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I Consigli del Lunedì #12: Behold the Man

Behold the ManAutore: Micheal Moorcock
Titolo italiano: I.N.R.I.
Genere: Science-Fantasy / Literary Fiction / Slice of Life
Tipo: Romanzo

Anno: 1969
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 150 ca.

Difficoltà in inglese: **

Karl Glogauer è un uomo infelice. Complici una madre vittimista e melodrammatica, figure paterne abusive, un retaggio ebraico-tedesco, bulleggiamenti scolastici assortiti, e cattive frequentazioni postadolescenziali, ma anche una certa propensione congenita al vittimismo e all’autodistruzione, alla soglia dei trent’anni Glogauer è una perfetta nullità. Nulla di strano se nel frattempo ha sviluppato un morboso attaccamento verso la figura storica di Gesù Cristo. Così come non c’è nulla di strano nel fatto che, non appena ha potuto mettere le mani su una macchina nel tempo, abbia deciso di viaggiare nella Galilea del 29 d.C., un anno prima della Crocifissione.
Ma qualcosa non va, nel passato: nessuno ha mai sentito parlare di Gesù di Nazaret, e Giovanni Battista sembra convinto che Glogauer sia un profeta mandato da Dio per liberare il popolo ebraico dalla schiavitù. Che cosa è successo? Cristo è esistito realmente? E soprattutto, come farà Glogauer a rimettere a posto le cose?

Behold the Man è un piccolo gioiellino che non avrei mai scovato se non avessi condotto un controllo incrociato della bibliografia di Moorcock e della collana dei SF Masterworks. In Italia è praticamente sconosciuto, e questo perché – come già The Sirens of Titan di Vonnegut, di cui ho parlato qui – è uno strano ibrido, di quelli che mi piacciono tanto, tra la narrativa fantastica e un certo tipo di letteratura mainstream-psicologica.
La narrazione segue due timeline parallele: da una parte le avventure di Glogauer nel 29 d.C., dall’altra una serie di flashback sulla sua vita, dall’infanzia all’incontro con la macchina del tempo e il suo progettatore. E mentre seguendo la prima timeline scopriamo che le cose non sono andate proprio come ci dicono i Vangeli, la seconda ci svela a poco a poco lo strano mondo interiore di quel borderline dickiano che è Glogauer.
Nel complesso, l’elemento psicologico-intimista prevale su quello fantascientifico, ma non arriverei a dire, come nel caso di Vonnegut, che gli elementi fantastici abbiano uno scopo puramente funzionale; le peripezie ucroniche del protagonista sono in grado di regalare una certa dose di autentico sense of wonder fantastorico, soprattutto se ve ne frega qualcosa del Cristianesimo.

Gesù bukkake

Potrebbe essere andata così…

Uno sguardo approfondito
La struttura di Behold the Man assomiglia a quella dei romanzi di Mellick di cui mi sono già occupato: una successione di brevi paragrafi di una o poche pagine. Ogni paragrafo costituisce una scena in sé conclusa, oppure un certo lasso di tempo raccontato in modo più sbrigativo (per esempio, un paragrafo è dedicato al primo periodo di permanenza di Glogauer tra gli Esseni). Questa struttura – che, a quanto ho visto, è ottima per le novellas e per i romanzi brevi – dà a tutta la storia un ritmo rapido, incalzante, che mantiene viva la curiosità del lettore e quindi la voglia di andare avanti.
Spesso, ma non sempre, l’alternarsi dei paragrafi coincide con l’alternarsi delle timeline. Per due pagine seguiamo l’atterraggio della macchina del tempo nel 29 d.C. e il soccorso che viene prestato a Glogauer, poi bam!, flashback su un momento significativo dell’infanzia del protagonista, e poi bam!, Glogauer riprende conoscenza in una caverna che puzza di sudore e pelle di capra. E così via. Questo alternarsi non crea confusione – perché segue delle regole precise, che il lettore afferra in fretta e a cui quindi si abitua – anzi al contrario evita il sopraggiungere di momenti di stanca. Spesso, poi, la transizione è facilitata dal fatto che il flashback riprenda temi, idee, pensieri del paragrafo immediatamente precedente – cosicché, nonostante lo stacco, si ha una sensazione di continuità, e che la storia sia tenuta insieme da un unico filo conduttore.
Certo, non sempre a Moorcock il trucco riesce. Alcuni flashback non c’entrano niente con quello che ci sta intorno, e non si capisce perché non siano stati infilati in altri punti del romanzo, o addirittura eliminati. In linea di massima i flashback seguono anch’essi un andamento cronologico – ossia, dall’infanzia di Glogauer ai suoi trent’anni – ma ogni tanto fanno salti avanti o indietro francamente inutili. Con un po’ più di attenzione in fase di editing, si sarebbe potuto evitare questo problema.

