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I Consigli del Lunedì #39: Earth Abides

Earth AbidesAutore: George R. Stewart
Titolo italiano: La Terra sull’abisso
Genere: Science Fiction / Post-Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1949
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 370 ca.

Difficoltà in inglese: **

Men go and come, but earth abides.
ECCLESIASTES, I, 4

Quando una specie raggiunge un numero elevatissimo di esemplari, e satura il proprio habitat, diventa più soggetta al rischio di essere decimata da un’epidemia. Nel giro di pochi giorni, di quell’animale che sembrava essere ovunque non si trova più traccia. Oggi è toccato all’uomo. Quando Isherwood Williams, giovane studente di geografia all’università di Stanford, torna dalla sua escursione solitaria di due settimane sulle montagne, non trova più anima viva. Le strade sono deserte, le città silenziose. Una pandemia misteriosa si è portata via il 99% degli esseri umani.
Anche la sua casa, nei sobborghi di San Francisco, è vuota; nessuna delle persone che conosceva è ancora in vita. Ma Ish non vuole cedere alla disperazione. Deciso a trovare degli altri sopravvissuti e a impedire il silenzioso tracollo della civiltà, si imbarcherà in un viaggio attraverso gli Stati Uniti. A dargli forza, la curiosità intellettuale di scoprire cosa ne sarà del mondo dopo la fine del dominio dell’uomo. Lo aspettano anni incredibili.

Oggi vi presento un classico dimenticato. Benché non sia certo la prima opera di fantascienza post-apocalittica, Earth Abides è stato a lungo, per il mondo anglosassone, uno dei modelli di riferimento del genere. Uscito un anno dopo 1984, il romanzo di Stewart ha conosciuto una fama crescente nei decenni successivi. Gli scrittori che si sono cimentati in questo sottogenere, da King con The Stand (L’ombra dello scorpione) a McCarthy con The Road, gli si sono dichiaratamente ispirati. Ma con Earth Abides il tempo non è stato clemente come col romanzo di Orwell: oggi, negli States, è uno di quei libri che ricorrono più nella saggistica che nelle librerie di Anobii, e in Italia gli è andata ancora peggio, dove è rimasto un romanzo “da Urania” e non ha mai raggiunto grande notorietà.
Earth Abides parte da premesse consolidate – un protagonista solo, che si ritrova a vagare per le strade vuote di città decimate, in cerca di sopravvissuti – ma prende una direzione inusuale per il genere: quella del realismo documentaristico. Stewart era un saggista e uno storico prima che uno scrittore, e il suo romanzo ha molto della speculative fiction più pura: cosa succederebbe al nostro pianeta se rimuovessimo all’improvviso la quasi totalità della popolazione, e come reagirebbero i pochi superstiti? Stewart ce lo racconta attraverso gli occhi di Ish, in tre fasi della sua vita (corrispondenti alle tre parti in cui è diviso il romanzo): subito dopo il disastro, vent’anni dopo, e alla fine della sua vita. Niente mutazioni zombie, niente eroi, niente epica – solo le ‘normali’ esperienze di un uomo scampato alla fine del mondo.

Panda Extinction

E per non diventare troppo dark, ecco una bella serie di panda stupidi che si estinguono.

Uno sguardo approfondito
I protagonisti tipici della fantascienza post-apocalittica sono degli eroi, dei leader, o quantomeno dei duri – insomma, uomini d’azione. Devono esserlo, altrimenti avremmo dei personaggi-pov che se ne stanno tutto il giorno chiusi in uno sgabuzzino aspettando che qualcuno li salvi, e questa non è una trama molto appassionante. Nel 1949 però le convenzioni del genere non erano ancora state stabilite, e Stewart sceglie un tipo di protagonista molto differente.
Due sono le caratteristiche particolari dell’unico personaggio-pov di Earth Abides, e queste caratteristiche determinano il tono e la filosofia di fondo dell’intero romanzo.

Isherwood, tanto per cominciare, è passivo. Fin dall’inizio si presenta come uno studioso, un osservatore un po’ misantropo; la sua filosofia è quella dello scienziato davanti a un esperimento o dell’etnografo davanti al popolo da studiare: registrare fedelmente e interagire il meno possibile. La sua motivazione per tirare avanti e mettersi in viaggio, dopo aver scoperto che la malattia si è portata via tutti i suoi affetti, non è tanto trovare dei superstiti, quanto scoprire cosa succederà al mondo dopo la scomparsa dell’uomo. Il suo distacco dalla tragedia e la sua politica di non-intervento (soprattutto nella prima parte) riduce anche il coinvolgimento emotivo di noi lettori.
Tutta la narrazione si sviluppa secondo questo mood: il ritmo è pacato e costante, senza quasi mai picchi di tensione o di emozione. Spesso ho provato la sensazione di trovarmi in un documentario alla Piero Angela e di seguire la storia attraverso gli occhi di una fredda telecamera. Sensazione che si accentua quando Stewart intervalla la narrazione con dei brevi paragrafi dal tono esplicitamente saggistico: in questi passaggi, ci allontaniamo per un momento dalla storia di Ish e il Narratore Onnisciente ci racconta la sorte di questa o quella specie animale, o del sistema idrico di una città, o delle grandi autostrade che attraversano le praterie del Midwest. Queste digressioni – che si trovano soprattutto nella prima parte del romanzo, per poi diminuire gradualmente – sono del resto gli unici momenti in cui ci stacchiamo dal pov del protagonista, e sono chiaramente segnalate dall’interruzione di paragrafo.

