“Non c’è tutta questa differenza tra il ‘mostrare’ una cosa e ‘raccontarla’” è l’obiezione che mi sento muovere più spesso al concetto di show don’t tell. Un’altra è: “E’ solo una questione di stile”, come a dire che è una faccenda che riguarda soltanto la ‘poetica’ dell’autore, il suo modo di esprimersi, e non va ad influenzare più che tanto il contenuto (corollario: potremmo smetterla di criticare?). Eppure non è così. Raccontare una cosa, e mostrarla, suscitano in noi impressioni molto differenti. E dato che un esempio vale più di mille parole, vi racconterò una storia.
Nell’ultimo articolo vi ho parlato di Roadside Picnic, romanzo dei fratelli Strugatsky in cui si racconta di una Visitazione aliena che cambia per sempre le vite degli abitanti di una piccola città canadese; se non l’avete letto fatelo, o non capirete questo. Bazzicando su Internet alla ricerca di maggiori informazioni sul romanzo e sugli Strugatsky, avevo scoperto che Roadside Picnic aveva catturato l’attenzione nientemeno che del regista Tarkovskij. Tarkovskij: non proprio il primo Roland Emmerich che passa!
Andrej Tarkovskij era uno a cui doveva piacere la fantascienza slava. Già nel 1972 aveva adattato per il grande schermo il celebre Solaris, del polacco Stanislaw Lem; nel 1979, dopo aver corteggiato a lungo il romanzo degli Strugatsky, decide di trarne ispirazione per il suo Stalker. Non solo: gli Strugatsky stessi partecipano alla stesura della sceneggiatura del film. Occasione ghiotta per crogiolarmi ancora un po’ nell’atmosfera della Visitazione – anche perché non avevo mai visto un film di Tarkovskij e la cosa mi faceva sentire in colpa. Sicché, lo scarico, acchiappo la dolce Siobhàn e le annuncio: la tal sera guarderemo Stalker. E lei, che non sapeva neanche di cosa stessi parlando: okay! Da qui, in modo del tutto involontario, nasce il mio piccolo esperimento.
Una premessa: ovviamente uso la parola ‘esperimento’ in senso lato. Un esperimento scientifico va replicato molte volte e sottoposto a un rigido sistema di controlli per avere qualche valore. Il mio ‘esperimento’ è in teoria replicabile, ma non l’ho replicato. Di conseguenza non posso dimostrare davvero niente, nel senso scientifico del termine; trovo però che ci dica qualcosa di interessante. Giudicate voi.
Stalker: una variazione sul tema?
Il film di Tarkovskij non è una trasposizione fedele di Roadside Picnic. Anzi. Per stessa ammissione del regista, ha in comune col romanzo originale solo la premessa di base: l’esistenza di una Zona contaminata da una Visitazione aliena e del mestiere di stalker. La cosa, in realtà, non mi dispiaceva affatto. Al contrario: come accennavo nello scorso articolo, trovo che il concetto alla base di Roadside Picnic sia così pieno di possibilità che volevo vedere delle declinazioni diverse del tema.
Sulla carta, la storia di Tarkovskij è affascinante. Il protagonista – lo stalker – si guadagna da vivere come guida, scortando i curiosi nella Zona. Al centro della Zona, infatti, c’è una stanza dove si dice che vengano realizzati i tuoi desideri più intimi (idea mutuata dal romanzo, dove circola la leggenda di una sfera dorata che realizza i desideri). Anche la Zona è diversa: mentre in Roadside Picnic aveva delle regole oggettive, determinate da leggi fisiche misteriose ma chiaramente esistenti, in Stalker regole e trappole cambiano. La Zona, spiega lo stalker, cambia ad ogni visita, e sembra che reagisca in modo differente ad ogni individuo e ai suoi stati d’animo. Pare quasi che la Zona di Tarkovskij sia viva.
Fin qui, tutto bene. Peccato che il film sia interessante solo sulla carta.
La Zona di Tarkovskij è assolutamente priva di regole a cui lo spettatore si possa aggrappare. Lo stalker ci dice continuamente quanto la zona sia pericolosa, quante persone ci siano morte, quanto bisogni stare attenti. Ma è tutto bla bla vuoto: di questi fantomatici pericoli non vediamo mai traccia; non assistiamo mai a ‘trappole’ che scattano; i visitatori che seguono lo stalker violano apertamente le sue raccomandazioni, e non gli succede niente. La tensione è inesistente. Persino il ‘tritacarne’, una delle creature più inquietanti e implacabili della Zona originale, diventa nel film qualcosa di assolutamente insulso.
