Archivi del mese: luglio 2014

Bonus Track: Rogue Moon

Rogue MoonAutore: Algis Budrys
Titolo italiano: Il satellite proibito
Genere: Science Fiction / Horror / Psicologico
Tipo: Romanzo

Anno: 1960
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 200 ca.

Difficoltà in inglese: **

C’è una strana formazione di origine aliena, sul lato oscuro della Luna. Ha una sola entrata, e una volta che la varchi non puoi più utilizzarla per uscire. Una volta dentro, se stai fermo, vieni ammazzato. Se vai nella direzione sbagliata, vieni ammazzato. Se fai il movimento sbagliato, vieni ammazzato.
Il Dr. Hawks è il fisico incaricato di esplorare la formazione. E’ lui che ha permesso al governo americano di mettere i piedi sulla Luna, all’inizio degli anni ’60: è la mente dietro il trasmettitore di materia, una macchina in grado di registrare la composizione subatomica di un individuo e di spedirla istantaneamente via microonde a una macchina ricevente sulla Luna. Il soggetto scansionato viene disintegrato sulla Terra, ma una sua copia fedele nasce nello stesso momento sulla Luna.
Ma ora Hawks è ossessionato dalla formazione aliena. Ha individuato un metodo per ridurre il costo di vite umane dell’esplorazione: di ogni esploratore vengono create due copie, una che va sulla Luna e una che rimane sulla Terra. Quando la copia lunare, entrata nella formazione, viene inevitabilmente macellata, la copia terrestre è in grado di ricordare l’evento e di riferirlo – come se in realtà non fosse morto nessuno. Ma il ricordo della propria morte è insostenibile; tutti gli esploratori diventano degli idioti sbavanti. E ora i finanziatori del progetto minacciano di toglierlo dalle mani di Hawks e di chiuderlo. Perché la sua carriera non venga distrutta, Hawks deve trovare al più presto un uomo capace di sopportare il peso della propria morte e andare nella formazione, ancora e ancora, continuando a essere ucciso fino a che non l’avrà mappata interamente. Qualcuno che ami la morte. E forse l’ha trovato…

Continuiamo i nostri articoli dedicati alla Luna con un romanzo abbastanza sconosciuto in Italia e – come avrete intuito dalla sinossi – assolutamente morboso. Algis Budrys – un lituano naturalizzato americano, nato a Konigsberg prima che diventasse una exclave russa – si trasferì ancora piccolo con la famiglia negli Stati Uniti. Nel mondo della fantascienza, era noto soprattutto come critico; nella fattispecie, un recensore caustico stile Duca o Gamberetta, che non si faceva problemi a stroncare questo o quello e a dare del cretino a tot persone nel frattempo. Nel corso della sua vita scrisse pochi romanzi – meno di una decina – forse perché adottava con sé stesso la stessa severità che aveva con gli altri. Il romanzo breve Rogue Moon è la sua opera più famosa.
Si dice che Budrys volesse chiamare il suo romanzo “The Death Machine”, “La macchina della morte”. Non è chiaro se il riferimento sia allo strano artefatto lunare che uccide chi ci entra, o alla macchina di Hawks per duplicare e scansionare persone sulla Luna (uccidendo l’originale nel processo); ma in ogni caso sarebbe stato un titolo azzeccatissimo, dato che Rogue Moon è permeato del tema della morte. Rogue Moon è un dramma psicologico centrato sul rapporto tra Hawks e l’avventuriero Al Barker, che lo scienziato dovrà convincere a viaggiare sulla Luna sulla sua macchina per ‘sfidare’ l’artefatto alieno. Ma benché il suddetto artefatto svolga un ruolo critico nella trama, è chiaro fin da subito che il vero oggetto del romanzo è esplorare il cuore di tenebra della psiche umana.

Our Moon

Rogue Moon – lo anticipo da subito – poteva essere un capolavoro di fantascienza malata, ma non lo è; è invece un romanzo fondamentalmente fallato, con alcuni lampi di genialità. Vediamo dove Budrys sbaglia, e perché; ma soprattutto se rimangono abbastanza meriti, al romanzo, da farne un buon consiglio di lettura.

Uno sguardo approfondito
Il romanzo si apre con il dottor Hawks e lo psicologo del dipartimento di fronte a Rogan, l’ultima delle cavie selezionate per esplorare l’artefatto lunare. Come da copione, la copia di Rogan è stata fatta a pezzi pochi metri dopo l’entrata della struttura, e come da copione, ora Rogan è ridotto a un idiota sbavante dagli occhi vacui. Nonostante i difetti della prosa di Budrys, che emergono da subito – il narratore ci informa fin dalle prime righe che Hawks “was a black-haired, pale-skinned, gangling man who rarely got out of the sun” – questo è un incipit potente, che ci mette subito di fronte al problema del protagonista e agli effetti devastanti dell’artefatto misterioso. Da queste prime righe, ci si aspetterebbe quindi un romanzo tormentoso e dal ritmo serrato di esplorazione e mystery cosmico. E invece no.
Bisogna aspettare all’incirca metà romanzo per avere una prima descrizione accurata dell’artefatto alieno. E solo nell’ultimo capitolo il lettore lo vedrà dal vivo. Il resto del libro, è una lunghissima preparazione e una continua posticipazione del momento saliente della trama – e proprio in questo sta il primo e principale difetto di Rogue Moon. La prima parte del romanzo mette in scena l’incontro tra Hawks e Al Barker – uomo iper-testosteronico, ex-paracadutista, amante degli sport estremi, wannabe supereroe, e ossessionato dal quotidiano desiderio di sfidare la morte – i tentativi del primo di convincere il secondo a sottoporsi all’esperimento, la preparazione dell’attrezzatura. Nel frattempo si approfondiscono le tematiche psicologiche del romanzo e il carattere dei personaggi, sì – ma fondamentalmente succede poco.

Ci sono tanti modi per affrontare temi filosofici in un romanzo. Di questi, uno dei peggiori è quello di prendere i personaggi principali e farli discutere astrattamente dei temi in questione; eppure è proprio ciò che succede per la maggior parte di Rogue Moon. Che sia una conversazione in ufficio tra Hawks e il suo superiore, o una chiacchierata informale a bordo piscina nella villa di Barker, sempre si parla, si parla, si parla di questi temi. Quando, nel mezzo di uno scambio tensivo tra Hawks e Barker, i due si mettono a citare reciprocamente passaggi di Shakespeare, stavo per rotolarmi per terra dal ridere1. Budrys implementa anche la trovata tipica dickiana del protagonista che si lascia andare a confessioni e lampi di intimità con un perfetto sconosciuto. Ma se nel caso di Dick questi incontri erano resi con naturalezza, e poteva persino commuovere vedere quali livelli di empatia e affetto si possano raggiungere con un estraneo, in Rogue Moon suonano freddi, forzati, si traducono in bla bla poco coinvolgenti.
Benché questi scambi suonino spesso poco credibili, si potrebbe forse accettarli se ci fosse alle spalle una buona caratterizzazione dei personaggi. Peccato che Rogue Moon fallisca anche in questo. Budrys sembra avere una predilezione per la teatralità e i gesti eccessivi. I suoi personaggi gesticolano come forsennati, ridono a squarciagola, chiudono le mani a pugno, strillano, si ricompongono il momento dopo e quello dopo strillano di nuovo. Le discussioni spesso degenerano in scene completamente inverosimili di gente che si sbraita addosso; e se una cosa del genere posso aspettarmela in un’anime su ragazzine schizzate come Madoka Magica o in un film di gangster ignoranti, diventa invece surreale se parliamo di manager che gestiscono rapporti di lavoro.2

Period drama

Una normale conversazione in un romanzo di Budrys,

Ecco ad esempio un estratto del primo incontro del dottor Hawks e di Connington, dirigente delle risorse umane, con Al Barker e la sua donna:

[Connington] dangled a used glass from one hand, and held a partially emptied bottle in the other. His face was flushed, and his eyes were wide with the impact of a great deal of liquor consumed over a short period of time. ‘Gonna do it, Al?’
Instantly, Barker’s mouth flashed into a bare-toothed, fighing grimace. ‘Of course!’ he exclaimed in a startingly desperate voice. ‘I couldn’t let it pass – not for the world!’

Poco più oltre, Connington prosegue: “He chuckled again. ‘What else could you’ve said?’ He laughed at Barker. His arms swept out in irony”. Da una parte non abbiamo l’effetto “teste parlanti” e anzi, i personaggi ci vengono mostrati in modo molto vivo, il che è positivo; d’altra parte, sono talmente scalmanati e melodrammatici che prenderli sul serio diventa impossibile. Non è un comportamento che ci si aspetta da degli adulti in posizioni di responsabilità.

Il che è un peccato, perché di per sé i personaggi sarebbero interessanti e pieni di conflitti interiori che si intrecciano con la trama principale. Come Al Barker, talmente ricco e di successo che non avrebbe bisogno di imbarcarsi in questa impresa suicida, ma che al tempo stesso non riuscirebbe a guardarsi allo specchio se rifiutasse come un codardo la sfida; il suo bisogno di mettersi continuamente alla prova per non perdere stima di sé è anche la sua malattia e il suo difetto tragico. O come Hawks, diviso tra il senso di colpa per tutte le vite che sta sacrificando all’altare della sua ricerca e il bisogno di dare un senso a questo massacro portando a termine l’esplorazione dell’artefatto (alimentando così un circolo vizioso di nuove vittime e nuovi sensi di colpa). Anche i personaggi secondari sono ben sviluppati, e le loro sidestory contribuiscono a elaborare il tema centrale della morte e del valore degli individui – come Sam, l’assistente di Hawks, malato terminale che vede nella macchina che per gli altri è simbolo di morte la sua unica chance di vivere ancora; o la determinazione di Connington a portare via a Barker la sua ragazza per recuperare la propria dignità.
Idee buone, insomma – solo, realizzate male. Come l’artefatto alieno: come Clarke in Rendezvous with Rama, Budrys riesce veramente a trasmettere l’idea di un costrutto creato da intelligenze completamente differenti da noi. L’artefatto lunare è una macchina per uccidere, ma è evidente che non è stata pensata per quello scopo. Non c’è crudeltà nell’eliminazione sistematica degli esploratori: semplicemente, non sappiamo come interagire correttamente con essa. Si avverte del vero sense of wonder quando, alla fine del libro, finalmente entriamo con il personaggio pov all’interno dell’artefatto; e la scena finale del romanzo è stupenda – è riuscita a commuovermi come mi capita di rado. Peccato che queste soddisfazioni arrivino solo alla fine di una lettura fallata.

Moon harvesting

Io avrei fatto così
Se il problema del romanzo è che l’elemento fantastico è troppo subordinato al bla bla psicologico ed entra in scena troppo tardi, l’antidoto non può essere che: più artefatto, più Luna, e subito. Non è accettabile che si scopra come funzioni questo costrutto di cui si parla dall’inizio del libro solo a metà romanzo. Avrei aperto il primo capitolo con la scena dell’esplorazione dell’artefatto da parte di Rogan. Si sarebbe potuto fare in due modi. Il primo, con il pov usa-e-getta di Rogan stesso (i pov usa-e-getta di norma sono sconsigliabili, ma un’eccezione qui si potrebbe forse fare, considerando che è l’inizio della storia e che c’è una tradizione degli horror di cominciare la narrazione col punto di vista della prima vittima), che avrebbe assicurato il massimo dell’immersione e quindi della tensione. Il secondo, più ligio alle regole tradizionali del punto di vista – e più alla Lovecraft nell’impostazione – col pov di Hawks che si mantiene in contatto radio con Rogan e riceve la fedele cronaca di quello che succede fino al momento dell’uccisione.
Questo inizio permetterebbe da subito di fissare nella mente del lettore cosa sia esattamente l’artefatto e, più o meno, come funzioni. Il romanzo sarebbe poi potuto proseguire mostrando più di una delle visite delle copie di Barker, focalizzandosi ogni volta su aspetti diversi dell’esplorazione per mantenere la varietà (ad esempio: una volta il focus potrebbe essere sulla base lunare e sui suoi abitanti, una volta sul perimetro esterno dell’artefatto, e così via). L’importante sarebbe mantenere una buona proporzione di pagine tra le scene – tendenzialmente a bassa tensione – ambientate sulla Terra, e quelle più adrenaliniche-ansiogene sulla Luna.

