni umanoidi signori di un vasto Impero Galattico, l’hanno costretto a imbarcare la Terra in un’interminabile guerra interstellare con i Reeg, un popolo di insettoni. E ora tutti lo odiano, e il suo fisico ne risente.
Per questo ha fatto convocare a palazzo Eric Sweetscent, chirurgo specializzato nel trapianto di organi artificiali. Per Eric, questa è l’occasione adatta per liberarsi della moglie Kathy, una donna nevrotica e violenta che passa il tempo a farlo sentire una merda e a rovinargli la vita. Ma così facendo, Eric finirà coinvolto negli intrighi della guerra galattica e della corte di Molinari, e scoprirà il singolare potere del dittatore di viaggiare tra realtà parallele e di collezionare copie di sé stesso. E quando il mercato terrestre comincerà ad essere invaso da una droga letale che oltre a creare dipendenza fa viaggiare nel tempo, Eric diventerà l’asso nella manica di Molinari per vincere la guerra…
Perché poteva essere una figata
Perché Gino Molinari e la sua dittatura baraccona sono divertentissimi. In qualità di suo medico personale, Eric può assistere a tutti gli aspetti della sua vita: i parenti che continuano a chiedergli soldi, cariche e favori personali assortiti; la camera dove Molinari tiene il cadavere dell’altro sé stesso; le riunioni umilianti col gelido Frenesky, primo ministro degli Starmen, che pretende dalla Terra un maggiore impegno bellico; le sofferenze di Molinari, affetto da una malattia psicosomatica per cui assume sul proprio corpo tutti i malanni delle persone che lo circondano.
E’ molto affascinante anche il tema del traffico di organi artificiali. Il mondo di Now Wait for Last Year è una gerontocrazia; i vecchi ricconi che possono permettersi i continui interventi, non muoiono mai (o molto, molto tardi). Virgil Ackerman, il superiore di Eric prima che questi passi al servizio di Molinari, è un arzillo centotrentenne a capo di un’enorme multinazionale. Ha talmente tanti soldi che si è comprato un appezzamento su Marte e ci ha costruito Wash-35, una ricostruzione maniacale della Washington della sua infanzia (cioè degli anni ’30).
Se Dick fosse riuscito a tenere più stretti i fili della gerontocrazia, della guerra galattica, e della vita pubblica e privata di Molinari, ne sarebbe nato un romanzo coerente (anche nei temi) e molto piacevole.

L'ispiratore di Gino Molinari.
Perché invece è un FAIL
Ma Now Wait for Last Year soffre gli stessi problemi di molti romanzi di Dick: troppe idee in gioco, troppe sotto-trame, troppa carne al fuoco, e una storia che procede più o meno a caso. Viaggi nel tempo, infiltrazioni di spie, clonazioni, sedute diplomatiche, crisi da overdose, cambi di casacca, il tutto condensato in poco più di 200 pagine – tutto questo sarebbe ingestibile anche per un genio. Alcuni passaggi sono demenziali oltre ogni immaginazione; come quando, viaggiando nel futuro, Eric si imbatte in un protoplasma alieno superintelligente che gli somministra consigli sul suo matrimonio (WTF?).
Nel finale, poi, la trama principale viene completamente abbandonata, e Dick si butta, ancora una volta, sul rapporto tra il protagonista e la moglie psicopatica. EPIC FAIL.
Io avrei fatto così!
Tagliare, tagliare, tagliare. Abbiamo detto che il punto forte del romanzo è la dittatura baraccona di Molinari; allora, via innanziutto le cose che non c’entrano, come la moglie e i problemi coniugali. Non che Dick non sia bravo a riprodurre rapporti di coppia disfunzionali, ma ci sono già fin troppi romanzi al mondo su drammi familiari, mogli abusive e frustrazioni assortite. Eric allora potrebbe essere un semplice scapolone insoddisfatto della propria vita, o desideroso di fare un salto di qualità. Il romanzo potrebbe allora aprirsi su Wash-35, con la proposta di Molinari di andare a palazzo; in questo modo avremmo un’introduzione di uno o due capitoli sul protagonista, il mercato del trapianto d’organi artificiali e una prima panoramica del dittatore; per poi arrivare al cuore del romanzo con il trasferimento a palazzo Molinari.