L’impressione dello spettatore, dopo un po’ che guarda, è che la Zona sia qualcosa di ‘mistico’, di ‘metaforico’, che agisce assolutamente a caso e secondo le esigenze del regista. Di conseguenza non ci sentiamo veramente coinvolti. Tutto il setting alieno diventa nient’altro che un palcoscenico su cui Tarkovskij fa discorrere i suoi personaggi dei massimi sistemi – scienza vs arte, oggettività vs soggettività, determinismo vs libertà, conscio vs subconscio. Le solite banalità da primo anno di facoltà umanistica. I personaggi hanno nomi archetipici – “Stalker”, “Professore” e “Scrittore” – e infatti sono degli archetipi, nel senso peggiore del termine: del tutto privi di qualsiasi tratto originale o di personalità, non sono nient’altro che dei megafoni attraverso i quali il regista declama le sue idee.

“Ciao, mi chiamo Andrej Tarkovskij e no, non mi piace il simbolismo pacchiano.”
L’esperimento
Ma il mio giudizio poteva anche essere influenzato dalla lettura del romanzo solo pochi giorni prima. Anche se avevo deciso di guardare e giudicare il film di Tarkovskij ‘per sé stesso’, paragoni con il libro nascevano spontaneamente nella mia testa. Siobhàn era un’altro discorso. Non solo non aveva mai letto Roadside Picnic; ma non sapeva proprio della sua esistenza, né come mi fosse venuta in mente l’idea di scaricare e guardare Stalker. Per lei, si trattava di un film completamente autonomo – di conseguenza, l’ha giudicato per sé stesso. E ha detto alcune cose molto interessanti.
Quando sono nella Zona i personaggi, nel libro come nel film, si muovono in modo estremamente circospetto. Lo stalker è lapidario: devono muoversi in fila indiana, uno alla volta, lanciando sempre un dado o un sasso davanti a sé (per vedere se fa scattare qualcosa) prima di proseguire, e non devono mai deviare dal percorso. Nel romanzo si capisce subito il perché: la strada è disseminata dei cadaveri di chi “si è comportato male”, e vediamo coi nostri occhi alcune delle trappole. Ma nel film no. E dopo un po’, Siobhàn mi domanda: “Ma perché si muovono in quel modo? Ma perché devono fare così e cosà? Sono scemi?”. Avendo io letto il libro, sapevo perché i personaggi si comportavano così, ed ero tranquillo; ma lei non lo aveva letto, e dal film non si capiva perché lo facessero. Quindi, non riusciva a spiegarselo. E via via, la sua mente riempie i vuoti lasciati dal regista proponendo una serie di ragioni. 1
La prima spiegazione di Siobhàn: “Lo stalker li sta truffando.” Non c’è niente di pericoloso nella Zona, è un posto come un altro; lo stalker finge che sia pieno di trappole mortali e forze sovrannaturali solo per far provare un po’ di emozioni ai suoi clienti e giustificare i soldi che si fa pagare. Questa spiegazione permette di conciliare la contraddizione tra ciò che il film racconta (che la Zona è pericolosa) con ciò che il film mostra (non c’è nessun vero pericolo): una delle delle due versioni mente (lo stalker, cioè il ‘raccontato’). Permette di giustificare anche le aperte violazioni del raccontato – ossia, quando lo stalker dice ai suoi compagni: “non fare quella cosa o ti succederà qualcosa di terribile!”, quello la fa ugualmente, e non succede niente.
Ma alla lunga, questa spiegazione non tiene. Il personaggio dello stalker appare troppo ingenuo, troppo sempliciotto, troppo ‘puro di cuore’ per mentire in modo così spregiudicato sulla natura della Zona. Allora, seconda spiegazione: “Lo stalker non è uno stalker”. Fa finta di essere esperto della Zona, ma in realtà non ne sa niente; e questa è la sua unica bugia. Per il resto del tempo è onesto, perché crede realmente nei pericoli della Zona (che però è innocua). Da notare che questa seconda spiegazione arriva quando gli input del ‘mostrato’ sono tali da contraddire la prima teoria di Siobhàn; la sua soluzione quindi è di revisionare di nuovo gli input ‘raccontati’ e la sua spiegazione, per metterli in accordo con le nuove informazioni ‘mostrate’.

Scottanti rivelazioni.
Anche questa spiegazione però alla lunga non è soddisfacente – il film (dalla musica alle inquadrature ai discorsi dei personaggi) insiste troppo sulla natura sovrannaturale del loro viaggio. Terza spiegazione: “Secondo me è un’allucinazione, alla fine si scopre che sono tutti drogati”. Poiché gli avvenimenti del film non sembrano seguire una logica, Siobhàn conclude che questa logica non c’è perché non sono nel mondo reale. E’ un tentativo estremo di razionalizzazione. Un modo per spiegare perché il raccontato e il mostrato viaggino su due binari paralleli che non si incontrano mai, con una motivazione che rimane all’interno della trama.
