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Let’s go Spelunking

SpelunkingTra il 4% e il 10% (a seconda dello studio a cui preferite credere) della popolazione mondiale soffre di una forma acuta di claustrofobia. E anche chi non rientra in questa casistica, ricorderà magari situazioni in cui si è trovato costretto in piccoli spazi senza una comoda via d’uscita (magari giocando da piccoli, oppure quella volta che siete rimasti bloccati in ascensore, o che non riuscivate più a muovervi in mezzo a una folla). Vi ricorderete come vi si è chiusa la gola; quel senso di oppressione che vi serrava i muscoli degli arti, il bisogno disperato di agitare braccia e gambe, l’impossibilità di pensare lucidamente.
Chi si occupa di narrativa dell’orrore deve aver colto in fretta il potenziale di quella fobia. Con l’esagerazione esponenziale dell’horror, quel disagio che possiamo aver provato da piccoli trovandoci imprigionati sotto il letto diventa l’incastrarsi in un budello in un complesso di gallerie trecento metri sotto il livello del suolo, l’essere sepolto vivo, il rimanere intrappolati da una frana. Questo, in una parola, è lo spelunking horror.

Quanto queste cose potessero far paura l’aveva già capito Edgar Allan Poe, quando scrisse il suo celebre racconto La sepoltura prematura (in assoluto uno dei suoi più terribili). E in un certo senso, anche al cinema, è come se lo spelunking horror fosse sempre esistito. Ma è solo negli anni 2000, con l’uscita ravvicinata di una serie di pellicole con questa ambientazione – e, in particolare, di un gioiellino indie di cui parleremo più sotto – che il genere acquista un nome e un’identità definiti.
Come parlare di Apeshit ci ha portati ad approfondire il sottogenere horror della “cabin in the woods”, così la menzione di Clusterfuck mi sembra un’ottima occasione per approfondire lo spelunking horror. Da persona completamente anestetizzata, dopo anni di fruizione, alla violenza dell’horror classico, sono il primo a dire che lo spelunking horror riesce ancora a mettermi a disagio, e che ha un’incredibile potenziale orrorifico. La costrizione fisica degli spazi stretti, la sensazione di essere prigionieri a chilometri dalla civiltà e da chiunque possa aiutarci, la pura e semplice paura del buio, le creature innominabili che si muovono in questi recessi sotterranei – si può mettere in piedi un cocktail veramente agghiacciante.

Spelunking Horror

Non dimentichiamoci i mostri. I mostri ci vogliono sempre.

Ma bisogna esserne in grado.
Vi presenterò ora due film – un “classico” del genere (se così vogliamo dire di un film che ha una decina d’anni) e uno appena uscito. Ma potrei anche dire – un esempio di spelunking horror fatto bene, e un clamoroso fallimento. Analizzandoli, potremo vedere in azione i ‘meccanismi’ di un buon spelunking horror, cosa funziona e cosa invece non ha funzionato. E magari qualcuno di voi ne sarà pure ispirato.

The Descent
The DescentRegista:
 Neil Marshall
Sceneggiatura: Neil Marshall
Titolo italiano: The Descent – Discesa nelle tenebre
Genere: Horror / Splatterpunk

Durata: 100 minuti
Anno: 2005

Sarah e le sue amiche del cuore Juno e Beth sono ragazze sportive; ogni volta che possono, abbandonano la vita di città per andare a fare arrampicata, o rafting, o altre attività impegnative immerse nella natura. Ma la felicità di Sarah si spezza il giorno in cui, di ritorno da una di queste escursioni, suo marito e la sua figlioletta muoiono in un incidente con un camion. Da allora Sarah non è più la stessa.
Le sue amiche vogliono ridarle fiducia in sé stessa. Un anno dopo la tragedia, con un gruppo di altre tre ragazze decidono di lanciarsi in una nuova avventura: l’esplorazione di un suggestivo sistema di grotte in mezzo ai boschi. Ma quella che era partita come una bella gita si trasforma in un incubo quando, non molto dopo l’entrata nella grotta, una frana chiude la via d’uscita alle loro spalle; e soprattutto quando Juno, l’organizzatrice, confessa di aver condotto le sue amiche non nel sistema di grotte promesso, ma in delle nuove caverne appena scoperte e completamente inesplorate. Ora, nessuno sa dove sono, e non sembra esserci via di fuga. E non è neanche questa la cosa peggiore: perché in queste caverne in cui mai uomo è stato prima, sembra ci sia qualcosa che si aggira nell’ombra… e non ha buone intenzioni. Riusciranno le nostre eroine a sopravvivere?

The Descent è il film che ha popolarizzato e dato dignità al genere dello spelunking horror; e, come tante delle pellicole che portano una ventata di nuovo nel genere, è una produzione indie. The Descent ha tutti gli elementi classici dell’horror: l’esplorazione di grotte dimenticate da Dio, frane che chiudono la via di fuga e costringono le nostre eroine a proseguire sempre avanti e sempre più in basso, e creature ancestrali e feroci che tenteranno di divorarle. E ovviamente tanto, tanto sangue e sbudellamenti.
Ma The Descent ha anche tutta una serie di elementi innovativi che attirano subito l’attenzione:
1. Un cast di sole donne. Aldilà del personaggio del marito della protagonista – che comunque appare per i primi due minuti di film e subito muore orribilmente – non c’è un solo uomo nel film; e questo, per un genere codificato come l’horror, è abbastanza bizzarro 1. Ma la scelta funziona benissimo. Questo cast tutto femminile, oltre a rompere tutta una serie di stereotipi (introducendo donne atletiche, che cercano il pericolo e sanno badare a sé stesse), il che va sempre bene, porta sullo schermo qualcosa che non siamo molto abituati a vedere nella narrativa: l’amicizia femminile.

