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Bonus Track: The Alchemist / The Executioness

The AlchemistAutore: Paolo Bacigalupi
Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / Sword & Sorcery
Tipo: Novella

Anno: 2011
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 90

Difficoltà in inglese: **

 

The ExecutionessAutore: Tobias S. Buckell
Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / Sword & Sorcery
Tipo: Novella

Anno: 2011
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 100

Difficoltà in inglese: **

A chiunque sia scoperto a usare la magia, sarà tagliata la testa sulla pubblica piazza: così ha deciso il Sindaco di Khaim. Ma non è una pena troppo dura, perché in gioco è la sopravvivenza stessa della città. Ogni volta che viene lanciato un incantesimo, da qualche parte nasce un rovo. E i rovi crescono, soffocano le piante, i campi, le case; e pungersi con le loro spine significa cadere in un sonno che può portare alla morte. E per quanto li tagli, sempre ricrescono. Così è caduto il grande impero di Jhandpara, un tempo governato da potentissimi maghi simili a dei: stretto nell’abbraccio mortale dei rovi. Ora i rovi circondano Khaim. Eppure i suoi abitanti, nel cuore della notte o nel segreto delle loro cantine, continuano a lanciare magie per i propri scopi privati: e i rovi continuano a crescere.
Tana è la figlia del boia. Il mestiere di suo padre è la principale fonte di sostentamento della famiglia. Ma ormai suo padre è vecchio, e malato, e non riesce più a sollevare quell’ascia così pesante. Così, quando la chiamata arriva, Tana non può fare altro che indossare quel cappuccio che nasconde il volto, fingersi suo padre e diventare lei stessa boia. Ancora non sa che, quello stesso giorno, tutto a Khaim sta per cambiare – e la vita della sua famiglia sarà sconvolta per sempre.
Jaoz è un alchimista. Un tempo uno dei più facoltosi e ricercati orafi di Khaim, da più di dieci anni si è messo in testa di salvare la sua città e trovare un metodo alchemico per distruggere i rovi una volta per tutte. Ma tutti i suoi tentativi sono falliti. Oppresso dai debiti e dalla malattia della figlioletta Jiala, sa di non avere più molto tempo a disposizione, e metterà tutte le sue energie in un ultimo, disperato tentativo. Quello che non sa, è che anche se riuscisse, la sua scoperta potrebbe essere utilizzata in modi che non immagina…

Ogni volta che viene castato un incantesimo, da qualche parte nel mondo un coniglietto muore sbocciano rovi mortali: questa è la premessa dell’ambientazione condivisa di The Alchemist e The Executioness, due novellas scritte rispettivamente da Paolo Bacigalupi e Tobias Buckell in questo progetto collaborativo orchestrato da Subterranean Press. Entrambe le storie prendono le mosse da due persone normali, due abitanti della città di Khaim – la figlia del boia e l’alchimista – quando la loro vita e quella dei loro cari viene completamente sconvolta. Nonostante qualche richiamo reciproco, i due libri sono del tutto indipendenti, e possono quindi essere letti in qualunque ordine si voglia.
Di solito sono scettico delle collaborazioni, e me ne tengo alla larga. Cosa mi ha fatto cambiare idea questa volta? Primo, la presenza di Bacigalupi, uno scrittore davvero bravo che ho amato per The Windup Girl (mentre non posso dire lo stesso di Buckell, un tizio ignoto che è famoso soprattutto per i suoi libri sul franchise di Halo); secondo, e più importante, questa ambientazione condivisa sembrava offrire una visione della magia diversa dal solito. Se molti autori di fantasy medievaleggiante cercano di limitare lo strapotere della magia circoscrivendone l’uso a pochi individui e poche occasioni, in The Alchemist e The Executioness la logica è quella opposta: proprio perché la magia è diffusa e alla portata di tutti, e quindi tutti ne abusano, la civiltà rischia di essere spazzata via.
Ai fini della mia ricerca sui sistemi magici, di cui vi ho parlato nello scorso articolo, in questa Bonus Track mi concentrerò in primo luogo sul modo in cui è concepita la magia e solo in seconda battuta sulla qualità complessiva dei romanzi.

Magic Bramble Creeper

Le infestazioni di rovi magici possono essere davvero terribili.

Uno sguardo approfondito
Abbiamo visto nello scorso articolo che la magia, pur avendo sempre un ruolo fondamentale per il worldbuilding (nelle storie in cui esiste), può avere diversi gradi di importanza per le storie particolari che andiamo a raccontare – per il destino dei nostri protagonisti e personaggi pov. Nel caso di queste due novellas, non soltanto la magia è il motore della storia – Tana è la figlia del boia incaricato di giustiziare chi viene scoperto a usare la magia, Jaoz ha dedicato alla sua vita a combattere i rovi magici – ma è anche il fulcro di un affascinante moral play. Lanciare magie è sbagliato, certo. Ma se tua figlia sta male? Se quando tossisce sputa sangue? Se fosse in pericolo di vita, e un piccolo incantesimo potesse regalarle mesi di vita, non sareste disposti a farlo, anche se questo dovesse significare che da qualche parte – nel cortile del vostro vicino, nei campi della città o persino in una contrada lontano – spunta qualche nuovo rovo?
E’ ciò che si chiede Jaoz in uno dei primi capitoli di The Alchemist, quando guarda la sua figlioletta peggiorare di giorno in giorno:

I avoided using magic for as long as possible, but Jiala’s cough worsened, digging deeper into her lungs. And it was only a small magic. Just enough spelling to keep her alive. To close the rents in her little lungs, and stop the blood from spackling her lips. Perhaps a sprig of bramble would sprout in some farmer’s field as a result, fertilized by the power released into the air, but really it was such a small magic, and Jiala’s need was too great to ignore.

Ricordate però cosa vi dicevano da piccoli, quando buttavate una cartaccia per terra? “Certo, quella carta non è niente, ma se tutti facessero così…”. E questa è proprio l’impasse che vivono gli abitanti di Khaim. Tutti sanno che non si può fare a meno della magia, ma che al tempo stesso non si può lasciare impunito chi sia scoperto a farlo. Dov’è il punto in cui bisogna sacrificare il bene individuale per quello comune? Chi ha ragione, e chi ha torto?

La magia è integrata in modo elegante nell’ambientazione. Mentre va alla sua prima esecuzione, Tana si imbatte in una sorta di pompieri al contrario: uomini del Sindaco che, vestiti di pelle da capo a piedi – per evitare di entrare in contatto con le letali spine dei rovi – vanno in giro bruciando le radici che ogni giorno spuntano nei giardini o nelle crepe della strada. Ma quando un rovo brucia, delle piccole sacche contenute nella corteccia esplodono, liberando piogge di nuovi semi che finiscono ovunque e presto germoglieranno nuovi rovi. Per questo i bambini di strada, e i poveri che non hanno più niente – e tra questi Jiala, la figlia di Jaoz – possono essere visti passare le giornate a prendere i semi e metterle in appositi sacchetti. Ogni cento semi raccolti, il comune darà loro una moneta di rame.
Ma questo continuo bruciare e raccogliere della povera gente è come il mito di Sisifo: una fatica inutile e frustrante. Perché ogni giorni i rovi rispuntano, più robusti e più ramificati di prima, resi più forti dalle tante piccole magie che, con l’odore speziato che liberano nell’aria, vengono lanciate ogni giorno nel buio delle cantine o in mezzo ai campi nelle notti senza luna. I rovi stessi sono mostrati con efficacia e suscitano angoscia: in un passaggio, Bacigalupi indugia sulle minuscole spine attaccate a ogni singolo ramo, spine vive che si contorcono come vermi, e sono pronte ad attaccartisi alla pelle al minimo contatto e a liberare il loro veleno mortale. Il risultato è uno strana mescolanza di atmosfere alla Jack Vance – con queste città dal sapore mediterraneo e rinascimentale, la magia alla portata di tutti, l’indulgere sulla vita urbana e dei mercanti piuttosto che sul mondo feudale – e di una sottile angoscia sovrannaturale.

Sleeping beauty hipster

Delle due storie, quella che davvero si focalizza sul funzionamento della magia (pur non scendendo mai troppo nel dettaglio) e lo scontro con i rovi è The Alchemist. The Executioness, purtroppo, dopo un inizio molto promettente, centrato sul senso di colpa della protagonista nell’essere costretta a uccidere persone per crimini che hanno compiuto senza avere altra scelta, prende una via completamente diversa – diventando una quest di vendetta abbastanza classica. Con la scusa di avere una protagonista femminile che si trova a maneggiare un’ascia, la novella di Buckell diventa una storia – anche interessante – sul ruolo delle donne nella guerra.
La figlia del boia è una donna forte, abituata nella vita a sporcarsi le mani, a sgozzare maiali e a non piangere mai, ma Buckell riesce a evitare di cadere nei cliché del genere: a differenza della Nihal della Troisi, Tana sa di non poter vincere in un normale scontro fisico con un uomo, e quindi fonderà le sue strategie sugli attacchi a sorpresa, sui bluff, sul costruirsi una reputazione sovrannaturale. Alcune battaglie, e soprattutto gli scontri campali, mi sono suonati un po’ inverosimili, ma non sono abbastanza esperto sull’argomento per giudicare, e in ogni caso questi momenti sono raccontati da Buckell con troppa fretta, e troppo poco mostrato, per poterli visualizzare bene. In ogni caso, pur non essendo priva di punti di interesse, la direzione presa da The Executioness la allontana dal tema centrale, ossia il moral play magico. Il problema dei rovi è presente ma distante, se ne parla molto ma lo si vede poco – in definitiva, mi pare un’occasione sprecata.