In conclusione
Se si riesce ad andare oltre ai difetti di struttura e caratterizzazione, Rogue Moon può regalare dei bei momenti, e un paio di scene intense. Le idee alla base del libro, del resto, sono davvero affascinanti e piuttosto originali. Basta prenderlo per quel che è: un dramma psicologico in cui gli elementi fantascientifici svolgono soprattutto un ruolo funzionale. Alla fine non avremo una risposta sullo scopo o l’origine dell’artefatto alieno – è meglio che ve lo dica da subito – perché come nel romanzo di Clarke (o come la Zona di Roadside Picnic), l’artefatto è semplicemente qualcosa di troppo remoto da noi per essere decifrato. L’interesse è quello che gli esseri umani fanno con questo costrutto, e come questo li trasforma.
Colpisce anche pensare che pur essendo uscito nel 1960, anni prima della nascita della New Wave, il romanzo già toccava temi che dall’epoca rimanevano lontani dalla fantascienza – l’ossessione per la morte, il sesso, le morbosità. Per non parlare del cast, composto interamente da personaggi cinici e “negativi”. A chi sia rimasto incuriosito dai temi del libro, consiglierei di scaricarlo e provare a leggerlo, passando oltre i suoi limiti. Potrebbe anche essere un buon oggetto di studio per aspiranti scrittori, come esempio di storia con ottime premesse rovinato da una cattiva esecuzione – a dimostrazione del fatto che il come importa quasi quanto il cosa, e che una scarsa conoscenza delle regole della narrativa può compromettere anche i soggetti più promettenti. Quanto a noi, continueremo le nostre esplorazioni spaziali nei prossimi articoli.

Inside Rama

Uno spaccato dell’interno di Rama. Non sempre è necessario che gli artefatti alieni vengano spiegati.

Dove si trova?
Potete scaricare il romanzo in lingua originale su Library Genesis o su Bookfinder; in entrambi i casi, l’unico formato disponibile è il pdf.

Chi devo ringraziare?
Avevo adocchiato per la prima volta questo romanzo guardando il catalogo degli SF Masterworks – attirato dalla copertina, dal titolo, dal nome bizzarro dell’autore. Ma non avevo una reale intenzione di leggerlo. Se mi sono deciso, è per la recensione dell’editor David Pringle nel suo catalogo Science Fiction: The 100 Best Novels 1949-1984, un libro che si sta rivelando una preziosa fonte di spunti. Ve ne parlerò sicuramente in un prossimo articolo.

Qualche estratto
Ho scelto due brani che coniugassero in qualche modo i dialoghi morbosi che compongono il grosso del romanzo col tema del costrutto lunare. Il primo brano, più breve, è preso dall’inizio del libro, e mostra gli effetti dell’artefatto sulla psiche sull’ultima delle sfortunate cavie del dottor Hawks. Il secondo è invece un monologo di Hawks a Barker, in cui gli descrive minutamente – e con la cinica freddezza che gli è propria – le caratteristiche dell’artefatto e i mille modi di morirci dentro. Delizioso!

1.
The young man stared unblinkingly. His trim crewcut was wet with perspiration and plastered by it to his scalp. His features were clean, clear-skinned and healthy, but his chin was wet. ‘An dark …’ he said querulously, ‘an dark and nowhere starlights …’ His voice trailed away suddenly into a mumble, but he still complained.
Hawks looked to his right.
Weston, the recently hired psychologist, was sitting there in an armchair he’d had brought down to Hawks’ office. […] He frowned slightly back towards Hawks and arched one eyebrow.
‘He’s insane,’ Hawks said to him like a wondering child.
Weston crossed his legs. ‘I told you that, Dr Hawks; I told you the moment we pulled him out of that apparatus of yours. What had happened to him was too much for him to stand.’
‘I know you told me,’ Hawks said mildly. ‘But I’m responsible for him. I have to make sure.’ He began to turn back to the young man, then looked again at Weston. ‘He was young. Healthy. Exceptionally stable and resilient, you told me. He looked it.’ Hawks added slowly, ‘He was brilliant.’
‘I said he was stable,’ Weston explained earnestly. ‘I didn’t say he was inhumanly stable. I told you he was an exceptional specimen of a human being. You’re the one who sent him to a place no human being should go.’
Hawks nodded. ‘You’re right, of course. It’s my fault.’
‘Well, now,’ Weston said quickly, ‘he was a volunteer. He knew it was dangerous. He knew he could expect to die.’
But Hawks was ignoring Weston. He was looking straight out over his desk again.
‘Rogan?’ he said softly. ‘Rogan?’
He waited, watching Rogan’s lips move almost soundlessly. He sighed at last and asked Weston, ‘Can you do anything for him?’
‘Cure him,’ Weston said confidently. ‘Electroshock treatments. They’ll make him forget what happened to him in that place. He’ll be all right.’
‘I didn’t know electroshock amnesia was permanent.’
Weston blinked at Hawks. ‘He may need repetitive treatment now and then, of course.’
‘At intervals for the remainder of his life.’
‘That’s not always true.’
‘But often.’
‘Well, yes …’
‘Rogan,’ Hawks was whispering. ‘Rogan, I’m sorry.’
‘An dark … an dark … It hurt me and it was so cold … so quiet I could hear myself …’

2.
‘There’s only one entrance into the thing. Somehow, our first technician found it, probably by fumbling around the periphery until he stepped through it. It is not an opening in any describable sense; it is a place where the nature of this formation permits entrance by a human being, either by design or accident. It cannot be explained in more precise terms, and it can’t be encompassed by the eye or, we suspect, the human brain. Three men died to make the chart which now permits other men, who follow the chart by dead reckoning like navigators in an impenetrable fog, to enter the formation. Other men have died to tell us the following things about its interior:
‘A man inside it can be seen, very dimly, if we know where to look. No one knows, except in the most incoherent terms, what he sees. No one has ever come out; no one has ever been able to find an exit; the entrance cannot be used for that purpose. Non-living matter, such as a photograph or a corpse, can be passed out from inside. But the act of passing it out is invariably fatal to the man doing it. That photo of the first volunteer’s body cost another man’s life. The formation also does not permit electrical signals from its interior. That includes a man’s speaking intelligibly inside his helmet, loudly enough for his RT microphone to pick it up. Coughs, grunts, other non-informative mouth-noises, are permissible. An attempt to encode a message in this manner failed.
‘You will not be able to maintain communication, either by broadcast or along a cable. You will be able to make very limited hand signals to observers from the outpost, and you will make written notes on a tablet tied to a cord, which the observer team will attempt to draw back after you die. If that fails, the man on the next try will have to go in and pass the tablet out by hand, if he can, and if it is decipherable. Otherwise, he will attempt to repeat whatever actions you took, making notes, until he finds the one that killed you. We have a chart of safe postures and motions which have been established in this manner, as well as of fatal ones. It is, for example, fatal to kneel on one knee while facing lunar north. It is fatal to raise the left hand above shoulder height while in any position whatsoever. It is fatal past a certain point to wear armour whose air hoses loop over the shoulders. It is fatal past another point to wear armour whose air tanks feed directly into the suit without the use of hoses at all. It is crippling to wear armour whose dimensions vary greatly from the ones we are using now. It is fatal to use the hand motions required to write the English word “yes,” with either the left or right hand.
‘We don’t know why. We only know what a man can and cannot do while within that part of the formation which has been explored. Thus far, we have a charted safe path and safe motions to a distance of some twelve metres. The survival time for a man within the formation is now up to three minutes, fifty-two seconds.
‘Study your charts, Barker. You’ll have them with you when you go, but we can’t know that having them won’t prove fatal past the point they measure now. You can sit here and memorize them. If you have any other questions, look through these report transcriptions, here, for the answers. I’ll tell you whatever else you need to know when you come down to the laboratory. I’ll expect you there in an hour. Sit at my desk,’ Hawks finished, walking quickly towards the door. ‘There’s an excellent reading light.’

Tabella riassuntiva

Un libro morboso sulla morte e sul valore degli individui! L’artefatto alieno appare solo dopo metà romanzo!
L’artefatto è affascinante e le buone idee ci sono. I personaggi chiacchierano a vuoto per la maggior parte del libro.
Perlomeno i personaggi sono ben mostrati! Dialoghi teatrali fino all’inverosimile.
Prosa sciatta.


(1) Oltre ad essere la cosa più cheesy del mondo, quasi al pari delle partite a scacchi tra protagonista e antagonista dove a un tratto uno dei due dichiara con occhi gelidi: “scacco matto”, lo trovo abbastanza inverosimile. Chi ti aspetti che sia in grado di citare a memoria brani di Shakespeare che non siano tra i più famosi? Eppure qui abbiamo non due studiosi di letteratura, bensì uno scienziato e uno sportivo.
Certo: chiunque può avere gli hobby più disparati. Un paracadutista potrebbe anche essere un amante dell’opera wagneriana. Ma quante probabilità ci sono che entrambi siano amanti del teatro elisabettiano al punto da impararsi a memoria passaggi delle tragedie di Shakespeare? Sul serio, Budrys?Torna su


(2) Forse questa è una bias della gente dell’Est Europa, perché un altro scrittore che tendeva sempre al dialogo barocco, ai personaggi teatrali e alla gesticolazione estrema era Conrad. Provate a leggere romanzi come La follia di Almayer, Un reietto delle isole o Sotto gli occhi dell’Occidente: metà del cast sembra epilettico.Torna su

Indiegames: To the Moon

To the MoonSviluppatore: Kan Gao
Casa di sviluppo: Freebird Games
Genere: Interactive Fiction, RPG
Genere Narrativo: Slipstream / Science Fiction / Slice of Life

Motore: RPG Maker XP
Piattaforme: Windows, Mac OS X, Linux
Anno: 2011

In un futuro non distante dal nostro, l’uomo ha inventato una macchina per entrare nei ricordi degli individui e alterarli, creando nuove memorie. La dottoressa Eva Rosalene e il dottor Neil Watts sono due agenti della Sigmund Corp., una società specializzata nel realizzare gli ultimi desideri di uomini in punto di morte. Il loro compito? Visitare i pazienti quando sono agli sgoccioli, farsi comunicare il loro desiderio, ed entrare nella loro mente per manipolare i loro ricordi e ricreare la loro vita sul presupposto che quel desiderio si sia realizzato. E strappare loro, così, un ultimo sorriso.
Ma questo caso è il più difficile della loro carriera. L’ultimo desiderio di Johnny Wyles, misterioso vecchio che abita in una villetta su una scogliera a ridosso di un faro, è di andare sulla Luna. Solo che non sa il perché. Eva e Neil dovranno viaggiare a ritroso nei ricordi di Johnny per scoprire come sia nato il suo desiderio e “piantare” nell’animo del suo io infantile l’impulso di diventare astronauta e andare sulla Luna. Ma è una lotta contro il tempo, perché il cuore di Johnny sta per cedere. Riusciranno i nostri eroi a realizzare il suo ultimo desiderio?

Quando leggi un romanzo di Heinlein ti senti così macho, ma così macho, che poi hai bisogno di disintossicarti. Per liberare il mio organismo da questo eccesso di testosterone, sento l’impellente bisogno di buttarmi su storie intimiste e romantiche. E visto che il Consiglio del Lunedì era dedicato alla storia di una società di uomini costretta a vivere sulla Luna e a non potersene più andare, perché non parlare, ora, della storia di un uomo che non è mai stato sulla Luna ma vorrebbe disperatamente andarci?
Come già The Stanley Parable, di cui abbiamo parlato questo inverno, anche To the Moon è un esempio di “walking simulator”, o “interactive fiction”: un gioco in cui si gioca poco, ma che fondamentalmente è un veicolo per raccontare una storia. Al comando dei due agenti Eva e Neil (che il giocatore impersona alternativamente), procederemo dall’inizio alla fine della storia con una limitata possibilità di interazione con l’ambiente e una ancor più limitata influenza sullo sviluppo della trama: più che giocatori siamo spettatori, con la differenza che dovremo muovere fisicamente il nostro avatar e risolvere alcuni enigmi e mini-giochi per andare avanti nella storia.
Ora: si può discutere all’infinito se esperienze come queste – o, ancora di più, come Stanley Parable o Gone Home – siano o meno categorizzabili come “videogiochi”; tuttavia, posto che venga dichiarato a chiare lettere e fin da subito all’acquirente di che tipo di gioco si tratta, è un genere assolutamente legittimo. Io, che macino abitualmente romanzi e film, sono del tutto in grado di godermi un gioco che ha valore esclusivamente dal punto di vista narrativo. Purché la storia sia bella e ben raccontata.

Trailer di To the Moon

Per farsi un’idea di cosa sia To the Moon, il paragone più immediato è col film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, il capolavoro di Michel Gondry (regista) e Charlie Kaufman (sceneggiatore) sbarcato in Italia col pietoso titolo “Se mi lasci ti cancello”. Anche qui, l’elemento fantascientifico – la macchina che fa entrare nei ricordi delle persone – ha il solo scopo di esplorare tematiche soft, ossia i rapporti tra le persone, l’inconscio, l’amore, la ricerca della felicità. Non si tarda a scoprire che al centro di To the Moon c’è una storia d’amore: proprio indagando la relazione tra Johnny e la sua amata, andando a ritroso dalla vecchiaia alla sua infanzia, i due protagonisti dovranno scoprire il mistero che aleggia sulla vita di Johnny e trovare così il modo di instillargli nell’inconscio il desiderio di andare sulla Luna.
Questo spiega anche perché, pur avendo sentito parlare di questo gioco da più di un anno, ho aspettato così a lungo prima di decidermi a provarlo. Non sono tipo da storia romantica, i film sentimentali mi fanno sbadigliare. Molte cose di questo gioco inoltre – dal tema della storia al tono del trailer (i cavalli ommioddio i cavalli!) – sembravano gridare “melodramma cheesy“. Se infine mi sono deciso a provarlo, è per una ragione completamente diversa: il fatto che fosse stato realizzato con RPG Maker.