Trailer ammerigano di un film british.
E’ abbastanza brutto ma meglio che niente.

2. E l’inimicizia femminile. Altro pregio del film è aver saputo creare psicologie convincenti e, di conseguenza, degli interessanti conflitti interni al gruppo. Non sono solo i mostri che si annidano nell’ombra il pericolo – perché già tra alcune delle ragazze c’è attrito, un attrito che andrà intensificandosi mano a mano che la situazione diventa più pericolosa, mettendo ancora più a rischio le loro chance di sopravvivenza. L’antagonismo latente tra la protagonista Sarah e l’arrogante amica Juno – colpevole non solo di averle gettate in questa situazione portandole a loro insaputa in un sistema di grotte sconosciuto, ma anche di avere avuto una tresca col defunto marito di Sarah – in particolare è sviluppato molto bene.
3. L’ambiguità morale. I film horror convenzionali hanno una morale piuttosto rigida; che sia esplicita o un sottotesto latente, la regola è sempre che sopravviverà chi è “puro di cuore”, mentre le puttane e gli arroganti moriranno di una morte orribile. Benché The Descent non abbandoni del tutto questi ruoli (Sarah è comunque la protagonista algida e un po’ depressa, Juno la stronza amorale), i confini tra il giusto e lo sbagliato si fanno più sfumati. Anche la protagonista nel corso del film compierà scelte discutibili, e alla fine non sarà certo la bontà ad essere premiata. E anche per quanto riguarda Juno, del resto, si è sempre incerti se scrivere il suo nome sotto “buoni” o sotto “cattivi”.

Ma l’elemento più forte del film è sicuramente l’essenzialità con cui viene costruita la storia. Alla fin fine, The Descent è la storia di un gruppo di ragazze troppo sicure di sé, che per dimostrare la propria bravura finiscono per cacciarsi in qualcosa di più grande di loro. Tutta la prima parte, prima che entrino in gioco i “mostri”, è dannatamente credibile, e chissà quante volte nel mondo reale sono capitate situazioni simili. Assistere alla scena di una ragazza che rimane incastrata in un budello mi ha provocato un disagio fisico e acuto (e io non sono particolarmente claustrofobico): la sensazione di non potermi più rigirare, non potermi più muovere come vorrei, e non poter uscire né tornare indietro. E ancora, l’orrore nello scoprire di essere intrappolati nelle grotte, metri e metri sottoterra, senza nessuno che sappia dove ti trovi… Tutte queste situazioni creano un malessere reale, se si è in grado di identificarsi nei personaggi della storia.
E con un’impostazione così essenziale e credibile della trama, anche quando l’elemento sovrannaturale arriva, lo accettiamo spontaneamente – perché nulla, fino a quel momento, ci era parso forzato. Così continuiamo a seguire le peripezie delle sei ragazze, mentre braccate da creature innominabili sprofondano sempre più negli abissi di questo inferno sotterraneo in cerca di una seconda uscita.

The Descent

La fotografia di alcune scene, poi, è davvero molto bella.

The Descent non è perfetto, e alcuni passaggi si sarebbero potuti fare meglio. Il prologo del film, per esempio, ha un ruolo puramente funzionale (introdurre i tre personaggi principali e mostrarci il trauma della protagonista, ossia la morte inaspettata di marito e figlia), ma è gestito in maniera parecchio goffa. Introdurre un personaggio per poi ucciderlo subito dopo non è esattamente il modo migliore per farci affezionare a lui; e l’episodio si lega così poco con tutto il resto del film da suonare debole. Ci dovevano essere mille altri modi più eleganti per introdurre la depressione della protagonista.
Ma The Descent rimane comunque una delle cose più belle che si possa fare all’interno dell’horror “coi mostri”. L’odissea sotterranea delle sei spelunker mi ha coinvolto e colpito allo stomaco come non mi succedeva da anni. Il vederle scendere sempre più in profondità, in una situazione di così evidente inferiorità rispetto alle minacce del luogo, e senza apparente via di fuga – il chiedersi “come diavolo farà almeno una di loro a sopravvivere?”.
Un ultimo consiglio prima di scaricarvelo o cercarvi lo streaming: assicuratevi di stare guardando la versione completa del film. All’edizione uscita nei cinema americani, infatti, è stato tagliato l’ultimo minuto circa di pellicola (sempre per la ragione: “altrimenti non piacerà al pubblico”). E quell’ultimo minuto cambia molto il finale e il senso del film. Quindi fate attenzione.

As Above, so Below
As Above So BelowRegista:
 John Erick Dowdle
Sceneggiatura: John Erick Dowdle
Titolo italiano: Necropolis – La città dei morti
Genere: Horror

Durata: 90 minuti
Anno: 2014

Si dice che Nicholas Flamel, uno dei più illustri alchimisti della storia, avesse scoperto la pietra filosofale prima di morire. E se la pietra esistesse ancora, da lui personalmente nascosta dove soltanto una persona degna sarebbe stato in grado di trovarla? E’ quello che pensa Scarlett Marlowe, archeologa coi controcazzi che ha deciso di dedicare la sua intera carriera a realizzare il sogno del suo defunto padre – dimostrare che la pietra filosofale è esistita realmente. E ora Scarlett, seguendo una serie di ambigui indizi rinvenuti in Iran, si è convinta di aver scoperto dove è nascosta: nel punto più profondo delle catacombe di Parigi.
Con l’aiuto dell’amico nonché cameraman Benji, e della sua vecchia fiamma George – il cui merito più grande è di conoscere l’aramaico a menadito – Scarlett assolderà un pugno di teppisti esperti di esplorazione delle catacombe per farsi guidare nella parte chiusa al pubblico. Ma la via per trovare il segreto di Flamel si rivelerà più ardua del previsto, e l’asfissia e il rischio di crolli degli stretti cunicoli sotterranei il minore dei pericoli. Qualcosa di malvagio si aggira infatti nelle catacombe di Parigi – una forza sovrannaturale capace di giocare con le paure degli uomini e far tornare in vita i loro terrori più profondi.

