Archivi del mese: gennaio 2013

Le contraddizioni di un piccolo editore

EraserheadIl nome è quello del primo, allucinato lungometraggio di David Lynch (quando ancora faceva bei film). Il protagonista, un tipo qualunque con la sfortuna di avere per figlio un piccolo alieno deforme e una cantante piena di cancri in faccia che vive nel suo calorifero, ad un certo punto ha una visione: la sua testa si stacca dal corpo e precipita dal cielo. Un bambino la raccoglie e la porta in una fabbrica, dove viene trasformata in una gomma per matite: Eraserhead.
Eraserhead Press è, al momento, uno dei miei editori preferiti. Se siete frequentatori di vecchia data di questo blog, sapete già di cosa sto parlando: è la casa editrice che ha ‘inventato’ la Bizarro Fiction, nonché quella che ne pubblica la maggior parte. E’ quella che ha lanciato la carriera di Carlton Mellick III. E’ il porto degli amanti del grottesco.

Sembra incredibile che un editore così piccolo sia riuscito a realizzare tanto – a creare un nuovo sottogenere letterario, a radunare attorno a sé una comunità piuttosto unita di scrittori, aspiranti tali e lettori, e a lanciare decine di titoli all’anno. In realtà, ciò che gliel’ha permesso sono state proprio le sue piccole dimensioni. Il Duca ha più e più volte comparato le grosse case editrici a dei dinosauri: goffi, lenti a reagire, iper-burocratizzati. Difficile aspettarsi da uno di questi bestioni che prendano iniziative fuori dagli schemi; loro devono fare i numeri grossi per poter pagare tutto quel personale, e le sedi e i magazzini, e quindi devono inseguire il mercato di chi legge uno-due libri l’anno, e poi magari pubblicare questo romanzo dell’amico del giornalista che in cambio gli fa una recensione sull’inserto del Corriere e quell’altro libro della sorella dell’amica del cugino della figlia dell’amministratore delegato di Boh.
Una piccola casa editrice non ha tutto questo vekkiume ad appesantirla; può prendere decisioni rapide e radicali. Avrebbe, quindi, una chance in più di offrire qualcosa di bello. Questo, però, di solito non accade. La galassia dei piccoli editori sembra perlopiù una versione peggiorativa di quanto di peggio hanno le grosse case: meno soldi e quindi meno editing (che quasi sempre significa scarso o nessun content editing, ma a volte nemmeno line editing!), meno promozione, meno tutto.

Bizarro Convention

I tizi della Bizarro Fiction in un’imitazione della grande editoria italiana.

Il ‘segreto’ della Eraserhead è una banalità. “C’è una nicchia che l’attuale mercato della narrativa non copre; infiliamoci! C’è una categoria di lettori amanti del weird, dei film trashoni di serie b, del grottesco, insoddisfatti dell’attuale offerta del mercato della narrativa fantastica, e alla ricerca di qualcosa di nuovo; accontentiamoli! E dato che anche a noi piacciono un sacco queste cose, siamo le persone più adatte per soddisfarli”.
Scegliersi una nicchia e restare fedeli alla nicchia. Non una generica casa editrice di ‘narrativa fantastica’, o nemmeno di ‘fantasy’ o di ‘sci-fi’. L’offerta della Eraserhead è sempre stata abbastanza chiara: storie fantastiche imperniate sull’assurdo, sullo schifoso, sul disturbante; di piccole dimensioni (mediamente di 100-200 pagine, a cavallo tra novellas e romanzi brevi); ironiche e immaginose, ma senza pretese letterarie; spesso ispirati all’immaginario dei filmacci di genere (da Romero a Troma). Attorno al concetto di ‘Bizarro’, poi, hanno saputo costruire la propria immagine, un’immagine che non si può confondere con quella di nessun’altra casa editrice. E’ stato così che hanno focalizzato attorno a sé i primi lettori.

Il Duca ha già spiegato più e più volte (quando ancora aveva interessi diversi dal Franciacorta) che per sopravvivere alla rivoluzione digitale gli editori non potranno più limitarsi a fare i gatekeeper, ma dovranno diventare aggregatori di servizi. Editing, impaginazione e grafica, pubblicazione sulle piattaforme online, pubblicizzazione, gestione dei rapporti con i lettori, eventuali traduzioni, eccetera. Lo credo anch’io. Liberare l’autore di questi compiti ‘gestionali’ e di marketing sono l’unica ragione per cui un autore dotato di cervello potrebbe preferire affidare il proprio manoscritto a un editore invece di autopubblicarsi. E gli editori dovranno impegnarsi, per convincerci che possono ancora essere buoni a qualcosa.
Ma a questa realtà voglio aggiungere un altro elemento. Una piccola casa editrice, se vorrà essere riconosciuta, se vorrà diventare un punto di riferimento per i lettori, e se vorrà sopravvivere alla competizione a suon di Euro dei Grossi, dovrà individuare la propria nicchia – una nicchia ancora non, o non adeguatamente, coperta – e costruirci sopra la propria immagine. Babbage Editori: la prima casa editrice italiana dedicata allo Steampunk di Qualità! Non si può sperare di entrare sul mercato offrendo ‘di tutto’, perché del ‘di tutto’ non frega niente a nessuno. E poi, se siete piccoli e avete solo uno o due editor, ciascuno specializzato nei propri generi, come sperate di essere credibili se questi devono mettersi a editare qualsiasi tipo di libri, dal romanzo rosa al noir al fantasy tolkeniano? E’ la via più sicura per produrre lavori di scarsa qualità, perdere la faccia e finire nella melma delle centinaia di micro-editori tutti uguali.

Bizarro Convention

Una sintesi dei valori della Bizarro Fiction.