Più interessante è The Alchemist. In poche pagine riesce a mostrare con efficacia i rapporti tra i personaggi principali, e come questi siano determinati dalla lotta ai rovi: la disperazione dell’alchimista, costretto a vendere i suoi ultimi lussuosi mobili per finanziare un progetto che sembra sempre più votato al fallimento; il disprezzo di Pila, l’ultima delle sue serve, nel vederlo cadere ogni giorno di più nella povertà; il misto di affetto e rancore della piccola Jiala.
Bacigalupi è anche il migliore dei due nella prosa. Entrambe le storie sono scritte in prima persona col pov del protagonista – il che è un bene, considerate le dimensioni ridotte delle due novellas – ma se per Buckell questo diventa occasione (soprattutto nelle prime pagine) per una sfilza di infodump sull’ambientazione e il background dei suoi personaggi, Bacigalupi riesce a tenerli al minimo, e questi pochi a filtrarli in modo più naturale attraverso la voce del pov. Bacigalupi mostra molto di più, soprattutto nel mostrare il lancio di incantesimi o il funzionamento del suo balanthast alchemico, mentre Buckell si abbandona facilmente al raccontato e ai riassuntini di avvenimenti, specie nell’ultimo (e cruciale) capitolo. Anche nei momenti drammatici, lo stile del Jaoz di The Alchemist è venato di rassegnato umorismo, laddove tutto The Executioness è scritto in modo grave, serio, monocorde.
Purtroppo anche The Alchemist è ben lontano dalla perfezione. Pur essendo più focalizzato sul tema centrale dell’ambientazione, anche la storia di Jaoz prende nel tempo un’altra direzione – cosa succederebbe se la sua invenzione finisse nelle mani sbagliate? – e diventa una parabola sull’avidità umana, sull’ipocrisia e sui sogni (forse) spezzati. Tutta la sua storyline, inoltre, si fonda sul concetto di trovare una via d’uscita rispetto allo “scambio equivalente” tra magia e maledizione dei rovi: un meccanismo che by definition vanificherebbe il conflitto centrale della storia. Perché, Bacigalupi? Perché?

Nihal della Terra del Vento

The Executioness: still better than Nihal.

Questa collaborazione Buckell / Bacigalupi mi lascia dunque due sapori contrastanti in bocca. Da una parte, riescono nell’intento di creare un mondo vasto e credibile, che sembra molto più grande della singola storia raccontata e pare vivere di vita propria oltre le pagine. Dall’altro, in queste due storie non accade niente di memorabile, non ci sono personaggi particolarmente memorabili, un conceptual breakthrough o un’epicità di fondo; entrambe le storie sanno di incompiuto, di potenziale sprecato, di inconcludenza. Quasi come se queste due novellas fossero un teaser da esibire su Kickstarter: “guardate di cosa siamo capaci, se volete il resto finanziate il nostro progetto”. Peccato che i due libri siano stati pubblicati nel 2011, e non si sia più visto niente: il progetto sembra, per il momento, concluso così.
Stando così le cose, non si chiude nessuno dei due libri davvero soddisfatti. Benché costino poco, non mi sento di consigliare nessuna delle due come lettura di puro piacere. Possono, però, essere interessanti come fonte di idee. Il meccanismo della magia e i conflitti morali che genera è affascinante e reso molto bene, e soprattutto si apre a decine e decine di possibilità non sfruttate. In caso siate interessati, ovviamente il mio consiglio è di partire da The Alchemist, ed eventualmente – in caso rimaniate piacevolmente colpiti – provare anche The Executioness. Posso solo sperare che da questo worldbuilding nasca un giorno qualcosa di più corposo.

Dove si trovano?
Entrambe le novellas possono essere scaricate in lingua originale da Library Genesis (qui il link per il download diretto dell’ePub di The Alchemist, qui invece l’ePub di The Executioness): ringrazio Mikecas per questa informazione.
In alternativa, e se volete premiare gli autori, potete comprarli su Amazon – il prezzo è davvero da fame: 1,99 Euro sia per The Alchemist che per The Executioness. Esiste anche un’audio-book che raccoglie entrambe le storie, ma costa un’enormità e non ha veramente senso per noi italiani.

Full Metal Alchemist meme

Alchimia: non funziona proprio così.

Qualche estratto
Ho scelto un brano per ciascuna delle due novellas, in momenti di conflitto all’inizio delle rispettive storie. In The Executioness, vedremo la protagonista Tana, camuffata nella divisa di suo padre, alle prese con la sua prima esecuzione. L’estratto da The Alchemist ci mostrerà invece l’alchimista Jaoz nel momento in cui sarà costretto a fare la cosa che più odia al mondo: lanciare una magia per salvare la vita della figlia.

1.
 I let the axe fall.
It swung toward the vulnerable nape of the man’s neck as if the blade knew what it was doing.
And then the man shifted, ever so slightly.
I twisted the handle to compensate, just a twitch to guide the blade, and the curving edge of the axe buried itself in the man’s back at an angle on the right. It sank into shoulder meat and fetched up against bone with a sickening crunch.
It had all gone wrong.
Blood flew back up the handle, across my hands, and splattered against my leather apron.
The man screamed. He thrashed in the chains, a tortured animal, almost jerking the axe out of my blood-slippery hands.
“Gods, gods, gods,” I said, terrified and sick. I yanked the axe free. Blood gushed down the man’s back and he screamed even louder.
The crowd stared. Anonymous oval faces, hardly blinking.
I raised the axe quickly, and brought it right back down on him. It bit deep into his upper left arm, and I had to push against his body with my foot to lever it free. He screamed like a dying animal, and I was crying as I raised the axe yet again.
“Borzai will surely consider this before he sends you to your hall,” I said, my voice scratchy and loud inside the hood. I took a deep breath and counted to three.
I would not miss again. I would not torture this dying man any more.
I must imagine I am only chopping wood, I thought.
I let the axe fall once again. I let it guide itself, looking at where it needed to be at the end of the stroke.
The blade struck the man’s neck, cleaved right through it, and buried itself in the wooden platform below.
The screaming stopped.
My breath tasted of sick. I was panting, and terrified as the Mayor approached me. He leaned close, and I braced for some form of punishment for doing such a horrible thing.
“Well done!” the Mayor said. “Well done indeed. What a show, what a piece of butchery! The point has well been made!”

2.
Jiala and I sat in the corner of my workshop, amidst the blankets where she now slept near the fire, the only warm room I had left, and I used the scribbled notes from the book of Majister Arun to make magic.
His pen was clear, even if he was long gone to the Executioner’s axe. His ideas on vellum. His hand reaching across time. His past carrying into our future through the wonders of ink. Rosemary and pkana flower and licorice root, and the deep soothing cream of goat’s milk. Powdered together, the yellow pkana flower’s petals all crackling like fire as they touched the milk. Sending up a smoke of dreams.
And then with my ring finger, long missing all three gold rings of marriage, I touched the paste to Jiala’s forehead, between the thick dark hairs of her eyebrows. And then, pulling down her blouse, another at her sternum, at the center of her lungs. The pkana’s yellow mark pulsed on her skin, seeming wont to ignite.
As we worked this little magic, I imagined the great majisters of Jhandpara healing crowds from their arched balconies. It was said that people came for miles to be healed. They used the stuff of magic wildly, then.
“Papa, you mustn’t.” Jiala whispered. Another cough caught her, jerking her forward and reaching deep, squeezing her lungs as the strongman squeezes a pomegranate to watch red blood run between his fingers.
“Of course I must,” I answered. “Now be quiet.”
“They will catch you, though. The smell of it—”
“Shhhh.”
And then I read the ancient words of Majister Arun, sounding out the language that could never be recalled after it was spoken. Consonants burned my tongue as it tapped those words of power. The power of ancients. The dream of Jhandpara.
The sulphur smell of magic filled the room, and now round vowels of healing tumbled from my lips, spinning like pin wheels, finding their targets in the yellow paste of my fingerprints.
The magic burrowed into Jiala, and then it was gone. The pkana flower paste took on a greenish tinge as it was used up, and the room filled completely with the smoke of power unleashed. Astonishing power, all around, and only a little effort and a few words to bind it to us. Magic. The power to do anything. Destroy an empire, even.
I cracked open the shutters, and peered out onto the black cobbled streets. No one was outside, and I fanned the room quickly, clearing the stench of magic.
“Papa. What if they catch you?”
“They won’t.” I smiled. “This is a small magic. Not some great bridge-building project. Not even a spell of fertility. Your lungs hold small wounds. No one will ever know. And I will perfect the balanthast soon. And then no one will ever have to hold back with these small magics ever again. All will be well.”

Tabella riassuntiva

Il sistema magico è semplice ed elegante. Entrambe le storie tendono ad andare fuori tema.
Angoscioso moral play tra bene individuale e bene comune. Infodump e raccontato a pioggia, specie in The Executioness.
Ambientazione vasta, viva e coerente. Il progetto lascia un senso di incompiutezza.
Spunti interessanti ma niente di memorabile.

Sai che c’è di nuovo

Sai che c'è di nuovo

Non mi aspettavo che la fine dell’estate prendesse un ritmo così frenetico. Gli articoli che ho cominciato a pubblicare a fine Luglio dovevano essere i primi di una trafila più o meno ininterrotta, diciamo uno alla settimana. Invece, già nella seconda metà di Agosto il mondo reale ha cominciato a far piovere sberle.
Comunque. In questo inizio di Settembre stanno succedendo un sacco di cose interessanti per gli appassionati di fantastico; o almeno, del fantastico che piace a me (lol). In attesa di articoli più corposi, ecco dunque una breve carrellata di cosa aspettarsi nelle prossime settimane o mesi. Se avete i miei stessi gusti ne sarete felici.