As Above, So Below è un esempio da manuale di come si possa prendere una premessa perfetta e poi sbagliare praticamente tutto ciò che può essere sbagliato. C’erano gli elementi per confezionare un film davvero agghiacciante. Una location che fa rabbrividire anche nella realtà, ossia le catacombe di Parigi (e mi riferisco alla parte chiusa al pubblico – uno stretto e complicatissimo complesso di cunicoli, con diverse entrate sparse per le aree degradate della città, puntualmente chiuse dalla polizia e puntualmente riaperte da vandali e tagger); la sensazione che “se la sono andata a cercare”, andando a compiere qualcosa di sfacciatamente illegale; la regia da found footage, dato che tutto il film è girato col pov di una serie di telecamere amatoriali montate sui caschi dei protagonisti.
Come in The Descent, anche questo film avrebbe potuto raccontare la semplice storia di un gruppo di ragazzi che, per divertimento o per sfida, si infilano in zone inesplorate delle catacombe di Parigi e si scontrano con un orrore sovrannaturale a cui non erano preparati. Pulito, essenziale. Invece no: la trama di As Above, So Below si deve portare dietro tutta una sovrastruttura complicatissima di mitologia, folklore, leggende alchemiche, artefatti miracolosi, iscrizioni in lingue antiche e troiate simili. La sola premessa della storia – archeologa fuori di testa che costringe un pugno di sfigati a seguirla alla ricerca di una pietra mitologica, perdio, contro ogni buonsenso – è talmente retard da far venire voglia di uscire dalla sala.

Trailer italiano del film. Forse l’avrete visto al cinema.

Ma non è solo una questione di sospensione dell’incredulità. Tutto questo livello della trama è così pesante e ingombrante, da soffocare completamente quello che dovrebbe essere il vero cuore del film, ossia il terrore di navigare in gallerie sotterranee abbandonate da secoli. Nel bel mezzo dell’esplorazione, infatti, i personaggi si metteranno a leggere iscrizioni in aramaico – e glissiamo sulla tristezza dell’idea, che era già pessima cinquant’anni fa, dell’espertone che si trova davanti dei geroglifici e tac!, li traduce a braccio – o addirittura a risolvere enigmi basati sull’astrologia o la poesia. Al terzo o quarto enigma ero così sconvolto che avrei voluto gridare allo schermo: “Ragazzi! Non siamo in un videogioco! Anche se non mi metti un puzzle ogni dieci minuti sono contento lo stesso!”.
Tutti questi siparietti finto-occultistici, manco a dirlo, non fanno che distrarre dall’elemento orrorifico del film. Siamo sottoterra in caverne infestate da chissà che maledizione demoniaca, e dovremmo essere paralizzati dal terrore; ma niente, i protagonisti si mettono a risolvere enigmi accademici, e la tensione si azzera. Di colpo, ci rendiamo conto che non stiamo vivendo una storia dell’orrore, ma guardando una brutta puntata di Mistero. E la cosa peggiore, è che non solo queste scene rovinano l’atmosfera e distraggono dall’elemento di forza della pellicola – ma non aggiungono niente. Perché la storia filerebbe alla perfezione anche senza di essi.

L’aggiunta dell’elemento occultistico, tra l’altro, rovina completamente un altro tratto potenzialmente affascinante del film. L’atmosfera delle catacombe parigine mi ricordava un po’ quella di Silent Hill. Come in Silent Hill, il “nemico” non prende la forma di una creatura definita, ma piuttosto di un’aura di sbagliato che altera le leggi della fisica, rende possibile l’impossibile, e dà forma ai traumi inconsci delle persone. Così, per esempio, il sentire un telefono che squilla mentre si esplora un tunnel del Settecento, per poi trovarsi davanti un telefono degli anni settanta su un tavolino, suscita all’istante l’inquietante sensazione di illogicità tipica silenthilliana: “questo oggetto non dovrebbe essere qui. Non può essere qui”. E soprattutto, la domanda: “Questa cosa che sto vedendo, è reale, o sto lentamente impazzendo?”.
L’intero film si sarebbe potuto giocare, fino all’ultimo, su questa incertezza – il dubbio che in fondo, come il Silent Hill 2, tutto potrebbe essere nella testa del protagonista, un’allucinazione, o quantomeno la manifestazione tangibile del proprio senso di colpa represso. Ma questa possibilità è eliminata fin dall’inizio. Perché in un mondo in cui l’occultismo è reale, e Satana, e l’inferno dantesco, e l’astrologia sono reali, allora quelli che si stanno affrontando sono veri demoni di una qualche cosmologia, e tutto prende ancora una volta la classica forma della lotta Bene VS Male, o quantomeno Umano VS Mostri. Saranno anche più immateriali e ambigui, ma rimangono pur sempre mostri.

Catacombe di Parigi

Uno sguardo alle vere catacombe parigine, nella parte chiusa al pubblico.