Così come si sarebbe potuto evitare un problema strutturale più grave, ossia una certa sproporzione tra la prima metà del romanzo e la successiva: la maggior parte dei flashback si accumulano tutti nella prima, scomparendo gradualmente nella seconda metà; viceversa, la parte ambientata in Galilea procede abbastanza lentamente per le prime 70-80 pagine, per poi accelerare vertiginosamente. L’ultima parte del libro, che copre grossomodo i sei mesi precedenti la Crocifissione, e che per molti versi sarebbe la più interessante, è trattata in maniera troppo sbrigativa – troppo, soprattutto, se confrontato coi dilungamenti della prima parte, quando Glogauer dimora tra gli Esseni. Maggiore uniformità nel ritmo e nella giustapposizione delle due timeline avrebbe migliorato il romanzo.
Tra le sbavature tecniche minori, poi, c’è la tendenza di Moorcock a inserire, ogni tanto, tra un paragrafo e l’altro, qualche piccolo inserto criptico dal sapore molto literary (vale a dire: cacca). Se li poteva risparmiare, perché non aggiungono niente e anzi danno l’impressione dello scrittore di genere coi complessi di inferiorità che se la tira da autore impegnato. Altre volte, specie all’inizio di capitoli, ma anche tra un paragrafo e l’altro, Moorcock inserisce delle citazioni – spesso dalla Bibbia (specialmente dai Vangeli, ma non solo), talvolta da opere di Jung o di altri. La cosa non sarebbe neanche male, ma Moorcock ne abusa, e francamente le citazioni nel bel mezzo dei capitoli se le poteva risparmiare.

Gesù Sparta

…o potrebbe essere andata così!

Behold the Man è altalenante anche nello stile.
Alcune scene (come quella dell’incipit, che ho messo tra gli estratti in fondo all’articolo) sono realizzate alla perfezione: tutto mostrato, massima economia nella scelta delle parole, ritmo incalzante, pov ben saldo – in una parola, immersione totale. Altre volte, specialmente se deve descrivere lunghi periodi di tempo, o se si tratta di scene di minore importanza, il narratore si abbandona a lunghi raccontati infodumposi. Il grosso della permanenza di Glogauer tra gli Esseni, ad eccezione delle scene iniziali e di quelle finali, è narrato con questo stile trascurato e sbrigativo 1.
Altalenante è anche la gestione del pov. Per la maggior parte del tempo è ben fissato nella testa di Glogauer, ma ogni tanto, e specialmente a partire dalla seconda metà del romanzo, scivola verso il narratore onnisciente o verso una forma di pov collettivo della gente che circonda Glogauer. Così, nella seconda e terza parte, ci sono interi paragrafi in cui vediamo il protagonista attraverso gli occhi di un pugno di militi romani, o dei rabbini del tempio, o della folla di pellegrini che lo segue. Anche se ci sono delle motivazioni plausibili, e in accordo con la trama, per questa scelta2, essa ha lo svantaggio di far scemare nel lettore l’empatia verso Glogauer – perché allontanandoci dal suo pov ci allontaniamo da lui – dopo averla gradualmente accumulata nella prima parte.

Tra le altre cose che, per inclinazione personale, potrebbero scoraggiare alla lettura, bisogna dire che il protagonista – con il suo vittimismo, il suo piagnucolio, la sua vigliaccheria, il suo farsi del male da solo e bruciarsi tutte le opportunità che gli si presentano – è un individuo estremamente sgradevole. La vicinanza del pov obbliga il lettore a uno stretto contatto con Glogauer: alcuni potrebbero sviluppare empatia nei suoi confronti, ma altri potrebbero trovarlo irritante fino all’orticaria. Per fare un paragone, immaginatevi uno Shinji Ikari adulto – solo che, a differenza di Evangelion, non ci sono dei personaggi più solari (Misato, Asuka, Kensuke, Kaworu) a fare da contraltare al protagonista.
Se si riesce a sopportare questo fiume di amarezza, bisogna ammettere che la caratterizzazione del protagonista e dei comprimari (la madre svenevole, la psichiatra acida e nichilista, Giovanni Battista, Giuseppe) è ottima. Non solo i loro caratteri sono credibili, ma Moorcock riesce a mostrarceli con poche pennellate e grande economia di parole – due battute di un dialogo, un gesto, una reazione fuori scala. Solo con un personaggio a mio avviso – Maria – l’autore si è lasciato andare alla macchietta grottesca e alle sottolineature inutili.

Shinji Ikari

“Il mondo è kattivo. Nessuno mi ama. Nessuno riconosce le mie buone qualità e mio padre mi skifa. E Asuka mi molesta emotivamente anche se sono buono. Ora scusate ma vado a masturbarmi sulla sua faccia mentre è in coma”.

E poi, c’è la rivisitazione della vita di Cristo; una rivisitazione cinica e amara, che mi ha molto affascinato. Chiunque abbia anche solo un minimo di interesse per la figura storica di Gesù e un’infarinatura del Vangelo (fatto catechismo da piccoli? O l’ora di religione alle elementari? Mai costretti ad andare a messa? Io sì, fino a 12 anni…^^’) dovrebbe provare almeno qualche scintilla di genuino sense of wonder.
In particolare, la scena della tentazione nel deserto è geniale, così come quella del tradimento di Giuda – ma il romanzo è pieno di crude reinterpretazioni di scene del Vangelo. Anche personaggi biblici come Giovanni Battista, Giuda 3 e Ponzio Pilato vengono rivisti in chiave più terra-terra, in modo più realistico e gretto. Fino ad arrivare al finale geniale. E, a questo proposito: fate attenzione alla pagina di Wikipedia su Behold the Man e in generale agli articoli su questo romanzo, molti hanno la sgradevole tendenza a spoilerare il finale – e così si perde metà del gusto.