Una digressione su RPG Maker
RPG Maker è un programma estremamente user-friendly per realizzare giochi di ruolo1 con la grafica bidimensionale di un Final Fantasy o di uno Zelda dell’epoca SNES. Per saper usare RPG Maker non bisogna essere dei programmatori, anzi – il punto di forza del programma è sempre stato il fatto di essere orientato proprio ad adolescenti incapaci, pieni di sogni dopo anni passati davanti ai titoli Square ma senza voglia di imparare sul serio l’arte della programmazione. L’iterazione di maggior successo – con cui anche questo To the Moon è stato realizzato – è RPG Maker XP, che non solo ha una grafica nettamente superiore a quella dei classici per SNES (è pure più bello di Chrono Trigger, che già è una gioia per gli occhi nel panorama dei giochi di ruolo in 2D), ma ha implementato un editor, l’RGSS (Ruby Game Scripting System), del linguaggio di programmazione Ruby. Questo significava che un utente un attimo più scafato, pur senza essere un grande programmatore, può utilizzare l’RGSS per customizzare il proprio gioco ben oltre le possibilità del programma base, e realizzare feature molto complesse.
Io stesso mi ero baloccato parecchio con questo programma intorno ai 15-16 anni, quando pensavo che un videogioco di ruolo fosse un veicolo più adatto della scrittura per dare forma alle mie fantasie. Quegli anni della mia vita sono un monumento al FAIL, una raccolta di progetti ambiziosissimi lasciati a metà, saghe da 300-400 ore di gioco che – a guardarle con il giusto distacco – erano morte ancora prima di cominciare. E in effetti, questo  è sempre stato il destino della maggior parte dei giochi di chi si cimentava nell’impresa. Le sezioni delle release sui siti e i forum dedicati a RPG Maker sono degli enormi cimiteri di elefanti, pieni di demo, promesse stupende, e autori scomparsi nel nulla.

Cimitero degli elefanti

Riproduzione attendibile di una normale comunità di utilizzatori di RPG Maker.

Incappare in un gioco finito in quelle community è sempre stato un piacere raro. Quasi invariabilmente si trattava di titoli brevi, tra le 3 e le 10 ore totali, sviluppati da persone più realiste e pratiche di noialtri. Questo To the Moon non fa eccezione: con le sue 5 orette circa, si può completare in un pomeriggio o un paio di sere. Ancora più raro, tuttavia, è sempre stato incappare in un gioco non solo completo, ma anche ben fatto. Come per altre comunità di sviluppatori indie, anche i progetti di RPG Maker erano di norma portati avanti da una persona sola, che quindi doveva riunire in sé le capacità dell’autore di narrativa (ideare una buona storia, sceneggiarla, costruire l’ambientazione…) e del programmatore (benché di basso livello, si trattava di un lavoro che richiedeva tempo e anche una certa dose di creatività per fare cose più complesse). Anche in questo, To the Moon non fa eccezione, essendo creazione del solo Kan Gao – l’unico aiuto esterno che ha avuto è stato nella composizione di alcuni pezzi della colonna sonora.
Tutto ciò ha fatto sì che volessi scoprire come potesse essere venuto un gioco realizzato su RPG Maker che aveva ottenuto tutto quel successo e risonanza nella comunità indie. Ero persino disposto a sorbirmi una storia d’amore.

Uno sguardo approfondito
Immagino che il primo problema che si sia posto Kan Gao, mentre si metteva a scrivere la sceneggiatura, fosse: “ok, ho tra le mani un melodrammone, pieno di gente sul letto di morte, lacrime, baci e abbracci. Come faccio a rappresentarla senza nauseare a morte chiunque la vedrà?” E ha implementato un paio di rimedi efficaci.
Il primo, la scelta di utilizzare come protagonisti due scienziati che fanno il proprio lavoro. La storia di To the Moon è la storia di Johnny Wyles, ma noi la viviamo attraverso il punto di vista di Eva e Neil. In questo modo, benché la vicenda sia drammatica e coinvolgente, non veniamo avviluppati nella melassa o nell’autocommiserazione che sarebbero inevitabili adottando il pov di Wyles. I due scienziati naturalmente non rimarranno gelidi di fronte alle peripezie del loro paziente, ma il loro sguardo più distaccato e professionale è senza dubbio un antidoto al cheesy.

To the Moon Screenshot romantico

Panchina, altalena, ruscello, scogliera di notte col suono del mare, faro. Di cliché romantico ne abbiamo dimenticato nessuno?

A ciò si aggiunge che i due protagonisti sono personaggi piacevoli. Neil è il tipo brillante e un po’ cinico che tende sempre a sdrammatizzare e buttarla in caciara, mentre Eva fa la tipa algida e rassegnata, costretta a sopportare con imbarazzo il suo collega pagliaccio; insieme fanno una bella coppia e si prestano a una serie di siparietti. Certo, a volte questi sketch tendono a scadere un po’ nel ripetitivo e nel gratuito (specialmente alcune uscite di Neil), ma nel complesso sono ben gestite, fanno sorridere e danno un po’ più di ritmo a una trama che altrimenti sarebbe troppo drammatica e monocroma.
Alla fine, benché il focus narrativo non sia su di loro, Eva e Neil emergono come personaggi sufficientemente complessi, non delle semplici marionette per far progredire la storia di Johnny. Ognuno ha le proprie motivazioni per aver scelto questo mestiere, e una propria visione del proprio lavoro. E, verso la fine del gioco, saranno anche in grado di sorprendere con le loro scelte.

La narrazione oscilla tra il mystery – nella parte di investigazione, in cui i due scienziati cercano di dipanare i misteri attorno alla vita del paziente e si imbattono in una serie di particolari inquietanti – e il dramma d’amore – mano a mano che i dettagli della sua vita vengono alla luce. La storia della vita di Johnny mi ha sorpreso piacevolmente. Il personaggio di Rivers, l’amata di Johnny, è una figura sgradevole e difficile da prendere in simpatia, ma è costruita per essere così – suppongo che la capacità di affezionarsi o meno a lei dipenda in primo luogo da che tipo di persona siamo noi (per esempio: potrebbe piacere ai fan di Rei Ayanami, if you know what I mean).
La loro relazione non è una cosa banale alla Twilight; è sufficientemente complessa, e realistica, nel suo alternare momenti di intimità e momenti di scazzo. Dietro gli atteggiamenti dei due amanti ci sono motivazioni credibili e personalità consistenti. Certo, non mancano momenti veramente cheesy, né trovate cliché2. C’è anche quello che sembra essere un buco di trama abbastanza importante3. Ma tutto sommato mi aspettavo peggio.

To the Moon screenshot

Alcuni episodi della vita di Johnny sono piuttosto inquietanti.

Il problema principale, nell’immedesimazione nei personaggi e nei loro drammi, è il fatto di non poterli guardare in faccia. Come in tutti i videogiochi in 2D con presa dall’alto, tutti i personaggi sono dei piccoli sprite con la stessa personalità di Super Mario in Super Mario World. Da decenni, gli sviluppatori hanno risolto il problema in uno di due modi: inserendo dei quadrati con i close-up dei volti dei personaggi nelle finestre di dialogo, o disegnando i personaggi a mezzobusto sopra le medesime finestre. Così facendo si può avere a buon mercato un’immagine ravvicinata per ogni personaggio, e un set di espressioni da usare nelle diverse situazioni. Uno stratagemma così semplice può avvicinare molto l’audience ai personaggi del gioco.
Kan Gao non fa niente di tutto ciò; le finestre di dialogo di To the Moon sono vuote come nei vecchi Final Fantasy. La ragione non mi è ben chiara. Certo, disegnare i vari personaggi e un ventaglio di espressioni per ciascuno di essi non è semplice; e, nel caso in cui Gao non sapesse disegnare, avrebbe dovuto reclutare una terza persona. Tuttavia, non sarebbe stato un lavoro così logorante, considerando l’esiguo numero di personaggi della storia. E poi, i vantaggi sono così di gran lunga superiori agli svantaggi – soprattutto per una storia così centrata sulle emozioni come questa – che ne sarebbe comunque valsa la pena.

Altrettanto discutibili sono gli sporadici elementi di gioco presenti in To the Moon. Forse per giustificare l’appellativo di “videogioco”, Kan Gao lo ha tappezzato di mini-giochi. Ogni volta che si entra in una scena della vita di Johnny, per passare a quella successiva bisogna rintracciare una serie di ricordi, che facciano da ponte tra una memoria all’altra. Questo concetto, che narrativamente ha anche un suo senso, si traduce in una “caccia al tesoro” in giro per la mappa, a recuperare oggetti (foto, ombrelli, peluche, e così via) che fungono da ricordo. Una volta raggiunto il numero necessario, per aprire il portale verso la nuova memoria parte il secondo minigioco: un puzzle-game in cui bisogna ricomporre una figura a partire dai suoi tasselli.
Spero che a descriverli per iscritto suonino altrettanto idioti che a giocarli, perché è proprio questa la sensazione che danno. Il primo, in particolare, può diventare snervante: ricordo, ad esempio, una volta in cui non riuscivo a trovare l’ultimo ricordo e alla fine, per disperazione, mi sono messo a cliccare tutti i cazzo di oggetti che trovavo nella mappa. Quando un mini-gioco, invece che essere un momento di divertimento, diventa un peso, qualcosa che ostacola la fruizione della storia invece di un elemento che la rafforza, you’re doing it wrong ed è il caso di toglierlo. Più in generale, il problema in To the Moon è che le fasi di gioco sono completamente scollate da quelle narrative – una fonte di distrazione, l’ostacolo tra un pezzo di trama e quello successivo. Voglio godermi la storia e invece devo ricomporre uno stupido puzzle col disegno di un vaso di fiori.

To the Moon screensaver

What the fuck is this shit.

Io avrei fatto così!
Ci sarebbero due soluzioni a questo problema. Quella più semplice e onesta, semplicemente, sarebbe di eliminare tutti i mini-giochi, e lasciare solo la trama. Come per The Stanley Parable e Gone Home, abbandonare anche le ultime velleità di videogioco tradizionale, e limitarsi a raccontare una storia in cui il giocatore deve muovere il personaggio dall’evento X all’evento Y. Esiste un pubblico per giochi del genere, quindi non vedo il problema.
La mia soluzione preferita, ovviamente, è quella più complicata. E prevede, in sostanza, un completo ripensamento del gioco. Pensateci un attimo: partendo dalle sue premesse narrative, cos’è in fondo To the Moon? Una storia d’investigazione. Una lotta contro il tempo per scoprire il segreto nella vita di un vecchio e riuscire a realizzare il suo ultimo desiderio prima che muoia. Ergo: avrei realizzato un vero e proprio gioco investigativo con un tempo limite e finale multiplo.

Al giocatore spetterebbe il compito di mettere insieme gli indizi trovati nei ricordi di Johnny e risolvere il mistero. Se non riuscisse a farlo in tempo, si otterrebbe il bad ending della morte del vecchio senza che il suo desiderio venga realizzato. O si potrebbe scoprire il suo segreto, ma non riuscire a farlo andare sulla Luna. E ancora, cosa anche più interessante, ci potrebbero essere più modi per realizzare il suo desiderio. In questo modo, si avrebbe finalmente un sistema di gioco completamente integrato nella trama, e che incentiva a giocare e sperimentare. La brevità del gioco, inoltre, aumenterebbe la replay value e spingerebbe anche il giocatore che si è beccato il bad ending a riprovare.
Una volta sbloccata una nuova memoria, il giocatore dovrebbe poter tornare ogni volta che vuole a quella e a tutte le precedenti – così da recuperare indizi eventualmente persi o rivivere certe scene per reinterpretarle alla luce di nuove informazioni. L’orologio interno che stabilisce quanto tempo manchi alla morte di Johnny non dovrebbe essere un vero e proprio timer – non vogliamo che il giocatore sia costretto a muoversi di fretta e non riesca più a godersi la storia – ma potrebbe dipendere, per esempio, dagli spostamenti tra i ricordi. Ogni spostamento, muove l’orologio di un’unità verso la morte. In questo modo il giocatore dovrebbe imparare a gestire con oculatezza i propri spostamenti, ma una volta arrivato in un ricordo potrebbe con calma esaminare la scena e riflettere sul da farsi.
Se sentissimo, in questo modo, che la vita di Johnny non è semplicemente un elemento della trama ma dipende veramente dalle nostre azioni, ed è veramente appesa a un filo, forse ci sentiremmo più responsabili. E sentiremmo la sua tragedia più vicina a noi.