Chasing the Phoenix
E’ di oggi la notizia che Swanwick ha appena finito il suo nuovo libro. Come dicevo in questo articolo del mese scorso, è il secondo romanzo sulla coppia di trickster gentiluomini Darger e Surplus; le loro avventure li hanno portati attraverso la Siberia e la Mongolia fino in Cina, dove presumibilmente semineranno altra distruzione. Swanwick assicura che può essere letto anche come uno stand-alone. Il titolo è rimasto quello che aveva ipotizzato, “Chasing the Phoenix” – lascio a Siobhàn l’onore di scoprire se anche questo, come gli altri, sia mutuato da una filastrocca per bambini.
E’ presumibile che, proprio come avevo pronosticato, il romanzo venga pubblicato entro l’anno. Appena sarà disponibile la versione digitale vedrò di comprarlo e farvi sapere.

Michael Swanwick

“Così ti piace il mio romanzo, eh?”

I nuovi Fantasy Masterworks
Se seguite il mio blog sarete ormai familiari con le due collane di narrativa fantastica realizzate negli ultimi anni dalla britannica Gollancz: gli SF e i Fantasy Masterworks. Le due serie dovrebbero riproporre il meglio della fantascienza e del fantasy moderno, rendendo disponibili (e con una nuova veste grafica) titoli spesso usciti da tempo di produzione.
La collana dei Fantasy Masterworks, più sfortunata della sua cugina fantascientifica, era ferma da tempo al n.50, ma a partire da Ottobre cominceranno a uscire nuovi numeri. Al momento ne sono previsti sette, come potete vedere alla pagina aggiornata su Worlds Without End. Due impressioni a caldo:
– Le nuove copertine sono brutte. Una delle cose migliori dei Masterworks era la cura esagerata posta nelle copertine, colorate e visivamente acchiappanti (soprattutto quelle che avevano il titolo integrato nell’illustrazione, senza quella brutta striscia monocolore nella parte alta). Trattandosi di una collana di ‘classici’, la possibilità di esporla nella propria libreria è una delle funzioni principali – considerando che di diversi titoli è possibile procurarsi a buon mercato l’edizione digitale, rendendo di per sé superflua la versione cartacea 1
– quindi le copertine supercurate sono una delle cose più importanti. Be’, queste nuove copertine io non le esporrei.
– Non ho mai letto nessuno di quei libri, ma ho già adocchiato qualche titolo interessante. Uno è Last Call di Tim Powers, l’autore di The Anubis Gates (una delle opere dello Steampunk di prima generazione, nonché uno dei romanzi preferiti di Gamberetta); poi c’è la quadrilogia Aegypt di John Crowley, un autore che sto incominciando a leggere solo adesso ma che promette molto bene; e poi The Dragon Griaule di Lucius Shepard, il tipo famoso per il romanzo militaresco-dickiano Life During Wartime. Questi nuovi titoli sembrano una virata piacevole dal fantasy fiabesco-mitologico di stampo classico di molti dei titoli dei primi Fantasy Masterworks, il che mi rende speranzoso. Peccato per l’assenza di romanzi di Swanwick come The Dragons of Babel o Jack Faust: non sfigurerebbero.

The Dragon Griaule

Brutta.

The Door That Faced West e il futuro della Bizarro Fiction
In occasione del sul Dilation Exercise #83, su Bizarro Central, Alan M. Clark ha dichiarato che il suo prossimo romanzo – The Door That Faced West – sarà pubblicato il prossimo Febbraio da Lazy Fascist Press (la casa editrice diretta da Cameron Pierce, quello di Ass Goblins of Auschwitz). Clark non è certo uno dei miei scrittori preferiti, ma ha del potenziale e scrive roba interessante; ho dedicato una delle mie ultime Bonus Tracks al suo A Parliament of Crows.
Si è ormai capito che Clark è fissato con i serial killer in costume e le vittime dei serial killer in costume. Questo nuovo romanzo avrà come protagonisti i Fratelli Harp, due briganti psicopatici vissuti alla fine del Settecento, quando il continente americano era ancora selvaggio e inesplorato. Il setting è interessante, e non è escluso che decida di leggerlo.
D’altronde, il romanzo in uscita di Clark riluce in un panorama Bizarro che quest’anno è stato piuttosto scialbo. Dall’inizio del 2013 – come potete vedere in questo catalogo – gli editori raccolti sotto la bandiera della Bizarro Fiction hanno pubblicato solo undici libri, di cui ben quattro sono novellas o raccolte di Mellick. Che il pozzo della Bizarro cominci a seccarsi? Mi piacerebbe tornare sull’argomento in un articolo dedicato.

The Water Knife
Se Swanwick è già uno dei miei scrittori preferiti, un altro candidato a diventarlo è Paolo Bacigalupi. Ho parlato entusiasticamente del suo The Windup Girl in questo Consiglio di un annetto fa. Ebbene, tre giorni fa sul suo blog ha dichiarato che, dopo due anni di lavorazione, il suo nuovo romanzo è pronto! E si chiamerà The Water Knife.
Se Clark è fissato coi serial killer, Bacigalupi ha la mania dei cambiamenti climatici e degli scenari geopolitici negli aftermath di un’apocalisse ecologica. Questo romanzo sarà ambientato in un Sudest Americano in preda alla siccità, e sembra inserito nello stesso macro-universo di The Windup Girl, Ship Breakers e The Drowned Cities. Rispetto agli ultimi due romanzi, però, sembra che non sia uno YA, ma che sia tornato al “romanzo per adulti” delle origini.
Non solo: pare che Bacigalupi abbia finalmente fatto il ‘salto’. A pubblicarlo, infatti, sarà la Knopf Doubleday. Per citare le parole del New York Times:

Knopf, the publisher of Toni Morrison, Robert Caro, Stieg Larsson and Helen Fielding, paid an advance in the high six figures.

For Mr. Bacigalupi, it is a leap from a tiny specialty press, Night Shade Books, to one of the most highbrow publishers in the business, with a reach that could broaden his readership well beyond the sci-fi world.

Non male.

Bear Grylls

And now, for something completely different…

You Can (Not) Redo al cinema per una sera
Solo per una sera, Mercoledì 25 Settembre, verrà proiettato in alcuni cinema italiani You Can (Not) Redo, il terzo OAV del reboot di Evangelion chiamato Rebuild of Evangelion.
Nonostante siano passati tipo dieci anni da quando lo vidi per la prima volta, Evangelion rimane tutt’ora il mio anime preferito. E’ l’unico di cui mi sia mai curato di collezionare i dvd. Ogni tanto me lo riguardo e mi piace ancora. Ho sempre visto con sospetto il progetto Rebuild, e infatti me n’ero sempre curato poco, ma settimana scorsa – in occasione dell’Evangelion Night del 4 Settembre – ho avuto l’occasione di andare al cinema con un paio di amici a vedere una maratona dei primi due film della serie.
Come immaginavo, sono rimasto più deluso che soddisfatto: la grafica sarà anche migliore e le scene di combattimento più curate, ma nel complesso in questo Rebuild c’è più melodramma, più roba stylish per adolescenti, personaggi inutili, e in generale un grande incasinamento della trama. Ma mi piace andare al cinema, e vedersi Evangelion rifatto male è pur sempre meglio di un Elysium o un Wolverine. Per cui credo andrò a vedere anche il terzo. 2
Intanto, beccatevi il trailer italiano – è lo stesso che hanno proiettato al cinema prima della maratona dell’Evangelion Night. Anche tralasciando le scrittazze trash in italiano (“La saga robotica del nuovo millennio”? Cominciamo bene…), non avete l’impressione che Evangelion sia diventato un po’ più cretino rispetto a dieci anni fa?

Gendo Ikari

E’ per questo che ci piace.

E con questo la carrellata è finita; spero di avervi incuriositi.
Vi lascio con una domanda. Perché non sono fico come Gendo Ikari?

———-


(1) Questo è particolarmente vero per molti titoli degli SF Masterworks – dai titoli di H.G. Wells a Frankenstein – per i quali è scaduto il copyright, e che quindi sono disponibili sul Web aggratis (anche in edizioni ben curate, come quelle di Feedbooks).Torna su


(2) Sì, in italiano. L’Evangelion originale l’ho visto in italiano, ormai mi sono abituato ai doppiatori italiani e non mi dispiacciono. E poi, seguire certi discorsi coi sottotitoli potrebbe essere troppo anche per me.Torna su

Gli Autopubblicati #06: Ultimo Orizzonte

Ultimo OrizzonteAutore: Valentina Coscia
Genere: Fantasy / Post-Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 2012
Pagine: 177
Editore: WePub

Spéza è una città condannata. Un tempo nota come La Spezia, fiorente porto industriale della Liguria a un tiro di schioppo dalle Cinque Terre e da Portovenere, l’innalzamento del livello del mare l’ha trasformata in una palude mefitica. Per contrastare l’avanzata delle acque, gli abitanti hanno eretto la muagia, un muro di rottami e detriti che circonda Spéza da un capo all’altro della costa. Manovrate dalla casta dei massacàn, i “muratori”, le quindici Pompe della muagia lavorano incessantemente per cacciare fuori l’acqua che continua ad infiltrarsi nell’Entromuro.
Artibano er semo è l’ultimo dei massacàn, un lavoro che nessuno vuole più fare. Passa le sue giornate nella solitudine della muagia, osservando le pompe che una dopo l’altra si guastano e smettono di funzionare. Per salvare Spéza, bisognerebbe recuperare dei pezzi di ricambio dall’unico luogo in cui ancora sopravvive l’antica tecnologia – le rovine sommerse della città vecchia – ma tra quei relitti dormono divinità maligne che sarebbe meglio non disturbare. E quando il Vicario della Gese – la Chiesa che comanda col pugno di ferro sulla città – farà convocare Artibano sulla terraferma per trovare una soluzione, la tragedia si metterà in moto.