Insomma, difetti strutturali e stilistici impediscono a Behold the Man di essere il capolavoro che avrebbe potuto essere. Ma rimane una lettura piacevolissima e inquietante. E’ un romanzo molto breve: dategli una possibilità.

Dove si trova?
Behold the Man si può trovare su Amazon a prezzi ragionevoli (10 Euro su amazon.it, scontati a 9.50 nel momento in cui scrivo). Su library.nu, in realtà, si trova una versione di Behold the Man che si spaccia per l’edizione degli SF Masterworks, ma *non lo è*; ho il sospetto che possa essere la novella originale, da cui Moorcock avrebbe tratto l’attuale romanzo, ma non ho indagato. In ogni caso, non fidatevi.
Roberto mi ha segnalato che il romanzo è stato edito in italiano nella collana Urania Collezione, No.102, nel luglio 2011, con il titolo I.N.R.I. Se qualcuno dovesse scoprire che questa edizione è disponibile nel vasto Internet, me lo faccia sapere!

Spoiler biblico

Su Moorcock
Moorcock, ahimè, è conosciuto soprattutto per le sue opere “giovanili” di Sword & Sorcery. Ora, io non ho niente contro la Sword & Sorcery, in teoria; ma è un palese dato di fatto che il 90% della produzione di questo sottogenere sia una porcheria orrenda. Neanche Moorcock si sottrae a questa tendenza. Ricordo di aver letto, a 14 o 15 anni, il primo libro della trilogia di Corum, Il cavaliere di spade; non so se rimasi più disgustato dall’oscenità della prosa, dalla piattezza dei personaggi o dalla banalità della storia, fatto sta che giurai disprezzo eterno per Moorcock e ne girai alla larga per tre anni buoni. E dire che a quell’età non ero neanche di gusti molto difficili: in quegli stessi anni ho letto i primi quattro volumi della Spada della Verità di Goodkind, e non mi erano dispiaciuti (almeno i primi due).
Elric di MelnibonéL’unica opera di Sword & Sorcery di Moorcock che mi senta di salvare è la famosa saga di Elric di Melniboné. Ambientata in un mondo tardomedievale di stampo mediterraneo, narra dell’ultimo principe dei Melniboneani, antico e perverso popolo di maghi superumani, e di come sarà causa della distruzione del suo stesso popolo e dell’inizio di una nuova era. Elric è un personaggio interessante: albino e di fragile costituzione, è costretto ad assumere droghe per sopravvivere; disprezza il suo stesso popolo; e ha un brutto rapporto con Tempestosa, la sua spada senziente assetata di sangue. La saga è rovinata da una prosa pessima e un andamento da romanzo di avventura per bambini; oltretutto Elric, che sarebbe progettato per essere un anti-eroe, finisce per fare tutte le cose tipiche degli eroi del fantasy epico. Salvano la saga l’ambientazione suggestiva e alcune idee carine, come la torre sull’orlo del mondo, la città-miraggio nel deserto, il regno dei mendicanti e la stessa isola di Melniboné.
La saga originale comprende sei libri scritti tra il 1963 e il 1977; negli ultimi vent’anni, Moorcock ha scritto una serie di midquel che però non ho letto.
Oltre alla sua sword & sorcery, ho letto altri due romanzi di Moorcock:
The Warlord of the AirThe Warlord of the Air, science-fantasy ucronico in cui un ufficiale britannico dei primi anni del Novecento, Oswald Banstable, si ritrova in seguito a uno strano incidente in un 1973 alternativo, in cui le guerre mondiali non ci sono mai state, il Commonwealth britannico sembra aver assicurato una pace eterna su tutto il globo e dirigibili giganti sono il principale mezzo di trasporto. Ma Banstable scoprirà che l’utopia è solo apparente. Il libro è scritto nello stile di un romanzo tardo-ottocentesco, e in particolare è un omaggio alla narrativa di Conrad – scelta non proprio felicissima. E’ un esempio di proto-steampunk – e il Duca lo ha citato nel suo articolo di introduzione al genere – e potreste volerlo leggere per il suo valore storico; ma è un romanzo insulso e piuttosto noioso, e questo nonostante si faccia un gran parlare di rivoluzione comunista e tra i personaggi ci sia addirittura un fikissimo Lenin ultranovantenne!
In seguito Moorcock ha scritto altri due romanzi con lo stesso protagonista, The Land Leviathan e The Steel Tsar, ma sono opere del tutto autonome, nelle quali Banstable visita altri futuri alternativi.
GlorianaGloriana è un fantasy politico ambientato in un’Inghilterra elisabettiana alternativa. Da dodici anni Gloriana regna su Albione, la più potente, ricca e splendente nazione del mondo, e i cupi giorni del regno di suo padre, il pazzo e sanguinario Hern IV, sono un lontano ricordo. Ma questa nuova età dell’oro poggia su fragili fondamenta, e una serie di eventi – complice lo sfrenato appetito sessuale della regina – rischiano di far precipitare Albione nel caos e il mondo intero in una guerra disastrosa. Nonostante i molti difetti di stile, Gloriana mi ha colpito molto e credo che ne parlerò in un futuro Consiglio.
In futuro ho intenzione di leggere qualcos’altro di Moorcock; in particolare, la stramba trilogia The Dancers at the End of Time, e forse The War Hound and the World’s Pain, primo libro della trilogia dei Von Bek. Ma accetto consigli e pareri in merito.