To the Moon Screenshot

Kan Gao realizza delle scene che onestamente non credevo possibili su RPG Maker.

In conclusione
Le storie d’amore cariche di pathos, lo ribadisco, non fanno per me; e posso confermare, come sospettavo, che questo To the Moon non è indirizzato alle persone come me. E’ quindi interessante che, nonostante tutto ciò, io abbia divorato il gioco. A parte i primi quaranta minuti, mi sono passato tutto il gioco in una sola seduta – perché volevo sapere come andava a finire. To the Moon ha ritmo. Nonostante i mini-giochi stupidi, e nonostante alcune scene discutibili, non si avverte mai un momento di stanca. E la scena finale, devo ammetterlo, è stupenda; la dimostrazione della saggezza di quel vecchio adagio dei manuali di narrativa, “arrive late and leave early”.
Non è un gioco che consiglierei a tutti. Gli amanti della fantascienza rimarrebbero delusi, come anche chi si aspettasse un secondo Eternal Sunshine (quel film è parecchie spanne sopra l’opera di Kan Gao). Ma per gli amanti dei drammi psicologici, dello slice of life, e naturalmente delle storie d’amore, be’, To the Moon è un bel prodottino. Provatelo. Se siete indecisi, aspettate i prossimi saldi di Steam. L’ultima cosa che posso dirvi per convincerci è che: no, il “voglio andare sulla Luna” non è una forbita metafora. Parla proprio della Luna. E di andarci. Con uno shuttle. Della NASA.

Kan Gao ha annunciato da tempo di essere al lavoro su un secondo episodio, che vedrà i dottori Eve e Neil alle prese con un nuovo caso (spoiler: nessuno dei due muore). Prima di allora, però, dovrebbe uscire un episodio più breve – chiamato Bird Story che fungerebbe un prequel al secondo capitolo vero e proprio di To the Moon. Questo capitolo intermedio ruoterà attorno a “un bambino e un uccellino con un’ala spezzata”, e se possibile sembra ancora meno nelle mie corde del precedente. Bird Story non ha ancora una data di uscita ufficiale; se la storia dei programmatori di RPG Maker mi ha insegnato qualcosa, è facile che prima di allora Kan Gao sia scappato in Kirghizistan e abbia aperto un allevamento di cavalli (sembrano piacergli così tanto).
Quanto a me, la carrellata di articoli dedicati alla Luna e all’esplorazione spaziale non è ancora terminata. Ne riparleremo lunedì prossimo.

To the Moon Screenshot Horses

Figa i cavalli.


(1) Dico “giochi di ruolo” per semplificare. In realtà, benché RPG Maker sia impostato principalmente per realizzare gdr, un utente un po’ scafato può piegare il programma per realizzare (con fatica) altri tipi di gioco, dallo sparatutto al platform.Torna su


(2) Su tutte, il trauma infantile che sconvolge la vita di Johnny. L’incidente stradale che ti ammazza il fratellino è una delle trovate più abusate nella storia della narrativa drammatica. E il fatto che si passi un’ora di gioco buona a cercare di scoprire di cosa si tratti rende la delusione solo più cocente, quando finalmente il mistero è risolto.Torna su


(3) Il fulcro della relazione tra Johnny e Rivers è che lui si è dimenticato del loro primo incontro quand’erano piccoli, e lei non gliel’ha mai perdonato. Questa sua dimenticanza, a sua volta, è causata dal fatto che per dimenticare il trauma della perdita del fratello è stato imbottito di psicofarmaci.
Ora, per far nascere in Johnny il desiderio di andare sulla Luna, Eva rimuove dai suoi ricordi il secondo incontro con Rivers, al liceo; in questo modo, lui continuerà inconsciamente a “inseguirla” sulla Luna. Tuttavia Eva fa anche una seconda cosa, ossia cancella la morte del fratello. Ma questo fa crollare tutto il castello di carte.
Se suo fratello non muore, Johnny non comincerà mai a prendere psicofarmaci. Non perderà mai la memoria, ergo tornerà nel ‘posto magico’ con Rivers l’anno dopo. Il secondo incontro al liceo non avverrà mai, semplicemente perché i due non smetteranno di vedersi. Ma allora Johnny, non avendo smarrito Rivers, non proverà mai la tentazione di andare sulla Luna. Se risparmi il fratello, altre cose potranno cambiare, ma non è chiaro che direzioni prenderà il rapporto tra i due; Johnny potrebbe ritrovarsi di nuovo infelice alla fine della sua vita.

Datemi del cinico, ma io avrei preferito semplicemente che Eva rimuovesse Rivers dalla vita di Johnny (cambiando solo l’episodio del liceo). Lui sarebbe stato molto più felice. Forse sarebbe andato sulla Luna. Forse no. Ma non avrebbe vissuto una vita inutile accanto a una donna come Rivers.Torna su

I Consigli del Lunedì #42: The Moon Is A Harsh Mistress

The Moon Is A Harsh MistressAutore: Robert A. Heinlein
Titolo italiano: La Luna è una severa maestra
Genere: Science Fiction / Hard SF / Politico
Tipo: Romanzo

Anno: 1966
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 380 ca.

Difficoltà in inglese: ***

There ain’t no such thing as a free lunch.

Nel XXI secolo la Luna è diventata una colonia penale. Una prigione che non ha bisogno di sbarre né di molte guardie, perché fuggire è impossibile: pochi possono permettersi di pagare il passaggio sulle navi merci che transitano mensilmente; e soprattutto, dopo pochi mesi di permanenza sulla Luna, la bassa gravità opera sull’organismo cambiamenti irreversibili che rendono insopportabile la gravità terrestre. Sotto l’occhio vigile dell’Autorità Lunare, i Lunatici si sono costruiti la propria società, scavando intere città sotterranee e trattando lo sterile suolo terrestre in modo da convertirlo in acqua e grano. Una quota del grano prodotto viene mensilmente venduta all’Autorità, proprietaria di una catapulta con cui viene spedito nello spazio e giù sulla Terra.
Manuel non si è mai interessato di politica. Nato sulla Luna da nonni deportati, è fiero di essere un Lunatico, ma conduce una vita tranquilla come tecnico del super-computer che coordina tutte le attività amministrative a Luna City. Manuel è anche l’unico ad essersi accorto che un bel giorno il computer è diventato autocosciente; l’ha chiamato Mike ed è diventato il suo unico amico. Ma una sera del 2075, per fare un favore a Mike, Manuel si trova suo malgrado invischiato in una protesta dei Lunatici contro il monopolio dell’Autorità. E ben presto capirà che in gioco c’è il futuro stesso dei Lunatici e delle risorse lunari. O la Luna diventerà indipendente e libera dalla Terra, o sono condannati a un futuro di carestia e schiavitù… e Manuel potrebbe avere in mano la carta vincente per decidere le sorti della rivolta.

The Moon is a Harsh Mistress, o: piccolo manuale del rivoluzionario pragmatico. Il Consiglio di oggi non avrebbe certo bisogno di presentazioni; Robert Heinlein è uno dei Big Three della fantascienza della Golden Age, e questo è uno dei suoi romanzi più famosi, dopo (o accanto a?) Starship Troopers e Stranger in a Strange Land. Ma mentre alcuni dei suoi romanzi più celebri – compresi i due summenzionati – negli ultimi anni sono stati riportati nelle librerie italiane, dalla Mondadori e dalla Fanucci, La Luna è una severa maestra è rimasto relegato alle ristampe Urania. Un trattamento ingiusto. Dopo il Consiglio su Clarke e quello su Asimov, dunque, è giunto il momento di chiudere il cerchio con questo classico (non molto letto in Italia) di Heinlein.
Come potrebbe un piccolo satellite come la nostra Luna ribellarsi con successo alla Terra e conquistare l’indipendenza? Quali tattiche dovrebbe adottare, come dovrebbe organizzarsi? The Moon Is A Harsh Mistress ci racconta tutte le fasi della rivoluzione lunare – dai primi germi, alla preparazione, all’esecuzione, all’esito finale. Ma Moon è anche un’opera di Hard SF, e un romanzo d’azione; e a tratti diventa anche un trattato di filosofia politica. Vediamo come il buon vecchio Anson ha tenuto tutto insieme.

Brass Cannon

Un cannone di ottone. Uno dei simboli del romanzo, infatti Heinlein originariamente avrebbe voluto intitolarlo “The Brass Cannon” (fortunatamente gli fu impedito di commettere questa pazzia).

Uno sguardo approfondito
Immaginate di uscire a bere qualcosa con un amico che non vedevate da tempo. Seduti a un tavolo, boccale di birra davanti, il vostro amico vi racconta la storia della sua vita e voi, pazienti, lo ascoltate. Ecco: questa è esattamente la sensazione che lascia il narratore di Heinlein. The Moon is a Harsh Mistress, come molti altri dei suoi romanzi, è raccontato in prima persona e al passato remoto dal protagonista Manuel O’Kelly-Davis. Dico “raccontato” non a caso, perché per trovare delle scene mostrate decentemente in tutto il romanzo bisogna andare a cercarle col lanternino.
Tutto il romanzo è pesantemente filtrato dal punto di vista di Mannie, che non si fa problemi a commentare, fare del sarcasmo, lanciarsi in digressioni su questo o quello. A descrizioni dettagliate di alcune scene chiave, seguono riassunti sbrigativi di giorni o anche settimane di avvenimenti. Gli infodump sono spiattellati in faccia al lettore senza tanti problemi: per esempio, all’inizio del romanzo il protagonista va a incontrare Mike, e subito si lancia in un lungo excursus sulla natura del super-computer, sulla storia di come abbia scoperto che era senziente e di come sono diventati amici. Solo il tono frizzante e sopra le righe della voce narrante, e il fatto che di norma queste digressioni siano interessanti, ti fa resistere alla tentazione di lanciare il libro dalla finestra.

Insomma, l’impostazione narrativa ricorda tanto quella di un romanzo tardo-ottocentesco alla Henry James o Thackeray, non fosse per il fatto che il pov-narratore è troppo arrogante e dalla parlata troppo slang per confonderlo coi libri di quell’epoca. Ma oltre all’immersione – più che calarci direttamente negli avvenimenti della storia, ci sembra di essere di fronte a uno che ce li racconti – ne risente anche il ritmo della narrazione: a parti adrenaliniche in cui succedono cose e seguiamo concitatamente l’azione, seguono pagine e pagine di spiegoni sospesi nel tempo.
E a questo si aggiungono alcune scelte poco chiare di Heinlein nella gestione del ritmo narrativo. Un momento critico e anticipato per un centinaio di pagine, come il golpe dei ribelli sul governo lunare, è liquidato in poche pagine raccontate con grande distacco, mentre pagine e pagine sono dedicate a discussioni inconcludenti tra il protagonista e il Professore (il volto pubblico della rivolta lunare) sul pensiero anarchico.

Edward Hopper

“E ti dicevo, no, di quando ho liberato la Luna dalle ingerenze terrestri…”

Non aiuta la caratterizzazione dei personaggi: The Moon is a Harsh Mistress presenta il tipico spaccato di figure piatte e stereotipate di quasi tutti i romanzi di Heinlein. Wyoming Knott, la bella rivoluzionaria che sedurrà il protagonista convincendolo così a unirsi alla causa, è la classica eroina heinleiniana, forte di carattere ma troppo idealista, indipendente ma sotto sotto ansiosa di essere posseduta da un uomo forte; il Professor de la Paz è il vecchio saggio, indurito e reso cinico da anni di lotte e angherie, ma determinato a fare del mondo un posto migliore. Gli altri personaggi, si fa fatica persino a ricordarseli. Lo stesso protagonista, benché col suo sarcasmo e la sua schiettezza sia un piacevole compagno di viaggio per le quasi 400 pagine del romanzo, è il tipico alter-ego heinleiniano: un uomo pragmatico e moderatamente egocentrico, disposto a cambiare il mondo quel tanto da garantirsi una vita in cui farsi serenamente i cazzi propri e campare cent’anni. Del resto, Heinlein sembra più preoccupato di far dire ai suoi personaggi battute a effetto e scambi brillanti, piuttosto che costruire una psicologia credibile.
Il personaggio più interessante alla fin fine è proprio il super-computer Mike, sorta di bambino prodigio che mescola una conoscenza enciclopedica dell’universo e una capacità di ragionamento sovrumana con un’incredibile ingenuità per le sottigliezze dell’animo e del linguaggio umano. Una sorta di HAL9000 ‘buono’, ma da approcciare con cautela per evitare di essere fraintesi. E’ stimolante vedere come Heinlein gestisca il rapporto tra l’intelligenza artificiale e i protagonisti umani, e come Mike “evolva” nel tempo in conseguenza di queste interazioni.