Valentina Coscia è l’autrice del racconto che ha vinto il concorso Deinos indetto ormai un anno fa da Mr. Giobblin. Lessi e recensii l’antologia nata da quel concorso lo scorso Maggio; e pur bocciandola in gran parte, rimasi colpito positivamente dal racconto della Coscia. Sicché ho continuato a tenerla d’occhio, e non mi sono perso l’annuncio fatto da Giobblin della pubblicazione del suo romanzo post-apocalittico con un piccolo editore indipendente che vende solo e-book (tale WePub).
A rigore, essendo stato pubblicato da un’editore che non coincide con l’autore, Ultimo Orizzonte non potrebbe essere definito un “autopubblicato”. Ma all’atto pratico, per il lettore, non fa molta differenza: si tratta di un romanzo digitale poco pubblicizzato di un autore abbastanza sconosciuto, che si può comprare ad un prezzo irrisorio (2,99 Euro). Vediamo ora se valga la pena sborsare 3 Euro per un post-apocalittico di ambientazione ligure.

Corniglia

E un seguito ambientato a Corniglia no? ❤

Uno sguardo approfondito
La gestione del pov in Ultimo Orizzonte è piuttosto bizzarra. La voce narrante principale è quella del protagonista, ed è in prima persona; tuttavia, un buon numero di capitoli è filtrato attraverso i pov di personaggi secondari, in terza persona. Questo mix di persone, oltre a non avere molta senso, crea anche una certa confusione. La prima volta che succede (nel quarto capitolo), il lettore si aspetta che ciò che sta leggendo sia ancora filtrato dagli occhi di Artibano (anche perché il capitolo si apre con un giudizio di valore: “Giobatta non è mai stato bravo con le parole, ma non glien’è mai fregato niente”), e ci mette un po’ a capire che l’autrice è passata alla terza persona e che il pov è di un altro personaggio (il sopracitato Giobatta). All’inizio di ogni nuovo capitolo, il lettore si trova a domandarsi se si è tornati alla prima persona o c’è ancora una terza – e mi è capitato un paio di volte di sbagliarmi per alcune righe (scambiando un pov in terza per quello in prima o viceversa) e dover poi ricominciare dall’inizio col filtro mentale corretto.
Ora, posso anche immaginare che esistano storie in cui alternare prima e terza persona possa avere un senso. Ma non è questo il caso: qui crea confusione e basta, oltre a spezzare l’immedesimazione a causa del continuo cambio di “timbro” della narrazione. La prima persona si utilizza quando si vuole immergere il lettore in un unico personaggio, al punto da farlo identificare nella voce narrante; non si può fare dentro e fuori. Se si vuole raccontare una storia corale, invece, se si vogliono mostrare anche dettagli di storia che il personaggio principale non potrebbe vedere, allora si scrive tutto in terza persona, compreso il pov del protagonista – del resto, questo Ultimo Orizzonte funzionerebbe benissimo anche se Artibano fosse un normalissimo pov in terza!
La Coscia, invece, sembra oscillare indecisa tra le due formule di romanzo. Se i capitoli con pov in prima di Artibano sono nettamente preponderanti, capita che ci siano anche due capitoli di fila con pov in terza di personaggi molto secondari, come quello di Catò, la moglie di Giobatta (e, in alcuni casi, pov quasi usa-e-getta). Se non altro la regola “un capitolo – un pov” è netta e non ci sono mai salti di punto di vista all’interno di un capitolo.

La voce narrante di Artibano è piacevole. L’ultimo dei massacàn è il classico ‘eroe scazzato’ alla Waterworld: un tipo stanco, cinico, pratico, che non si fida della vita, che vorrebbe essere lasciato in pace e che invece, causa mix di personaggi molesti e sensi di colpa, finisce per farsi coinvolgere. Gli avvenimenti di cui è testimone si mischiano ai suoi giudizi e commenti salaci, e in generale i suoi sono i capitoli che si leggono con maggior piacere. Insomma: non è un personaggio nuovo, ma fa il suo lavoro.
Di contro, gli altri personaggi del romanzo sono piuttosto pallidi. Ognuno ha un suo ruolo all’interno del plot e assolve alla sua funzione, ma di loro non rimane granché a lettura finita. Unica eccezione positiva è a mio avviso quella di Catò: un personaggio che di suo aggiunge poco alla trama principale, chiusa in casa com’è a badare al figlio in attesa del rientro a casa del marito; ma che trasmette in modo convincente sia l’atmosfera rurale-impoverita in cui vivono le famiglie di Spéza, sia il suo dramma privato, di moglie che si ritrova per marito una “cosa” fredda e irriconoscibile. Altre piccole note di merito sono la storia del vecchio Vicario cieco, condannato a comandare su una città che non può più vedere, e il rapporto tra Rafé e Richeto.

Kevin Kostner Waterworld

“Fottetevi tutti, me ne torno a casa.” “Non così in fretta…”

Il problema principale nella gestione dei personaggi è la loro tendenza all’isteria. Spesso e volentieri, in Ultimo Orizzonte, quando all’interno di un dialogo due personaggi si trovano ad esprimere posizioni contrastanti, oppure uno dei due commette un errore che nuoce all’altro, i due suddetti degenerano in una raffica di insulti che può durare anche parecchie righe. Questo anche durante scene d’azione! Immaginate che il cattivo si sia messo in moto, stia per attivare il suo terribile piano, e insomma non c’è tempo da perdere, la tensione è alle stelle, e questi due aprono e chiudono ogni poche pagine i loro siparietti da bambini di cinque anni. Due personaggi che degenerano in modo ricorrente sono Artibano e Rafé:

«Cosa succede?»
«Cazzo ne so, io?»

E qualche riga dopo:

«Ma cosa vuoi che vedo, in queste condizioni?»
«E allora stappati le orecchie e ascolta! Non voglio ritrovarmi quel maledetto elicottero attaccato al culo. Renditi utile, per una volta, massacàn».
«Vaffanculo, margon di merda».
«Quando scendiamo ti spacco la faccia».

Queste scene sono un continuo. Ora, qualcuno potrebbe anche spacciarmele come “reazioni alla tensione di essere di fronte al pericolo”. Ma non è così. Questi non sono ragazzini abituati a una vita di comfort e che sclerano come in un horror americano alla prima cosa che non quadra; questi dovrebbero essere uomini vissuti, abituati alla fatica, agli incidenti, alle disavventure, alla crudeltà della vita. Mi aspetto gente con le palle e l’aplomb dei Malavoglia di Verga. Insulti a freddo o smargiassate machiste ogni tanto ci stanno, fanno parte del contesto; ma questi accessi di aggressività infantile e controproducente (perché li bloccano, li distolgono da quello che stanno facendo, li rendono meno efficienti) non fanno che sospendere l’incredulità del lettore, e ricordargli che quelli non sono uomini veri ma personaggi sfuggiti al controllo dell’autrice.
Per il resto, la prosa della Coscia fa il suo dovere. A volte indulge nell’aggettivo inutile (la “puzza tremenda”, il “massiccio portone”), ma in generale scrive in modo molto asciutto e concreto. La sua Spéza si può toccare, i suoi personaggi si sa esattamente cosa pensano e cosa provano. Riesce a descrivere in modo chiaro azioni non scontate, come le manovre di immersione subacquea dell’equipaggio del Moscone (di cui ho dato un saggio nel secondo estratto, in fondo all’articolo). Il ritmo è sempre molto rapido, molto plot-driven, le descrizioni sintetiche e precise – a volte sono pure troppo brevi! Mi sarebbe piaciuto visualizzare Spéza un po’ meglio – e, quel che è meglio, a differenza della maggior parte degli autori italiani la Coscia non si sbrodola in fiumi di domande retoriche.

I Malavoglia

Gli abitanti di Spéza dovrebbero assomigliare un po’ di più a questi qua.

Ma il limite principale del romanzo a mio avviso non sta nella prosa, bensì nella trama. Premetto subito che qui si entra in un territorio meno oggettivo e più aperto alla discussione. Nei primi capitoli, Ultimo Orizzonte ricorda da vicino i mondi post-apocalittici e invasi dall’acqua di Bacigalupi, e in particolare Ship Breaker (ma anche un pizzico di The Blue World di Vance): fantascienza soft, un po’ slice of life, che mostra come gli abitanti di questi mondi degradati tentino di sopravvivere e di migliorare la propria condizione sociale. Con una diga sul punto di cedere, una cultura tecnica in rapido declino e un vecchio che amministra una città ripiombata nel Medioevo col pugno di ferro, c’era un sacco di materiale per un plot originale e mai visto in Italia.
E invece. Invece anche Ultimo Orizzonte si butta nel mare dei cliché dell’urban fantasy: una scia di delitti paranormali, una creatura malvagia risvegliata da un sonno secolare, divinità del folklore locale e un Prescelto chiamato dai suddetti déi a fermare la minaccia. L’interessante mondo in declino di Spéza diventa il palcoscenico della più classica delle storie d’azione fantasy, perdipiù condita di plot-holes1. Inoltre, non si può dire che la parte sovrannaturale sia curata come quella post-apocalittica “realistica”. Una breve parte del romanzo è ambientata a Portovenere (sfruttando il concetto di luogo di culto dedicato a Venere), ma quel che ci è mostrato del luogo è piuttosto anonimo; la Coscia ci appiccica sopra il nome “Portovenere”, ma poteva anche essere un altro posto e non si sarebbe sentita la differenza.
Nonostante il sentore di “già visto millemila volte” che attraversa quasi tutto il romanzo, comunque, la trama è disseminata di qualche piccola perla che vale la pena di leggere. Su tutte, uno scontro sott’acqua tra due personaggi in tuta da palombaro: una roba fighissima che non ho mai letto da nessun’altra parte!