Panda Endangered

Il nostro protagonista.

Se già questa premessa ha allontanato una buona fetta di voi dal romanzo, aspettate che arriva il bello: Ish è pure un protagonista sgradevole. Rampante universitario nell’America di fine anni ’40, Ish si sente un essere intellettualmente e moralmente superiore agli altri. Per tutto il romanzo, quando si riferisce ad altri da sé, non lo sentiremo dire altro che: questo è stupido, quello è mediocre, quest’altro ha una mente torpida, quello è un sempliciotto, quell’altro ancora si è talmente abbruttito che merita solo di morire.
La sua mancanza di empatia nei confronti degli altri, in particolare, può lasciare interdetti. E dato che un esempio vale più di mille parole, ecco come Ish tratta la prima persona in cui si imbatte dopo settimane, un ubriaco stordito dall’alcool e dal dolore:

Poi imprecò fra i denti, incapace di trattenere una smorfia di disgusto. Di tutti i sopravvissuti che avrebbe potuto trovare gli capitava fra i piedi un imbecille ubriaco, inutile per se stesso e per gli altri.

Mai in un romanzo post-apocalittico mi sarei aspettato di trovare un protagonista che invece di radunare attorno a sé tutti i poveri cristi che incontra, desideroso di compagnia e mutua assistenza, stabilisce che prenderà con sé soltanto quelli che riterrà degni – e che di fatto abbandona al loro destino quasi tutti i superstiti in cui si imbatte. Ish è terribilmente choosy.
Ora; un protagonista-pov sgradevole è una scelta pericolosa ma, di per sé, non è un errore. Corre il rischio di alienarsi la simpatia di molti lettori, impedendo in questo modo la catarsi e quindi l’immersione nella storia; ma può anche essere uno strumento dell’autore per dare un taglio particolare alla sua narrazione. Gli eroi heinleiniani sono tipicamente degli arroganti figli di puttana, ma molti fedelissimi di Heinlein amano i suoi romanzi proprio per questo. I protagonisti di Heinlein, però, non solo dicono di essere dei gran fighi, ma lo mostrano nei fatti: si rivelano davvero degli uomini superiori alla media. Isherwood, invece, è un meschino. Con la sua passività, crea una frattura tra quello che dice di essere (un eletto) e quello che mostra di essere (uno che non combina niente): un cocktail davvero difficile da digerire.

Panda Haters Gonana Hate

È difficile stabilire se quella di fare un protagonista sgradevole sia stata una scelta intenzionale dell’autore. Stewart era lui stesso un professore universitario, e dal tono compiacente che si fa strada a volte nella narrazione, si potrebbe sospettare un’inconsapevole self-insertion nel protagonista. Il modo in cui Ish incolpa vittimisticamente la mediocrità del genere umano per il collasso della civiltà, fa pensare a uno di quegli autori misantropi e autocompiaciuti di cui la storia della letteratura è piena.
In diverse altre occasioni, tuttavia, il mondo di Earth Abides smentisce e prende a schiaffi Ish. Il mondo post-apocalittico non ha bisogno di astrazioni intellettuali o di umanisti – ha bisogno di tecnici, di agricoltori, di ingegneri, di discipline pratiche. Ma queste cose Ish non può offrirle, Ish che alla sera preferisce leggersi Shakespeare piuttosto che una guida a come si coltiva un orto. In questo caso, il nostro protagonista metterebbe in scena l’inadeguatezza e l’impreparazione dell’uomo medio a far fronte agli infiniti problemi del ricostruire la civiltà dopo l’apocalisse.
Se non altro, l’impossibilità di decidere se l’autore sia ‘dalla parte’ del protagonista o meno, dimostra che la gestione dei punto di vista è impeccabile. Che ci piaccia o meno, ciò che vediamo è sempre filtrato dal pov di Ish, e nessun giudizio morale piove dall’alto; sta a noi lettori decidere come pensarla.1