Il passaggio dai libri di carta agli ebook è la più ghiotta occasione per questo tipo di casa editrice ‘specializzata’: si abbattono i costi di produzione e distribuzione, e diventa più facile raggiungere la propria nicchia di lettori (attraverso un uso intelligente dei tag). Nel mercato anglosassone si possono raggiungere numeri allucinanti di lettori, ma anche nel piccolo della nostra Italia semianalfabeta, se si lavora bene, qualche soldo lo si può fare.
Trovo quindi paradossale lo scarso impegno della Eraserhead Press in questo senso. Quando si tratta di libri digitali, la madre della Bizarro Fiction, che si fregia di essere tanto avanguardista, sfrontata, coraggiosa, innovativa, di colpo diventa più conservatrice dei dinosauri italiani. Molti libri di Mellick, l’autore di punta della Bizarro, in formato digitale semplicemente non esistono – per leggere Adolf in Wonderland ho dovuto importare la versione cartacea dagli Stati Uniti. Prezzo maggiorato, una settimana e mezza perché arrivi, e c’è pure il rischio che si sia rovinato nel trasporto.
Le ultime opere di Mellick digitalizzate (The Morbidly Obese Ninja, Crab Town, Fantastic Orgy) risalgono all’inizio del 2012; da un anno a questa parte, non ne fanno più. Altri autori di prima linea, come Kevin Donihe, non sono mai stati pubblicati in ebook, e così decine di scrittori minori di Bizarro che avrei letto volentieri. In altri casi, l’ebook c’è ma viene gestito nel modo sbagliato: come HELP! A Bear Is Eating Me di Mykle Hansen (ne parlai bene agli albori del blog), agile libretto che si legge in un pomeriggio ma che hanno il coraggio di metterti a 6,99 Euro.

Che ci sia dietro una qualche ragione strategica? No. Queste le uniche parole di Mellick in merito, scritte sulla sua message board nel forum della Deadite Press a Marzo 2012:

There won’t be any new kindle editions for at least a couple months. The guy who designs the eraserhead/deadite kindles just left for a long vacation.

Da allora, più nulla. WTF? Il tizio che fa gli ebook se n’è andato e si blocca tutto? Non stiamo parlando di un ingegnere nucleare: è un lavoro che anche una persona digiuna di HTML può imparare a fare in una settimana! E’ chiaro che c’è qualcos’altro sotto, ossia l’incapacità dei tizi di Eraserhead di capire come si stia muovendo il mercato. Forse credono di stare rinunciando a un vezzo, a qualche numero in più che si può sempre recuperare dopo; non si rendono conto che stanno perdendo vagonate di lettori e di passaparola.

Eraserhead Press

Le belle facce di Eraserhead Press.

E intanto, sul sito di Bizarro Central, sul blog di Mellick, e anche su molti dei libri di Bizarro che ho comprato, si trova l’invito a diffondere la fama del genere in questo modo: cercarlo nelle proprie librerie e biblioteche di fiducia e, se non lo si trova, richiederlo.
Sì. Dico sul serio. C’è scritto.
Non so esattamente cosa sperino di ottenere in questo modo. Forse sperano che prima o poi questa crociata per l’inserimento della Bizarro nei canali normali scateni lo sdegno di qualche pia WASP e che si scateni un putiferio mediatico che porti qualche pubblicità al movimento. O forse ci credono veramente. Ma è assurdo. Un genere di nicchia come la Bizarro, scritto in una lingua che è parlata in tutto il mondo, sembra nato apposta per essere diffuso in digitale: istantaneamente, senza barriere geografiche, scavalcando a pié pari la diffidenza dei distributori tradizionali. Non mi sarei mai avvicinato alla Bizarro se non avessi avuto la possibilità di scaricarmi un paio di libri di Mellick e verificare che roba fosse. E ora smetterò di comprare suoi libri, perché non è che tutto quel che scrive valga la carta su cui è stampato, e ho preso più di una sòla dalla Eraserhead, e non ho più voglia di spendere soldi in un editore così poco sveglio.

Il che ci porta al secondo problema della Eraserhead, la qualità. Una qualità che è altalenante, molto altalenante; chi ha letto il mio articolo Un tour-de-force di Bizarro Fiction se ne sarà già accorto. Prendiamo il caso di Donihe. Questo tizio è illuminato da idee assolutamente geniali; ma scrive così male che le rovina. In House of Houses, la trovata folle di un mondo in cui le case prendevano vita diventava una menata semi-incomprensibile sullo stile ‘lager nazista’. Night of the Assholes invece nasce come reinterpretazione della Notte dei morti viventi di Romero, in cui però invece degli zombie ci sono gli ‘stronzi’ (assholes), gente sgradevole che diffonde l’epidemia insultando gli altri: un’altra idea fantastica, ma lo sviluppo del plot e i personaggi sono così piatti che già dopo 40-50 pagine del fascino iniziale non rimane nulla. Libri che sulla quarta di copertina funzionano benissimo, ma che poi non mantengono la promessa. A Donihe non serve un po’ di editing: serve un’assistente sociale.
Ma alla Eraserhead non sembrano pensare che quest’uomo abbia bisogno di aiuto. Un sacco di complimenti, la pubblicazione, ed ecco un altro autore che probabilmente non crescerà più (non dal punto di vista tecnico, almeno), privando il mondo del suo potenziale. Mi sembra un film già visto più e più volte qui da noi, anche se c’è da dire che almeno Donihe il talento immaginativo ce l’aveva. Ma che figata di romanzi avrebbe realizzato, se la casa editrice lo avesse costretto a un editing più ferreo, a pensare meglio la costruzione della trama e dei conflitti – se, in una parola, avesse offerto all’autore un servizio migliore? E quanto, invece, libri malriusciti o riusciti a metà come questi danneggiano il concetto di ‘Bizarro Fiction’, facendolo apparire come una cagata quando invece ha un potenziale enorme? Quanto i libri mediocri generano (giustamente) un word-of-mouth negativo per il movimento?

Kevin L. Donihe

Kevin L. Donihe is not ashamed.