Nonostante qualche occasionale lampo di genio, e nonostante la bontà dell’idea che dà il titolo al film, As Above, So Below è un disastro assoluto. Dal nonsenso della premessa all’illogicità delle scelte dei personaggi, dall’impossibilità di immergersi nell’atmosfera inquietante delle catacombe alla noia assoluta della risoluzione degli enigmi, ogni elemento sembra contribuire a rendere l’esperienza sgradevole. E questo perché il regista non ha capito quali elementi fossero funzionali alla sua storia e quali no.
L’unica cosa in cui posso sperare, è che qualcuno in futuro veda il potenziale che questo film non ha saputo sfruttare e ne tragga, finalmente, una pellicola – o un romanzo, perché no – degna. Perché uno speluking horror psicologico e allucinato è la storia che ancora ci manca. E una storia che potrebbe essere fantastica.

Ma alla fine, la verità pura e semplice è un’altra.
Lo spelunking horror definitivo, l’esperienza del trauma di morire ancora e ancora e ancora nelle profondità di una grotta colma di orrori innominabili, l’ansia portata a nuovi livelli, esiste già. Ha la forma di un videogioco. Ed è assolutamente terribile.

Trailer esteso di Spelunky. Uno dei videogiochi più crudeli e perversi che siano mai stati concepiti.

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(1) Basti pensare alla bagarre che si era scatenata sullo script iniziale del film di Silent Hill, che prevedeva anch’esso un cast di sole donne. I produttori costrinsero regista e sceneggiatore a inserire un personaggio maschile che facesse da parte alla protagonista; nacque così tutta la storyline di Christopher, il marito della protagonista Rose Da Silva.
In quel caso (come spesso accade) la scusa era: “la gente non andrà mai a vedere un film con soli personaggi donne. Devi inserire un personaggio maschile in cui lo spettatore teenager maschio medio possa identificarsi”. Stronzate, ma che ci vuoi fare.Torna su

I Consigli del Lunedì #43: Apeshit

ApeshitAutore: Carlton Mellick III
Titolo italiano: –
Genere: Horror / Splatterpunk / Bizarro Fiction
Tipo: Romanzo breve

Anno: 2008
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 160 ca.

Difficoltà in inglese: *

Desdemona, Crystal, Jason, Rick, Kevin e Stephanie non sono dei liceali qualsiasi: sono i più ricchi, belli, popolari e snob della scuola. E sono pronti a partire sul loro fuoristrada per trascorrere un weekend di festa, birra e scopate epiche nella vecchia casa nel bosco del nonno di Jason. Non sanno che in quei boschi, ai margini della civiltà dove non prende neanche il cellulare e non ci sono abitazioni per miglia e miglia, si aggirano esseri atroci, dalla ferocia primordiale e cervelli grandi come noci.
Ma le creature che si nascondono nel bosco potrebbero anche essere l’ultimo dei loro problemi. Con delle storie disturbanti alle spalle, ciascuno dei sei adolescenti nasconde un orribile segreto agli altri. E quando questi segreti verranno alla luce, le conseguenze saranno imprevedibili. Li aspetta un weekend che non dimenticheranno.

Carlton Mellick aveva sempre desiderato sceneggiare un b-movie horror. “The typical cliché involving a group of teenagers in the woods getting killed off one at a time for some reason or another is my personal favorite” spiega nella Nota dell’Autore all’inizio del libro. “I wanted to do something like that, yet give it a little twist.” Apeshit è esattamente questo: una storia che parte da un setting familiare – la casetta di legno nel bosco nella terra dei redneck – per poi prendere, a poco a poco, direzioni inaspettate e finire in un modo completamente nuovo. E tuttavia: “The problem with starting a book with a goofy idea is that they rarely end up as comedies. Apeshit isn’t as goofy as I wanted it to be. In fact, it’s pretty fucked up. I didn’t want to write something so fucked up, but I guess I really couldn’t control the story. It wanted to go in its own direction”.
Apeshit è un romanzo particolare, nella sua miscela rara di umorismo nero, scene retard, e gore estremo. A differenza di altri romanzi di Mellick che sono apparsi su Tapirullanza – come The Haunted Vagina o Warrior Wolf Women of the Wasteland – non è un buon punto di partenza per chi non abbia mai approcciato al genere, perché la descrizione molto grafica di smembramenti, fluidi corporei e torture in cui pian piano la storia degenera potrebbe rivoltare gli stomaci più sensibili. Cominciamo quindi la nostra peregrinazione nell’horror da un autore familiare; setterà il mood per gli articoli successivi…

Jason meme

Uno sguardo approfondito
Apeshit è diviso in sei capitoli (più un epilogo), ciascuno con il nome di uno dei sei personaggi. Uno quindi si aspetterebbe che ognuno dei capitoli sia raccontato dal pov del personaggio che gli dà il nome, o che quantomeno metta quel personaggio al centro. Invece no. E qui sta la prima, amara sorpresa: Apeshit è scritto con un pov onnisciente. Come se davvero stessimo guardando un film, con una telecamera che inquadra e zoomma ora questo, ora quel personaggio, così la narrazione di Apeshit slitta continuamente dentro e fuori la testa dei suoi personaggi e da un personaggio all’altro – anche nel mezzo di una scena.
Poche pagine dall’inizio del libro, ci sono due personaggi: Stephanie, che si è chiusa in bagno (lei si chiude sempre in bagno a piangere), e Crystal, fuori, che le chiede se sta bene. Il paragrafo inizia dentro la testa di Stephanie (“She really doesn’t want to go on the trip, but she’s thankful she’ll be able to get away from home for a while”), ma pochi a capo dopo siamo nella testa di Crystal: “Crystal can hear her [Stephanie] breathing.” Tutto il libro è scritto così. Alle volte, proprio come in un film, vediamo anche cose che nessun personaggio può vedere; come quando, verso la metà del libro, il narratore onnisciente dice di Stephanie: “She doesn’t notice that the outside lamp has been smashed with a rock.”