Se la questione del protagonista rimane nebulosa, comunque, il romanzo pullula di errori oggettivi. Troppo spesso Stewart si abbandona a riassuntini raccontati, per esempio quando deve descrivere lunghi lassi di tempo o momenti della giornata in cui non accade nulla di importante. Le tre parti del romanzo, per esempio, sono inframezzate da brevi capitoli intitolati ‘The Quick Years”, in cui l’autore racconta cos’è successo tra un blocco temporale e un altro: queste parti sono interamente dei riassunti. Cosa ancora più irritante, anche alcune scene chiave sono raccontate anziché mostrate – ad esempio, il ritrovamento di molti dei superstiti durante i primi viaggi di Ish, all’inizio del libro.
Difetto ancora più grave, nel libro ci sono diversi errori di trama. Un esempio su tutti: il cibo in scatola. Anche a distanza di venti e più anni dal collasso della civiltà, i superstiti continuano a nutrirsi di scatolette; Stewart concede che il cibo contenuto non abbia più sapore né struttura, ma sembra rimanere commestibile in aeterno. Cosa ancora più ridicola, probabilmente residuo della pruderie di fine anni ’40, nonostante la malattia abbia falcidiato un centinaio di milioni di persone, nel romanzo non ci si imbatte quasi mai nei cadaveri: le vittime hanno avuto la decenza di morire sempre fuori scena, nascosti nelle loro case, lontano in mezzo ai campi, o nei quartieri degli ospedali (da cui Ish si tiene accortamente alla larga). Sembra quasi che l’umanità non sia stata vittima di una pandemia quanto di rapimenti di massa degli alieni. Ora, posso capire che un romanzo di quell’epoca non insisterà mai – ahimé – sullo spettacolo gore di descrivere masse di corpi in putrefazione che invadono ogni dove; ma di qui all’asetticità Wasp di questa morte ‘invisibile’ e pulitina ce ne corre. Per un romanzo che vuole darsi un taglio realista e documentaristico, questi errori rischiano di minare la credibilità di tutta la storia.

Cibo in scatola

No ma, mangiatele tra vent’anni.

 

Al tempo stesso, però, molti aspetti del mondo di Earth Abides suonano credibili e scientificamente accurati. Le ipotesi sui cambiamenti ecologici nel corso degli anni sono affascinanti e ricevono molta più attenzione che nel romanzo post-apocalittico medio, dove in genere fanno da mero sfondo all’azione. Anche la dinamica sociale delle comunità in cui si radunano i sopravvissuti è convincente, e Stewart riesce a costruire alcune scene veramente coinvolgenti. Avanti nel libro – per dirne una – sullo scontro tra Ish e un nuovo arrivato che minaccia la sua leadership nella comunità, l’autore mette in piedi dei bellissimi momenti di tensione, e al contempo ci fa capire molto su come funzionano i rapporti di potere. Ish stesso, che ho tanto maltrattato per tutta la recensione, nel corso del romanzo avrà una crescita psicologica, e alla fine arriverà a capire molte cose che il suo snobistico io giovanile non vedeva o non voleva vedere (e riuscirà persino a combinare qualcosa di pratico!).
Earth Abides è anche un romanzo a tesi, e la sua tesi (dichiarata praticamente da subito: non è uno spoiler) è che un’epidemia che colpisce a caso e indiscriminatamente, non lascerebbe in circolazione i migliori, ma l’uomo medio – la gente che sta nella fetta centrale della gaussiana. Per questo non troviamo, nel romanzo di Stewart, gli uomini straordinari e dalla forte motivazione di tante opere post-apocalittiche successive. I personaggi che popolano Earth Abides sono tutte persone normali, banali, più pigre che cattive; e Ish, nella sua meschinità, è un’altra persona normale. E nella visione cinica ma condivisibile di Stewart, se la ricostruzione della civiltà è affidata a persone normali, non particolarmente talentuose o determinate o visionarie, cosa potrà mai venirne fuori?2

Earth Abides è un romanzo che non può piacere a tutti. La sua visione cinica e fredda dell’essere umano lo associa più a romanzi come Il signore delle mosche di Golding che non al tipico romanzo post-apocalittico, oppure a romanzi apocalittici molto particolari come The Death of Grass di John Cristopher (bel libro di cui parlai in questo vecchio consiglio). Il suo ritmo pacato, i personaggi banali, il pov antipatico, e il taglio naturalistico incline alla filosofia ricorda molta narrativa mainstream più che quella di genere. Quando consideri tutto questo, capisci come mai il romanzo di Stewart stia cadendo nell’oblio mentre The Stand di King continui a vendere.
Ma nonostante tutto è un bel romanzo; e soprattutto è un romanzo che fa riconsiderare il modo in cui siamo abituati a leggere un sottogenere assai codificato della narrativa fantastica.

Gaussiana

Distribuzione dei sopravvissuti alla pandemia.

Dove si trova?
In lingua originale, Earth Abides si trova in formato ePub sia su Library Genesis che su BookFinder. In italiano, cercate La Terra sull’abisso su Emule: troverete una quantità di formati (doc, rtf, pdf, ePub).