La Spéza della Coscia, insomma, è un’ambientazione molto sottosfruttata. Ed è un peccato, perché di suo è davvero figa. Le case di legno affastellate le une contro le altre, il legno marcio e la puzza del quartiere povero di Fossamastra; la Gese (Chiesa) dove vive il Vicario, dominata dal profilo arrugginito dello scheletro di un elicottero caduto; l’antica città ormai ricoperta da metri d’acqua, dove si immergono i margòn (palombari) a ritrovare tesori e vecchie attrezzature. L’idea di una città che, anche amministrativamente parlando, sembra tornata al Medioevo, divisa com’è in quartieri semi-autonomi, ciascuno dei quali nomina un rappresentante che partecipa alle assemblee e va a parlare al Vicario.
E poi c’è la muagia con le sue pompe, ciascuna col suo numero che è anche il suo nome. Lo stato di abbandono, la sporcizia, la solitudine di Artibano nella sua cella, il camminamento sopra la diga da cui si può vedere la città da una parte, e il mare aperto dall’altro, rendono la muagia molto affascinante.; peccato non aver dedicato più pagine alla semplice descrizione della vita quotidiana dell’ultimo dei massacàn al suo interno. E peccato anche anche la Coscia non sia ingegnere o non abbia un amico ingegnere che l’aiutasse, perché se c’è un punto debole in questa ambientazione, è che si vive poco il lato ‘tecnico’ della muagia, la fisica delle Pompe e la loro gestione. Molto suggestivo invece l’alone di mistero sovrannaturale attorno alla diga, e ai disgraziati incidenti che hanno spazzato via, uno dopo l’altro, tutti gli altri massacàn.

Muratore

Esempio di Prescelto.

Il tocco finale all’ambientazione lo dà però il dialetto ligure. Come ormai mi capita sempre più spesso di trovare nella narrativa di genere (ma in realtà lo faceva già Conrad nei suoi romanzi malesi di fine Ottocento), la Coscia sparpaglia dentro e fuori dai dialoghi termini ed espressioni del dialetto ligure. E il ligure è bellissimo! Certe espressioni, soprattutto se messe in bocca a personaggi anziani, sembrano proprio tratte di peso dalla vita vera e sono alcuni dei momenti che suonano più ‘autentici’ in tutto il romanzo. Per esempio in questo passaggio (l’espressione dialettale è alla fine):

Sua nonna gliela cantava sempre, quella canzonetta scema. È la storia di un tizio del Mondo di Prima che aveva creduto di vedere una bestia misteriosa su al Casteo. L’aveva detto a tutti, spaventatissimo, facendosi ridere dietro dalla città intera.
«Però» aveva obiettato lei un giorno, «magari quella bestia c’era davvero, no?»
La faccia rugosa della nonna si era contratta in una smorfia. «Caterina» le aveva risposto secca. «Le bestie, chi, de gambe ghe n’han doi».

Unico appunto a questo proposito, l’abuso di note. Solo nella prima pagina, la Coscia ne concentra sei: inutile dire che spezzano la lettura. E in realtà non c’è veramente bisogno della maggior parte di quelle note. Cosa vogliono dire belin, figio de bagassa o Ai cuiosi se ghe strina ‘r cüo lo sa o ci arriva chiunque; e se non ci arriva, be’, fa colore lo stesso. In una eventuale versione 2.0 del romanzo, ridurrei le note di due terzi e lascerei solamente quelle indispensabili, cioè quelle che spiegano espressioni realmente criptiche o termini importanti ai fini del romanzo (margòn, massacàn, Gèse, braga).

Devo essere onesto – se questo fosse stato un romanzo straniero, come quelli che presento nei Consigli, non ne avrei parlato. Non perché sia brutto, non lo è; ma perché non spicca abbastanza.
Il discorso cambia se lo collochiamo nel ristagnante panorama italiano. Innanzitutto, Ultimo Orizzonte è sicuramente più bello, più originale e meglio scritto della grande maggioranza dei romanzi fantastici regolarmente pubblicati dalle grandi case editrici della carta. Lo collocherei sotto Pan di Dimitri2, ma molto sopra Alice nel paese della Vaporità. Tra gli Autopubblicati presentati sul blog, è inferiore al solo Marstenheim di Angra, e sicuramente superiore a La nave dei folli di Girola. Soprattutto, l’autrice mi conferma nell’idea che mi sono fatto di lei – ossia che, pur non sapendo sempre quello che fa sul piano tecnico, ha il potenziale per diventare una scrittrice molto interessante.
Ultimo orizzonte, in conclusione, è un romanzo piacevole e peculiare all’interno del panorama italiano. La storia corre via veloce, leggera, e l’ultimo terzo del romanzo, in particolare, si legge tutto d’un fiato. Quindi buttateci un occhio. Ne vale la pena.

Francesco Dimitri

“La smettiamo di tirarmi in mezzo?”

Dove si trova?
Come ho scritto in apertura di articolo, Ultimo Orizzonte si può comprare sul sito dell’editore, WePub, all’onesto prezzo di 2,99 Euro, nei formati .epub e .mobi. Il che mi fa veramente piacere, perché è questo il giusto prezzo per un libro in formato digitale. Inoltre, cosa più importante, non c’è DRM.
Di recente al (magro) catalogo di WePub si è aggiunto un racconto della Coscia ambientato a Speza di una trentina di pagine, La sentinella del Golfo. Interessante metodo di promozione: per comprarlo non bisogna sganciare soldi, ma collegarsi a Twitter attraverso il sito di WePub e scrivere un tweet sul libro. Io non uso Twitter, quindi non ho scaricato né tantomeno letto il racconto, ma magari è bello; e potreste avere un saggio aggratis dell’ambientazione di Speza prima di sganciare soldi per il romanzo.

Chi devo ringraziare?
In primo luogo Mr. Giobblin, che per primo (tra i pochi blogger che sporadicamente seguo) ha segnalato l’esistenza del romanzo. Ma non so se e quando l’avrei letto se non fosse stato per la mia collaudata beta-reader, Siobhàn, che se l’è scaricato appena saputa la bella notizia, mi ha detto che era carino e me l’ha raccomandato. Per poi rimproverarmi perché mi ero dimenticato di scrivere questa sezione!

Qualche estratto
Il primo estratto viene dal primo capitolo e presenta in breve tutti o quasi gli elementi centrali dell’ambientazione, ossia le rovine di Spéza, la muagia, i margòn e il loro lavoro, filtrati attraverso il pov in prima persona di Artibano. Il secondo estratto è preso invece dal quarto capitolo, il primo in terza persona, e mostra un elemento di trama che a me piace molto: le tecniche di immersione dei margòn.

1.
Lento, il sole cala dietro le colline color cenere: le ombre si allungano, il miserabile sipario di calore puzzolente si schiude ed eccola là.
Gli edifici divelti che sorgono dall’acqua, il profilo tondo della Gese, con il vecchio elicottero contorto e la croce monca a dominare la distesa immobile dell’Entromuro.
Il cadavere spiaggiato di una città.
Spéza.
Giobatta mi osserva con la coda dell’occhio e l’aria schifata di uno che sente una puzza tremenda.
Di me può pensare quello che gli pare, ma la verità è che lui e i suoi margon ieri non sono riusciti a combinare un belin: tanto casino per tirare su la carcassa marcia di un’automobile. Un mucchio di roba inutile: lamiere arrugginite, bighi di mare, ingranaggi inservibili.
Glie l’ho già detto, dove devono cercare, ma questo figio de bagassa ha ghignato con quei quattro denti che si ritrova e poi ha sputato: «Ai cuiosi se ghe strina ‘r cüo».
E, mentre i suoi compari si davano di gomito, si è fatto sotto, una montagna di muscoli frementi. Sono andato via strisciando, inseguito dalle risate.
Sempre la stessa vecchia canzone: brutte voci, brutte ombre, brutte cose nelle acque profonde.
Ma la muagia non resisterà ancora a lungo: denti de can e altre bestie la rodono, il metallo arrugginisce, l’acqua si infiltra sotto le fondamenta. Una dopo l’altra, le pompe che impediscono al mare di inghiottire la città si guastano: la Cinque si è fermata, la Tredici tribola a tenere il passo con la Dodici e la Quattordici, la Dieci va a regime ridotto per una perdita nel condotto del vapore. Ora anche la Sette ha deciso di tirare il ganbin. Loro mollano, il livello dell’Entromuro si alza e io sono solo.
L’ultimo massacàn rimasto.

2.
Il Cimitero delle Navi. A sentirlo nominare, i vecchi fanno scongiuri, sputano e non dicono mezza parola. Maledetto semo, lui, suo nonno e le sue cazzate.
Mentre Bacicia lega il Moscone alla bitta, Angiolo salta sul pontone e, nell’avvicinarsi alla ruota di legno della pompa dell’aria, si stira le braccia e la schiena. Felicìn va prendere la cima zavorrata e getta la pietra che fa da ancora. Lui osserva la corda divincolarsi e venire inghiottita dall’acqua e non riesce a trattenere un brivido al pensiero che, fra poco, seguirà la stessa strada.
Fianco a fianco come sempre, Rafé e Richeto si guardano. La seconda pompa attende il suo addetto. «Rafé alla pompa, Richeto con me».
Il primo abbassa la testa, l’altro apre con più forza del necessario il baule dell’attrezzatura e tira fuori le scarpe piombate, l’elmo e la tuta impermeabile.