Al contempo, un’altra scelta stilistica di Mellick va nella direzione opposta di questo stile cinematografico: l’abuso di raccontato. Vuoi perché deve raccontare le backstory di tutti i sei personaggi, vuoi per tenere la narrazione snella e il ritmo rapido, vuoi per pigrizia, Mellick racconta un sacco le emozioni, i pensieri e il passato dei suoi protagonisti invece di mostrarli. Un esempio, sempre preso dalla scena tra Stephanie e Crystal: “Crystal realizes that something else is going on. […] Crystal doesn’t push the issue. She knows Stephanie has major emotional issues and that she doesn’t like to talk about them. She knows that Steph prefers to keep that kind of stuff hidden deep inside of her so that she can pretend it doesn’t exist.” Un approccio simile è sicuramente comodo da scrivere per l’autore e dà velocità alla storia, ma alla lunga suona solo come una soluzione pigra e poco coinvolgente.
Il risultato combinato di queste due cattive trovate stilistiche – il raccontato e il pov onnisciente/ballerino – ormai lo conosciamo: minore immersione e identificazione nei personaggi, maggiore distacco emotivo, occasionale confusione nel capire le posizioni reciproche dei personaggi nella scena (anche se in questo Mellick è molto bravo e non perde mai traccia, almeno lui, di dove sia e cosa stia facendo chiunque in qualsiasi momento). Sul piano dell’immersione, Apeshit è un oggettivo passo indietro rispetto a opere come The Haunted Vagina o il coevo The Egg Man, che avevo lodato per la vividezza dei dettagli.

Chainsaw Massacre meme

Bisogna quindi fare un vero plauso a Mellick, se nonostante tutti queste oggettive debolezze stilistiche, Apeshit si legge che è un piacere, e si fa obiettivamente fatica a metterlo giù. E come fa Mellick a creare questa alchimia? Ho trovato almeno tre motivi.
In primo luogo, il setting familiare. La trama segue rigorosamente tutte le tappe del canovaccio da film “cabin in the woods”: la scena iniziale con i giovani che si ritrovano e caricano la roba in macchina, la fermata alla pompa di benzina gestita da vecchi redneck sdentati, il sentiero ripido fino alla follia per arrivare alla casa, la casetta piena di cose creepy lasciate dal vecchio proprietario, la notte di bagordi, l’apparizione dei “mostri” nel cuore della notte. Questo susseguirsi di elementi riconoscibili ci rassicura, il nostro cervello non deve fare sforzi per seguire la trama (sa già più o meno cosa succederà) e quindi si legge in modo scorrevole.

Ma se fosse tutto qui, finiremmo per annoiarci: perché devo leggere l’ennesima storia sempre uguale? E’ qui che salta fuori il genio di Mellick, che fin dalle prime righe dissemina questo canovaccio collaudato di piccole stranezze ed elementi che non tornano. Il libro si apre sul personaggio di Desdemona, che già di per sé è una tipa parecchio strana: vice-capo cheerleader, popolarissima e bellissima, senza motivo è stata presa negli ultimi mesi da una mania per i tatuaggi. Ogni lembo della sua pelle è ora coperto di tatuaggi di farfalle di vari colori e dimensioni; ciliegina sulla torta, si è rasata i capelli e si è fatta la cresta. E Des, salterà fuori, è ancora il personaggio più normale dei sei.
Ogni poche pagine, Mellick introduce un nuovo elemento strambo, o nel presente o come backstory di uno dei protagonisti. In questo modo, l’attenzione del lettore rimane sempre viva: perché nonostante la storia principale proceda su binari collaudati, non sai mai esattamente cosa succederà dopo, o quale nuovo dettaglio inquietante scoprirai sui protagonisti. Grazie a tutti questi plot hook, il ritmo della trama rimane sempre elevatissimo, e si legge l’intero romanzo senza mai un momento di stanca. Il semplice, continuo shiftare tra l’azione al presente e gli episodi di vita passata di ciascuno dei sei ragazzi dà ritmo alla storia.

Friday 13th

Gli assassini seriali dei camp horror sono piuttosto esigenti.

E infine, il vero capolavoro sono i personaggi stessi. Se il classico film alla Cabin Fever ci presenta davanti degli stereotipi privi di profondità, in Apeshit capiamo da subito che i sei ragazzi sono una bella collezione di freaks, ciascuno con il suo bagaglio di conflitti esterni (verso gli altri personaggi) e interiori. Desdemona è in una relazione a tre con Rick, il suo ragazzo di lunga data, e Kevin, il loro migliore amico; ma entrambi nascondono agli altri due un segreto che hanno intenzione di rivelare durante la gita. E la loro storia, all’apparenza molto piccante, cela in realtà una serie di insoddisfazioni e ripicche.
Crystal, la migliore amica di Desdemona, è la tipica ragazza perfettina, disgustata da qualsiasi cosa sia brutta o sporca (e specialmente all’idea di mangiare il cibo degli altri!); ma in realtà nasconde un fetish sessuale assolutamente disgustoso, che condivide unicamente con il suo ragazzo, Jason. E anche per Jason, ha in serbo una sorpresa che gli rivelerà solo durante il weekend. Quanto a quest’ultimo, ve lo raccomando: cresciuto dal padre nella convinzione che deve pensare solo a sé stesso e non deve avere paura di nessuna cosa al mondo, è diventato un macho psicopatico con una visione molto particolare della realtà. E infine anche Stephanie, ragazza costantemente depressa e con alle spalle una famiglia abusiva e perversa, nasconde un segreto – una mutazione genetica che la rende diversa da tutte le altre.
Nonostante questi sei ragazzi ci vengano mostrati da subito come un pugno di egocentrici viziati e figli di puttana – l’esatto tipo di persone che vedremmo volentieri sbudellate da una banda di redneck mutanti – e nonostante lo stile distanziante adottato da Mellick, nel corso della storia ci affezioneremo talmente alle loro personalità disturbate e ai loro problemi individuali, da sentirli vicini e soffrire con loro per le sventure che gli capiteranno.