Qualche estratto
Per i due estratti, ho scelto due degli elementi più controversi della scrittura di Stewart. Il primo brano è il primo di quei paragrafi saggistici con Narratore Onnisciente che interrompono la narrazione principale di cui vi parlavo; come vedrete, nonostante siano una sfacciata violazione delle regole dell’immersione, sono ben scritti e hanno un certo fascino. Il secondo brano è centrato sull’incontro tra Ish e il primo superstite, l’ubriacone – episodio a cui avevo dedicato qualche riga in corpo di recensione – così che possiate vedere in un contesto più ampio il problema del ‘protagonista non-empatico’.

1.
“It has never happened!” cannot be construed to mean, “It can never happen!”—as well say, “Because I have never broken my leg, my leg is unbreakable,” or “Because I’ve never died, I am immortal.” One thinks first of some great plague of insects—locusts or grasshoppers—when the species suddenly increases out of all proportion, and then just as dramatically sinks to a tiny fraction of what it has recently been. The higher animals also fluctuate. The lemmings work upon their cycle. The snowshoe-rabbits build up through a period of years until they reach a climax when they seem to be everywhere; then with dramatic suddenness their pestilence falls upon them. Some zoologists have even suggested a biological law: that the number of individuals in a species never remains constant, but always rises and falls — the higher the animal and the slower its breeding-rate, the longer its period of fluctuation.
During most of the nineteenth century the African buffalo was a common creature on the veldt. It was a powerful beast with few natural enemies, and if its census could have been taken by decades, it would have proved to be increasing steadily. Then toward the century’s end it reached its climax, and was suddenly struck by a plague of rinderpest. Afterwards the buffalo was almost a curiosity, extinct in many parts of its range. In the last fifty years it has again slowly built up its numbers.
As for man, there is little reason to think that he can in the long run escape the fate of other creatures, and if there is a biological law of flux and reflux, his situation is now a highly perilous one. During ten thousand years his numbers have been on the upgrade in spite of wars, pestilences, and famines. This increase in population has become more and more rapid. Biologically, man has for too long a time been rolling an uninterrupted run of sevens.

Alla frase «Questo non è mai successo» non si può attribuire il significato di «Questo non potrà mai succedere»… sarebbe come dire: «Dato che non mi sono mai rotto una gamba, le mie ossa sono infrangibili», oppure: «Dato che non sono mai morto, io sono immortale». Si pensi ad esempio alle catastrofi causate dall’invasione di certi insetti, come le cavallette o le locuste, quando una specie prolifera improvvisamente oltre le possibilità naturali offerte dall’ambiente, e quindi, per un meccanismo opposto ma altrettanto ignoto, precipita di nuovo sul limite della completa estinzione. Gli animali superiori non sono esenti da fluttuazioni simili. I lemming seguono un ciclo che senza preavviso giunge a un culmine drammatico. I conigli selvatici proliferano normalmente in un territorio per molti anni, finché all’improvviso sembrano sbucar fuori a dozzine da ogni cespuglio; e poi, con uguale rapidità, una pestilenza o qualcosa nell’ambiente ecologico li stermina di nuovo. Gli zoologi hanno perfino ipotizzato l’esistenza di una legge biologica: il numero di individui di una stessa specie non può stabilizzarsi, ma cresce e diminuisce fra un massimo e un minimo, e più si tratta di animali superiori, più lungo è il ciclo di queste fluttuazioni.
Durante la maggior parte del diciannovesimo secolo il bufalo africano ha popolato la savana in branchi più numerosi di ogni altro erbivoro. Era un animale poderoso, con pochi nemici naturali, e tutto fa credere che per secoli la quantità di capi fosse aumentata lentamente e gradualmente. Poi, sul finire del secolo, questo incremento raggiunse l’apice e i branchi furono improvvisamente colpiti da una varietà di peste bovina. Già nei primi anni del millenovecento i bufali erano animali rari, estinti in molte zone che un tempo avevano popolato. Soltanto negli ultimi cinquant’anni il loro numero sembra pian piano essere cresciuto.
In quanto all’uomo, ci sono poche ragioni per non credere che alla lunga possa sfuggire al destino di altri mammiferi superiori, e se davvero esiste una legge biologica di flusso e di riflusso la sua situazione è attualmente vicina al punto di pericolo. Negli ultimi cento anni il suo numero è aumentato vertiginosamente, a dispetto delle guerre e delle carestie che hanno provocato centinaia di milioni di vittime. Questo aumento della popolazione sta diventando anzi sempre più rapido, con aspetti esponenziali. Se quella dell’uomo con l’ambiente fosse una partita a dadi, si potrebbe dire che biologicamente egli sta ottenendo da ormai troppo tempo una ininterrotta serie di sette.