Ma dove Heinlein ha davvero fatto un lavoro magistrale, è nel worldbuilding. La società lunare appare fin dalle prime pagine come qualcosa di molto diverso da quella terrestre, in ragione della sua storia (il fatto, cioè, di essere nata come colonia penale per ergastolani) e della sua scarsità di risorse (dal cibo alle persone). Farò giusto un paio di esempi.
Morire sulla Luna è facile: basta essere gettati fuori da un portellone dell’aria nel vuoto. Poiché la vita individuale è così a rischio, e in conseguenza della scarsità di popolazione lunare, i Lunatici hanno evitato di estinguersi organizzandosi in veri e propri clan familiari, all’interno dei quali vige il matrimonio di gruppo. In un line marriage, tutti i mariti e le mogli sono sposati tra di loro, e di conseguenza condividono tutte le responsabilità (dall’amministrazione delle finanze all’allevamento dei figli) e prendono insieme tutte le decisioni; quando un figlio raggiunge l’età adulta potrà sposarsi, abbandonando la famiglia originaria ed entrando in matrimonio di gruppo in un’altra famiglia.
In conseguenza della scarsità di donne nella società lunare originaria – quando ancora era soltanto un carcere – il gentil sesso è sempre stato una risorsa preziosa. Di conseguenza, la donna ha acquisito un potere incredibile nella società. Nessun uomo oserebbe mai provarci con una che non ci sta, perché alla minima manifestazione di insofferenza di lei, il pugno di uomini più vicino potrebbe acchiappare il “molestatore” e mandarlo al creatore schiaffandolo fuori da un portellone. E all’interno dei matrimoni di gruppo, il voto delle donne conta quanto quello degli uomini. Insomma, una donna dovrebbe essere piuttosto contenta di vivere sulla Luna.

My nose itches

La vita sulla Luna può essere davvero dura.

Le città della Luna sono enormi complessi sotterranei di sale e corridoi organizzati a livelli, in cui perdersi è facilissimo. I Lunatici sopravvivono del suolo lunare attraverso culture idroponiche e altre complicate trasformazioni molecolari, mediante macchinari direttamente posseduti dalle famiglie. Lungi dall’essere importatori, i Lunatici esportano grano, sparandolo periodicamente sulla Terra dall’unica catapulta di proprietà dell’Autorità Lunare. E proprio il possesso di questa catapulta diventerà il pomo della discordia tra Lunatici e Autorità e scatenerà la rivoluzione lunare.
A fronte di tutte queste belle idee, quindi, è un vero peccato che la storia sia tutta raccontata e che “vediamo” così poco. Le peculiarità antropologiche delle società lunari sono affidate agli spiegoni del protagonista, e anche delle affascinanti città della Luna vediamo ben poco: descrizioni fisiche degli ambienti ci sono solamente quando sono strettamente funzionali alla trama, come un inseguimento tra i cunicoli sotterranei o un assalto della fanteria terrestre alle città.1 Per la maggior parte del romanzo, sembra che i personaggi si muovano nel vuoto o quasi.

Il tratto in assoluto più interessante del romanzo è però ascoltare Heinlein che ci spiega come si fa la rivoluzione. Con un approccio da realpolitik che mi ha ricordato Tecnica del colpo di stato di Curzio Malaparte, Heinlein ci spiega che per rovesciare con successo un governo gli ideali di partenza non contano una mazza; ciò che conta è un’organizzazione efficiente e una strategia rigorosa. Nel corso della storia l’autore toccherà tutti i temi, da come si debbano strutturare le cellule del partito per limitare i danni in caso si venga scoperti, a come prendere il controllo dei punti chiave del governo da rovesciare, a come gestire la propaganda o i negoziati col nemico, fino a come gestire una vera e propria guerra.
L’esecuzione delle varie parti del piano è affascinante, e soprattutto traspare l’idea di quanto sia complicato, e improbabile anche nel migliore degli scenari possibili, avere successo. Qualunque siano le simpatie politiche personali (e le mie non collimano certo con quelle di Heinlein), e nonostante la difficoltà tecnica di immedesimarsi nei ribelli protagonisti, dopo un po’ non si può non simpatizzare per il piccolo Davide-Luna nella sua lotta per trionfare su quel Golia che è la Terra. Così come è interessante vedere come il protagonista passi dalla frase con cui si presenta al lettore – My old man taught me two things: ‘Mind own business’ and ‘Always cut cards.’ Politics never tempted me” – a diventare uno degli organizzatori della rivoluzione. L’unico rammarico è forse che, secondo Heinlein, le possibilità di riuscita da parte di una società piccola come quella lunare è davvero così bassa, da far dipendere tutto il piano dei ribelli su un asso nella manica veramente sbilanciato: l’amicizia con il super-computer che amministra praticamente l’intero satellite. Così sembra quasi troppo “comodo”!

French revolution

La rivoluzione è crudele.

E’ comunque un bene che Heinlein abbia una visione così pragmatica della tecnica del golpe, perché quando si butta nella teoria politica viene da piangere. Tra le dissertazioni del Professor de la Paz e le riflessioni del protagonista, un sacco di pagine sono buttate in una celebrazione del liberismo e dello Stato anarchico che dopo i disastri del 2007-2008 sono assai difficili da prendere sul serio (“ah! Se i governi non si immischiassero e lasciassero che il mercato si autoregolasse negli scambi fra i privati, starebbero tutti meglio! Ah, solo i deboli hanno bisogno dello Stato, gli uomini davvero in gamba si assumono la responsabilità delle proprie azioni!”). Questi passaggi sono resi ancora più deboli dal fatto che, proprio per lo stile pesantemente raccontato, queste teorie e la loro validità non passano come le convinzioni personali di alcuni personaggi, quanto come un dato di fatto sancito dal Narratore.

The Moon is a Harsh Mistress, insomma, è un romanzo geniale nelle idee benché povero nell’esecuzione – anche se, vale la pena dirlo, è pur sempre diverse spanne sopra i veri inetti della prosa, come Clarke o Poul Anderson. La vastità degli argomenti toccati – dal calcolo della traiettoria dei proiettili lanciati dalla Luna a una lezione sulla finanza lunare, dal funzionamento dei matrimonio di gruppo agli effetti della gravità lunare sulla struttura muscolare umana – da sola la dice lunga sulla cura e la serietà messe da Heinlein nello scrivere questo libro.
Se non avete mai letto Heinlein, questo è (proprio come Starship Troopers o Stranger in a Strange Land) un ottimo punto di partenza. Se l’avete letto e vi piace il suo stile, e per qualche strana ragione non avete ancora provato The Moon is a Harsh Mistress, correte a farlo. Se Heinlein invece vi dà il voltastomaco (reazione comprensibile), be’… questo libro è puro Heinlein 100%, quindi forse dovreste starne alla larga. Quanto a me, in futuro mi piacerebbe tornare su Heinlein, magari toccando un romanzo meno conosciuto: la sua bibliografia è sterminata, e materiale di buona qualità non manca. Vediamo intanto le reazioni a questo articolo.

Dove si trova?
Come potete immaginare, non è difficile procurarsi una copia digitale di quest’opera. Edizioni ePub di The Moon Is A Harsh Mistress si trovano sia su Library Genesis che su BookFinder, mentre su Emule potrete scaricarvi la traduzione italiana (La Luna è una severa maestra).

Su Heinlein
Ansioso di informarmi su uno degli scrittori ritenuti più importanti nella storia della fantascienza, nel corso degli ultimi due anni ho letto una decina abbondante di romanzi di Heinlein. Di seguito quelli che ho apprezzato di più – chissà, da uno di questi potrebbe nascere in futuro un Consiglio o una Bonus Track:
The Puppet Masters The Puppet Masters (Il terrore della sesta luna) è un classico dei romanzi d’invasione “tipo ultracorpi”: una navicella atterra in mezzo ai campi del Midwest, e in men che non si dica una progenie di lumaconi prende il controllo della popolazione locale. I lumaconi controllano le loro vittime attaccandosi al loro cervelletto, dopodiché si fingono umani normali e cominciano a diffondersi in modo sistematico… I protagonisti sono un pugno di agenti di un’organizzazione segreta della Difesa americana, e il romanzo racconta di come faranno a contenere l’invasione e quindi annientarla. I personaggi sono abbastanza bidimensionali, c’è molto machismo un po’ datato, nessuna ambiguità morale – ma la partita a scacchi tra i buoni e gli alieni cattivi è affascinante, e gestita con molta intelligenza. Un romanzo piacevole, nettamente superiore all’altro classico dell’invasione “tipo ultracorpi” – The Body Snatchers di Jack Finney.
Farmer in the Sky Farmer in the Sky (Pionieri dello spazio) è un romanzo per ragazzi, uno dei cosiddetti “Heinlein’s Juveniles”. La trama è molto semplice: racconta di un ragazzo che, non avendo prospettive sulla Terra, decide di emigrare sul padre nelle prime colonie su Ganimede, una delle lune di Giove. Ma la vita su Ganimede è dura, la voglia di mollare tanta. C’è una cosa di questo romanzo che me lo rende caro – la sincerità del messaggio che Heinlein lancia ai suoi lettori: nella vita nulla arriva gratis, se vuoi qualcosa devi darti da fare, con intelligenza e determinazione; se molli (per codardia, o pigrizia) perderai il rispetto di te stesso. Il tutto mostrato con molta efficacia. Per me Farmer in the Sky è il migliore degli Heinlein’s Juveniles.
The Door into Summer The Door Into Summer (La porta sull’estate) sembra il sogno bagnato di un’ingegnere mischiato a un romanzo sui viaggi nel tempo. Daniel Davis è il geniale inventore di una serie di automi per le faccende domestiche che hanno rivoluzionato il mercato, ma oggi è un uomo finito: la sua ex-amante e il suo partner d’affari l’hanno truffato e buttato fuori dalla compagnia. Amareggiato dalla vita, Davis decide di farsi criogenizzare assieme al suo unico caro – il suo gatto – per tornare a vivere in un futuro migliore; ma questo è solo l’inizio di una serie di avvenimenti rocamboleschi che lo porteranno a chiudere i conti con i due traditori. Il plot è melodrammatico e la dinamica dei viaggi nel tempo suona inverosimile, ma il protagonista è simpatico, la descrizione delle invenzioni deliziosa e l’interplay tra i personaggi (in particolare con il gatto!) ben riuscito. Il più dolce e meno pretenzioso dei romanzi di Heinlein.
Starship Troopers Starship Troopers (Fanteria dello spazio) non ha certo bisogno di presentazioni. Come tanti giovani della sua età Rico, appena diplomato, non sa cosa fare della propria vita; e più per emulazione che per reale convinzione, si arruola nell’esercito. Attraverso i suoi occhi, vivremo la vita militare in un mondo utopico in cui l’esercito ha assunto il controllo della Terra e la amministra con efficienza, dai boot camp per i cadetti ai campi di battaglia interstellari. Nonostante gli alti e bassi, un romanzo di formazione affascinante e ben scritto; incredibile pensare che sia stato scritto per un target Young Adult.
Stranger in a Strange Land Stranger in a Strange Land (Straniero in terra straniera), un altro dei romanzi più famosi della fantascienza, racconta le peripezie di Michael Valentine Smith, primo uomo nato ed educato su Marte, dopo il suo arrivo sulla Terra. A metà tra il romanzo d’avventura e il saggio antropologico, questo romanzo vuole mettere in luce le idiosincrasie della cultura occidentale attraverso gli occhi ingenui dell’uomo venuto da un altro pianeta. Nonostante alcune digressioni siano un po’ pesanti, questo è uno dei libri dove Heinlein ha trovato il miglior equilibrio tra narrazione e disquisizioni saggistiche. Assicuratevi di leggere la Uncut Version, che contiene un paio di centinaia di pagine in più rispetto alla versione tagliata che è circolata per decenni.
La produzione di Heinlein è in genere divisa in tre periodi cronologici. Tutte le opere che ho letto finora appartengono al Periodo Giovanile (fino a Starship Troopers) o al Periodo della Maturità (fino a The Moon is a Harsh Mistress). Ma visto che Heinlein mi è piaciuto, in futuro leggerò di sicuro anche qualcosa del Periodo Tardo (in particolare sono attratto da Time Enough for LoveFridayJob: A Comedy of Justice). Vi farò sapere che ne penso.

Qualche estratto
Il primo estratto, preso dall’inizio del libro, è la presentazione del personaggio di Mike da parte del protagonista, e dà subito un’idea del tono e del linguaggio colorito della voce narrante (ma anche della maniera in cui semina infodump a pioggia). Il secondo è invece un vivace dialogo tra il protagonista e la bella Wyoh, e tocca i temi caldi del libro: teoria e pratica della rivoluzione, l’organizzazione della famiglia di Mannie, il suo scetticismo pratico e la situazione politica terrestre. E’ un po’ lungo ma ha ritmo – e ne vale la pena.