Ecco perché non voglio più comprare cartacei dalla Eraserhead. Se almeno ogni loro libro fosse un centro, forse, e dico forse, potrei pensare di scucire 9 Euro più spese di spedizione a ogni quarta di copertina stuzzicante – e già stiamo parlando di prezzi improponibili. Ma non così. E dire che ci sono molti nuovi libri di Mellick che vorrei leggere: Armadillo Fists, The Handsome Squirm, Tumor Fruit, Cuddle Holocaust; e poi le ripubblicazioni di sue vecchie glorie, tra cui i suggestivi The Steel Breakfast Era e Ugly Heaven; e ancora Pippi of the Apocalypse, seguito di Warrior Wolf Women of the Wasteland e di Barbarian Beast Bitches of the Badlands la cui uscita è prevista entro la fine del 2013. Per non parlare di tutti quei libri di autori minori che hanno stuzzicato la mia curiosità.
Ma c’è una nota positiva in tutto questo. Se, nonostante tutte queste magagne, la Eraserhead Press ce l’ha fatta, e ha raggiunto la notorietà che ha oggi, questo lascia capire quanto potere possa avere una buona costruzione di ‘immagine’ e l’occupazione di una nicchia scoperta. Ovviamente non si può creare una buona immagine di sé se poi l’offerta fa cagare, quindi questa non dev’essere letta come una scusa per trascurare la qualità; ma il rapporto è dialettico, e una cosa aiuta l’altra.

Qualche settimana fa, parlando del romanzo di Valentina Coscia, ho tirato in ballo l’editore WePub. Rientra nella definizione: piccola casa editrice che pubblica solo in digitale. Ho avuto una breve discussione con un signore di WePub circa il ruolo dell’editore nella pubblicazione del libro della Coscia. Di sicuro un editore che faccia il suo lavoro – valutazione, editing, promozione, etc. – e lo faccia bene, offre un servizio all’autore.
Ma se vuole che questo servizio sia percepito anche dal lettore, l’editore deve rendersi riconoscibile. Se WePub vuole che il lettore associ il romanzo che stia leggendo a WePub, così come io associo i romanzi di Mellick e Donihe e la Villaverde e Burke a Eraserhead Press, deve fare un lavoro aggiuntivo. Ossia focalizzarsi su un genere circoscritto, specializzarsi; lavorare per diventare il punto di riferimento di *quel* genere, e di *quei* lettori. Farsi riconoscere come gli Esperti, i Professionisti di quel segmento della narrativa. Che significa anche farsi un mazzo così per documentarsi su quel genere, e diventare davvero esperti – come ha fatto il Duca con lo Steampunk. D’altronde, se uno è appassionato di narrativa, e del genere di cui si occupa, documentarsi non dovrebbe essere un peso, no?
I piccoli non possono permettersi il lusso di essere generalisti.

Eraserhead Alien

Nuovi piccoli editori nascono…

Breve storia di una centrale elettrica a carbone

Pink Floyd PigPrendiamo due cose che apparentemente non c’entrano niente. La prima è High Rise, il romanzo di J. G. Ballard del 1975 che secondo me è il suo più bello; la seconda è Animals, uno dei migliori album dei Pink Floyd.

Di High Rise ho già parlato in uno dei miei Consigli oltre un anno fa. Il grattacielo del titolo è un nuovissimo supercondominio – parte di un nuovissimo supercomplesso di condomini fatti in serie – messo in piedi alla periferia di Londra. Completamente autosufficiente, ospita al suo interno supermercati, parrucchieri, scuole per i bambini, una piscina, un solarium; si affaccia su un bellissimo giardino e sui parcheggi per i residenti. Il condominio di Ballard è un luogo chiuso, che non ha bisogno del mondo esterno, e infatti i suoi abitanti cominceranno progressivamente a chiudersi in sé stessi e a fare del palazzo multiaccessoriato il baricentro della loro esistenza.
Gusto per l’enfasi grottesca a parte, Ballard queste cose non se l’è inventate di sana pianta. Con una popolazione che ha continuato a crescere per gran parte del Novecento – di recente ha superato gli otto milioni, e questo senza contare l’area metropolitana al di fuori della città vera e propria – Londra negli ultimi quarant’anni ha intrapreso tutta una serie di progetti di rivalutazione della periferia e delle zone degradate della città. Molti, ahimè, rimasti sulla carta; e la crisi non aiuta a trovare investitori.

La copertina di Animals ritrae una fabbrica gigantesca, che erutta spirali di fumo dalle quattro ciminiere bianche; tra le ciminiere si libra il famoso porco con le ali. La fabbrica suddetta è la Battersea Power Station, una centrale elettrica a carbone situata poco fuori dal centro di Londra, sul lungo Tamigi; da Westminster, attraversato il ponte, sarà una mezz’ora a piedi in direzione sud-ovest.


Pigs (Three Different Ones), dall’album Animals

L’album dei Pink Floyd non è stata la prima né l’ultima volta che la Battersea ha fatto capolino nella cultura pop – pare che sia apparsa anche in qualche episodio delle vecchie serie del Doctor Who – ma di certo è quella che ha reso la centrale famosa nel mondo. Quanto ai londinesi, sembra che abbiano sviluppato un vero fetish per la centrale, tanto da farci pure dei magnetini per frigoriferi.
Guardando la copertina di Animals, o pure una foto recente (magari un po’ contrastata con Photoshop), si capisce subito perché: la Battersea è figa. Distillato purissimo di Art Deco anni ’30, con queste torri che ricordano la facciata di una cattedrale gotica, la mole titanica in mezzo ai bassi edifici circostanti, l’aggressività degli angoli squadrati. Dà l’idea, ancora oggi, di un edificio futuristico, come doveva immaginarsi l’architettura futuristica la gente a cavallo tra le due guerre mondiali, prima della rivoluzione del vetro e dei grattacieli agilissimi di duemila piani. Guardando le linee della centrale di Battersea, mi sembra di rivedere le illustrazioni degli anni ’20 della rivista Popular Mechanics ripubblicate nel bellissimo libro-nostalgia consigliato da Giobblin, The Wonderful Future That Never Was. La trovo ipnotica.