Philosophy Raptor

2.
In the front seat of a car parked at the curb, he saw a man. Even as he looked, the man collapsed and fell forward on the wheel. The horn, pressed down, emitted a long squawk as the body slipped sideways to the seat. Coming closer, Ish smelled a reek of whiskey. He saw the man with a long, straggly beard, his face bloated and red, obviously in the last stages of passing-out. Ish looked around, and saw that the liquor-store close by was wide open.
In sudden anger, Ish shook the yielding body. The man revived a little, opened his eyes, and emitted a kind of grunt which might have meant, “What is it?” Ish shoved the inert body to a sitting position; as he did so, the man’s hand fumbled for the half-empty bottle of whiskey which was propped in the corner of the seat. Ish grabbed it, threw it out, and heard it splinter on the curbing. He was filled only with a deep bitter anger and a sense of horrible irony. Of all the survivors whom he might have found, here was only a poor old drunk, good for nothing more in this world, or any other. Then as the man’s eyes opened and Ish looked into them, he felt suddenly no more anger, but only a great deep pity.
Those eyes had seen too much. There was a fear in them and a horror that could never be told. However gross the bloated body of the drunkard might seem—somewhere, behind it all, lay a sensitive mind, and that mind had seen more than it could endure. Escape and oblivion were all that could remain.
They sat there together on the seat. The eyes of the drunken man glanced here and there, hardly under control. Their tragedy seemed to grow only deeper. The breath came raspingly. On sudden impulse, Ish took the inert wrist and felt for the pulse. It was weak and irregular. The man had been drinking, doubtless, for a week. Whether he could last much longer was questionable.
“This, then is it!” thought Ish. The survivor might have been a beautiful girl, or a fine intelligent man, but it was only this drunkard, too far gone for any help.

Semisdraiato sul sedile anteriore di una Ford bianca c’era un uomo, che mentre lui si avvicinava collassò in avanti piombando col petto sul volante. Il clacson, sotto il peso del suo corpo, emise un ululato continuo. Ancor prima di aver aperto la portiera Ish sentì l’odore del whisky. L’individuo aveva una barba di due settimane, il volto gonfio e arrossato, ed era evidentemente ubriaco fradicio. Ish alzò lo sguardo e capì perché aveva posteggiato lì: a pochi metri di distanza c’era un negozio di liquori, con la porta aperta.
Improvvisamente irritato sollevò l’uomo dal volante e lo scosse. Lo sconosciuto parve riaversi, aprì gli occhi ed emise un grugnito che avrebbe potuto significare: – Eh? Che c’è? – Lui lo fece appoggiare allo schienale. Mentre lo piazzava in quella posizione l’altro annaspò verso una bottiglia di Old Man Ranger piena a metà, incastrata dietro la leva del cambio. Ish la prese, la scaraventò dall’altra parte della strada e la sentì andare in pezzi contro il marciapiede. Poi imprecò fra i denti, incapace di trattenere una smorfia di disgusto. Di tutti i sopravvissuti che avrebbe potuto trovare gli capitava fra i piedi un imbecille ubriaco, inutile per se stesso e per gli altri. Ma allorché l’individuo si volse a scrutarlo e Ish poté vedere meglio i suoi occhi, vacui e storditi, la rabbia che l’aveva invaso lasciò il posto alla compassione.
Quelli erano occhi che avevano visto troppe cose. Nel loro sguardo vitreo stagnavano ancora uno spavento e un dolore che non potevano essere detti a voce. Per quanto rozzo e incivile l’ubriaco potesse ora apparire, da qualche parte dentro di lui c’era una mente sensibile, una mente che aveva sopportato tutto quello che un uomo riesce a sopportare prima di cedere. La fuga e l’oblio erano tutto ciò che poteva restargli.
Aprì lo sportello di destra e sedette al suo fianco. Gli occhi dello sconosciuto si spostarono qua e là sul parabrezza, probabilmente senza vedere niente al di là di esso. Ansimava raucamente, inerte. La sua tragedia personale era una barriera che adesso lo isolava dal mondo. D’impulso Ish gli fece sollevare un polso e controllò le pulsazioni. Erano molto deboli, irregolari. C’era da scommettere che si stava nutrendo d’alcool da almeno una settimana. Quanto avrebbe tirato avanti prima del collasso finale era materia di ipotesi.
Così stanno le cose, già, pensò Ish. A rispondergli col clacson avrebbe potuto essere un uomo solido e ben educato, o magari una bella ragazza, e invece lì c’era un ubriaco che per lui costituiva soltanto un peso morto.

Tabella riassuntiva

Uno sguardo realistico a un possibile futuro post-apocalittico. Protagonista passivo e dall’atteggiamento irritante.
Buona gestione del pov. Ritmo lento e atmosfera fatalista.
Alcune riflessioni interessanti sulla natura umana. Alcuni errori scientifici minano la credibilità dell’insieme.