Eliminerei (o ridimensionerei molto) anche la JJ-180: una droga che contemporaneamente crea dipendenza, ti distrugge il fegato e ti fa viaggiare nel tempo o tra le dimensioni è decisamente troppo (e poi, non è molto intelligente dare ai propri nemici il vantaggio del viaggio nel tempo). Molinari avrebbe bisogno di un’altra fonte dei suoi poteri, ma non è un problema – si potrebbe dargli un potere esp, o una macchina sperimentale o che so io.
In generale, centrerei il romanzo sulla “vita di corte” sotto la dittatura di Molinari. In qualità di suo medico personale, Eric (che lascerei come unico personaggio-pov del romanzo) assisterebbe a ogni momento della giornata e della vita del dittatore, dalle pretese dei suoi parenti alle angherie di Frenesky. Diventando il suo braccio destro, potrebbe aiutarlo a viaggiare tra le dimensioni a raccogliere gli altri sé stessi; potrebbe anche fare da ambasciatore segreto presso i Reeg, così da non lasciare la trama bellica troppo sullo sfondo.
Now Wait for Last Year assumerebbe così i toni di una tragicommedia sulla vita sfigata del dittatore di un pianeta sfigato (nell’ottica della guerra tra gli imperi galattici dei Reeg e degli Starmen).
In conclusione
Vale la pena di leggere questi romanzi? Dipende.
Di regola no, soprattutto se avete poco tempo libero e vi interessa semplicemente leggere un buon libro. Hanno troppe falle.
Ma se ambite a scrivere anche voi narrativa fantastica, o se semplicemente vi interessa studiare la narrativa, allora dovreste provarne almeno uno. Dei tre, A Case of Conscience probabilmente è quello più coerente, e più interessante sul piano filosofico; Now Wait for Last Year quello più divertente da leggere; The City and the Stars, quello con l’ambientazione più suggestiva.
Verificate se ciò che ho detto è vero; se provate fastidio e delusione negli stessi punti in cui lo ho provato io; se vi sembra che effettivamente ci sia del potenziale sprecato; e se le mie correzioni li migliorerebbero, o se bisognerebbe riscriverli in un altro modo ancora. Un romanzo riuscito male può essere un caso di studio utile quanto un capolavoro.
E magari, chissà, qualcuno di voi proverà davvero a scrivere il remake uno di questi romanzi… No, non ci credo, questo non succederà mai ^-^ Ma almeno avrò gettato in voi il germe dell’ “io avrei fatto così!”.
E possa tassobarbasso rivoltarsi nella sua tomba.
(1) Un’eccezione che mi viene in mente è la novella Palimpsest di Charles Stross, del 2009; l’autore stesso ha detto che si tratta in buona sostanza di una riscrittura dell’ottimo The End of Eternity di Asimov. Non mi esprimo sulla novella perché non l’ho letta. Da non confondersi con il romanzo omonimo di Catherynne Valente.Torna su
(2) Aneddoto divertente: The City and the Stars è già la riscrittura di un romanzo – Against the Fall of Night, opera d’esordio di Clarke. L’avrebbe riscritto perché insoddisfatto della versione originale. A quanto pare è recidivo.Torna su
Molto interessante. La frustrazione di leggere qualcosa che ci ha conquistato ma sta lentamente andando in vacca (portandosi dietro il nostro prezioso tempo dedicato alle letture, oltretutto) e’ una sensazione ben nota. Senza contare che non solo aborti che hanno mancato l’olimpo della narrativa di genere, ma anche classiconi che ci sono arrivati potrebbero diventare qualcosa di davvero epico con un po’ di riscrittura (mi per metto di citare Dune, ad esempio. Che ho amato e che mi ha fatto innamorare della sua ambietazione, ma, cavolo!, troppo rapido, troppo riassuntivo. Avesse splittato il primo libro in tre romanzi – uno per ogni sezione – permettendoci cosi’ di vedere meglio le azioni centrali del romanzo, sarei esploso (tipo Paul che prende l’acqua della vita, va in coma e ne esce,che e’ il passaggio finale della creazione del Muad’Dib ed e’ a malapena raccontata, tutte le battaglie e la guerriglia fremen contro gli Harkonnen che sono riassunte in un paio di capitoli fuori scena etc). Prolema speculare che ha La ruota del tempo di Jordan, btw.)