Qualche estratto
Questa volta, invece che due estratti, ne ho scelti tre – ma sono brevi. Il primo è l’incipit, e mi sembra un bell’esempio di economia narrativa. Gli altri due sono un dialogo, ambientato nel passato, con Giovanni Battista, e un flashback di Glogauer (completo di flusso di coscienza) che dà un’idea del suo terribile carattere. Insieme, questi ultimi due estratti danno un’idea della doppia anima del romanzo.

1.
The time machine is a sphere full of milky fluid in which the traveller floats enclosed in a rubber suit, breathing through a mask attached to a hose leading into the wall of the machine.
The sphere cracks as it lands and the spilled fluid is soaked up by the dust. The sphere begins to roll, bumping over barren soil and rocks.

Oh, Jesus! Oh, God!
Oh, Jesus! Oh, God!
Oh, Jesus! Oh, God!
Christ! What’s happening to me?
I’m fucked. I’m finished.
The bloody thing doesn’t work.
Oh, Jesus! Oh, God! When will the bastard stop thumping!

Karl Glogauer curls himself into a ball as the level of the liquid falls and he sinks to the yielding plastic of the machine’s inner lining.
The instruments, cryptographic, unconventional, make no sound, do not move. The sphere stops, shifts and roll again as the last of the liquid drips from the wide split in its side.

Why did I do it? Why did I do it? Why did I do it? Why did I do it? Why did I do it? Why did I do it?

2.
“And what is your name?” Glogauer asked the squatting man.
He straightened up, looking broodingly down on Glogauer.
“You do not know me?”
Glogauer shook his head.
“You have not heard of John, called the Baptist?”
Glogauer tried to hide his surprise, but evidently John the Baptist saw that his name was familiar. He nodded his shaggy head.
“You do know me, I see”.
A sense of relief swept through him then. According to the New Testament, the Baptist had been killed some time before Christ’s crucifixion. It was strange, however, that John, of all people, had not heard of Jesus of Nazareth. Did this mean, after all, that Christ had not existed?
The Baptist combed at his beard with his fingers. “Well, magus, now I must decide, eh?”
Glogauer, concerned with his own thoughts, looked up at him absently. “What must you decide?”
“If you be the friend of the prophecies or the false one we have warned against by Adonai”.
Glogauer became nervous. “I have made no claims. I am merely a stranger, a traveller…”
The Baptist laughed. “Aye – a traveller in a magic chariot. My brothers tell me they saw it arrive. There was a sound like thunder, a flash like lightning – and all at once your chariot was there, rolling across the wilderness. They have seen many wonders, my brothers, but none so marvellous as the appearance of your chariot”.

Gatto Giovanni Battista

3.
The first time he had tried to commit suicide he had been fifteen. He had tied a string round a hook half-way up the wall in the locker room at school. He had placed the noose around his neck and jumped off the bench.
The hook had been torn away from the wall, bringing with it a shower of plaster. His neck had felt sore for the rest of the day.
[…]
“You must try to concentrate on your work, Glogauer”.
“You’re too dreamy, Glogauer. Your head’s always in the clouds. Now…”
“You’ll stay behind after school, Glogauer…”
“Why did you try to run away, Glogauer? Why arent’ you happy here?”
“Really, you must meet me half-way if we’re going to…”
“I think I shall have to ask your mother to take you away from the school…”
“Perhaps you are trying – but you must try harder. I expected a great deal of you, Glogauer, when you first came here. Last term you were doing wonderfully, and now…”
“How many school were you at before you came here? Good heavens!”
“it’s my belief that you were led into this, Glogauer, so I shan’t be too hard on you this time…”
“Don’t look so miserable, my son – you can do it”.
“Listen to me, Glogauer. Pay attention, for heaven’s sake…”
“You’ve got the brains, young man, but you don’t seem to have the application…”
“Sorry? It’s not good enough to be sorry. You must listen…”
“We expect you to try much harder next time”.

Tabella riassuntiva

La vita di Cristo rivista in chiave fantascientifica e disincantata. Gestione dei flashback approssimativa.
Unisce paradossi temporali e introspezione psicologica. Glogauer è un protagonista sgradevole, forse troppo.
Alcune scene sono perfette. Brutti pezzi raccontati e pov ballerino.

(1) Ho una teoria in proposito. Il Behold the Man che oggi possiamo leggere è – come si usava all’epoca, e come in parte si usa ancora – la versione espansa di un racconto. E’ possibile che le scene migliori, più “dense” del romanzo appartenessero al racconto originale; e che per la versione estesa Moorcock abbia allungato il brodo con brani più raccontati e meno ispirati. C’è infatti una certa tendenza tra gli autori di genere, nel processo di trasformazione di un racconto in un romanzo, ad annacquare l’opera originale.Torna su
Ma la mia rimane una teoria, perché non ho letto il Behold the Man originale.