1.
When Mike was installed in Luna, he was pure thinkum, a flexible logic—“High-Optional, Logical, Multi-Evaluating Supervisor, Mark IV, Mod. L”—a HOLMES FOUR. He computed ballistics for pilotless freighters and controlled their catapult. This kept him busy less than one percent of time and Luna Authority never believed in idle hands. They kept hooking hardware into him—decision-action boxes to let him boss other computers, bank on bank of additional memories, more banks of associational neural nets, another tubful of twelve-digit random numbers, a greatly augmented temporary memory. Human brain has around ten-to-the-tenth neurons. By third year Mike had better than one and a half times that number of neuristors.
And woke up.
Am not going to argue whether a machine can “really” be alive, “really” be self-aware. Is a virus self-aware? Nyet. How about oyster? I doubt it. A cat? Almost certainly. A human? Don’t know about you, tovarishch, but I am. Somewhere along evolutionary chain from macromolecule to human brain self-awareness crept in. Psychologists assert it happens automatically whenever a brain acquires certain very high number of associational paths. Can’t see it matters whether paths are protein or platinum.
(“Soul?” Does a dog have a soul? How about cockroach?)
Remember Mike was designed, even before augmented, to answer questions tentatively on insufficient data like you do; that’s “high optional” and “multi-evaluating” part of name. So Mike started with “free will” and acquired more as he was added to and as he learned—and don’t ask me to define “free will.” If comforts you to think of Mike as simply tossing random numbers in air and switching circuits to match, please do.

Super Mario on the Moon

Non c’entra niente ma DOVEVO metterla.

2.
 “Mannie, why do you say our program isn’t practical? We need you.”
Suddenly felt tired. How to tell lovely woman dearest dream is nonsense? “Um. Wyoh, let’s start over. You told them what to do. But will they? Take those two you singled out. All that iceman knows, bet anything, is how to dig ice. So he’ll go on digging and selling to Authority because that’s what he can do. Same for wheat farmer. Years ago, he put in one cash crop—now he’s got ring in nose. If he wanted to be independent, would have diversified. Raised what he eats, sold rest free market and stayed away from catapult head. I know—I’m a farm boy.”
“You said you were a computerman.”
“Am, and that’s a piece of same picture. I’m not a top computerman. But best in Luna. I won’t go civil service, so Authority has to hire me when in trouble—my prices—or send Earthside, pay risk and hardship, then ship him back fast before his body forgets Terra. At far more than I charge. So if I can do it, I get their jobs—and Authority can’t touch me; was born free. And if no work—usually is—I stay home and eat high.
“We’ve got a proper farm, not a one-cash-crop deal. Chickens. Small herd of whiteface, plus milch cows. Pigs. Mutated fruit trees. Vegetables. A little wheat and grind it ourselves and don’t insist on white flour, and sell—free market—what’s left. Make own beer and brandy. I learned drillman extending our tunnels. Everybody works, not too hard. Kids make cattle take exercise by switching them along; don’t use tread mill. Kids gather eggs and feed chickens, don’t use much machinery. Air we can buy from L-City—aren’t far out of town and pressure-tunnel connected. But more often we sell air; being farm, cycle shows Oh-two excess. Always have valuta to meet bills.”
“How about water and power?”
“Not expensive. We collect some power, sunshine screens on surface, and have a little pocket of ice. Wye, our farm was founded before year two thousand, when L-City was one natural cave, and we’ve kept improving it—advantage of line marriage; doesn’t die and capital improvements add up.
[…] But back to your plan, Wyoh: two things wrong. Never get ‘solidarity’; blokes like Hauser would cave in—because they are in a trap; can’t hold out. Second place, suppose you managed it. Solidarity. So solid not a tonne of grain is delivered to catapult head. Forget ice; it’s grain that makes Authority important and not just neutral agency it was set up to be. No grain. What happens?”
“Why, they have to negotiate a fair price, that’s what!”
“My dear, you and your comrades listen to each other too much. Authority would call it rebellion and warship would orbit with bombs earmarked for L-City and Hong Kong and Tycho Under and Churchill and Novylen, troops would land, grain barges would lift, under guard—and farmers would break necks to cooperate. Terra has guns and power and bombs and ships and won’t hold still for trouble from ex-cons. And troublemakers like you—and me; with you in spirit—us lousy troublemakers will be rounded up and eliminated, teach us a lesson. And earthworms would say we had it coming . . . because our side would never be heard. Not on Terra.”
Wyoh looked stubborn. “Revolutions have succeeded before. Lenin had only a handful with him.”
“Lenin moved in on a power vacuum. Wye, correct me if I’m wrong. Revolutions succeeded when—only when—governments had gone rotten soft, or disappeared.”
“Not true! The American Revolution.”
“South lost, nyet?”
“Not that one, the one a century earlier. They had the sort of troubles with England that we are having now—and they won!”
“Oh, that one. But wasn’t England in trouble? France, and Spain, and Sweden—or maybe Holland? And Ireland. Ireland was rebelling; O’Kellys were in it. Wyoh, if you can stir trouble on Terra—say a war between Great China and North American Directorate, maybe PanAfrica lobbing bombs at Europe, I’d say was wizard time to kill Warden and tell Authority it’s through. Not today.”
“You’re a pessimist.”
“Nyet, realist. Never pessimist. Too much Loonie not to bet if any chance. Show me chances no worse then ten to one against and I’ll go for broke. But want that one chance in ten.”

Tabella riassuntiva

Ti spiega come si fa la rivoluzione! E’ tutto raccontato!
Rigoroso worldbuilding di una società lunare autosufficiente. Infodump a pioggia e ritmo altalenante.
Il destino dei ribelli lunari è incerto fino all’ultimo. Personaggi stereotipati.
Voce narrante frizzante e piacevole. Ti ingozza a forza di dottrine politico-economiche assai discutibili.


(1) L’unica eccezione importante sta nel linguaggio. Sia nei dialoghi, sia nel parlato stesso della voce narrante, Heinlein fa uso di una grammatica strana, dai periodi spezzati, in cui spesso gli articoli come the o i pronomi personali vengono omessi. Al contempo, i Lunatici usano un gergo tutto loro che mischia le lingue più diverse, come il buffo termine ‘dinkum thinkum’ adottato da Manuel per indicare Mike o l’abbondanza di parole di origine russa (‘nyet’, ‘tovarish’…). Questo mix sarebbe una conseguenza del melting pot di razze che hanno caratterizzato la colonia penale lunare fin dalle origini.
Heinlein, insomma, crea un linguaggio personalizzato a scopo narrativo alla maniera di Burgess in Arancia Meccanica, anche se senza spingersi così in là. Il risultato è piacevole, anche se non sempre facile da seguire in inglese. Bravo Robert.Torna su

Vagonate di Bizarro Fiction

Puttana da Guerra MellickSono sempre stato promotore della Bizarro Fiction, da quando Gamberetta e il Duca me la fecero conoscere intorno al 2010. All’epoca, era una roba abbastanza nuova per tutti. Ciò che mi piaceva tanto di questa corrente, oltre al divertimento di mischiare più idee assurde tra loro e vedere cosa ne veniva fuori, era la generale assenza di pretenziosità. La dimostrazione che si potevano scrivere racconti e romanzi geniali senza doversi atteggiare a intellettuali. Gibson, Sterling, Stanley Robinson, Crowley, VanderMeer, lo stesso Swanwick a volte: tutti bravi, per carità, ma quando vogliono sanno essere così pesanti. Per cui, ogni volta che volevo liberarmi di questa cappa e farmi una lettura piacevole e rapida, mi gettavo su qualche pezzo breve di Bizarro Fiction.
Nel corso degli anni ho cercato di dare il mio contributo nel far conoscere la Bizarro da noi. Ho dedicato articoli a Mykle Hansen, Kevin L. Donihe, Athena Villaverde, Patrick Wensink, Alan M. Clark, Jeff Burke, Cameron Pierce, oltre naturalmente a Carlton Mellick III. Ho cercato di essere imparziale, e ho bastonato quando necessario libri e autori.

L’ultima barriera che ancora poteva esistere alla diffusione della Bizarro Fiction in Italia – oltre alla normale diffidenza di chi non l’abbia mai letta – era quella linguistica. Traduzioni italiane non esistevano, salvo quella di Help! A Bear is Eating Me di Hansen – ma quello era un libro coi piedi più fuori che dentro dai confini della Bizarro. Fino a che il Duca non si è imbarcato nell’impresa.
Come avevo scritto nell’articolo dedicato a Caligo, lunedì scorso Vaporteppa ha pubblicato Puttana da Guerra, traduzione italiana della novella War Slut di Mellick. E questo è solo l’inizio, perché nel corso delle prossime settimane verranno pubblicati anche le traduzioni di altre due novellas, ossia The Morbidly Obese Ninja e The Haunted Vagina. A mio avviso si tratta di un’ottima scelta. Trattandosi di storie brevi, sono un investimento a basso rischio in termini di tempo – si leggono in un pomeriggio o anche meno – e di denaro. Inoltre, essendo tre storie di tre sottogeneri molto diversi tra loro (fantascienza assurda War Slut, horror-fantasy The Haunted Vagina, commedia stile anime The Morbidly Obese Ninja), ci sono ottime possibilità che almeno una incontri il vostro palato. Conosco più di una persona, ad esempio, a cui è piaciuto molto il Ninja ma non Vagina; ma vale anche il contrario.1
I tre libri sono accompagnati da una post fazione scritta da Gamberetta che definisce in parole povere cosa sia la Bizarro Fiction; questo saggio riprende ed espande l’articolo La bizzarra Starfish Girl apparso su Gamberi Fantasy nel 2011, ed è molto chiaro. Potete leggere la post-fazione anche qui su Vaporteppa.

Ninja obesi

Una squadra di ninja obesi.

Se le vendite di queste tre novellas di Mellick andassero bene, posso solo sperare che il Duca decida di portarne altre; e magari, in futuro, quando ci sarà l’aspettativa di un ritorno economico più ciccioso, anche opere più lunghe come i bellissimi Zombies and Shit e Warrior Wolf Women of the Wasteland. Un circolo virtuoso per cui più lettori italiani cominciano a comprare e leggere Bizarro, e questo fa sì che escano sempre più opere di Bizarro.
Dal canto mio, come ho già promesso nei mesi scorsi, ho intenzione di tornare a parlare dei libri di Mellick sul blog – considerato che il mio ultimo Consiglio su di lui risale a oltre un anno fa. Giusto poco fa mi sono messo a contare i libri suoi che ho letto nel corso di questi tre-quattro anni, e sono arrivato a quota 27. Ventisette: sticazzi. Considerando che ad oggi ne ha pubblicati 45, ne ho letti oltre la metà. Mica male. Entro un mese da adesso, spero di riuscire a pubblicare un mega-articolo di riepilogo che elenchi tutti quelli che a mio avviso sono le sue opere migliori, nella speranza di orientare le decisioni dei lettori curiosi, e magari anche quelle editoriali del Duca. Nei prossimi mesi, inoltre, arriverà un nuovo Consiglio su di lui – anche se sono ancora indeciso; ci sono diversi candidati validi.

Non dimentichiamoci però che ci sono anche altri autori validi nel vasto mare della Bizarro! E’ un po’ di tempo che non leggo scrittori di Bizarro al di fuori di Mellick, ma ora mi piacerebbe rimediare; e ho già adocchiato alcuni titoli interessanti.
Ecco una rapida carrellata: sono curioso di sentire anche le vostre opinioni in merito.

Japan Conquers the Galaxy
Japan Conquers the GalaxyAutore: Kirsten Alene
Anno: 2013
Pagine: 118
Editore: Eraserhead Press

In un Giappone del futuro che sembra diventare sempre più simile a un’anime demente alla Excel Saga, uno scienziato pazzo si prepara a lanciare la nazione nello spazio e alla conquista della galassia. Riuscirà Alexander Peliman, uomo d’affari ammerigano, a fermarlo? Questa, in breve, sembra essere la trama della demenziale novella di Kirsten Alene.

Pro:
– Sembra divertente.
– E’ breve, denso e costa poco (solo 2,69 Euro al momento in cui scrivo), quindi si tratta di un investimento poco rischioso.
– E’ raccomandato da Mellick himself.

Contro:
– A leggere la sinossi, ho già l’impressione di sapere come sarà e cosa succederà nel romanzo. Non mi aspetto grosse sorprese.
– Mellick ha raccomandato anche romanzi di Kevin Donihe e Cameron Pierce che si sono rivelati assai brutti.

Black Hole Blues
Black Hole BluesAutore: Patrick Wensink
Anno: 2012
Pagine: 197
Editore: Lazy Fascist Press

Due fratelli: Claude, musicista country caduto in depressione perché non riesce a finire una canzone d’amore dedicata a tutte le donne del mondo; Lloyd, un fisico geniale che ha accidentalmente creato un buco nero che fagociterà la Terra. Questi i protagonisti dell’assurdo romanzo di Wensink.
Wensink sembra un po’ l’intruso nel club della Bizarro Fiction; il suo stile e le sue storie sono più vicini alle commedie tragicomiche di Kurt Vonnegut (e la trama dei due fratelli Caruthers infatti mi ricorda molto il bel Cat’s Cradle). Ma l’accostamento a Vonnegut è un complimento, e ho adorato alla follia il suo Broken Piano for President. Black Hole Blues è stato pubblicato prima di Broken Piano (su richiesta di Cameron Pierce, il suo editore), ma è stato scritto dopo. Sono estremamente curioso di provarlo.