Pur riconosciuta come simbolo culturale della città, la centrale è in decadenza, e lo è da molti decenni. La Stazione A fu chiusa nel 1975, lo stesso anno della pubblicazione di High Rise; la Stazione B resisté altri otto anni. Molti progetti furono avviati per recuperare la centrale e rivalutare l’area – il mio preferito era quello di trasformarlo in un parco a tema con museo – e la proprietà del sito della Battersea è passata di mano molte volte. Ma ogni tentativo si è arenato di fronte alla mancanza di soldi e alla prospettiva di un ritorno economico insufficiente. E intanto la Battersea diventava ogni giorno più rovinata. Un peccato, no?
Finché – finché un bel giorno, lo scorso luglio, non se la comprano i malesi. Per la precisione la Sime Darby, colosso multinazionale nazionalizzato della Malesia i cui affari spaziano dall’industria energetica al mercato immobiliare, dalle piantagioni agli ospedali passando per gli impianti petroliferi. Il progetto della Sime Darby è il seguente: trasformare la Battersea Power Station e il terreno circostante in un nuovo quartiere di super-lusso che comprenderà condomini per ricchi, uffici, negozi, alberghi e aree verdi. La stessa centrale elettrica sarà ristrutturata e rimessa in funzione – n modo non inquinante, presumo, dato che le emissioni della vecchia centrale erano veleno puro per il Tamigi – e per il 2018 è pure prevista l’inaugurazione di un’estensione della metropolitana di Londra che la raggiunga. Cominciate a capire dove voglio arrivare, no?

Battersea Power Station

Bellezza! Il tuo nome è ciminiere!

Detto così, il progetto sembra essere una di quelle robe che sulla carta funzionano sempre benissimo, ma poi ne viene completata una su cinquanta. Be’, proprio la settimana scorsa sono stati messi in vendita i primi 800 appartamenti (ancora da costruire, naturalmente), e sapete cosa?, in tre giorni ne avevano già venduti 650. Il progetto prevede il completamento della vendita del pacchetto di 800 unità per il prossimo Aprile, dopodiché si comincerà a costruire. Date un’occhiata a questo articolo.
Insomma, sembra che si farà. Si sta già facendo. Ballard immaginava una periferia londinese che si tappezzava di isole condominiali autosufficienti; quello che sta accadendo a sola mezz’ora a piedi da Westminster è un’opera ancora più enorme delle sue fantasie. E un po’ meno inquietante, dato che dovrebbe diventare un magnete per turisti. Peccato che Ballard sia morto, solo tre anni fa – mi sarebbe piaciuto sapere cosa gliene paresse.

Fa ancora un po’ strano pensare a questi piccoli paesi orientali che si prendono, qua e là, lotti della Vecchia Europa. Gli imprenditori cinesi si stanno comprando pezzo a pezzo i pregiati vigneti del Bordeaux e della Borgogna, e ora facoltosi malesiani di Kuala Lumpur si comprano a scatola chiusa appartamenti affacciati a nord sul Tamigi e a est sul gioiello dell’Art Deco. Non solo la Cina, ma anche i paesi dell’ASEAN – più in piccolo – stanno crescendo a ritmo accelerato; e ormai ho il sospetto che si affaccino più grattacieli sulla sponda asiatica del Pacifico che su quella occidentale.
E’ una mia fissa da anni, ma ne sono sempre più convinto: l’ASEAN sarà la next big thing dopo i BRICS1. Quando Cina e India saranno mercati ormai maturi da cui non aspettarsi più grosse sorprese, allora verrà il turno dell’Indonesia, e più in piccolo di Malesia, Vietnam, Thailandia, e sì, forse anche Filippine. Ci aveva visto giusto Dick, ancora negli anni ’50, quando nel suo Solar Lottery collocò la capitale mondiale del XXII secolo a Batavia (la moderna Jakarta). Se io decidessi mai di scrivere un romanzo ambientato nel futuro – cosa che non succederà – farei di sicuro la stessa scelta (e sì, Giovanni, ci sarebbero i treni a levitazione che vanno sul mare! ^-^).

Battersea Power Station Renewing Project

Ecco come potrebbe diventare il sito della centrale tra pochi anni! Tramonto romantico incluso. Grazie Malesia!

Purtroppo non potremo mai vedere quel giorno lontano con i nostri occhi; il giorno in cui Makassar sarà il centro finanziario e commerciale del globo, e al largo dell’isola di Celebes si innalzerà l’ascensore orbitale che permetterà di fare viaggi Terra-Luna in due ore scarse! Mi accontenterò, nel 2018 e giù di lì, quando sarà pronta, di fare un salto a Londra a guardare il fumo sollevarsi dalle quattro ciminiere della centrale di Battersea.

…and now, something completely different!


Summer ’68, da Atom Heart Mother ❤

(1) Acronimo per Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa: i cinque paesi emergenti più importanti degli ultimi anni.Torna su

Gli Autopubblicati #06: Ultimo Orizzonte

Ultimo OrizzonteAutore: Valentina Coscia
Genere: Fantasy / Post-Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 2012
Pagine: 177
Editore: WePub

Spéza è una città condannata. Un tempo nota come La Spezia, fiorente porto industriale della Liguria a un tiro di schioppo dalle Cinque Terre e da Portovenere, l’innalzamento del livello del mare l’ha trasformata in una palude mefitica. Per contrastare l’avanzata delle acque, gli abitanti hanno eretto la muagia, un muro di rottami e detriti che circonda Spéza da un capo all’altro della costa. Manovrate dalla casta dei massacàn, i “muratori”, le quindici Pompe della muagia lavorano incessantemente per cacciare fuori l’acqua che continua ad infiltrarsi nell’Entromuro.
Artibano er semo è l’ultimo dei massacàn, un lavoro che nessuno vuole più fare. Passa le sue giornate nella solitudine della muagia, osservando le pompe che una dopo l’altra si guastano e smettono di funzionare. Per salvare Spéza, bisognerebbe recuperare dei pezzi di ricambio dall’unico luogo in cui ancora sopravvive l’antica tecnologia – le rovine sommerse della città vecchia – ma tra quei relitti dormono divinità maligne che sarebbe meglio non disturbare. E quando il Vicario della Gese – la Chiesa che comanda col pugno di ferro sulla città – farà convocare Artibano sulla terraferma per trovare una soluzione, la tragedia si metterà in moto.