(2) Ho trovato due motivazioni plausibili e complementari per questa scelta di pov:
1. Moorcock vuole mostrare la progressiva depersonalizzazione, alienazione da sé di Glogauer, ma avrebbe difficoltà a farlo rimanendo *dentro* il pov di Glogauer.
2. Moorcock è interessato a farci vedere come gli abitanti della Galilea cominciano a vedere Glogauer.
Per quanto concerne il primo punto, posso obiettare che il protagonista non perde mai del tutto – ma solo a sprazzi – coscienza di sé. Anche nelle ultime fasi della sua vita, ci sono molte scene in cui Glogauer riflette su sé stesso e su quello che sta facendo.
Avrei risolto il problema alternando brevi paragrafi col pov collettivo di altre persone (quando Glogauer non è lucido), a paragrafi più lunghi in cui Glogauer è cosciente e il pov rimane ancorato su di lui. In questo modo si mantengono i vantaggi dei punti 1 e 2 senza allentare troppo il legame empatico col protagonista e la coerenza di pov del romanzo.Torna su

(3) A proposito. Se la figura di Giuda vi affascina, provate a leggere il “racconto” di Borges Tre versioni di Giuda, compreso nella giustamente celebre raccolta Finzioni.Torna su

Gli Autopubblicati #02: Marstenheim

MarsteheimAutore: Angra
Genere: Science-Fantasy
Tipo: Romanzo

Anno: 2009
Pagine: 300 ca.

Marstenheim è una città in rovina. Un tempo avamposto della razza terrestre su un pianeta lontano svariati anni luce, oggi, a centinaia d’anni dall’interruzione di ogni contatto con la Terra, Marstenheim è sull’orlo del collasso. In superficie, legioni di ottusi non-morti razzolano per gli stretti vicoli della città diffondendo la peste verminosa; sottoterra, dentro gallerie minuziosamente scavate nei secoli, sciami di uomini-ratto preparano la loro vendetta. Pellegrini e crociati fanatici si raccolgono attorno alla Torre di Ferro, enorme cattedrale sormontata da un’antica torre a traliccio, attendendo il ritorno di Grigor, il messia; soldati della Repubblica pattugliano le porte della città mentre il loro numero si fa sempre più sparuto.
E’ in questo scenario che si muovono un gruppo di saxxon, guidati da un vecchio sciamano dalle intenzioni poco chiare, una stregona con la passione per il sadomaso, un vampiro dai modi aristocratici e afflitto da manie di grandezza, un burattinaio pazzo, e molti altri. E tutti sembrano alla ricerca della stessa cosa: un terrestre dall’aria losca, e una cicatrice sulla gola che va da un orecchio all’altro…

Marstenheim è un romanzo autopubblicato da Angra un paio di anni fa, con la collaborazione di Gamberetta e del Duca nell’editing. Angra ha fatto anche qualche tentativo di pubblicazione con un’editore, con risultati grotteschi.
Nonostante che i nostri lungimiranti editori lo abbiano respinto, Marstenheim è un bel romanzo science-fantasy. Il ritmo e la struttura della storia, con la presenza massiccia di combattimenti e magie, ha più del fantasy che non della sf, tuttavia, citando Gamberetta: “La componente fantascientifica predomina su quella fantasy: creature tradizionalmente fantastiche come vampiri, zombie o uomini-ratto hanno una spiegazione scientifica”.

Cane quadriplegico

L’autore di fantasy ideale secondo l’intraprendente editoria moderna.

Uno sguardo approfondito
Marstenheim è un romanzo corale; vale a dire, un romanzo che invece di un protagonista unico ha una serie di personaggi-pov che si passano la palla di capitolo in capitolo, o di paragrafo in paragrafo. Personalmente, adoro i romanzi corali. Vedere la stessa vicenda attraverso tante paia d’occhi diversi non solo permette al lettore di avere una visuale più ampia rispetto a quella che offrono le storie a pov singolo; ma, nel momento in cui i personaggi-pov sono gli uni antagonisti degli altri, moltiplica i livelli di conflitto – il che rende la storia più avvincente – e accentua l’ambiguità morale.
Schierarsi diventa più difficile quando due personaggi, con entrambi i quali abbiamo imparato a simpatizzare guardando il mondo attraverso i loro occhi, si mettono l’uno contro l’altro. In Marstenheim si respira spesso questa balsamica aria di ambiguità.