In altri media, la stessa delusione l’ho provata leggendo Preacher di Garth Ennis, che dopo il volo dall’aereo sistematicamente svuota di spessore tutto quello che aveva creato nella prima meta’, rimpicciolendo l’epicita’di ogni aspetto della storia e riducendo i personaggi a grottesche caricature di se’ stessi.
O del passaggio tra Matrix 2 e 3, che nel finale riesce a smontare tutte le premesse interessanti che aveva costruito nel 2 (ciclicita’ di Zion, l’eletto in realta’ strumento delle macchine, effetti dell’eletto anche fuori da matrix etc Mi sembrava un mix di topoi dalla Ruota del Tempo e da Memory Sorrow and Thorn, ma e’ finita come tutti sappiamo)
Cavolo, hai ragione, sembrano proprio interessanti. Non riesco a decidere quello che mi interessa di più. Che peccato che siano andati in merda. 😦
Riscrivili tu! *-*
Ci sono un sacco di libri che meriterebbero riscritture, peccato che gli scrittori più bravi degli scrittori veri sono così rari!
Però in effetti capita spesso che invecchiando uno scrittore perda le idee, non sarebbe male se piuttosto che la solita fotocopia dell’opera precedente decidessero di scrivere un remake. Solo che invecchiando perdono spesso anche l’abilità con lo stile, quindi non so se sia davvero una buona idea.
La trama di Now Wait for Last Year mi sembra familiare, eppure sono certissima di non averlo mai letto… Dick ha scritto altri romanzi con le stesse premesse, per caso? Mi pare che in The Penultimate Truth ci fosse una situazione simile, con un megadittatore che viveva da secoli grazie ad organi artificiali che andavano costantemente ricambiati…
@Cuk:
Già Matrix 2, a parte alcune trovate interessanti come la spiega dell’Architetto, fa assai schifo…
@Siò:
Purtroppo quello che mi piace di più dei tre, A Case of Conscience, è anche l’unico che non potrei mai rifare, non sapendo una sega di scienze naturali u.u
In teoria però gli altri due potrei anche riscriverli.
@Tales:
Brava! Solo che in The Penultimate Truth è un vecchio bavoso antipaticissimo e attaccato alla poltrona come un cancro. Inoltre non è un dittatore “ufficiale”, diciamo, ma un tizio che trama nell’ombra.
Per il resto l’ambientazione è molto diversa, con il 99% della popolazione mondiale che vive nei bunker sottoterra illuso dal restante 1% che ci sia in corso una terribile guerra nucleare che ha reso la superficie terrestre inabitabile. E lo strumento del grande inganno è un robot-Presidente-degli-Stati-Uniti controllato a distanza da legioni di sceneggiatori.
La trama sarebbe anche interessante, ma il romanzo è noioso ==’
Ho provato spesso lo stesso identico sentimento nei confronti di molti film, di cui adoravo la premessa ma di cui ho odiato l’esecuzione. Per citarne un paio, Avatar (Trasferimento dell’anima in corpi alieni! Pocahontas nello spazio…) e Inception (Ladri che si infiltrano nei sogni! Poco onirico e surreale, tradizionale e molto “007”…).
È una bella idea incoraggiare la riscrittura dei romanzi riusciti a metà. Purtroppo io ho l’abitudine di buttarli contro il muro immediatamente, vale a dire appena mi sto accorgendo che prendono una brutta piega. Per questo non so mai come vanno a finire (ma so dove vanno a finire).
Il riflessivo Tapirourlante ha sostenuto: “questi miglioramenti si possono ottenere seguendo una serie di regole, che sono sempre quelle. ”
intervento interessante il tuo, ovviamente sono contrario all’assolutizzare certe teorie (cosa che trovo particolarmente ingenua) ma non insisto per evitare di riaccendere vecchie spiacevoli discussioni.
Cambiando argomento, in fondo a sinistra della pagina c’è un minuscolo smile: c’è sempre stato? è un codice segreto di qualche tipo? lo vedo solo io? è inquietante e devo berci su. ^_^
La florida Siòbhan ha detto: “Però in effetti capita spesso che invecchiando uno scrittore perda le idee”
già, sarebbe anche interessante cercare di capire il perchè. E’ la vecchiaia che li rincretinisce oppure (come alcuni dicono) gli artisti hanno un numero limitato di cartucce da sparare e finite quelle non possono fare altro che ripetersi per continuare a guadagnarsi la pagnotta? Di solito poi i fans sono gli ultimi ad accorgersi del declino del loro mito o addirittura negano il fatto fino alla fine.