(1) Fanno eccezione, all’uso sistematico del pov del protagonista, i già citati paragrafi ‘saggistici’ con Narratore Onnisciente. Ma in questi passaggi non vengono pronunciati giudizi morali sui personaggi del romanzo, quindi questa ‘indecidibilità’ rimane.Torna su


(2) Alla luce di questa visione cinica dell’uomo medio di Stewart si potrebbe anche riconsiderare il carattere choosy di Ish. Lui rifiuta di aggregarsi alla maggior parte dei sopravvissuti che incontra, rimanendone inorridito. Questo atteggiamento elitista, sulle prime, ci disturba. Però potremmo anche chiederci: noi ci comporteremmo davvero in modo diverso? Saremmo pronti, nonostante la solitudine e la desolazione del mondo post-apocalittico, a fare banda con le prime persone che incontriamo? Anche se non ci piacessero? Non ci trasformeremmo piuttosto in figuri guardinghi e riservati, come animali selvatici, costretti dall’istinto di sopravvivenza a non fidarci degli estranei?
Le convenzioni del genere post-apocalittico ci hanno ormai abituati a una logica standard delle relazioni umane – ma non è detto che sia quella più corretta. Forse le reazioni di Ish sono molto più vicine alla realtà. E se l’obiettivo di Earth Abides è il realismo, allora ha fatto un buon lavoro.Torna su

Buone notizie dal Vaticano

Conclave“Ever since I read Baron Corvo’s remarkable novel Hadrian the Seventh long ago, I have amused myself with the fantasy of being elected Pope – an ambition complicated to some degree by the fact that I am not in holy orders, nor a Roman Catholilc, nor, indeed, any kind of Christian at all. But I do live in the hope that the Church will some day see fit to make use of my services.”

Così scrive Robert Silverberg nello spiegare come arrivò a scrivere, un giorno di Febbraio del 1971, quel suo bizzarro racconto in cui un cardinale robot viene eletto al Soglio Pontificio.
Esattamente un anno fa papa Ratzinger rinunciava al ministero petrino, facendo strabuzzare gli occhi a tutti. In quell’occasione, andai a recuperare su consiglio di un mio amico un racconto di fantascienza semi-dimenticato scritto da un autore di fantascienza altrettanto semi-dimenticato, Il dilemma di Benedetto XVI di tale Herbie Brenner, e lo pubblicai sul blog. Per una ragione o per un’altra, quell’articolo riscosse un grande successo di visite (anche se ebbe pochi commenti). Sicché mi son detto: perché non provare a ripetere l’esperimento con un altro racconto a tema papale? Se anche questo dovesse piacere e attirare visite e/o commenti, potrei decidere di provare più spesso a postare racconti integrali pescati dal passato.

Good News from the Vatican è un raccontino privo di meriti letterari. Non c’è tensione, non c’è un vero climax, non c’è azione, e il conflitto è ridotto ai minimi termini. Ci sono solo personaggi che chiacchierano davanti al tavolo di un bar a poca distanza da San Pietro, in attesa che dalla piazza si levi la fumata bianca, chiedendosi chi sarà il nuovo Papa, se davvero sarà il cardinale robot. Per di più, il racconto appartiene a quell’epoca in cui sembrava che ogni aspetto della nostra vita sarebbe presto stato contaminato da una visione ipertecnologica del mondo.
Ma è buffo. E un tantino demenziale.
Come la Chiesa.