Ma i romanzi corali si prestano anche a una serie di svantaggi e di rischi, che non risparmiano nemmeno questo romanzo. A partire dalla gestione del pov.
I salti da un pov all’altro sono in genere ben definiti, ma in alcune scene, e specialmente nella prima parte del libro, la gestione del punto di vista diventa un po’ ballerina. A partire dalla famigerata scena del prologo con gli uomini-ratto 1, passando per alcune scene di combattimento concitate e con molti personaggi, in cui quando va a capo il pov salta da un contendente a un altro (diminuendo così il senso di partecipazione per il combattimento nel suo complesso), fino ad altre scene in cui il pov, pur essendo a rigor di logica ancorato a un personaggio, finisce – vuoi per la passività totale del personaggio-pov, vuoi per la distanza tra la testa di questo e la telecamera – per confondersi con un narratore onnisciente o comunque con una telecamera molto distanziata rispetto ai personaggi.
Esempio di quest’ultima circostanza è la scena del prologo intitolata “Sulla via”, dove per la prima volta facciamo la conoscenza della squadra di saxxon. Il punto di vista dovrebbe essere quello dello scout Aix – tuttavia, un po’ per il fatto che Aix non fa niente a parte guardare i suoi compagni di viaggio (sicché il suo pov prende la forma di una telecamera neutra), un po’ perché è la prima volta che il lettore incontra Aix e gli altri, il suo nome e il suo personaggio finiscono per confondersi con gli altri, diventare un nome tra i tanti, e la scena finisce per sembrare filtrata dal narratore onnisciente, o quantomeno da una terza persona neutra.

Città in rovina

Non c’è niente da fare, le città in rovine sono fike.

Questa sensazione di “pov che balla” è amplificata da altri due fattori: l’eccesso di personaggi-pov e l’anonimità (almeno iniziale) di alcuni personaggi.
I personaggi-pov sono davvero tanti, e questo, almeno all’inizio – diciamo per un 40-50 pagine – crea una certa, sgradevole sensazione di spaesamento. Inoltre molti di questi personaggi-pov sono superflui. Credo che un buon 85% delle scene del romanzo, con pochi aggiustamenti, potrebbe essere mostrato utilizzando solamente sette personaggi-pov (Losado, Morgause, Aix, Ygghi-Kan, André, Carmille, Skiapp). Delle rimanenti, alcune sono del tutto inutili (e quindi si possono eliminare), altre potrebbero essere rese inutili incorporando gli elementi utili in altre scene (e quindi si possono eliminare!). In altre ancora, eccezionalmente, si potrebbe mantenere un pov usa-e-getta con personaggi-pov che il lettore ha già imparato a conoscere attraverso gli occhi di altri (es. Henrei, Ran Shan, Alpine).
Non dico questo per un morboso attaccamento alle regole della narrativa, ma perché una sovrabbondanza di pov crea spaesamento, difficoltà di immersione e, quindi, calo dell’interesse. Questo vale soprattutto all’inizio, e, direi, per la prima metà o il primo terzo di un romanzo. I personaggi-pov andrebbero introdotti a poco a poco e subito ben consolidati, in modo tale che il lettore possa avere subito dei punti fermi a cui aggrapparsi. Siamo infatti ancora nella fase in cui il lettore sta cercando di capire com’è il romanzo e di cosa parla – troppa confusione o troppi salti di pov potrebbero fargli passare la voglia di andare avanti. Al contrario, una volta che la vicenda ha ben ingranato, e il ritmo è diventato serrato, ci si possono concedere più libertà. Per esempio non ho fatto alcuna fatica a leggere gli intermezzi con i soldati Kennedy, Rizzo e Tapper, o i dialoghi tra gli uomini-ratto Karburo e Phazze, che anzi, sono molto divertenti; ma a quel punto il romanzo è già bene avviato, i personaggi principali individuati, quindi lo scrittore può prendersi qualche libertà in più.

Dicevo, poi, dell’anonimità dei personaggi. Se alcuni risaltano subito per qualche dettaglio – come Morgause e le sue inclinazioni sadomasochistiche, o le gemelle speculari Gya e Madkeen – altri fanno un’entrata in scena piuttosto scialba – come Aix, o in generale la maggior parte dei saxxon – che non aiuta nell’individuarli come personaggi importanti.
Faccio un esempio. Tornando alla scena in cui ci viene presentata la squadra di saxxon guidata da Ygghi Kan, Angra commette un errore molto simile a quello dell’autore di Pirati di Atlantide, della raccolta Ucronie Impure: si lancia, cioè, in un profluvio di nomi che ovviamente il lettore non riesce, né ha voglia, di memorizzare. Alcuni personaggi, pressoché inutili, come Kunjeet, Drougas e Joriar Kan, sarebbe meglio non nominarli nemmeno; meglio definirli come anonimi “altri tre scout”, che fanno numero. Al limite si può dare il loro nome più avanti, poco per volta, quando faranno qualcosa di utile che li faccia risaltare un minimo. Altri, più importanti, come Henrei, Aix o Driun, che peccano di scipitezza, li personalizzerei di più da subito – per qualche tratto fisico, o caratteriale, o perché fanno in quel momento qualcosa di particolarmente interessante – cosicché il lettore capisca che sono importanti e li memorizzi. In generale, allungherei quella scena in modo tale da ambientare il lettore con i saxxon, e soprattutto renderei Aix più attivo.

Sevizie sessuali

Scene di sevizia sessuale potrebbero aiutare a memorizzare un personaggio.