Lascia andare l’ultimo piolo e la zavorra lo trascina giù.
La luce avvizzisce, il freddo inizia a mordere. Meglio non pensarci e badare solo ai gesti che lo riportano a casa tutti i giorni che il Santo manda in terra.
Controllare lo scarico dell’aria.
Eseguire le manovre di compensazione.
Regolare l’afflusso allo scafandro.
Gonfiarlo per controbilanciare l’aumento di pressione.
Rallenta, planando lungo la cima.
Quando il nodo che segnala gli ultimi due metri gli passa sotto le dita, piega le ginocchia per assecondare l’impatto con il fondo e una nuvola di sedimento lo avvolge.
Ora c’è solo da aspettare che tutta questa porcheria torni a posarsi. Non c’è bisogno di guardare per sapere che Richeto, lì accanto, fa la stessa cosa.
Il cordino di comunicazione si tende e il campanello dentro l’elmo squilla, facendolo sussultare. Da su vogliono sapere se è tutto a posto. Lui controlla che il coltello sia nel fodero e accende la torcia.
Automobili schiantate e arrugginite, le gambe di una statua troncate al ginocchio, il moncone di un albero spaccato a metà. Gli edifici sono ombre in agguato nell’acqua torbida. Si gira verso Richeto, che tocca la braga come se sgranasse la collana di Rafé.
Tira il cordino in risposta. Ma non c’è un belin, qui sotto, che sia a posto.

Tabella riassuntiva

Un post-apocalittico ambientato nelle rovine di La Spezia! Trama cliché su un prescelto che deve fermare un dio cattivo.
Gradevole voce narrante del cinico protagonista. Infelice scelta di alternare prima e terza persona.
Buon mostrato e ritmo rapido, plot-driven. Personaggi con tendenza all’insulto isterico.
In conclusione: MIGLIORABILE, MA PROMOSSO

————-

(1) Ne cito giusto un paio.
Primo, le meduse acide. Sono un elemento cruciale della trama, perché rendono impossibile muoversi nell’acqua dell’Entromuro con qualsiasi imbarcazione che non sia la Barca Vicaria. Senonché, alla fine del libro, i nostri eroi navigano fino alla muagia su una barca diversa da quella Vicaria. In teoria dovrebbe essere del tutto impossibile – ma le meduse? Pof. Sparite.
Altro elemento che non torna. Teoricamente, la divinità è stata risvegliata proprio da Artibano; ossia, dalla sua richiesta di andare a cercare pezzi di ricambio nella città vecchia. Se non fosse stato per lui, la divinità sarebbe rimasta là sotto. Ora, da un punto di vista accademico è vero che prima o poi il problema andava affrontato, e quei pezzi di ricambio recuperati; ma possibile che Artibano non senta un fortissimo senso di colpa per aver liberato l’entità? Dovrebbe essere questo l’elemento preponderante per convincersi che la faccenda lo riguarda di persona e che non può lavarsene le mani, questo l’elemento su cui il Santo dovrebbe fare pressione per persuaderlo. Ma l’elemento passa subito in secondo piano.Torna su

(2) Non è che Pan mi sia piaciuto particolarmente, ma riconosco che è il migliore tra i fantasy contemporanei italiani da me letti, ed è ormai usato in tutti gli ambienti che frequento come la pietra di paragone per ogni nuovo romanzo fantastico italiano.
In realtà questo primato potrebbe essere stato scalzato da tempo da romanzi che non ho ancora letto. Per esempio, nutro molte aspettative per i libri di Francesco Barbi, L’acchiapparatti e Il burattinaio. Il primo l’ho anche comprato, quindi presto o tardi lo leggerò e vi farò sapere.Torna su

I Consigli del Lunedì #28: The Windup Girl

The Windup GirlAutore: Paolo Bacigalupi
Titolo italiano: –
Genere: Science Fiction / Social SF / Distopia / Politico / Biopunk
Tipo: Romanzo

Anno: 2009
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 361

Difficoltà in inglese: ***

In un XXIII secolo povero e decadente, vittima di una serie di virus artificiali andati fuori controllo, che hanno decimato il genere umano e spazzato via la gran parte della flora, il Regno di Thai lotta per la sopravvivenza. L’innalzamento delle acque ha spazzato via molte delle antiche megalopoli, e Bangkok, capitale del regno, è sopravvissuta solo grazie ad un miracolo ingegneristico: una barriera circolare alta duecento piedi che impedisce all’acqua di entrare. Assediata dall’oceano e dalle calorie companies, multinazionali della bioingegneria che ricreano organismi del passato per poi brevettarli e rivenderli, Bangkok deve la sua sopravvivenza alla custodia segreta di una ricca banca di sementi – su cui ora gli stranieri vogliono mettere le mani.
Ma ora la ripresa economica rischia di travolgere l’isolazionismo thailandese. In una Bangkok dagli equilibri politici sempre più fragili, si muovono quattro personaggi: Anderson Lake, calorie man in missione segreta per trovare la banca dei semi e far penetrare la sua compagnia nel paese; Hock Seng, profugo cinese che ha perso tutto e con la determinazione di tornare in alto; Jaidee, capitano del potente Ministero dell’Ambiente, ex campione di muay thai e flagello dei contrabbandieri; ed Emiko, la ragazza caricata a molla, abbandonata dal suo padrone giapponese e costretta a servire in uno strip club e a sopportare ogni sevizia. Chi resterà in piedi attraverso gli sconvolgimenti che stanno per abbattersi sulla città?

La prima volta che sentii parlare di The Windup Girl, e del fatto che aveva vinto il Premio Hugo nel 2009, mi dissi: “No! Non è possibile! Un italiano?”. E infatti non era possibile: Bacigalupi è un americano dalla testa ai piedi, nato e cresciuto nell’insulso stato del Colorado. Non sono il primo blogger italiano a recensire il romanzo di Baciglupi – per esempio, Mr. Giobblin ne ha parlato quasi un anno fa. Ma quando un romanzo è veramente bello (e poco conosciuto qui da noi), è giusto pubblicizzarlo; e poi, spero di dire qualcosa in più oltre a quanto è già stato detto.
The Windup Girl è un raro esempio del sottogenere Biopunk, un cugino più giovane del Cyberpunk in cui il fulcro dell’innovazione tecnologica non è più il cyberspazio né la robotica, ma l’ingegneria genetica. Si sintetizzano nuove piante e animali in laboratorio, e si modifica il genoma umano per creare delle nostre varianti – i windup. The Windup Girl è anche un romanzo corale, in cui si alternano le avventure (e i pov) di quattro (…cinque?) personaggi diversi. E’ un’opera prima molto ambiziosa. Ce l’avrà fatta?

Bob-omb

La nuova razza che soppianterà la specie umana?

Uno sguardo approfondito
The Windup Girl mette a nudo sia i pregi che i difetti del romanzo corale. La scelta di alternare i punti di vista di quattro personaggi diversi può essere inizialmente spaesante e anti-immersivo, e in effetti nelle prime 50-60 pagine il ritmo del romanzo è piuttosto blando. Man mano che si procede nella lettura, però, le vite dei quattro personaggi cominciano a intrecciarsi – il lettore comincia a parteggiare per l’uno o per l’altro, a chiedersi chi la spunterà e chi farà una brutta fine, e insomma, mettere giù il libro diventa sempre più difficile. Superato il primo quarto, il romanzo decolla.
Molti premi attendono lo scrittore che sappia sfruttare il potenziale del romanzo corale. I livelli di conflitto si moltiplicano: si prova empatia per personaggi che hanno interessi e obiettivi diversi, e che spesso tenteranno di farsi la pelle a vicenda.
Prendiamo Anderson, il protagonista: è il primo pov del romanzo, il personaggio attraverso cui esploriamo per la prima volta Bangkok. Difficile non identificarsi in lui e appassionarci alla sua missione, provare dolore e sconforto ogni volta che un nuovo ostacolo si frappone tra lui e il segreto della banca dati, e una punta di entusiasmo per ogni piccolo successo; ma al contempo, la parte più critica di noi ci ricorda che Anderson è uno stronzo, interessato solo a far penetrare la sua compagnia nell’economia thailandese e disposto a fare terra bruciata di qualsiasi ostacolo. E per la cronaca, le calorie companies sono veramente delle merde: una volta sintetizzate o acquisite nuove piante, le brevettano per vietare la libera distribuzione, dopodiché vendono ai governi sementi a tempo che diventano sterili dopo X raccolti e devono essere comprate di nuovo (delle specie di sementi con DRM!). I nostri giudizi morali sono ulteriormente complicati dal fatto che un altro dei personaggi-pov, il capitano Jaidee, è il più agguerrito avversario delle calorie company e di Anderson – e nel corso del romanzo farà di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote.