Valentina Coscia è l’autrice del racconto che ha vinto il concorso Deinos indetto ormai un anno fa da Mr. Giobblin. Lessi e recensii l’antologia nata da quel concorso lo scorso Maggio; e pur bocciandola in gran parte, rimasi colpito positivamente dal racconto della Coscia. Sicché ho continuato a tenerla d’occhio, e non mi sono perso l’annuncio fatto da Giobblin della pubblicazione del suo romanzo post-apocalittico con un piccolo editore indipendente che vende solo e-book (tale WePub).
A rigore, essendo stato pubblicato da un’editore che non coincide con l’autore, Ultimo Orizzonte non potrebbe essere definito un “autopubblicato”. Ma all’atto pratico, per il lettore, non fa molta differenza: si tratta di un romanzo digitale poco pubblicizzato di un autore abbastanza sconosciuto, che si può comprare ad un prezzo irrisorio (2,99 Euro). Vediamo ora se valga la pena sborsare 3 Euro per un post-apocalittico di ambientazione ligure.

Corniglia

E un seguito ambientato a Corniglia no? ❤

Uno sguardo approfondito
La gestione del pov in Ultimo Orizzonte è piuttosto bizzarra. La voce narrante principale è quella del protagonista, ed è in prima persona; tuttavia, un buon numero di capitoli è filtrato attraverso i pov di personaggi secondari, in terza persona. Questo mix di persone, oltre a non avere molta senso, crea anche una certa confusione. La prima volta che succede (nel quarto capitolo), il lettore si aspetta che ciò che sta leggendo sia ancora filtrato dagli occhi di Artibano (anche perché il capitolo si apre con un giudizio di valore: “Giobatta non è mai stato bravo con le parole, ma non glien’è mai fregato niente”), e ci mette un po’ a capire che l’autrice è passata alla terza persona e che il pov è di un altro personaggio (il sopracitato Giobatta). All’inizio di ogni nuovo capitolo, il lettore si trova a domandarsi se si è tornati alla prima persona o c’è ancora una terza – e mi è capitato un paio di volte di sbagliarmi per alcune righe (scambiando un pov in terza per quello in prima o viceversa) e dover poi ricominciare dall’inizio col filtro mentale corretto.
Ora, posso anche immaginare che esistano storie in cui alternare prima e terza persona possa avere un senso. Ma non è questo il caso: qui crea confusione e basta, oltre a spezzare l’immedesimazione a causa del continuo cambio di “timbro” della narrazione. La prima persona si utilizza quando si vuole immergere il lettore in un unico personaggio, al punto da farlo identificare nella voce narrante; non si può fare dentro e fuori. Se si vuole raccontare una storia corale, invece, se si vogliono mostrare anche dettagli di storia che il personaggio principale non potrebbe vedere, allora si scrive tutto in terza persona, compreso il pov del protagonista – del resto, questo Ultimo Orizzonte funzionerebbe benissimo anche se Artibano fosse un normalissimo pov in terza!
La Coscia, invece, sembra oscillare indecisa tra le due formule di romanzo. Se i capitoli con pov in prima di Artibano sono nettamente preponderanti, capita che ci siano anche due capitoli di fila con pov in terza di personaggi molto secondari, come quello di Catò, la moglie di Giobatta (e, in alcuni casi, pov quasi usa-e-getta). Se non altro la regola “un capitolo – un pov” è netta e non ci sono mai salti di punto di vista all’interno di un capitolo.

La voce narrante di Artibano è piacevole. L’ultimo dei massacàn è il classico ‘eroe scazzato’ alla Waterworld: un tipo stanco, cinico, pratico, che non si fida della vita, che vorrebbe essere lasciato in pace e che invece, causa mix di personaggi molesti e sensi di colpa, finisce per farsi coinvolgere. Gli avvenimenti di cui è testimone si mischiano ai suoi giudizi e commenti salaci, e in generale i suoi sono i capitoli che si leggono con maggior piacere. Insomma: non è un personaggio nuovo, ma fa il suo lavoro.
Di contro, gli altri personaggi del romanzo sono piuttosto pallidi. Ognuno ha un suo ruolo all’interno del plot e assolve alla sua funzione, ma di loro non rimane granché a lettura finita. Unica eccezione positiva è a mio avviso quella di Catò: un personaggio che di suo aggiunge poco alla trama principale, chiusa in casa com’è a badare al figlio in attesa del rientro a casa del marito; ma che trasmette in modo convincente sia l’atmosfera rurale-impoverita in cui vivono le famiglie di Spéza, sia il suo dramma privato, di moglie che si ritrova per marito una “cosa” fredda e irriconoscibile. Altre piccole note di merito sono la storia del vecchio Vicario cieco, condannato a comandare su una città che non può più vedere, e il rapporto tra Rafé e Richeto.

Kevin Kostner Waterworld

“Fottetevi tutti, me ne torno a casa.” “Non così in fretta…”

Il problema principale nella gestione dei personaggi è la loro tendenza all’isteria. Spesso e volentieri, in Ultimo Orizzonte, quando all’interno di un dialogo due personaggi si trovano ad esprimere posizioni contrastanti, oppure uno dei due commette un errore che nuoce all’altro, i due suddetti degenerano in una raffica di insulti che può durare anche parecchie righe. Questo anche durante scene d’azione! Immaginate che il cattivo si sia messo in moto, stia per attivare il suo terribile piano, e insomma non c’è tempo da perdere, la tensione è alle stelle, e questi due aprono e chiudono ogni poche pagine i loro siparietti da bambini di cinque anni. Due personaggi che degenerano in modo ricorrente sono Artibano e Rafé:

«Cosa succede?»
«Cazzo ne so, io?»