Pro:
– La prosa di Wensink è super sopra le righe, ma la adoro.
– Da un libro di Wensink mi aspetto di più di qualche idea bizzarra e di sganasciarmi dal ridere.

Contro:
– I suoi libri non sono proprio ‘Bizarro Fiction’.
– Costa il doppio del libro della Alene!

I, Slutbot
I, SlutbotAutore: Mykle Hansen
Anno: 2014
Pagine: 294
Editore: Lazy Fascist Press

Ecco: a essere onesti, questo non ho capito neanche di cosa parla. Qualcosa a che fare con una pornostar androide che diventa una divinità. Forse. Ma il titolo è delizioso, e l’autore è quel Mykle Hansen che ho imparato ad amare con Help! A Bear is Eating Me e la raccolta Rampaging Fuckers on the Crazy Shitting Planet of the Vomit Atmosphere. Questo è il primo vero e proprio romanzo che scrive da anni – Hooray for Death, uscito nel 2011, è una raccolta di racconti – quindi sono molto curioso di provarlo.

Pro:
– Mykle Hansen è uno degli scrittori più bravi a far ridere sulla faccia della Terra. Mi sento fiducioso.
– Il titolo è troppo bello!

Contro:
– …davvero, non ho capito di cosa parla.
– Con le sue quasi 300 pagine, comincia a essere un romanzo parecchio impegnativo.

Questo è quanto, per ciò che concerne la Bizarro Fiction.
Nelle prossime settimane, invece, parleremo d’altro. Posso solo anticiparvi che l’argomento sarà la Luna.


(1) A me sono piaciute tutte e tre. Ma la mia preferita tra queste è Vagina.Torna su

Gli Italiani #08: Caligo

CaligoAutore: Alessandro Scalzo (Angra)
Genere: Science Fiction / Ucronia / Steampunk
Tipo: Romanzo

Anno: 2014
Pagine: 210 ca.
Editore: Vaporteppa

Barbara Ann Axelrod, giovane rampolla dell’aristocrazia europea, nonché figlia del primo uomo a mettere piede su Marte, sta tornando a Genova per la prima volta dopo tre anni. Tutto, nella Repubblica di Zena, sembra rimasto come l’aveva lasciato: i fumi che appestano la città bassa, il collegio di suore che le dà vitto e alloggio, lo zio Watson che si prende cura di lei. Nulla di più sbagliato.
C’è un assassino a piede libero in città, un tizio soprannominato il Cannibale che va in giro a mangiare la faccia di giovani ragazze. Gruppi insurrezionalisti si danno convegno la notte inneggiando alla rivolta e al ritorno del Vero Re. I livelli di onde Z nell’aria continuano a salire. E come se non bastasse, da un po’ di tempo Barbara Ann è perseguitata da una brutta emicrania e dalle allucinazioni – attacchi così forti che nemmeno i Massaggi Medico-igienici per Signorine riescono a darle un duraturo sollievo! Che abbia a che fare con l’ossessione che assalì suo padre di ritorno da Marte, e che lo spinse a girare i quattro angoli del pianeta fino a che non scomparve in un tragico incidente? Barbara Ann ancora non lo sa, ma stanno per succedere delle cose, a Zena, che sconvolgeranno la sua vita – e non solo la sua – per sempre.

Ho comprato Caligo il giorno stesso che è uscito. Tre i motivi. E’ il primo romanzo italiano inedito pubblicato da Vaporteppa, quindi un banco di prova importante per valutare la qualità della neonata collana del Duca. E’ la seconda opera di Alessandro Scalzo (aka Angra), di cui avevo letto e recensito un paio di anni fa il bel Marstenheim: ero quindi curioso di vedere se fosse migliorato. Infine, è un raro esempio di romanzo steampunk italiano, sponsorizzato tra l’altro da uno – il Duca medesimo – che ne sa a palate.
Caligo è un’ucronia ambientata in un 1912 in cui l’Italia non è mai diventata una nazione unita. Gran parte del Nord Italia è ancora una provincia dell’Austria, il Piemonte è rimasto un piccolo regno e la Gran Bretagna, prima potenza europea, ha fatto della Repubblica di Zena (Genova in dialetto genovese) un suo protettorato. Si viaggia in aeronave, gli eserciti europei hanno in dotazione mech da combattimento e l’uomo ha già posato i piedi sul suolo marziano. Il romanzo si sviluppa come una storia d’investigazione strutturata in giornate – ogni giornata è un capitolo – in cui a poco a poco Barbara Ann porterà alla luce cosa c’è di marcio sotto la patina (già marcia) della città di Zena. Intrighi internazionali, sovrannaturale, copie di contrabbando di Superomo – non manca niente. Finalmente anche noi italiani abbiamo un romanzo steampunk degno di questo nome?1

Steampunk goggles cat

Ecco: di questi ne abbiamo avuti pure troppi.

Uno sguardo approfondito
Da un’opera brandizzata Duchino, ci si aspetta prima di tutto che ponga molta cura nello stile; che sia scorrevole, immersivo e vivido – e Caligo non delude. La storia è narrata in prima persona al tempo presente dal pov di Barbara Ann. Il romanzo si sviluppa nell’arco di una settimana in cui, attraverso gli occhi della bella italo-britannica, scorrazziamo in giro per la città di Zena (e non solo) e scopriamo a poco a poco lo strano 1912 steampunk immaginato da Angra. La densa coltre di smog che appesta la città bassa, e che obbliga la gente a spostarsi con una maschera antigas addosso; le brutte isole galleggianti al largo della costa genovese, dove si ergono i grigi casermoni dei condomini dei proletari che non possono permettersi una casa sulla terraferma, e che Barbara vede dall’alto dell’aeronave mentre si appresta ad atterrare; le piccole pasticcerie artigianali dai nomi tradizionali, dove comprare un sacchettino di sfogliatelle alla crema al whisky: tutti questi dettagli concreti arrivano al lettore attraverso le peregrinazioni di Barbara Ann e compongono pezzo per pezzo il puzzle che è l’ambientazione di Caligo.
Oltre a essere immersivo e ridurre al minimo i filtri tra noi e la storia, l’uso della prima persona ha un altro importante vantaggio: la gestione degli infodump. Come ho già ricordato altre volte, un’ambientazione ucronica è problematica da gestire, perché bisogna dare al lettore molte informazioni solo perché riesca a orientarsi, ma al tempo stesso bisogna resistere alla tentazione di spiattellare nozioni con un brutto raccontato. Ma usando la prima persona, si può far passare un piccolo infodump come un ricordo o una riflessione della protagonista, risvegliato da un avvenimento presente. Barbara Ann torna al collegio delle orsoline dopo tanti anni, e ricorda la sua infanzia e gli insegnamenti delle suore; rilegge uno stralcio dei diari di suo padre, e ripensa alla sua vita e alle sue ossessioni, permettendo anche a noi di imparare qualcosa del colonnello Axelrod. Altri elementi dell’ambientazione non sono mai spiegati, ma si capiscono dal contesto, come le misteriose Onde Z che piagano la Repubblica di Zena e i suoi abitanti: niente “As you know, Bob” e niente “Le onde Z sono…”; semplicemente, vediamo cosa succede alla gente quando i livelli di onde Z nell’aria diventano troppo alti. Perché le uniche informazioni che servono al lettore sono quelle che fanno accadere le cose, sono quelle che impattano direttamente sulla trama.

Da ultimo, è bello essere nella testa di quella matta di Barbara Ann. Inizialmente ero un po’ preoccupato: la protagonista di Caligo pareva un concentrato di fanservice ambulante. Minorenne, bellissima, tette enormi, bisessuale, trombate come merce di scambio, devota seguace della scuola del Dr. Herzog e dei suoi massaggi medico-igienici per signorine per bene: divertente, per carità, e a tratti squisitamente retard, ma pareva uscito dalla mente di un ciccionerd che non vede una figa dall’anno in cui è uscito Pong. E invece Barbara Ann è un ottimo protagonista.
Innanzitutto, è un’eroina forte e attiva. Nel corso di tutto il romanzo, la maggior parte delle sue azioni sono frutto di decisioni personali, di una propria agenda; Angra evita l’espediente pigro – comune soprattutto tra scrittori alle prime armi – di fare del proprio protagonista un semplice esecutore delle decisioni di qualcun altro (sia esso un mentore, maestro, amico, superiore, e via dicendo). Campionessa di scherma fin da piccola, Barbara Ann non è una ragazza normale che d’improvviso si scopre guerriera – fin dalle prime pagine è stabilito che è una tipa superatletica e incline all’azione.

Fanservice

Nonostante la sua vacuità di facciata, inoltre, Barbara Ann è un personaggio complesso. Apparentemente progressista (si fa uomini e donne, studia matematica, da grande vorrebbe fare la pilota di mech), è pur sempre il frutto del suo rango sociale e della sua educazione: condivide le opinioni sulla superiorità razziale dei bianchi propria della sua epoca, rimane inorridita di fronte a un gendarme che la tratta come una plebea qualsiasi, e non può fare a meno di guardare dall’alto in basso un operaio che vive nella merda. Ipocrita nel midollo – come la classe sociale da cui proviene – vive il sesso con nonchalance ma non si concede orgasmi perché non è per bene. Insomma, in lei troviamo tutte le ambiguità e contraddizioni della gente reale.
Nell’analizzare la protagonista, tra l’altro, ci imbattiamo in un altro interessante corollario dello show don’t tell. Benché la narrazione sia in prima persona, noi abbiamo accesso solamente ai pensieri più superficiali del personaggio pov: quello che percepisce e fa qui ed ora, ed eventuali ricordi o associazioni di idee che qui ed ora le risveglia. Il personaggio non sta a psicanalizzarsi per il nostro beneficio (come non lo fanno le persone reali, a meno di averne una naturale inclinazione), né l’autore si mette a spiegarci il personaggio. Sta a noi capire le sue motivazioni profonde, in base a ciò che dice, fa, e pensa superficialmente; in base al non detto e alle contraddizioni tra pensiero e azione. Ad alcuni Barbara Ann è risultata un protagonista piatto e poco caratterizzato, ma è perché sono stati disattenti: in realtà è un personaggio molto affascinante, ed è indubbio merito di Angra essere riuscito a renderla tale senza spiattellarci in faccia il suo subconscio.
A fronte di tutto questo, le scene di pornaccio di serie c – che non mancano – il tripudio di tettone, ditalini, numeri di Superomo e monster cockz ci stanno e alla grande. E sono un piacevole diversivo rispetto alle investigazioni e agli scontri che costituiscono il cuore del romanzo.

Certo: aver scelto una protagonista altolocata e dalla vita facile come Barbara Ann ha anche i suoi problemi. Per gran parte del romanzo il livello di conflitto percepito e la tensione rimangono bassi, e questo perché non sentiamo che la vita della protagonista sia davvero in pericolo, o che lei stia rischiando davvero grosso. Quando Barbara Ann all’inizio del romanzo si mette sulle tracce del Cannibale, esponendosi così al rischio di farsi mangiare la faccia, è lei che prende questa decisione – e per nessuna motivazione più impellente del mettersi in gioco e dimostrare agli altri di che pasta è fatta. Si ha sempre l’impressione che in qualsiasi momento potrebbe “uscire dal gioco”, tornare nella sua stanza e non le sarebbe torto un capello. Siamo lontani anni luce dal senso di angoscia che si prova, per esempio, con Jason Taverner di Flow My Tears, diventato una non-persona e braccato dalla polizia internazionale; o con i bambini di Ship Breakers, che morirebbero di stenti se smettessero di scavare pezzi di rame dai rottami delle navi spiaggiate; o nel conflitto tra umani e yilané in West of Eden, dove la posta in gioco è l’estinzione di una delle due razze. In Caligo, la posta si alza veramente solamente verso la metà del romanzo; e solo negli ultimi capitoli si fa strada quella sana sensazione di ineluttabilità che ti spinge a divorare le pagine successive per sapere se la tua eroina ce la farà o meno.
Senza questo senso di urgenza, i primi capitoli mantengono un ritmo molto lento ed è facile posare il libro. Nelle prime giornate, Barbara Ann vive una serie di episodi perlopiù slegati tra loro (l’indagine sul Cannibale, l’investigazione dei moti insurrezionalisti, l’appuntamento con la bella hostess elvetica, l’esame del cervello alla clinica austriaca). Il lettore, che sa di stare leggendo un romanzo, fa un atto di fede e si aspetta che prima o poi tutti i tasselli formino un unico mosaico e che nessun episodio sia inutile; ma appunto, è una riflessione meta-narrativa. E a trasmettere questa sensazione di lentezza contribuiscono alcuni dialoghi legnosi – soprattutto quelli con lo zio Watson – che si trascinano senza energia per un sacco di pagine e passano in modo poco naturale da un argomento all’altro in stile lista della spesa. A volte, a leggere questi scambi, mi immaginavo l’autore che spuntava voci da una checklist mentale: “Ok, devono parlare di questo, questo, e questo… fatto, fatto, fatto…”. La funzione di questi dialoghi è informativa, ma il modo meccanico in cui le informazioni vengono trasmesse e la quasi totale assenza di conflitto li rendono poco scorrevoli.