Attraverso gli occhi dei quattro personaggi-pov, possiamo vedere sfaccettature diverse della città, ed esplorare gli stessi macroconflitti da punti di vista diversi. Attraverso Anderson vediamo le fabbriche di molle a torsione, la difficile accoglienza che i farang stranieri hanno nel regno, il quartiere dei calorie men dove si passa il tempo a bere e a maledire gli apatici thai. Col punto di vista di Hock Seng viviamo la miseria dei profughi, i più fortunati dei quali – come lui – vivono in cubicoli di lamiera, mentre le masse di immigrati malesi stanno rinchiuse nei piani alti dei grattacieli abbandonati e senza energia elettrica. Attraverso Jaidee e il tenente Kayla entriamo nelle vastità labirintiche, ma sulla via del degrado, del Ministero dell’Ambiente, mentre con Emiko visitiamo il mondo notturno dei night club, dove gli uomini più irreprensibili, che in pubblico condannano le ragazze a molla come un’aberrazione contronatura, si abbandonano a nuove perversioni. E il mondo di Bangkok appare incredibilmente vivo e tridimensionale.

Semi

Semi: godeteveli prima che diventino sterili. E ovviamente non potete prestarli in giro: sarebbe la morte della bioingegneria creativa.

In The Windup Girl si respira la stessa atmosfera dei romanzi coloniali di Conrad, Kipling, Orwell, condita da un tocco fantascientifico. I mercati rionali all’ombra dei grattacieli abbandonati, che da un giorno all’altro possono essere invasi da nuovi frutti di cui nessuno ha mai sentito parlare; i megadonti, enormi elefanti che trasportano merci per le strade della città e fanno girare perni giganteschi nelle fabbriche di molle supertorcenti; l’ostilità passiva dei nativi verso gli stranieri, che si manifesta nell’apatia, nell’inefficienza, in mille piccoli sabotaggi, e nello strapotere dei sindacati coordinati dal Signore dello Sterco; la venerazione dei thai per la gerarchia e i loro complicati rituali di sottomissione e di umiliazione.
Ora, io non so niente della cultura thai, e non so quanto questo ritratto di una Thailandia del XXIII sia verosimile. Ciononostante, l’affresco di Bacigalupi è incredibilmente convincente; si ha l’impressione di una civiltà simile e al tempo stesso aliena a quella occidentale, intrisa di quel confucianesimo che fa tanto Estremo Oriente. Questo tra l’altro dovrebbe infilare una patata in bocca a quei geni che portano alle estreme conseguenze la massima “scrivi di ciò che sai” e affermano che si possa parlare solo della propria terra e della propria cultura 1.
Certo, Bacigalupi a volte esagera. Per esempio nell’abuso di termini stranieri. Anche questo è un tratto preso dai maestri del romanzo coloniale – molti romanzi di Conrad sono punteggiati di termini come farang o rajah – ed è utile a dare un tocco esotico all’ambientazione. Ma poi Bacigalupi se ne esce con periodi come questi:

All around her, clotheslines draped with rustling pha sin and trousers rustle in the sea breeze. The sun is sinking, glistening from the tip of wats and chedi. The water of the khlongs and the Chao Praya glistens.

OMG! Datti una calmata!
Ma per fortuna questi eccessi sono rari.

Se la Bangkok di Bacigalupi è così immersiva, comunque, il merito sta anche in un’ottima gestione del mostrato. Tutto è sempre filtrato attraverso il personaggio-pov del momento, il narratore onnisciente non si inserisce mai; e ogni capitolo ha un unico pov, così da evitare confusione. Gli infodump, che pure non mancano, sono resi più digeribili perché introdotti come pensieri o flashback dei personaggi. Questo non impedisce che, soprattutto all’inizio, ci si senta un po’ spaesati e soffocati dalla mole di informazioni, e che a volte gli infodump appaiano innaturali; ma il risultato finale rimane più che buono. Soprattutto si evita di cadere nell’eccesso opposto, quello del primo Swanwick: un lettore completamente spaesato perché continuamente privato di informazioni.

Thaitanic

The Windup Girl presenta anche uno degli intrighi politici più realistici e intelligenti che abbia mai letto. La storia è sempre la stessa, e sembra echeggiare le simpatiche avventure coloniali di Gran Bretagna e Stati Uniti nella Cina dell’Ottocento: da una parte, le calorie companies del Midwest Compact vogliono imporre al Regno di Thai una piena libertà di commercio; dall’altra, il governo thailandese sa di essere scampato alla rovina che ha travolto l’Asia proprio grazie alla loro politica isolazionista. Ma le cose sono più complicate di così: un governo non è mai compatto, e ciascuna corrente tenta di fare i propri interessi e imporsi sull’altra…
Lo scenario politico è quantomai complicato, e nel primo quarto del libro seguire il filo dei complotti è piuttosto faticoso. Bacigalupi cade nel solito, facile errore di introdurre le fazioni politiche prima come nomi volanti e solo successivamente come volti ben riconoscibili. Ma a differenza di quanto accadeva in The Difference Engine, queste fazioni a un certo punto prendono corpo, e di lì in poi le cose si fanno veramente appassionanti. Le forze economiche di scala globale, i complotti politici locali, la forza di singoli uomini forti capitati nel posto giusto al momento giusto: Bacigalupi tiene conto di tutto, e il risultato è spettacolare. C’è anche spazio per qualche plot twist, e qualche azione straordinaria che difficilmente potrebbe accadere nel nostro mondo prosaico; ma il tutto inserito in una cornice di estrema credibilità.

E il sense of wonder fantascientifico? C’è anche quello, benché in misura ridotta. Nei romanzi di Bacigalupi gli elementi fantastici sono tenuti al minimo e subordinati a un’ambientazione che pare quasi mainstream, il che è un’ottima scelta, considerata la sua attenzione al realismo e quanta carne al fuoco ci sia. In ogni caso, la ragazza a molla del titolo regala diverse piccole sorprese nel corso del romanzo – alcune più telefonate, altre meno. Nonché diversi spunti affascinanti sulla selezione darwiniana e sul futuro evolutivo della nostra specie.
La tecnologia della Bangkok del XXIII secolo, però, mi suscita qualche perplessità. E dato che non sono il solo, preferisco far parlare il blogger Vanamonde, che ha studiato ingegneria e sicuramente ci capisce più di me. Cito dalla sua recensione:

La principale critica che muovo a The Windup Girl è di natura tecnologica. Per quanto il mondo evocato dal romanzo sia coerente e affascinante, l’ingegnere che è in me ha diverse obiezioni. Per cominciare, in caso di esaurimento del petrolio mi aspetterei un fortissimo incremento nell’utilizzo di fonti rinnovabili di energia. In particolare, un Paese costiero e tropicale come la Thailandia potrebbe sfruttare con grande efficienza il solare, l’eolico, le maree o il gradiente di salinità. Nulla di tutto ciò avviene nel romanzo, dove si utilizzano centrali termoelettriche a carbone dove indispensabile, e per il resto ci si arrangia con energia di origine umana o animale. Si gira una manovella persino per far funzionare una radiolina portatile, roba che anche oggigiorno potrebbe funzionare a energia solare. Una simile assenza di energie alternative è inspiegabile, tanto più che il livello tecnologico è rimasto elevato, e si vedono numerosi esempi di nuovi materiali.
Anche l’utilizzo di energia animale all’interno della produzione industriale (in particolare con l’uso di elefanti geneticamente modificati, detti megodonti) fa molto colore, ma sfugge alle regole della logica. Un elefante “funziona” a biomassa. Per quanto possa essere efficiente, la stessa biomassa che gli si dà come foraggio potrebbe essere trasformata in alcool e usata per far funzionare un motore, che occupa meno spazio di un elefante, non deve riposare, non sporca, non si ammala, richiede meno supervisione umana, e probabilmente ha anche un rendimento migliore in termini di sfruttamento delle calorie.
Del tutto assurdo poi è il fatto che l’energia venga immagazzinata sotto forma meccanica, torcendo molle ad altissima resistenza: chi ha disinventato dinamo, alternatore, accumulatore, batteria e motore elettrico?
Insomma, l’impressione è che Bacigalupi nel creare il suo mondo si sia fatto guidare più dal potenziale simbolico delle situazioni (ogni cosa appare “caricata a molla”, inclusa la ragazza artificiale che è il fulcro della vicenda) che non da un’analisi scientificamente ed economicamente solida. Il che, per un romanzo che tratta un tema così attuale come la scarsità di energia, a me pare un difetto non da poco.

Auto a molla

Ehm, NO.

Detto questo, The Windup Girl rimane a mio avviso un capolavoro. Per ritmo, per complessità dei personaggi, per la ricchezza dell’ambientazione, per il realismo della storia, per ambiguità morale. Bangkok è una città sporca, carica di ingiustizia, di doppiezza e di opportunismo; e nessun personaggio, neanche i più teoricamente “puri”, ne uscirà pulito. E il finale è uno spettacolo.
Ci sarebbero così tante altre cose da dire – ma mi fermo qui, che sennò Dunseny dice che spoilero tutto. Non so se The Windup Girl diventerà un classico della fantascienza, ma dovrebbe diventarlo. Se lo merita. In ogni caso, è diventato uno dei miei romanzi preferiti, schizzando dritto alla tredicesima posizione!