E qualche riga dopo:

«Ma cosa vuoi che vedo, in queste condizioni?»
«E allora stappati le orecchie e ascolta! Non voglio ritrovarmi quel maledetto elicottero attaccato al culo. Renditi utile, per una volta, massacàn».
«Vaffanculo, margon di merda».
«Quando scendiamo ti spacco la faccia».

Queste scene sono un continuo. Ora, qualcuno potrebbe anche spacciarmele come “reazioni alla tensione di essere di fronte al pericolo”. Ma non è così. Questi non sono ragazzini abituati a una vita di comfort e che sclerano come in un horror americano alla prima cosa che non quadra; questi dovrebbero essere uomini vissuti, abituati alla fatica, agli incidenti, alle disavventure, alla crudeltà della vita. Mi aspetto gente con le palle e l’aplomb dei Malavoglia di Verga. Insulti a freddo o smargiassate machiste ogni tanto ci stanno, fanno parte del contesto; ma questi accessi di aggressività infantile e controproducente (perché li bloccano, li distolgono da quello che stanno facendo, li rendono meno efficienti) non fanno che sospendere l’incredulità del lettore, e ricordargli che quelli non sono uomini veri ma personaggi sfuggiti al controllo dell’autrice.
Per il resto, la prosa della Coscia fa il suo dovere. A volte indulge nell’aggettivo inutile (la “puzza tremenda”, il “massiccio portone”), ma in generale scrive in modo molto asciutto e concreto. La sua Spéza si può toccare, i suoi personaggi si sa esattamente cosa pensano e cosa provano. Riesce a descrivere in modo chiaro azioni non scontate, come le manovre di immersione subacquea dell’equipaggio del Moscone (di cui ho dato un saggio nel secondo estratto, in fondo all’articolo). Il ritmo è sempre molto rapido, molto plot-driven, le descrizioni sintetiche e precise – a volte sono pure troppo brevi! Mi sarebbe piaciuto visualizzare Spéza un po’ meglio – e, quel che è meglio, a differenza della maggior parte degli autori italiani la Coscia non si sbrodola in fiumi di domande retoriche.

I Malavoglia

Gli abitanti di Spéza dovrebbero assomigliare un po’ di più a questi qua.

Ma il limite principale del romanzo a mio avviso non sta nella prosa, bensì nella trama. Premetto subito che qui si entra in un territorio meno oggettivo e più aperto alla discussione. Nei primi capitoli, Ultimo Orizzonte ricorda da vicino i mondi post-apocalittici e invasi dall’acqua di Bacigalupi, e in particolare Ship Breaker (ma anche un pizzico di The Blue World di Vance): fantascienza soft, un po’ slice of life, che mostra come gli abitanti di questi mondi degradati tentino di sopravvivere e di migliorare la propria condizione sociale. Con una diga sul punto di cedere, una cultura tecnica in rapido declino e un vecchio che amministra una città ripiombata nel Medioevo col pugno di ferro, c’era un sacco di materiale per un plot originale e mai visto in Italia.
E invece. Invece anche Ultimo Orizzonte si butta nel mare dei cliché dell’urban fantasy: una scia di delitti paranormali, una creatura malvagia risvegliata da un sonno secolare, divinità del folklore locale e un Prescelto chiamato dai suddetti déi a fermare la minaccia. L’interessante mondo in declino di Spéza diventa il palcoscenico della più classica delle storie d’azione fantasy, perdipiù condita di plot-holes1. Inoltre, non si può dire che la parte sovrannaturale sia curata come quella post-apocalittica “realistica”. Una breve parte del romanzo è ambientata a Portovenere (sfruttando il concetto di luogo di culto dedicato a Venere), ma quel che ci è mostrato del luogo è piuttosto anonimo; la Coscia ci appiccica sopra il nome “Portovenere”, ma poteva anche essere un altro posto e non si sarebbe sentita la differenza.
Nonostante il sentore di “già visto millemila volte” che attraversa quasi tutto il romanzo, comunque, la trama è disseminata di qualche piccola perla che vale la pena di leggere. Su tutte, uno scontro sott’acqua tra due personaggi in tuta da palombaro: una roba fighissima che non ho mai letto da nessun’altra parte!

La Spéza della Coscia, insomma, è un’ambientazione molto sottosfruttata. Ed è un peccato, perché di suo è davvero figa. Le case di legno affastellate le une contro le altre, il legno marcio e la puzza del quartiere povero di Fossamastra; la Gese (Chiesa) dove vive il Vicario, dominata dal profilo arrugginito dello scheletro di un elicottero caduto; l’antica città ormai ricoperta da metri d’acqua, dove si immergono i margòn (palombari) a ritrovare tesori e vecchie attrezzature. L’idea di una città che, anche amministrativamente parlando, sembra tornata al Medioevo, divisa com’è in quartieri semi-autonomi, ciascuno dei quali nomina un rappresentante che partecipa alle assemblee e va a parlare al Vicario.
E poi c’è la muagia con le sue pompe, ciascuna col suo numero che è anche il suo nome. Lo stato di abbandono, la sporcizia, la solitudine di Artibano nella sua cella, il camminamento sopra la diga da cui si può vedere la città da una parte, e il mare aperto dall’altro, rendono la muagia molto affascinante.; peccato non aver dedicato più pagine alla semplice descrizione della vita quotidiana dell’ultimo dei massacàn al suo interno. E peccato anche anche la Coscia non sia ingegnere o non abbia un amico ingegnere che l’aiutasse, perché se c’è un punto debole in questa ambientazione, è che si vive poco il lato ‘tecnico’ della muagia, la fisica delle Pompe e la loro gestione. Molto suggestivo invece l’alone di mistero sovrannaturale attorno alla diga, e ai disgraziati incidenti che hanno spazzato via, uno dopo l’altro, tutti gli altri massacàn.