All the fucks I give

Alcuni dialoghi suscitano questa reazione.

Ma sono difetti passeggeri, e si dimenticano in fretta se ci si sofferma a godere l’ambientazione costruita da Angra. Dagli elementi più corposi (la proliferazione di condomini galleggianti per poveracci come conseguenza della conformazione di Genova, stretta tra il mare e le montagne) ai dettagli più piccoli (la pubblicità dell’eroina San Pellegrino!), tutto testimonia di una grande cura. Le trovate bizzarre abbondano, ma non sono mai gratuite – risultano sempre giustificate e coerenti col contesto. E nel descrivere molti macchinari, dai mech in dotazione all’esercito agli scafandri, l’autore mostra una precisione e una padronanza della terminologia davvero buona – del resto Angra è ingegnere – e al contempo mi convince che io (che una formazione scientifica degna di questo nome non ce l’ho) non potrei mai scrivere steampunk.
Insomma, in Caligo non ci sono forse quelli che Gamberetta chiamava gli WOW maiuscoli, quel sense of wonder cosmico che ti fa vedere la realtà sotto una nuova prospettiva; ma tutta una costellazione di piccoli “wow” fantascientifici. Io stesso, che in genere rimango abbastanza freddino di fronte alle scene di esperimenti scientifici all’opera, sono rimasto deliziato dalla descrizione della macchina che realizza riproduzioni in caramello del cervello del paziente. Dallo scafandro protettivo indossato dalla dottoressa agli elettrodi all’uso stesso del caramello per fare il calco, tutta la scena è geniale e trasuda sense of wonder.
Nessuna menzione particolare, invece, per i personaggi secondari. Il punto di vista saldamente ancorato su Barbara Ann impedisce di approfondirli più di tanto, e la maggior parte di essi non si distacca dal loro ruolo funzionale e dallo stereotipo. Rimane in testa qualche personaggio più variopinto, come Armando, fotografo di nudi e rivoluzionario, dai baffi a manubrio e il membro equino; o Gallo, classico teppista di strada senza prospettive su cui però Angra ha innestato una bella storyline.

Mi viene spontaneo paragonare Caligo a un’altra grande opera steampunk incontrata sulle pagine di Tapirullanza: The Difference Engine di Gibson e Sterling. Anche dietro quel romanzo c’era un lavoro di documentazione enorme e una cura quasi maniacale nei dettagli. Ma laddove The Difference Engine era pretenzioso, pesante, prolisso, il romanzo di Angra è scanzonato, ironico, plot-driven. Sa quando deve essere drammatico e cupo, e quando non prendersi troppo sul serio e infilare un aneddoto sulle suore. E una volta che ingrana, il ritmo diventa frenetico – ho divorato le ultime ottanta pagine una dietro l’altra. La protagonista, anche, evolve nel corso della storia ed esce trasformata dall’avventura: ragazza viziata e un po’ naif (nel suo modo sveglio e paraculo di esserlo) all’inizio del libro, ne passerà talmente tante che alla fine della storia la troveremo diversa.
Quanto al finale, devo ammetterlo, mi ha lasciato un certo senso di insoddisfazione. Benché l’arco narrativo del romanzo si chiuda e tutte le domande principali trovino risposta, diversi interrogativi minori (sul destino di personaggi secondari, sul futuro di Zena and so on) rimangono aperti; soprattutto, è un finale che non allenta – non del tutto – la tensione accumulata nelle sequenze finali, e che ti lascia che ne vorresti ancora. Tutto sembra preludere, insomma, a un secondo romanzo che continui le avventure della nostra eroina (non vi sarà sfuggita la dicitura “La prima avventura di Barbara Ann” sotto al titolo), magari da maggiorenne e vaccinata. Angra si trova tra le mani un’ambientazione con un potenziale enorme e ancora largamente inespresso, quindi non penso proprio che si lascerà sfuggire l’occasione.

Baffi a manubrio

Baffi a manubrio. So sexy…

Insomma, spero di poter leggere in futuro un secondo romanzo ambientato nel mondi di Caligo. Nel frattempo, posso dire che l’esperimento è pienamente riuscito, e che ci troviamo tra le mani un ottimo romanzo ucronico. Posso dire tranquillamente che, tra le opere recensite fino adesso in questa rubrica – che si chiamava “Gli Autopubblicati” e ora si chiama “Gli Italiani” – è senza dubbio la migliore. Non che ci fossero molti dubbi: come si può non adorare un romanzo con scritte frasi di questo tenore?

Il Signor Armando mi stantuffa con la foga di un ciclista in fuga, di un rematore olimpionico a poche lunghezze dal traguardo e dalla medaglia d’oro.

Vaporteppa non poteva cominciare la sua pubblicazione di inediti italiani meglio di così.

Dove si trova?
A questa pagina del sito di Vaporteppa troverete la scheda del libro. Potete comprare l’ePub del romanzo su Ultima Books; altrimenti, se siete possessori di kindle, rivolgetevi ad Amazon per il mobi. Il prezzo è un onesto 4,99 Euro.

E già che parliamo di Vaporteppa…
La notizia dell’ultima ora è che proprio oggi Vaporteppa ha pubblicato una nuova opera a pagamento. La rivelazione è fonte di grande giubilo per questo blog, perché il libro in questione altro non è che la traduzione in italiano di War Slut di Carlton Mellick III, decano della Bizarro Fiction. Potete leggere l’annuncio qui su Vaporteppa, oppure andare immediatamente a comprare la vostra copia di Puttana da Guerra su Amazon o Ultima Books.
War Slut non è che la prima di tre opere che saranno portate in Italia da Vaporteppa nelle settimane a venire. Gli altri due titoli che potremo vedere in futuro nella nostra lingua sono The Morbidly Obese Ninja e The Haunted Vagina.

Puttana da Guerra

La copertina dell’edizione italiana di War Slut.

Qualche estratto
Dato che la protagonista è una parte così importante del romanzo, ho scelto due brani che ne mettessero in luce alcune delle caratteristiche più interessanti. Il primo mostra il suo primo ‘incontro’ con gli insurrezionalisti di Zena e le loro idee complottiste; il secondo, una scena di sesso.

1.
Davanti alla sala scommesse di Via Fratelli Bufera, due gendarmi di quartiere scherzano con uno storpio. Uno lo tiene per il naso, l’altro gli batte il manganello sulla gobba. Il primo gendarme lascia andare il malcapitato, e indica all’altro qualcosa avanti lungo la strada.
Un ragazzo in salopette blu e camicia grigia sta spennellando colla su un manifestino, appiccicato a fianco della vetrina della Pasticceria Sorelle Berardengo. Il secondo gendarme porta il fischietto alla valvola di sfiato della maschera antismog e fischia. Il ragazzo si volta di scatto, li vede. Getta via il pennello e un rotolo di manifestini e si dà alla fuga, nel vicolo a sinistra.
I gendarmi si lanciano all’inseguimento, sfollagente alla mano, spariscono anche loro nel vicolo. Il ragazzo schizza fuori di nuovo, e loro dietro. Corre dalla mia parte. È magro, con un ciuffo di capelli neri che spunta da sotto il cappello floscio. Sfrecciandomi accanto mi getta un’occhiata, sgrana i suoi occhi azzurri come se avesse appena avuto un’apparizione mistica. Lo seguo allontanarsi con lo sguardo.
I due gendarmi ne hanno avuto abbastanza di inciampare nei pastrani. Il primo si mette a strappare il manifestino dal muro, l’altro raccoglie quelli caduti. Li raggiungo, cerco di sbirciare. Quello intento a staccare il manifestino si volta, e mi agita il manganello davanti al naso.
«Via, via, non c’è niente da vedere! Circolare!»
Minacciarmi con il manganello, a me! Razza di carogna infame, ai tempi del mio bisnonno il Duca Pallavicini ti avrebbero bastonato a morte per quest’affronto, e lasciato a crepare con la testa infilata in una latrina, ché a ficcarti la punta del fioretto nel cuore sarebbe stato farti troppo onore!
Per sbollire la rabbia mi infilo nella pasticceria delle Sorelle Berardengo. Il profumo zuccheroso dei babà al rum e delle tortine all’arancia mi calma un po’. Ma domani presenterò senz’altro un esposto al Viceré britannico, ché questi sbirri italiani delle colonie non dovrebbero esser mandati di ronda senza un vero bianco a comandarli, o perlomeno non dovrebbero aver giurisdizione sui cittadini britannici, che diamine.
Esco con un sacchetto di sfogliatelle alla crema al whisky, sapendo già che poi mi pentirò scoprendo che la circonferenza del petto mi è aumentata di un altro pollice, ché da un po’ di tempo a questa parte sembra che tutto ciò che mangio vada a finire solo lì e basta.
Un manifestino è finito tra il cassone dell’immondizia e il bordo del marciapiede. Faccio un rapido controllo, i gendarmi non sono più in vista. Con discrezione mi chino e lo raccolgo, e lo nascondo nella borsetta. Mi allontano un po’ prima di ritirarlo fuori.

Svegliati Zena, apri gli occhi…
*** NESSUN UOMO È MAI ***
** STATO SU MARTE! **
Rigetta le sue menzogne in faccia
all’invasore britannico!
Boicotta l’Expo 1912!
È il Vero Re che te lo chiede!

Ohibò, questa poi è proprio bella. E mio padre allora, che fu il primo uomo a posare il piede sulle sabbie marziane nel 1894, un anno prima che io nascessi?

Oh ma non vedete che l’uomo non è mai stato sulla Luna Marte? SVEGLIAAA!

2.
Col grembiule tirato su a scoprirgli la pancia tonda, che trema come gelatina, il Signor Luciano mugola accompagnato dai gemiti del nastro trasportatore. Lo cavalco quasi nuda, con indosso solo le mie calze alla parigina, lui mi accarezza le cosce appena più su della calza. Il nastro ci trascina lungo le guide per tutto il perimetro della fabbrica, lui steso supino e io sopra a cavalcioni. Un paio di varianti nel percorso vanno a formare due grandi otto sbilenchi.
Ho la pelle d’oca, e il petto imperlato di sudore nonostante l’aria gelida che soffia dai bocchettoni refrigeranti. Gli scossoni del nastro mi fanno ballonzolare i seni. I miei capezzoli guardano in avanti, un po’ verso l’alto, tondi e duri come caramelle. Il Signor Luciano solleva le mani callose unte di grasso, mi afferra le mammelle e me le strizza forte.
Il nastro scorre fra le postazioni di lavorazione del tonno sott’olio come il trenino della Piccola Fabbrica degli Orrori al Luna Park. Ganci, pinze, ugelli, bracci meccanici, seghe a nastro. Tutto è immobile, ma gli sbuffi di vapore che ci investono al passaggio fanno capire che le macchine sono solo addormentate. Mi preoccupa l’idea che uno dei bracci articolati si rianimi all’improvviso e mi infili un uncino in un occhio. Il ronzio elettrico dei generatori vibra nel capannone di lamiera come uno sciame di calabroni impazziti, il motore a vapore principale copre i miei ansiti e i versi da tricheco del Signor Luciano, che sta aggrappato al nastro di gomma e ha gli occhi girati all’insù.
Il Signor Luciano non somiglia per niente a Padre Mizzi, che era giovane e bello come un Apollo e ci faceva stare nude inginocchiate sui ceci durante il sacramento della confessione, perché, diceva, “la nostra anima deve essere nuda dinnanzi al Signore”. Però, anche se è vecchio e grasso e peloso, il Signor Luciano ha un pene che è quasi due volte quello di Padre Mizzi. Dopo un quarto d’ora che lo cavalco devo pensare a qualcosa per distrarmi, altrimenti rischio di godere, e sai che figuraccia da sgualdrina?

Tabella riassuntiva

Ottima protagonista: tettona ma al contempo eroica e complessa. Inizio lento e dalla natura troppo ‘episodica’.
Ambientazione steampunk diversa dal solito e piena di trovate Nella prima parte del libro Barbara Ann non sembra davvero in pericolo.
Pov immersivo e prosa ‘mostrata’.
Rigore scientifico ovunque possibile.


(1) Ci sarebbe, a dire il vero, anche Assault Fairies di Gamberetta, di cui era stata autopubblicata la prima parte già nel lontano 2011. Ma ad oggi, Assault Fairies è – ahimé – ancora incompiuto. Spero che Gamebretta riesca prima o poi a finirlo perché era veramente figo.Torna su