Ma alla lunga, persino questo non tiene: ci stiamo avvicinando alla fine del film, ed è ormai chiaro che la storia non spinge nella direzione del sogno o allucinazione. La quarta e ultima spiegazione suona come una resa: “E’ solo un’allegoria; non vuol dire niente”. Quando questo succede, è il FAIL dell’opera narrativa. Non c’è niente di male se un’opera ha più livelli di lettura, anzi spesso è un plus. 1984 è un affascinante romanzo distopico ma è anche un discorso sui totalitarismi europei e in particolare dello stalinismo (Orwell stesso lo dichiarò); Evangelion è una bella storia di robottoni, paranoie e teologia, ma è anche un messaggio che Anno lanciava agli otaku: “Uscite di casa e affrontate la vita”. Ma quando un’opera funziona solo a livello simbolico e non a livello di trama, c’è qualcosa che non va.
Stalker è un caso emblematico di cosa succede quando raccontato e mostrato si contraddicono – quando, cioè, i personaggi (o anche la voce dell’autore, nel caso di un romanzo) dicono una cosa e poi invece ne succede un’altra. Istintivamente, lo spettatore (o lettore) è portato a dare ragione a quello che vede, reinterpretando o scartando il raccontato. Ed è quello che faceva Siobhàn. Finché questa contraddizione sembra una decisione intenzionale dell’autore – che magari vuole sviarci per poi sorprenderci, come quando si usa l’unreliable narrator – si sopporta (anche volentieri), ma quando ci si rende conto che questa contraddizione non era voluta e che l’autore è semplicemente clueless (o non interessato alla trama nel suo livello più immediato, non-simbolico) emerge la frustrazione: ma che cavolo sto guardando?
Bisogna notare infatti che all’inizio Siobhàn aveva una disposizione positiva verso il film. Era più che disposta ad ammettere che il regista avesse saldamente il controllo della storia, e che volesse scientemente far venire dubbi allo spettatore mostrando quelle contraddizioni e quelle apparenti illogicità. Le sue prime spiegazioni rimangono ancorate alla storia; il primo a essere ‘screditato’ come insincero è il personaggio dello stalker (le cui parole contraddicono ciò che il film mostra), non l’autore. E’ solo mano a mano che la storia va avanti, che Siobhàn comincia ad ammettere che gli avvenimenti non hanno senso ‘perché sì’. Era partita piena di fiducia nel regista, ma poi ha progressivamente perso questa fiducia, e alla fine ha proprio perso interesse (dire che il film ha senso solo come allegoria, del resto, è un po’ come dire che non si è più disposti a cercare di interpretarlo: non ne vale la pena, tanto è solo un’allegoria). Il risultato finale della contraddizione tra raccontato e mostrato è: tu, autore, non sei onesto con me.
In conclusione
A questo si aggiunge il ritmo lentissimo, i take da dieci minuti l’uno con inquadratura fissa, le frasi sfumate – vero marchio del cinema d’autore! Il fatto che i personaggi ripetano di continuo la parola “stAlker” con una bella A spalancata non migliora la situazione (ah, la bellezza del doppiaggio italiano di una volta!). La fotografia è suggestiva e ci sono un paio di scene ben fatte (come quando squilla il telefono nell’anticamera della Stanza, o tutta la scena sulla bomba), lo ammetto; ma nel complesso domina la NOIA e la sensazione che il regista sia un borioso con poche idee originali.
A un critico che gli fece notare che i suoi film erano troppo lenti, Tarkovskij rispose: “I am only interested in the views of two people: one is called Bresson and one called Bergman.” Bene – io non sono né Bresson né Bergman. Saluto Tarkovskij e passo ad altri registi.
Chiudo con una considerazione. Umberto Eco aveva un metodo per capire se un film era o non era un porno: “Se per andare da A a B i protagonisti ci mettono più di quanto desiderereste, questo significa che il film è pornografico.”
Bene. Allora Tarkovskij girava porno:
Prima o poi arriveranno nella Zona. Forse.
(1) Nota bene: queste spiegazioni non sono state in alcun modo sollecitate, anche perché al momento della visione del film non avevo alcun esperimento in mente. Sono cose che Siò ha detto in modo del tutto spontaneo; come in genere succede quando un film non riesce a catturare l’attenzione degli spettatori (l’immersione del buon mostrato di cui parlo sempre), questi cominciano a chiacchierare e a commentare il film tra di loro.Torna su