Quanto a queste sventure, Apeshit è una vera e propria festa di sangue, arti che saltano, sesso disturbante, vomito, merda, sbudellamenti, torture fisiche e psicologiche. Parte calmo, e cresce con calma, ma l’ultimo capitolo è una vera e propria festa del gore – siete avvertiti. Il punto di vista distaccato mitiga un poco la violenza delle scene, ma Mellick non risparmia i dettagli truci. Tuttavia, non ho mai avuto l’impressione che si trattasse di scene buttate lì a caso per sconvolgere: ogni brutalità è una diretta conseguenza della psicologia dei personaggi, e a sua volta serve a sviluppare i conflitti tra loro e a portare avanti la trama.
Trama che ha una sua logica ineccepibile. Un sacco di elementi disseminati nel corso della storia, che inizialmente sembrano messi lì solo per il gusto di scioccare o dare un tono “eccessivo” alla storia – come la massa di animali morti che i protagonisti trovano sulla strada che porta alla casa – trovano alla fine una spiegazione perfettamente sensata, tante pistole di Cechov introdotte con apparente nonchalance e fatte poi sparare al momento giusto. Il finale è un capolavoro, non ho altre parole per descriverlo.

Hostel

Pfff… dilettanti.

Benché minato da uno stile discutibile, non ho problemi a dire che Apeshit è un piccolo capolavoro – non solo una delle cose migliori che Mellick abbia mai scritto, ma anche una delle più belle trame splatterpunk in cui mi sia mai imbattuto. Le sue dimensioni ridotte (si legge in una giornata), il ritmo incalzante e il setting familiare la rendono una lettura accessibile e ottima a tutti coloro che sono poco familiari con il gore, ma vogliono provarlo. Insomma: è una di quelle letture che ti restituiscono fiducia nel genere horror.
E a tutti coloro che già saranno pronti a dire: “sì, dì quello che vuoi, ma alla fine è solo un’altra roba scritta per il gusto di sconvolgere” (lo so che ci sei, Mikecas ^-^), non posso che rispondere citando un altro pezzo, molto bello, della Nota dell’Autore:

A few weeks ago, I was talking to Chuck Palahniuk about the whole “shocking for the sake of being shocking” thing, because both of us are regularly accused of doing this. I told him that I’m just trying to be interesting for the sake of being interesting. Whether I succeed or fail at being interesting, that’s up to the reader to decide, but I’ve never tried to shock anyone with my work. I didn’t think anyone actually gets shocked by anything anymore.
Chuck said that what some people view as interesting other people view as shocking. But shock fades with time. Eventually, people will see what is interesting about things that used to be shocking.

E se vi è piaciuto Apeshit: Clusterfuck
ClusterfuckGenere: Horror / Splatterpunk / Commedia nera / Bizarro Fiction
Tipo: Romanzo
Anno: 2013
Pagine: 240

A cinque anni dalla pubblicazione di Apeshit, Mellick è tornato alla sua ambientazione di boschi maledetti. Ma se il canone della prima storia era quello della “cabin in the woods”, per Clusterfuck il Nostro attinge dal filone meno conosciuto dello spelunking horror, ossia: gente che per un motivo o per l’altro – ma sempre pessimi – decide di esplorare grotte misteriose e antiche di millenni. Ovviamente rimarrà intrappolata nei cunicoli e si troverà di fronte orrori innominabili che li faranno a pezzi l’uno dopo l’altro. Vi avevo già accennato che non si tratta di un sottogenere particolarmente intellettuale?
In Clusterfuck, i protagonisti non sono più dei liceali, ma un pugno di frat boys – ossia ragazzi del college membri di una confraternita. Sono comunque dei riccazzi arroganti e con eccessi di testosterone, alla ricerca di emozioni forti: esattamente il tipo di persona che non ci spiacerebbe veder finire smembrata. I sei eroi – di nuovo, tre donne e tre uomini – si ritroveranno a esplorare delle grotte semisommerse negli stessi boschi del primo Apeshit, e a fare i conti con gli stessi orrori che avevamo intravisto nella prima opera.

Oltre a essere un vero e proprio romanzo (e quindi lungo circa il doppio di Apeshit), Clusterfuck è abbastanza differente dal suo precedessore. Se il primo, nonostante diversi momenti esilaranti e un certo distaccato sarcasmo nel tono narrativo, era soprattutto un romanzo drammatico (che assestava qualche sano pugno dello stomaco), Clusterfuck è una vera e propria commedia splatter. Aldilà di qualche scena ben riuscita – legata soprattutto alla claustrofobia nel muoversi negli spazi ristretti di una grotta sotterranea – Clusterfuck è un romanzo che fa sganasciare più che mettere ansia. I personaggi si esprimono come dei ritardati per la maggior parte del tempo; alcuni di loro hanno dei super-poteri nascosti; e le scene d’azione sono complicatissimi intrecci di mosse da action movie.
Clusterfuck è una storia valida e piacevole da leggere, ma sotto tutti i punti di vista è inferiore a Apeshit. In ogni caso, vi sconsiglio di leggerlo per primo. Anche se le storie che raccontano i due romanzi sono del tutto indipendenti, quello che è il grande plot twist finale di Apeshit – ed è veramente una bella scena! – in Clusterfuck viene “sputtanato” a metà storia con molta nonchalance: quindi a leggere per primo il secondo libro vi rovinereste la sorpresa.