E’ vero, in fondo a sinistra c’è una faccina insidiosa e impertinente! °A°
@Giovanni:
Mi è proprio dispiaciuta la deriva di Inception; ma resta un film carino. Invece Avatar è marcio fino al midollo u.u
@Donnacamel:
Io ho il problema opposto, cerco di convincermi che la brutta piega è passeggera e che le cose torneranno ad avere un senso… e ovviamente non succede quasi mai.
@Dunseny:
Sei un puzzone, perché hai omesso le due parole che precedevano la tua citazione e che erano “in genere”. Non escludo miglioramenti raggiungibili con altre regole, né pretendo che le regole conosciute siano tutte quelle possibili.
Di sicuro, applicando queste regole, tutti questi romanzi sarebbero migliorati. Chi non è d’accordo osi dire che i miei “Io avrei fatto così!” peggiorano la storia originale!
Comunque questa era una precisazione, neanch’io vorrei ricominciare la solita pedante discussione.
C’è sempre stato, ma non chiedermi perché °°
Produrre nuove idee richiede sforzo e fatica. Inoltre, invecchiando il cervello diventa più restio ad accogliere concetti o modi di fare nuovi. La combo delle due cose produce il risultato.
Finalmente qualcuno che è quasi d’accordo con me! \°O°/
Talvolta mi chiedo cosa ne sarebbe stato di quel film se fosse stato dato in mano a Lynch, o ad Aronofsky. A proposito di cinema: che ne pensa un filosofo come te di Malick e di The Tree of Life? Non mi ricordo se te l’ho già chiesto…
Perché? 😦
Secondo me esiste anche un’altra ragione, più commerciale e sicuramente valida per il mondo del cinema, ma probabilmente anche per la letteratura: e cioè che quando un autore deve la sua fama a opere che condividono elementi comuni, diventa poi difficile per lo stesso autore rompere con le convenzioni a cui viene associato e venire nuovamente apprezzato. Nel caso del cinema in particolare, tra l’altro, un autore avrebbe difficoltà ancora prima di realizzare il film stesso, dato che un cambiamento radicale di genere e stile verrebbe incontrato con scetticismo dai produttori, che quindi gli negherebbero i finanziamenti. Ma questo problema non so se si applica alla letteratura.
Non so se all’estero, ma almeno in Italia non si è mai sentito che una casa editrice rifiuti di pubblicare un romanzo di uno scrittore famoso per i contenuti del libro. Magari riducono la tiratura, o ci appiccicano sopra una fascetta imbarazzante, ma la sensazione che ho avuto finora è che se hai successo poi ti pubblichino anche la lista della spesa. ^^”
Soprattutto, agite impulsivamente; non lasciatevi incastrare dalle alternative, o siete perduto. Non siete così forte. Se le alternative sono una di fianco all’altra, scegliete quella di sinistra; se si susseguono nel tempo, scegliete la prima. Se non si può applicare nessuno di questi criteri, scegliete l’alternativa il cui nome comincia con la lettera più vicina all’inizio dell’alfabeto. Questi sono i principi di sinistralità, antecedenza e priorità alfabetica – ce ne sono altri, e sono arbitrari ma utili. John Barth – pur essendo stato definito un postmoderno – mi rappresenta abbastanza 😀
Una volta sarei stato entusiasta dell’idea, ma da quando ho visto Inland Empire la mia fiducia nella bravura di Lynch è precipitata a valanga. Quell’uomo ha deciso di essere post-moderno, e ha deciso che essere post-moderni significa mettere insieme cose a caso con sottofondo di musica ambient.
Non molto: il trailer mi aveva ammosciato e non l’ho visto^^’
Diffido delle opere esistenzialiste che per di più fanno un uso massiccio di allegorie e simboli. In genere sono pesanti e fanno schifo.
Be’, dipende. Ovviamente uno scrittore ha molta più libertà di un regista, ma non è neanche tutto rose e fiori come dice Siobhan (almeno, se pensiamo al contratto editoriale tradizionale).