Su Bacigalupi
Paolo Bacigalupi è entrato molto di recente nel panorama fantascientifico americano – ad eccezione dei suoi racconti, che vanno indietro fino al 1999, il suo primo romanzo è del 2009 – ma da allora sta sfornando un libro all’anno. Oltre a The Windup Girl, ne ho letti altri due:
Ship Breaker Ship Breaker, ambientato sulle coste di una Louisiana devastata e impoverita, racconta la storia delle ciurme di braccianti che si guadagnano da vivere smontando i pezzi delle petroliere arenate sulla spiaggia. I protagonisti sono un gruppo di ragazzini che penetrano nei piccoli pertugi delle navi per saccheggiare filo di rame e per conto dei grandi; ma la loro vita d’inferno cambierà quando, in seguito a una tempesta, si imbatteranno nel relitto di un ricco clipper. Il libro è targato come Young Adult, ma di sicuro è uno degli YA più crudi, cinici e onesti in cui mi sia mai imbattuto. Anche qui, l’elemento fantascientifico è molto contenuto.
The Alchemist The Alchemist è una novella fantasy ambientata in un mondo in cui, ogni volta che si casta una magia, da qualche parte nascono rovi indistruttibili. Gran parte del mondo conosciuto è stato inghiottito dai rovi, e ora la magia è bandita; ma gli incantesimi sono troppo utili per la gente, che continua a usarli di nascosto, e i rovi continuano a moltiplicarsi. E quando un alchimista trova un metodo per distruggerli, i signori della città decideranno di piegare la sua scoperta ai loro fini… Il mondo di The Alchemist avrebbe un ottimo potenziale, ma Bacigalupi ci scrive sopra una novella un po’ insipida, scritta così così e coi ritmi sbagliati. Puzza di commercialata, dato che è uscito in coppia con un’altra novellaThe Executioness di Tobias Buckell – con la stessa ambientazione e la stessa premessa di base.
In futuro leggerò sicuramente altro di Bacigalupi – a partire da Pump Six and Other Stories, antologia che raccoglie tutti i racconti da lui scritti fino al 2008. Un po’ mi stuzzica anche Drowned Cities, il suo ultimo romanzo; è un altro Young Adult, ma visto il buon lavoro fatto con Ship Breaker

Dove si trovano?
Su Bookfinder si trovano, in epub e pdf, tutti i libri di Bacigalupi, con l’eccezione di The Alchemist e del recente Drowned Cities; su Library Genesis si trova anche The Alchemist. Ad oggi non mi risulta che alcuno dei suoi libri sia mai stato tradotto in italiano, quindi a chi non sa l’inglese ciccia.

Chi devo ringraziare?
Le prime curiosità verso The Windup Girl mi sono venute grazie alla lettura incrociata della recensione di Mr. Giobblin e di quella di Vanamonde. Ma questi articoli, da soli, non sarebbero bastati a fugare tutti i miei dubbi. Il merito principale va invece a Siobhàn, che ha letto il libro prima di me e mi ha assicurato che mi sarebbe piaciuto un botto. Be’, aveva ragione! ^-^

Bangkok

Qualche estratto
Per il primo estratto, non potevo esimermi dallo scegliere la presentazione della città di Bangkok attraverso gli occhi gelidi di Anderson Lake. Il secondo estratto è preso dalla prima apparizione di Emiko, ed è una breve panoramica del personaggio e delle sue quotidiane esibizioni al night club di Raleigh. Per sapere come vanno a finire le sue sexy disavventure, pigliatevi il libro!

1.
The cigarette’s burning tip reaches Anderson’s fingers. He lets it fall into traffic. Rubs his singed thumb and index finger as Lao Gu pedals on through the clogged streets. Bangkok, City of Divine Beings, slides past.
Saffron-robed monks stroll along the sidewalks under the shade of black umbrellas. Children run in clusters, shoving and swarming, laughing and calling out to one another on their way to monastery schools. Street vendors extend arms draped with garlands of marigolds for temple offerings and hold up glinting amulets of revered monks to protect against everything from infertility to scabis mold. Food carts smoke and hiss with the scents of frying oil and fermented fish while around the ankles of their customers, the flicker-shimmer shapes of cheshires twine, yowling and hoping for scraps.
Overhead, the towers of Bangkok’s old Expansion loom, robed in vines and mold, windows long ago blown out, great bones picked clean. Without air conditioning or elevators to make them habitable, they stand and blister in the sun. The black smoke of illegal dung fires wafts from their pores, marking where Malayan refugees hurriedly scald chapatis and boil kopi before the white shirts can storm the sweltering heights and beat them for their infringements.
In the center of the traffic lanes, northern refugees from the coal war prostrate themselves with hands upstretched, exquisitely polite in postures of need. Cycles and rickshaws and megodont wagons flow past them, parting like a river around boulders. The cauliflower growths of fa’ gan fringe scar the beggars’ noses and mouths. Betel nut stains blacken their teeth. Anderson reaches into his pocket and tosses cash at their feet, nodding slightly at their wais of thanks as he glides past.
A short while later, the whitewashed walls and alleys of the farang manufacturing district come into view. Warehouses and factories all packed together along with the scent of salt and rotting fish. Vendors scab along the alley lengths with bits of tarping and blankets spread above to protect them from the hammer blast of the sun. Just beyond, the dike and lock system of King Rama XII’s seawall looms, holding back the weight of the blue ocean.
It’s difficult not to always be aware of those high walls and the pressure of the water beyond. Difficult to think of the City of Divine Beings as anything other than a disaster waiting to happen. But the Thais are stubborn and have fought to keep their revered city of Krung Thep from drowning. With coal-burning pumps and leveed labor and a deep faith in the visionary leadership of their Chakri Dynasty, they have so far kept at bay that thing which has swallowed New York and Rangoon, Mumbai and New Orleans.

2.
Emiko traces her fingers through the wetness of bar rings. Warm beers sit and sweat wet slick rings, as slick as girls and men, as slick as her skin when she oils it to shine, to be soft like butter when a man touches her. As soft as skin can be, and perhaps more so, because even if her physical movements are all stutter-stop flash-bulb strange, her skin is more than perfect. Even with her augmented vision she barely spies the pores of her flesh. So small. So delicate. So optimal. But made for Nippon and a rich man’s climate control, not for here. Here, she is too hot and sweats too little.
[…] Kannika grabs her by the hair.
Emiko gasps at the sudden attack. She searches for help but none of the other patrons are interested in her. They are watching the girls on stage. Emiko’s peers are servicing the guests, plying them with Khmer whiskey and pressing their bottoms to their laps and running their hands over the men’s chests. And anyway, they have no love for her. Even the good-hearted ones—the ones with jaidee, who somehow manage to care for a windup like herself—will not step in.
Raleigh is talking with another gaijin, smiling and laughing with the man, but his ancient eyes are on Emiko, watching for what she will do.
Kannika yanks her hair again. “Bai!”
Emiko obeys, climbing down from her bar stool and tottering in her windup way toward the circle stage. The men all laugh and point at the Japanese windup and her broken unnatural steps. A freak of nature transplanted from her native habitat, trained from birth to duck her head and bow.
Emiko tries to distance herself from what is about to happen. She is trained to be clinical about such things. The crèche in which she was created and trained had no illusions about the many uses a New Person might be put to, even a refined one. New People serve and do not question. She moves toward the stage with the careful steps of a fine courtesan, stylized and deliberate movements, refined over decades to accommodate her genetic heritage, to emphasize her beauty and her difference. But it is wasted on the crowd. All they see are stutter-stop motions. A joke. An alien toy. A windup.
They have her strip off her clothes.
Kannika flicks water onto her oiled skin. Emiko glistens with water jewels. Her nipples harden. The glow worms twist and writhe overhead, sending out phosphorescent mating light. The men laugh at her. Kannika slaps her hip and makes her bow. Slaps her ass hard enough to burn, tells her to bow lower, to make obeisance to these small men who imagine themselves to be the vanguard of some new Expansion.
The men laugh and wave and point and order more whiskey. Raleigh grins from his place in the corner, the fond elder uncle, happy to teach these newcomers—these small corporate men and women high on fantasies of multinational profiteering—the ways of the old world. Kannika motions that Emiko should kneel.
A black-bearded gaijin with the deep tan of a clipper ship sailor watches from inches away. Emiko meets the man’s eyes. He stares intently, as if he is examining an insect under a magnifying class: fascinated, and yet also repulsed. She has the urge to snap at him, to try to force him to look at her, to see her instead of simply evaluating her as a piece of genetic trash. But instead she bows and knocks her head against the teak stage in subservience while Kannika speaks in Thai and tells them Emiko’s life story. That she was once a rich Japanese plaything. That she is theirs now: a toy for them to play with, to break even.
And then she grabs Emiko’s hair and yanks her up. Emiko gasps as her body arches. She catches a glimpse of the bearded man staring in surprise at the sudden violent gesture, at her abasement. A flash of the crowd. The ceiling with its glow worm cages. Kannika drags her further back, bending her like willow, forcing her to thrust her breasts out to the crowd, to arch further still, to spread her thighs as she struggles not to topple sideways. Her head touches the teak of the stage. Her body forms a perfect arc. Kannika says something and the crowd laughs. The pain in Emiko’s back and neck is extreme. She can feel the crowd’s eyes on her, a physical thing, molesting her. She is utterly exposed.
Liquid gushes over her.
She tries to rise, but Kannika presses her down and dumps more beer in her face. Emiko gags and splutters, drowning. Finally Kannika releases her and Emiko jerks upright, coughing. Liquid foams down her chin, spills down her neck and breasts, trickles to her crotch.
Everyone is laughing.

Tabella riassuntiva

Serratissima trama politica vista da quattro diversi punti di vista. All’inizio è un po’ spaesante.
Bangkok è una città viva e pulsante, che odora di confucianesimo! La tecnologia a molla è poco credibile.
Cinismo e ambiguità morale a go-go.
Emiko è tanto carina!

(1) Ancora poco tempo fa, certuni di questi geni affermavano che gli scrittori italiani dovrebbero scrivere di più dell’Italia e del folklore italiano, e/o ispirarsi ai generi italiani di maggior successo come il poliziesco; allora sì che gli italiani avrebbero finalmente successo! Ah, dannati esterofili!Torna su