Spelunking Hole

“Vuoi entrare nel buco?”

Dove si trovano?
Apeshit si può scaricare in lingua originale su Library Genesis (ePub e pdf) o su Bookfinder (solo pdf); una traduzione italiana al momento non esiste. Quanto a Clusterfuck, a causa della politica adottata da Mellick negli ultimi anni non solo non si trovano edizioni piratate, ma non esiste proprio una versione digitale – potete acquistarne una copia cartacea su Amazon alla “modica” cifra di 10,50 Euro (che a mio avviso è decisamente troppo rispetto al valore reale del libro, but do what you want).

Qualche estratto
Per i due brani di oggi, ho scelto una scena ambientata al “presente” della storia, e una digressione nel passato di uno dei personaggi. La scena al presente è quella in cui i protagonisti, sulla strada per la casa nel bosco, si imbattono nella marea di animali morti, in un crescendo sempre più grottesco. La scena di backstory – molto più breve – è riferita al personaggio di Stephanie; non è un grosso spoiler (siamo ancora al secondo capitolo), ma dà un’idea delle proporzioni di gore e disgusto assortito che assumerà pian piano il romanzo.

1.
The farther up the mountain they go, the more roadkill they pass. At first, the roadkill is only small birds and squirrels. Down a ways, they find dead rabbits, dead snakes, dead skunks, and dead possum. Stephanie counts the dead animals they pass. She wonders why so many of them have been run over on such a sparsely driven highway.
The road becomes bumpy. It has fallen into disrepair here, crumbled, cracked. The forest is trying to take back the highway. There is even more roadkill here, and Stephanie is surprised at the various species of dead animals that they pass. They are not your typical roadkill. They pass a dead porcupine, a dead weasel, dead goats, dead bats, dead pigs, a dead turkey, a dead beaver, a dead hawk, a dead peacock. Stephanie didn’t even know that all of these types of animals lived in this part of the country.
“Oh my god,” Stephanie says, as she sees something up ahead.
The others see it, too.
The highway up ahead is so dense with roadkill that the dead bodies are in piles covering the road. There are dozens of animal corpses here, most of them too mutilated to recognize.
“What the fuck?” Jason says.
“Holy shit.” Crystal nearly knocks the beer out of Jason’s hand as she points at the biggest pile of bodies. It is nearly five feet high.
Desdemona wakes up Rick so that he can check this out.
“This isn’t roadkill,” Stephanie says. “Something else is going on.”
“It’s like something else killed them,” Crystal says. “Like pollution or radiation.”
“Or some crazy redneck with an automatic rifle,” Jason says.
They drive slowly through the bodies. Whenever they roll over an animal corpse and they feel the side of the van raise, Crystal and Desdemona cringe.
“It’s like the fucking apocalypse,” Kevin says.
As the smell hits them, they all cover their noses with their shirts and roll up the windows.
“There’s probably some reasonable explanation for it,” Desdemona says.
“Like what?” Jason says.
“Because of the variety of animals, I bet it has to do with taxidermy,” Des replies. “Probably some taxidermist that lives up here drove down this bumpy road with his pickup truck filled with dead animals he planned to stuff. He probably didn’t secure them properly and they spilled out of the back of his truck.”
“Bullshit,” Jason says.
“It sounds reasonable to me,” Crystal says.
But the farther up they drive, the less they believe Desdemona’s explanation. Because up ahead, the animals are bigger. They pass a few dead deer, a dead cow, and a dead black bear.

“He could have had a big truck… ” Desdemona says.
“No way,” Jason says. “This is something far more fucked up.”
Desdemona says, “Well, it’s obvious that these things didn’t all die here. Somebody either put them here on purpose or dropped them here by accident. Perhaps some hunter without a permit dumped them here and—”
Des stops talking when she sees the hunter. There is a man with a rifle in a hunting outfit, lying twisted in the dirt on the side of the road. He is not moving and is covered in blood.

Roadkill

2.
Stephanie is in the upstairs bathroom crying again. She is brushing her teeth while crying. She needs somebody to talk to but she doesn’t know who. She’s really not that close with anyone. Crystal is the closest thing to her best friend but Steph is listed as sixth or seventh on Crystal’s best friend list. Stephanie saw the list in Crystal’s diary last year.
She looks in the mirror and pretends that her mirror image is a close enough friend to confide in. She tells the mirror image friend her problems. She tells it about how she’s sleeping with her brother. Not because she wants to but because she’s scared of what he will do to her if she refuses. She tells it about how he beats her and humiliates her, about how he makes her lick black ants off of his dick after school before their mom gets home. The ants bite her tongue as she sucks him. They bite his penis as well, but he says he likes the pain. He says that she should like it, too.
She brushes her teeth until her gums bleed, crying at herself in the mirror. Punching herself in the stomach until her bellybutton swells and bruises.

Tabella riassuntiva

Una variante eccezionale sul tema della “casa nel bosco”. POV onnisciente e ballerino.
Sei protagonisti straordinariamente originali. Uso massiccio di raccontato.
Ritmo incalzante dall’inizio alla fine. L’abbondanza di gore e scene forti potrebbe disturbare il lettore medio.
Colpi di scena a ogni angolo! Non sai mai come andrà a finire!

Sui frat boys, o: “I’m going to spelunk the fuck out of that cave!”