A meno di essere uno scrittore da milioni di copie alla King o alla Eco, capita spesso che il tuo editore spinga perché continui a scrivere roba simile a quella che hai già venduto. Soprattutto nella narrativa di genere. Tornando a Dick, che conosco bene: anche dopo essere diventato un autore affermato, e aver pubblicato oltre 20 romanzi e un centinaio di racconti, i suoi romanzi mainstream (e alcuni dei suoi romanzi di sf) continuarono ad essere respinti dagli editori. Riuscì a pubblicarne uno solo dopo quasi trent’anni di carriera.
Comunque rimangono i miei punti precedenti. Gli ultimi romanzi di Dick (VALIS, Timothy Archer) sono molto diversi da tutti quelli scritti prima (vabbé che è morto che non aveva ancora 60 anni, quindi la sua mente era ancora fresca); segno che se uno continua a tenersi in allenamento e a studiare cose diverse, idee nuove non gli mancano mai. Altri, come Ballard o King, hanno preferito adagiarsi sui loro temi di più largo successo e di produrre copie e copie dei romanzi precedenti.
Tapiro ha giustamente reagito con:
Confermo: lo sono, soprattutto dopo la palestra. Ma non era una vera omissione ma una sintesi per non cadere nel botta e risposta, lo sai che il gamberettianesimo per me richiederebbe qualche oceano di relativismo e cautela di cui è (a mio avviso) carente e da cui mi sono dissociato da tempo. Sulla sicurezza spesso ostentata nel rendere qualcosa più bello in senso assoluto permettimi di rimanere scettico. Rimarrò l’ultimo cretino della terra e poi finirò all’inferno, pazienza 😀
Sostiene Tapiro riguardo a Dick:
fresca??? Dick a 60 anni con la malattia mentale e le tonnellate di psicofarmaci e anfetamine ?? LOL, era un pesce d’aprile, vero?
Oppure per essere creativi bisogna per forza mandarsi in pappa il cervello, sperare di sbroccare e scegliere uno spacciatore ben fornito. La natura è proprio matrigna. °_°
Un libro che mi aveva ispirato inizialmente è “La casa per bambini speciali di miss Peregrine” che inizia parlando di un ragazzo che capisce che le foto antiche di suo nonno, che ritraggono ragazzini straordinari (e che sono piuttosto inquietanti) e che lui credeva ritoccate, son vere e che quei bambini esistevano davvero. Quindi parte per l’isola dove doveva trovarsi questa “casa” per scoprire com’è morto davvero suo nonno, che a quanto pare è stato ucciso da una creatura mostruosa.
L’autore poteva tirarne fuori qualcosa davvero figo, ho pensato fin dall’inizio che il tutto avrebbe preso una svolta “cthulhuiana” con divinità antiche ragazzi magici, invece alla fine si rivela un classicissimo young adult che puzza un po’ d’Harry Potter. Alla fine il ragazzo si fidanza con la vecchia fidanzata del nonno (che è rimasta giovine poiché tutti i ragazzi strani erano rimasti in un circolo temporale) e partono per salvare la proprietaria dell’orfanotrofio, rapita dai kattivi!!111.
Non mi parlare di Preacher, per carità T_T la deagostini è fallita prima di pubblicarne la conclusione, e l’edizione vecchia si trova a prezzi a dir poco vergognosi. La parte dopo il volo dall’aereo comunque non mi sta dispiacendo, deriva stile Walker Texas Ranger inclusa… Anzi, mi pare che a personaggi come Tulip sia stata finalmente data un po’di carattere in più, piuttosto che svuotarli.
Ne devo dedurre quindi che sarà il finale ad essere una vaccata colossale?
Eh. Credo sia uno dei pochi libri di Dick in cui il problema non è l’avere troppa carne al fuoco, ma l’esatto contrario. La “grande rivelazione” viene data nel primo terzo del libro, e poi… Il nulla.
Parlando di libri iniziati bene e finiti in maniera oscena, comunque, vorrei citare uno degli ultimi Urania che ho letto: I predatori del suicidio. Morbo misterioso che spinge le persone a suicidarsi, personaggi con un briciolo di caratterizzazione, scritto in un ottimo stile… Sembrava la versione fatta bene del film e venne il giorno, ma la trama è presto diventata una sequela continua di deus ex machina, per poi terminare in un finale che c’entrauncazzo con il resto della storia, un’americanata a base di esplosioni e deliri misticheggianti e di “tu sei il prescelto!111”.
Delusione enorme, insomma.
@Dunfrey:
Questo è sicuro.