Muratore

Esempio di Prescelto.

Il tocco finale all’ambientazione lo dà però il dialetto ligure. Come ormai mi capita sempre più spesso di trovare nella narrativa di genere (ma in realtà lo faceva già Conrad nei suoi romanzi malesi di fine Ottocento), la Coscia sparpaglia dentro e fuori dai dialoghi termini ed espressioni del dialetto ligure. E il ligure è bellissimo! Certe espressioni, soprattutto se messe in bocca a personaggi anziani, sembrano proprio tratte di peso dalla vita vera e sono alcuni dei momenti che suonano più ‘autentici’ in tutto il romanzo. Per esempio in questo passaggio (l’espressione dialettale è alla fine):

Sua nonna gliela cantava sempre, quella canzonetta scema. È la storia di un tizio del Mondo di Prima che aveva creduto di vedere una bestia misteriosa su al Casteo. L’aveva detto a tutti, spaventatissimo, facendosi ridere dietro dalla città intera.
«Però» aveva obiettato lei un giorno, «magari quella bestia c’era davvero, no?»
La faccia rugosa della nonna si era contratta in una smorfia. «Caterina» le aveva risposto secca. «Le bestie, chi, de gambe ghe n’han doi».

Unico appunto a questo proposito, l’abuso di note. Solo nella prima pagina, la Coscia ne concentra sei: inutile dire che spezzano la lettura. E in realtà non c’è veramente bisogno della maggior parte di quelle note. Cosa vogliono dire belin, figio de bagassa o Ai cuiosi se ghe strina ‘r cüo lo sa o ci arriva chiunque; e se non ci arriva, be’, fa colore lo stesso. In una eventuale versione 2.0 del romanzo, ridurrei le note di due terzi e lascerei solamente quelle indispensabili, cioè quelle che spiegano espressioni realmente criptiche o termini importanti ai fini del romanzo (margòn, massacàn, Gèse, braga).

Devo essere onesto – se questo fosse stato un romanzo straniero, come quelli che presento nei Consigli, non ne avrei parlato. Non perché sia brutto, non lo è; ma perché non spicca abbastanza.
Il discorso cambia se lo collochiamo nel ristagnante panorama italiano. Innanzitutto, Ultimo Orizzonte è sicuramente più bello, più originale e meglio scritto della grande maggioranza dei romanzi fantastici regolarmente pubblicati dalle grandi case editrici della carta. Lo collocherei sotto Pan di Dimitri2, ma molto sopra Alice nel paese della Vaporità. Tra gli Autopubblicati presentati sul blog, è inferiore al solo Marstenheim di Angra, e sicuramente superiore a La nave dei folli di Girola. Soprattutto, l’autrice mi conferma nell’idea che mi sono fatto di lei – ossia che, pur non sapendo sempre quello che fa sul piano tecnico, ha il potenziale per diventare una scrittrice molto interessante.
Ultimo orizzonte, in conclusione, è un romanzo piacevole e peculiare all’interno del panorama italiano. La storia corre via veloce, leggera, e l’ultimo terzo del romanzo, in particolare, si legge tutto d’un fiato. Quindi buttateci un occhio. Ne vale la pena.

Francesco Dimitri

“La smettiamo di tirarmi in mezzo?”

Dove si trova?
Come ho scritto in apertura di articolo, Ultimo Orizzonte si può comprare sul sito dell’editore, WePub, all’onesto prezzo di 2,99 Euro, nei formati .epub e .mobi. Il che mi fa veramente piacere, perché è questo il giusto prezzo per un libro in formato digitale. Inoltre, cosa più importante, non c’è DRM.
Di recente al (magro) catalogo di WePub si è aggiunto un racconto della Coscia ambientato a Speza di una trentina di pagine, La sentinella del Golfo. Interessante metodo di promozione: per comprarlo non bisogna sganciare soldi, ma collegarsi a Twitter attraverso il sito di WePub e scrivere un tweet sul libro. Io non uso Twitter, quindi non ho scaricato né tantomeno letto il racconto, ma magari è bello; e potreste avere un saggio aggratis dell’ambientazione di Speza prima di sganciare soldi per il romanzo.

Chi devo ringraziare?
In primo luogo Mr. Giobblin, che per primo (tra i pochi blogger che sporadicamente seguo) ha segnalato l’esistenza del romanzo. Ma non so se e quando l’avrei letto se non fosse stato per la mia collaudata beta-reader, Siobhàn, che se l’è scaricato appena saputa la bella notizia, mi ha detto che era carino e me l’ha raccomandato. Per poi rimproverarmi perché mi ero dimenticato di scrivere questa sezione!

Qualche estratto
Il primo estratto viene dal primo capitolo e presenta in breve tutti o quasi gli elementi centrali dell’ambientazione, ossia le rovine di Spéza, la muagia, i margòn e il loro lavoro, filtrati attraverso il pov in prima persona di Artibano. Il secondo estratto è preso invece dal quarto capitolo, il primo in terza persona, e mostra un elemento di trama che a me piace molto: le tecniche di immersione dei margòn.