Frat BoyFino a che punto può spingersi uno scrittore per documentarsi sugli argomenti delle sue storie? Flaubert trascorse cinque anni della sua vita a leggere tutto ciò su cui poté mettere le mani per scrivere Salammbò, il suo romanzo storico ambientato nella Cartagine del III secolo a.C., e trascorse persino un periodo in Tunisia per assorbire l’atmosfera del luogo. Dick, per scrivere The Man in the High Castle, si chiuse per un anno nella sua biblioteca pubblica di fiducia a spulciare documenti di gerarchi nazisti (e in particolare i Diari di Goebbels).
Ma questo è niente rispetto a quello che ha fatto Carlton Mellick per scrivere il suo recente Clusterfuck, romanzo trash-horror ambientato nello stesso universo narrativo di Apeshit (novella a cui avevo accennato in questo vecchio consiglio dedicato ad altri due libri di Mellick). Dalla sua introduzione al romanzo:

…this book stars college girls and frat boys.
Frat boys are both the worst human beings on the face of the planet and the funniest human beings on the face of the planet, at the same time for the same reasons. In order to capture the frat boy mentality, I read every blog written by every frat boy I could find. This took quite a lot of endurance. I don’t recommend anyone ever attempt this, but the experience was horrible, funny, sad, terrifying, annoying, and strangely enlightening. And I hate to admit it, but I have since grown to emphatize with the average American frat boy despite all his faults. He’s not just the douchebag hooting in the back of the keg party, thinking he’s the toughest/hottest dude in the room. He’s also a human being with hopes and dreams and rich parents who sometimes don’t buy him every single thing he wants. And when nobody else is looking, he sometimes cries when he thinks of his chocolate lab, Stinko, who had to be put to sleep while he was away at college. He had Stinko ever since he was a puppy. He didn’t even get to say goodbye… It’s not fair, bro. It’s just not fair…

Confusi? Non sapete chi sono i frat boys? Neanch’io lo sapevo quando ho preso in mano il libro, benché la pletora di commedie americane sui college viste nelle mie estati adolescenziali avrebbe dovuto mettermi sulla giusta strada. Ci viene incontro l’Urban Dictionary:

A college kid who thinks he’s better than everyone else because he is in a fraternity. Some college kids are frat boys even though they aren’t in a fraternity. Frat boy behaviour is typified by drinking shitty beer, hitting on high school girls, making fun of punks, and wearing boring clothes. […] recognizable by:
1) caucasian ethinicity
2) sleeveless t-shirts
3) inane, misogynistic babble
4) the ginormous SUVs (usually F-150s or Suburbans) with jacked-up wheels they drive, especially with stereos blaring rap or metal
5) visors, especially if worn upside-down, backwards, or a savory combination of the two
6) excessive use of the word “faggot”
7) possession of 40 oz beers, cigarettes, marijuana, and/or beer kegs (full-size or pony). especially alcohol stolen from the local grocery store (see beer run).

As in: “Woah, look at that frat boy riding around in his giant monster truck with KC lights and the passed out girl in the passenger seat. I hope his truck tires blow out and he flips over and burns in a firey inferno.”

Non siete ancora del tutto convinti di aver inquadrato il soggetto? Permettetemi allora di mostrarvi del materiale di repertorio:


Is this the frat life?

Ora prendete personaggi del genere, shakerateli con delle fighette del college e gettate il tutto nel peggior canovaccio da spelunking horror 1, con tanto di cunicoli claustrofobici, buio e squartamenti. Otterrete un romanzo buono a farvi ghignare come dei deficienti per due o tre serate.
Bisognerebbe fare un monumento a Mellick per la sua dedizione al mestiere. Da un anno a questa parte, ha fissato come tabella di marcia di pubblicare quattro libri all’anno: uno per ogni trimestre, a Gennaio, Aprile, Luglio e Ottobre. Per ora ci sta riuscendo. E sembra – dico sembra, bisognerebbe leggerle tutte per verificare – che finora la qualità e la varietà delle storie rimanga abbastanza alta. E nel mentre, trova anche il tempo per bruciarsi il cervello sui blog dei bro. Notevole. Un cinque alto e una lattina di birra schiacciata sulla fronte per Mellick. Anche se continua a non pubblicare in formato digitale i suoi romanzi degli ultimi due anni e mezzo – that’s not cool, bro. That’s not cool at all.

Mi piacerebbe dedicare in futuro un articolo più lungo, e forse anche un Consiglio, a questo Clusterfuck – magari in tandem con Apeshit, in un grande post di celebrazione dell’horror di bassa lega. Quello in cui si ride con le gengive di fuori di fronte a vittime urlanti che vengono smembrate e violentate con gli arti mutilati dei loro amici morti… Ma cosa sto dicendo? Scusate, è l’effetto che mi fa questa roba.
Quello che volevo dire, è che il genere horror è poco rappresentato su Tapirullanza. Intanto, sondo il terreno e vedo se la cosa interessa. Vediamo cosa salta fuori.

The Descent Screenshot

Un fotogramma da The Descent, il capolavoro dello spelunking horror. Giusto per darvi un’idea.


(1) Non sapete cosa sia lo spelunking horror?
Prima cosa: siete degli sfigati. Period.
Seconda cosa: è un normale canovaccio horror, solo che avviene dentro delle caverne (to spelunk è l’attività di esplorare grotte). Di solito, coinvolge un gruppo di persone più o meno ritardate che entrano in un complesso di caverne semisconosciute all’uomo, finiscono intrappolate dentro e dovranno vedersela con legioni di mostri/mutanti orrendi. Anche se i film più famosi del genere sono usciti intorno alla metà degli anni 2000, il sottogenere non è mai diventato troppo famoso. Mi chiedo come mai.Torna su