Be’, Un oscuro scrutare, VALIS e La trasmisgrazione di Timothy Archer stanno lì a dimostrarlo. Non tutti gli scrittori possono vantare un finale di carriera con libri così interessanti.
Il fatto che non ci stesse troppo con la testa non c’entra.
@Gluttony: Ehm, anche le premesse non è che mi sembrino ‘sta botta di originalità…
@Tales:
Oh no!
Ancora ‘sti predatori! °O°
Io non ho mai avuto momenti fanfiction, sarò strana. Ogni tanto ho pensato “io lo avrei scritto così”, ma le riscritture di romanzi hanno un problema implicito per una persona egocentrica: il n°1 sarà sempre quello che ha scritto il libro per primo. A meno di non fare diventare la riscrittura così diversa da renderla un altro romanzo o che non sia nettamente superiore e d’accordo l’arroganza, ma non è così facile.
Non ho letto nessuno dei tre libri. A case of conscience come tutta la fantascienza religiosa mi ispira (a proposito di rettili, grazie al kindle sono a buon punto con i dinosauri e mi sta piacendo parecchio).
Comunque articolo molto molto interessante!!!
Ho trovato una riscrittura che supera l’originale. Sto parlando di La vera storia del pirata Long John Silver (in inglese solo Long John Silver) di Bjorn Larrson, rifacimento del celebre L’isola del tesoro di Stevenson.
A me è piaciuto un sacco! Per chi fosse interessato l’ho recensito qui:
http://conigliodellamoda.blogspot.it/2012/05/la-vera-storia-del-pirata-long-john.html
@coniglietto:
Che figata!
Cercherò di procurarmelo, grazie mille. Se si rivelerà bello, potrei anche aggiungere una postilla all’articolo, del tipo: “Visto? Visto che si può fare, gente di poca fede?”.
Chissà se qualcuno in Italia penserà mai a un rifacimento dei Promessi Sposi… già me la vedo l’indignazione montante trasversale a ogni movimento politico, religioso e sociale…
Vedo già la serie tv con Raoul Bova nei panni di Renzo… Brrrrr…
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Ok, ho finalmente letto A Case of Conscience e devo dire che non mi è dispiaciuto. Ha i suoi grossi problemi, ma io lo aggiusterei in maniera diversa da quanto ipotizzato dal Tapiro.
Farei così (seguono ovviamente vaghi spoiler):
Narrazione parallela con due POV differenti: uno su Lithia, uno sulla Terra.
Salterei tutta la novella originale, iniziando quando la situazione si fa spinosa: Ramon Ruiz-Sanchez ha avuto il compito di “esorcizzare” Lithia, mentre i suoi colleghi sono rimasti sul pianeta per mettere in pratica il progetto di Cleaver. Mi piaceva il confronto tra le città-rifugio terrestri e il popolo tutto hippie dei Lithiani, indi cercherei di svilupparlo meglio giocando sulla figura di Egvertchi.
Invece di essere nato sulla Terra, il rettilastro potrebbe aver raggiunto il pianeta da giovane insieme a Ramon. In questo modo potrebbe fare confronti tra i due mondi, e lui e Ramon potrebbero avere conversazioni interessanti che riprendono un po’ la parte iniziale tagliuzzata.
Su Lithia, intanto, un giovane allievo di Ramon è stato mandato lì per far fallire il progetto di Cleaver. La sua è una missione suicida, ma è determinato a portarla a termine con religioso fervore.
Solo che più passa il tempo, e meglio il ragazzo conosce Lithia (e finalmente la conosciamo meglio anche noi). Seguono dubbi morali-religiosi che lo fanno vacillare.
Alla fine, l’allievo decide comunque di far fallire il piano di Cleaver, ma non per motivi religiosi: si è reso conto che la cultura di Lithia è troppo diversa da quella umana, e che il semplice entrare in contatto ha prodotto scoinvolgimenti troppo grandi.
Perché, intanto sulla Terra, Egvertchi ha dato vita alla sua rivolta. L’ha fatto in maniera accidentale, senza fomentare le masse, limitandosi a esprimere pacificamente i suoi pensieri sulla cultura terrestre. E se un semplice Lithiano benintenzionato può fare questo, il confronto tra le due civiltà sarebbe semplicemente catastrofico.