Good News from the Vatican

Good News from the Vatican
This is the morning everyone has been waiting for, when at last the robot cardinal is to be elected pope. There can no longer be any doubt of the outcome. The conclave has been deadlocked for many days between the obstinate advocates of Cardinal Asciuga of Milan and Cardinal Carciofo of Genoa, and word has gone out that a compromise is in the making. All factions now are agreed on the selection of the robot. This morning I read in Osservatore Romano that the Vatican computer itself has taken a hand in the deliberations. The computer has been strongly urging the candidacy of the robot. I suppose we should not be surprised by this loyalty among machines. Nor should we let it distress us. We absolutely must not let it distress us.
“Every era gets the pope it deserves,” Bishop FitzPatrick observed somewhat gloomily today at breakfast. “The proper pope for our times is a robot, certainly. At some future date it may be desirable for the pope to be a whale, an automobile, a cat, a mountain.” Bishop FitzPatrick stands well over two meters in height and his normal facial expression is a morbid, mournful one. Thus it is impossible for us to determine whether any particular pronouncement of his reflects existential despair or placid acceptance. Many years ago he was a star player for the Holy Cross championship basketball team. He has come to Rome to do research for a biography of St. Marcellus the Righteous.
We have been watching the unfolding drama of the papal election from an outdoor café several blocks from the Square of St. Peter’s. For all of us, this has been an unexpected dividend of our holiday in Rome; the previous pope was reputed to be in good health and there was no reason to suspect that a successor would have to be chosen for him this summer.
Each morning we drive across by taxi from our hotel near the Via Veneto and take up our regular positions around “our” table. From where we sit, we all have a clear view of the Vatican chimney through which the smoke of the burning ballots rises: black smoke if no pope has been elected, white if the conclave has been successful. Luigi, the owner and headwaiter, automatically brings us our preferred beverages: Fernet Branca for Bishop FitzPatrick, Campari and soda for Rabbi Mueller, Turkish coffee for Miss Harshaw, lemon squash for Kenneth and Beverly, and Pernod on the rocks for me. We take turns paying the check, although Kenneth has not paid it even once since our vigil began. Yesterday, when Miss Harshaw paid, she emptied her purse and found her self 350 lire short; she had nothing else except hundred-dollar travelers’ checks. The rest of us looked pointedly at Kenneth but he went on calmly sipping his lemon squash. After a brief period of tension Rabbi Mueller produced a 500-lire coin and rather irascibly slapped the heavy silver piece against the table. The rabbi is known for his short temper and vehement style. He is twenty-eight years old, customarily dresses in a fashionable plaid cassock and silvered sunglasses, and frequently boasts that he has never performed a bar mitzvah ceremony for his congregation, which is in Wicomico County, Maryland. He believes that the rite is vulgar and obsolete, and invariably farms out all his bar mitzvahs to a franchised organization of itinerant clergymen who handle such affairs on a commission basis. Rabbi Mueller is an authority on angels.

Piazza San Pietro

Our group is divided over the merits of electing a robot as the new pope. Bishop FitzPatrick, Rabbi Mueller, and I are in favor of the idea. Miss Harshaw, Kenneth, and Beverly are opposed. It is interesting to note that both of our gentlemen of the cloth, one quite elderly and one fairly young, support this remarkable departure from tradition. Yet the three “swingers” among us do not.
I am not sure why I align myself with the progressives. I am a man of mature years and fairly sedate ways. Nor have I ever concerned myself with the doings of the Church of Rome. I am unfamiliar with Catholic dogma and unaware of recent currents of thought within the Church. Still, I have been hoping for the election of the robot since the start of the conclave.
Why, I wonder? Is it because the image of a metal creature upon the Throne of St. Peter stimulates my imagination and tickles my sense of the incongruous? That is, is my support of the robot purely an aesthetic matter? Or is it, rather, a function of my moral cowardice? Do I secretly think that this gesture will buy the robots off? Am I privately saying, Give them the papacy and maybe they won’t want other things for a while? No. I can’t believe anything so unworthy of myself. Possibly I am for the robot because I am a person of unusual sensitivity to the needs of others.
“If he’s elected,” says Rabbi Mueller, “he plans an immediate time-sharing agreement with the Dalai Lama and a reciprocal plug-in with the head programmer of the Greek Orthodox Church, just for starters. I’m told he’ll make ecumenical overtures to the Rabbinate as well, which is certainly something for all of us to look forward to.”
“I don’t doubt that there’ll be many corrections in the customs and practices of the hierarchy,” Bishop FitzPatrick declares. “For example we can look forward to superior information-gathering techniques as the Vatican computer is given a greater role in the operations of the Curia. Let me illustrate by—”
“What an utterly ghastly notion,” Kenneth says. He is a gaudy young man with white hair and pink eyes. Beverly is either his wife or his sister. She rarely speaks. Kenneth makes the sign of the Cross with offensive brusqueness and murmurs, “In the name of the Father, the Son, and the Holy Automaton.” Miss Harshaw giggles but chokes the giggle off when she sees my disapproving face.
Dejectedly, but not responding at all to the interruption, Bishop FitzPatrick continues, “Let me illustrate by giving you some figures I obtained yesterday afternoon. I read in the newspaper Oggi that during the last five years, according to a spokesman for the Missiones Catholicae, the Church has increased its membership in Yugoslavia from 19,381,403 to 23,501,062. But the government census taken last year gives the total population of Yugoslavia at 23,575,194. That leaves only 74,132 for the other religious and irreligious bodies. Aware of the large Moslem population of Yugoslavia, I suspected an inaccuracy in the published statistics and consulted the computer in St. Peter’s, which informed me”—the bishop, pausing, produces a lengthy printout and unfolds it across much of the table—“that the last count of the Faithful in Yugoslavia, made a year and a half ago, places our numbers at 14,206,198. Therefore an overstatement of 9,294,864 has been made. Which is absurd. And perpetuated. Which is damnable.”