Tra le altre cose che mi sono piaciute poco, c’è una certa tendenza dei personaggi a “girare a vuoto” per la maggior parte del romanzo: ci si incrocia, ci si manca per un soffio, ci si perde e ci si reincontra, si va in una direzione e poi si torna sui propri passi, ancora e ancora e ancora, in una maniera che fa un po’ “commedia degli equivoci”. Questa è una cosa realistica; nella vita reale simili fail accadono tutti i giorni. Ma nell’economia di un romanzo, ogni scena dovrebbe muovere quanto più possibile di trama e di caratterizzazione dei personaggi, mentre diverse di queste scene non muovono nulla di nulla (o tanto poco, da non rendersi giustificabili).
Molte di queste scene che vanno a vuoto sono di combattimento. La maggior parte dei combattimenti del romanzo, mi spiace dirlo, è inutile e un po’ noiosa. La ragione sta in questo: che spesso gli scontri vedono, da una parte, guerrieri più o meno fiki (e a volte scialbissimi, come Rosh o Silverel), dall’altra legioni e legioni di insulsi zombie. Non esattamente la formula del combattimento avvincente. Gli scontri sono ben mostrati, ma dato che si sa già che, 10 a 1, i “buoni” vincono e gli zombie perdono, e dato che su diversi dei “buoni” c’è anche poco investimento emotivo da parte dei lettore (come nel caso dei già citati Rosh, Silverel, Ran Shan eccetera), il tutto si riduce a una descrizione meccanica di serie di affondi, parate, schivate, tentativi di fuga. Diversi combattimenti potrebbero essere cancellati senza colpo ferire – come quello tra saxxon e zombie all’inizio del Secondo Giorno, o quello di Aix e Druin contro Daria più avanti – altri muovono la trama un minimo ma sono comunque troppo noiosi – come la sortita a Palazzo Marsten.

Nonostante tutto questo, Marstenheim è un bel romanzo. La città è viva, pulsante – migliaia di volte più convincente del patinato mondo fantasy #453. I quartieri abbandonati, la gente che si chiude in casa, la tensione tra gli isolati controllati dai soldati della Repubblica e gli isolati controllati dai crociati, il contrasto tra gli antichi palazzi di plastocemento e le nuove costruzioni che scivolano verso il mattone, la pietra e il legno, la fobia per i vermi che portano la peste – tutto contribuisce a creare un’atmosfera lugubre, tetra, di decadenza. Ad essa si mescola un certo umorismo amaro, come il Demone Oracolo o il triste destino di Losado, che pur essendo un bandito fikissimo non fa che passare – senza colpa o quasi – da una sfiga all’altra. A ciò si aggiungono piccoli tocchi di weird, come la bottega di Porfirj, e alcune scene veramente ben riuscite, come quella con Anghelo e Daria nella locanda del porto, o il discorso di Skiapp dal sapore islamico-littorio.
I saxxon, nel loro essere una controparte più ferina e credibile degli elfi, fanno il loro dovere. Gli uomini-ratto sono spettacolari, e mi unisco all’appello di Gamberetta che vorrebbe più scene su di loro. Organizzatissimi e unanimemente sottovalutati, quando parlano tra loro ricordano le macchiette della commedia all’italiana – “Ingegnere!” “Geometra!” – e quando parlano con gli umani diventano degli infidi e adorabili pilipini. Adorabili sono anche i crociati, con quel modo di fare e di parlare da domenicano in mezzo agli albigesi.
Il finale è spettacolare e l’epilogo ancora di più; anche se alcune delle sottotrame individuali mi sembrano concluse in modo un po’ troppo affrettato, come quella di Ygghi Kan e ancor più quella di Morgause (alla quale avrei dedicato più spazio).

Diffida dei ratti

Non fidarti.

In definitiva, pur coi suoi difetti Marstenheim è un bel romanzo, tra i migliori autopubblicati che abbia mai letto e, se è per questo, tra i migliori fantasy italiani in generale. E’ assolutamente paragonabile a Pan di Dimitri – che molti ritengono la pietra miliare del fantasy italiano dell’ultima decina d’anni – e per certi aspetti, come l’assenza di un narratore moralista e l’ambientazione, migliore. Di sicuro è migliore di diversi romanzi di Grandi Autori internazionali che mi sono sciroppato quest’anno, come gli insulsi primi tre libri del ciclo hainita della LeGuin (Rocannon’s World, Planet of Exile, City of Illusions). Sul piano degli autopubblicati se la gioca con Assault Fairies, ma dalla sua ha che almeno è finito ^-^’

Dove si trova?
In questo articolo di Gamberi Fantasy potete scaricare Marstenheim in cinque formati diversi (pdf, mobipocket, rtf, odt, epub, o una cartella con tutti e cinque insieme); in alternativa potete scaricarlo dal blog dell’autore (solo pdf o mobipocket) o dalla Zwei-List (solo pdf).

Qualche estratto
Come estratti ho scelto due scene divertenti. La prima, verso l’inizio vede Morgause che interroga il Demone Oracolo, la seconda il primo incontro tra Aix e un uomo-ratto.