1.
Lento, il sole cala dietro le colline color cenere: le ombre si allungano, il miserabile sipario di calore puzzolente si schiude ed eccola là.
Gli edifici divelti che sorgono dall’acqua, il profilo tondo della Gese, con il vecchio elicottero contorto e la croce monca a dominare la distesa immobile dell’Entromuro.
Il cadavere spiaggiato di una città.
Spéza.
Giobatta mi osserva con la coda dell’occhio e l’aria schifata di uno che sente una puzza tremenda.
Di me può pensare quello che gli pare, ma la verità è che lui e i suoi margon ieri non sono riusciti a combinare un belin: tanto casino per tirare su la carcassa marcia di un’automobile. Un mucchio di roba inutile: lamiere arrugginite, bighi di mare, ingranaggi inservibili.
Glie l’ho già detto, dove devono cercare, ma questo figio de bagassa ha ghignato con quei quattro denti che si ritrova e poi ha sputato: «Ai cuiosi se ghe strina ‘r cüo».
E, mentre i suoi compari si davano di gomito, si è fatto sotto, una montagna di muscoli frementi. Sono andato via strisciando, inseguito dalle risate.
Sempre la stessa vecchia canzone: brutte voci, brutte ombre, brutte cose nelle acque profonde.
Ma la muagia non resisterà ancora a lungo: denti de can e altre bestie la rodono, il metallo arrugginisce, l’acqua si infiltra sotto le fondamenta. Una dopo l’altra, le pompe che impediscono al mare di inghiottire la città si guastano: la Cinque si è fermata, la Tredici tribola a tenere il passo con la Dodici e la Quattordici, la Dieci va a regime ridotto per una perdita nel condotto del vapore. Ora anche la Sette ha deciso di tirare il ganbin. Loro mollano, il livello dell’Entromuro si alza e io sono solo.
L’ultimo massacàn rimasto.

2.
Il Cimitero delle Navi. A sentirlo nominare, i vecchi fanno scongiuri, sputano e non dicono mezza parola. Maledetto semo, lui, suo nonno e le sue cazzate.
Mentre Bacicia lega il Moscone alla bitta, Angiolo salta sul pontone e, nell’avvicinarsi alla ruota di legno della pompa dell’aria, si stira le braccia e la schiena. Felicìn va prendere la cima zavorrata e getta la pietra che fa da ancora. Lui osserva la corda divincolarsi e venire inghiottita dall’acqua e non riesce a trattenere un brivido al pensiero che, fra poco, seguirà la stessa strada.
Fianco a fianco come sempre, Rafé e Richeto si guardano. La seconda pompa attende il suo addetto. «Rafé alla pompa, Richeto con me».
Il primo abbassa la testa, l’altro apre con più forza del necessario il baule dell’attrezzatura e tira fuori le scarpe piombate, l’elmo e la tuta impermeabile.

Lascia andare l’ultimo piolo e la zavorra lo trascina giù.
La luce avvizzisce, il freddo inizia a mordere. Meglio non pensarci e badare solo ai gesti che lo riportano a casa tutti i giorni che il Santo manda in terra.
Controllare lo scarico dell’aria.
Eseguire le manovre di compensazione.
Regolare l’afflusso allo scafandro.
Gonfiarlo per controbilanciare l’aumento di pressione.
Rallenta, planando lungo la cima.
Quando il nodo che segnala gli ultimi due metri gli passa sotto le dita, piega le ginocchia per assecondare l’impatto con il fondo e una nuvola di sedimento lo avvolge.
Ora c’è solo da aspettare che tutta questa porcheria torni a posarsi. Non c’è bisogno di guardare per sapere che Richeto, lì accanto, fa la stessa cosa.
Il cordino di comunicazione si tende e il campanello dentro l’elmo squilla, facendolo sussultare. Da su vogliono sapere se è tutto a posto. Lui controlla che il coltello sia nel fodero e accende la torcia.
Automobili schiantate e arrugginite, le gambe di una statua troncate al ginocchio, il moncone di un albero spaccato a metà. Gli edifici sono ombre in agguato nell’acqua torbida. Si gira verso Richeto, che tocca la braga come se sgranasse la collana di Rafé.
Tira il cordino in risposta. Ma non c’è un belin, qui sotto, che sia a posto.

Tabella riassuntiva

Un post-apocalittico ambientato nelle rovine di La Spezia! Trama cliché su un prescelto che deve fermare un dio cattivo.
Gradevole voce narrante del cinico protagonista. Infelice scelta di alternare prima e terza persona.
Buon mostrato e ritmo rapido, plot-driven. Personaggi con tendenza all’insulto isterico.
In conclusione: MIGLIORABILE, MA PROMOSSO

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(1) Ne cito giusto un paio.
Primo, le meduse acide. Sono un elemento cruciale della trama, perché rendono impossibile muoversi nell’acqua dell’Entromuro con qualsiasi imbarcazione che non sia la Barca Vicaria. Senonché, alla fine del libro, i nostri eroi navigano fino alla muagia su una barca diversa da quella Vicaria. In teoria dovrebbe essere del tutto impossibile – ma le meduse? Pof. Sparite.
Altro elemento che non torna. Teoricamente, la divinità è stata risvegliata proprio da Artibano; ossia, dalla sua richiesta di andare a cercare pezzi di ricambio nella città vecchia. Se non fosse stato per lui, la divinità sarebbe rimasta là sotto. Ora, da un punto di vista accademico è vero che prima o poi il problema andava affrontato, e quei pezzi di ricambio recuperati; ma possibile che Artibano non senta un fortissimo senso di colpa per aver liberato l’entità? Dovrebbe essere questo l’elemento preponderante per convincersi che la faccenda lo riguarda di persona e che non può lavarsene le mani, questo l’elemento su cui il Santo dovrebbe fare pressione per persuaderlo. Ma l’elemento passa subito in secondo piano.Torna su

(2) Non è che Pan mi sia piaciuto particolarmente, ma riconosco che è il migliore tra i fantasy contemporanei italiani da me letti, ed è ormai usato in tutti gli ambienti che frequento come la pietra di paragone per ogni nuovo romanzo fantastico italiano.
In realtà questo primato potrebbe essere stato scalzato da tempo da romanzi che non ho ancora letto. Per esempio, nutro molte aspettative per i libri di Francesco Barbi, L’acchiapparatti e Il burattinaio. Il primo l’ho anche comprato, quindi presto o tardi lo leggerò e vi farò sapere.Torna su