Magari l’allievo non fa esplodere del tutto il pianeta, ma si limita a sabotare la centrale di Cleaver. L’obiettivo, insomma, sarebbe bloccare per sempre ogni interazione tra i due pianeti.
…Mi sono lasciata prendere la mano e ho stravolto tutta la storia, lo so. Però così fila meglio!
Credo.
@Tales:
Non stai aggiustando la storia, hai proprio scritto un altro romanzo x°D
La tua proposta non mi fa impazzire: la parte con Egvertchi ambientata sulla Terra è proprio quella più debole, darle un ruolo così importante mi fa storcere il naso. Ergo rimango della mia idea.
Sono comunque contento che A Case of Conscience stimoli queste reazioni creative: significa che è davvero un romanzo con del potenziale (sprecato).
Però ho mantenuto temi e personaggi del romanzo originale! u.u
Perché tanto odio per la parte terrestre? IMHO aveva degli ottimi spunti, solo che sono stati mal sfruttati: l’autore ha ignorato totalmente lo show, don’t tell, non mostrando mai direttamente le città-rifugio. I personaggi nemmeno ci entrano mezza volta!
C’era un bel parallelismo tra questa civiltà chiusa, figlia della paura della Bomba, e la libera civiltà di Lithia ove il concetto di “sospetto” nemmeno esiste. Mi piaceva sopratuttto il modo in cui l’umanità si ribellava alla politica delle città-rifugio, riconoscendola come sbagliata, ma falliva nel trovare un nuovo ordine perché priva di quelle regole morali che sono invece intrinseche per i Lithiani.
…Dici che sarebbe legale scrivere un’opera così pesantemente basata su a case of conscience, o dovrei attendere il 2045? Perché questo esercizio inizia a divertirmi parecchio.
Perché è un po’ cliché. Quanta fantascienza degli anni ’50 e inizio ’60 è fissata con le città rifugio, i bunker antiatomici, e la guerra atomica imminente? Invece Lithia (sia come concetto che come ambientazione) è una trovata genuina di A Case of Conscience.
Il parallelismo tra le due civiltà *può* essere interessante, a patto che lo mostriamo alternando i pov di un personaggio rimasto sulla Terra e uno su Lithia (per esempio facendo un capitolo a testa). Ma Padre Ramon Ruiz, con tutti i suoi conflitti etico-religiosi sui lithiani, mi sembra più interessante tenerlo su Lithia. Sulla Terra mandiamoci qualcun altro.
Be’, se accetti di non lucrarci sopra puoi pubblicarla come fanfiction ^_^’
Altrimenti sì, temo che fino al 2045 dovrai metterti in contatto con gli attuali detentori del copyright e inginocchiarti sui ceci.
Devo dire di concordare appieno con le tue opinioni su “Guerra al grande nulla” di Blish, anzi, mi ha fatto quasi bene leggerle, perché iniziavo a sentirmi strano circondato da gente che lo reputa un capolavoro…
La prima parte è davvero interessante e, nonostante lo stile, arrivato alla fine pensavo di aver in mano un gran libro. L’unica cosa che mi aveva lasciato perplesso era stata un’asserzione durante la discussione tra gli scienziati, quella secondo cui per mezzo della sola ragione e usando la semplice logica non sarebbe possibile per una società arrivare all’enunciato “Tutti gli uomini devono godere degli stessi diritti”. Cosa falsa, visto che è proprio l’ABC dell’etica arrivare a quelle conclusioni usando la sola razionalità, però tutti i personaggi accettano la cosa come vera senza riserve.
Ho sperato che nella seconda parte ci fosse una smentita o anche solo un approfondimento sull’argomento o che si continuasse il dibattito o per lo meno ci si focalizzasse sulle origini di quella società, ma così non è stato e le teorie del gesuita sono state accettate come se avesse semplicemente dato la sua opinione su un’insalta: “Ah, per me c’è troppo aceto”. Cioè, abbiamo un tizio che chiede l’embargo eterno di un pianeta interessantissimo perché per lui è opera del Demonio e per la gente il problema è il manicheismo? ROTFL.
Sì, pure io concordo che la seconda parte sia un disastro, tra l’altro con capitoli di pura agonia, tipo quello della festa e dei trenini, e una conclusione da paraculo micidiale. Molto meglio le tue proposte di finale alternativo, soprattutto la prima, se non altro viene messo in evidenza il delirio del prete.