1.
Passò ancora un istante, poi la voce impersonale del Demone Oracolo risuonò nella stanza.
«Sono pronto. Dimmi il tuo nome.»
Lo schermo era diventato nero.
«Qwerty,» disse Morgause.
«Dimmi la parola segreta che squarcia il velo fra i mondi.»
«Qwerty,» ripeté lei.
«Bentornato, Qwerty. Devo metterti in guardia dall’usare una parola nsegreta uguale al nome: non è prudente.»
Morgause sospirò. «Me lo dici tutte le volte. Vedi, il fatto è che non trovo un modo per farti capire che non ho idea di chi sia questo Qwerty. Sarebbe anche opportuno che ti rivolgessi a me come regina o signora, ma lasciamo perdere.»
Il demone ronzò come un insetto.
«Cosa vuoi che ti mostri oggi, Qwerty?»
«Lo stesso di ieri, e sbrigati.»
Sul vetro si formò l’immagine di uno stagno di acqua limpida, circondato dalla vegetazione. A mollo tra le ninfee due languide fanciulle saxxon, una bionda del sud e una bruna del nord, si baciavano sulla bocca accarezzandosi il seno a vicenda.
Morgause si sentì avvampare.
«Non quella cosa, l’altra! Mostrami cosa sta facendo lui ora!»

2.
«Stai fermo lì!» lo avvertì Aix. «Ma tu, cosa… chi sei?»
L’uomo-ratto assunse un’espressione afflitta. «Oh siniori ilustre! Skiapp povero, povero mutanti! Nasciuto di molto disgrasiato. Beli siniori no regali mai nienti per mangiari, solo calci in culo fortisimi e dice: bruto topo, pussa via sciò!»
Aix corrugò la fronte. «Cosa dici? Non ti seguo.»
«No no, te prego! Belo eroe, risparmi tui beli stivali di consumo di calci in culo!» piagnucolò il mutante.
«Stai calmo,» disse Aix, «non ho intenzione di farti del male. Però ora devi dirmi perché ci stavi seguendo.»
«Io cerchi boconcini di rosichiare, siniori.» Con i baffi che fremevano, la creatura che diceva di chiamarsi Skiapp annusò la bisaccia appesa alla cintura di Aix. «Perché tu ha buoni fromagi di tua borsa, mio naso no sbalia!» disse toccandosi il grosso naso nero e umido sulla punta del muso. Singhiozzò, asciugandosi una lacrima con la piccola mano pelosa. «Eh, tu sei beli siniori, no ti muori da la fame come poveri mutanti soli al mondo!»
Aix abbassò l’arco. «Non hai parenti? Amici?»
«No, gueriero belisimo rotolato giù di montagni. Povero, povero Skiapp! Sui madri morta, sui padri morto, sui frateli tuti morti! Sui zii tuti morti! Sui cugini, tuti morti! Sui noni, tuti morti! Sui bisnoni, trisnoni, quatrisnoni, cinquisnoni…»
Aix tagliò corto. «Va bene, ho capito!»

Tabella riassuntiva

Tantissimi personaggi e vicende che si intrecciano. Troppi pov possono buttare fuori dalla storia.
La città è tetra e affascinante. Alcuni personaggi sono un po’ anonimi, soprattutto all’inizio.
Dagli uomini-ratto ai crociati, un sacco di belle trovate! Troppi giri a vuoto e combattimenti insulsi.
In conclusione: PROMOSSO

Crociati cristiani

Crociati kattivi. Sterminiamo infedeli dal 1095.

(1) La scena si svolge così. Alcuni uomini-ratto parlano tra loro in modo normale; poi arriva un essere umano, e quando gli uomini-ratto si rivolgono a lui, parlano in modo sgrammaticato e comico. L’impressione è quella di un salto di pov: dal pov dei ratti (in cui li sentiamo parlare in modo normale) al pov dell’umano, che li sente parlare in modo mongolo.
Angra ha giustificato la cosa dicendo che il pov rimane sugli uomini-ratto. Poiché loro smettono di parlare nella loro lingua e parlano invece in quella del terrestre, la loro pronuncia risulta mongola alle loro stesse orecchie. Da un punto di vista strettamente logico questa spiegazione è corretta, e tuttavia:
1. Quando parlo in un’altra lingua, anche se la parlo male, tendenzialmente mi sentirò parlarla meglio di come mi sentono parlarla i nativi (esperimento fatto personalmente). Questo perché, quando parlo, al modo in cui le parole mi escono effettivamente dalla bocca si sovrappone il modo in cui penso di stare parlando, ossia le mie parole pensate. Invece in questa scena gli uomini-ratto parlano male allo stesso modo in cui li sentiamo parlare in altre scene, in cui il pov è saldamente infilato nella testa di un umano.
2. Anche se tecnicamente le cose stessero come dice Angra, nel lettore scatta un meccanismo psicologico per cui gli sembrerà di spostarsi nella testa dell’umano. Quando infatti vediamo un personaggio che parla male la nostra lingua e uno che la parla bene; e perlopiù il primo è un umano, simile a noi, mentre il secondo un uomo-ratto, tendenzialmente ci identificheremo più col primo. E dato che il pov della scena per il resto non è ancorato a un ratto preciso, né a un personaggio particolarmente attivo, l’impressione di essere passati nella testa dell’umano è forte.
Una precisazione. La mia disamina di questa scena, che peraltro nell’economia dell’intero romanzo è abbastanza irrilevante, non incide in alcun modo sul mio giudizio nei confronti del romanzo. Era solo un esempio. Personalmente, e per le ragioni che mostrerò dopo, avrei risolto il problema eliminando la scena o filtrandola interamente dal punto di vista di André.Torna su