San Pietro

“What does he look like?” Miss Harshaw asks. “Does anyone have any idea?”
“He’s like all the rest,” says Kenneth. “A shiny metal box with wheels below and eyes on top.”
“You haven’t seen him,” Bishop FitzPatrick interjects. “I don’t think it’s proper for you to assume that—”
“They’re all alike,” Kenneth says. “Once you’ve seen one, you’ve seen all of them. Shiny boxes. Wheels. Eyes. And voices coming out of their bellies like mechanized belches. Inside, they’re all cogs and gears.” Kenneth shudders delicately. “It’s too much for me to accept. Let’s have another round of drinks, shall we?”
Rabbi Mueller says, “It so happens that I’ve seen him with my own eyes.”
“You have?” Beverly exclaims.
Kenneth scowls at her. Luigi, approaching, brings a tray of new drinks for everyone. I hand him a 5,000-lire note. Rabbi Mueller removes his sunglasses and breathes on their brilliantly reflective surfaces. He has small, watery grey eyes and a bad squint. He says, “The cardinal was the keynote speaker at the Congress of World Jewry that was held last fall in Beirut. His theme was ‘Cybernetic Ecumenicism for Contemporary Man’. I was there. I can tell you that His Eminency is tall and distinguished, with a fine voice and a gentle smile. There’s something inherently melancholy about his manner that reminds me greatly of our friend the bishop, here. His movements are graceful and his wit is keen.”
“But he’s mounted on wheels, isn’t he?” Kenneth persists.
“On treads,” replies the rabbi, giving Kenneth a fiery, devastating look and resuming his sunglasses. “Treads, like a tractor has. But I don’t think that treads are spiritually inferior to feet, or, for that matter, to wheels. If I were a Catholic I’d be proud to have a man like that as my pope.”
“Not a man,” Miss Harshaw puts in. A giddy edge enters her voice whenever she addresses Rabbi Mueller. “A robot,” she says. “He’s not a man, remember?”
“A robot like that as my pope, then,” Rabbi Mueller says, shrugging at the correction. He raises his glass. “To the new pope!”
“To the new pope!” cries Bishop FitzPatrick.
Luigi comes rushing from his café. Kenneth waves him away. “Wait a second,” Kenneth says. “The election isn’t over yet. How can you be so sure?”
“The Osservatore Romano,” I say, “indicates in this morning’s edition that everything will be decided today. Cardinal Carciofo has agreed to withdraw in his favor, in return for a larger real time allotment when the new computer hours are decreed at next year’s consistory.”
“In other words, the fix is in,” Kenneth says.
Bishop FitzPatrick sadly shakes his head. “You state things much too harshly, my son. For three weeks now we have been without a Holy Father. It is God’s Will that we shall have a pope. The conclave, unable to choose between the candidacies of Cardinal Carciofo and Cardinal Asciuga, thwarts that Will. If necessary, therefore, we must make certain accommodations with the realities of the times so that His Will shall not be further frustrated. Prolonged politicking within the conclave now becomes sinful. Cardinal Carciofo’s sacrifice of his personal ambitions is not as self-seeking an act as you would claim.”
Kenneth continues to attack poor Carciofo’s motives for withdrawing. Beverly occasionally applauds his cruel sallies. Miss Harshaw several times declares her unwillingness to remain a communicant of a Church whose leader is a machine. I find this dispute distasteful and swing my chair away from the table to have a better view of the Vatican. At this moment the cardinals are meeting in the Sistine Chapel. How I wish I were there! What splendid mysteries are being enacted in that gloomy, magnificent room! Each prince of the Church now sits on a small throne surmounted by a violet-hued canopy. Fat wax tapers glimmer on the desk before each throne. Masters of ceremonies move solemnly through the vast chamber, carrying the silver basins in which the blank ballots repose. These basins are placed on the table before the altar. One by one the cardinals advance to the table, take ballots, return to their desks. Now, lifting their quill pens, they begin to write. “I, Cardinal———, elect to the Supreme Pontificate the Most Reverend Lord my Lord Cardinal———.” What name do they fill in? Is it Carciofo? Is it Asciuga? Is it the name of some obscure and shriveled prelate from Madrid or Heidelberg, some last-minute choice of the anti-robot faction in its desperation? Or are they writing his name? The sound of scratching pens is loud in the chapel. The cardinals are completing their ballots, sealing them at the ends, folding them, folding them again and again, carrying them to the altar, dropping them into the great gold chalice. So have they done every morning and every afternoon for days, as the deadlock has prevailed.

Conclave

“I read in the Herald-Tribune a couple of days ago,” says Miss Harshaw, “that a delegation of two hundred and fifty young Catholic robots from Iowa is waiting at the Des Moines airport for news of the election. If their man gets in, they’ve got a chartered flight ready to leave, and they intend to request that they be granted the Holy Father’s first public audience.”
“There can be no doubt,” Bishop FitzPatrick agrees, “that his election will bring a great many people of synthetic origin into the fold of the Church.”
“While driving out plenty of flesh and blood people!” Miss Harshaw says shrilly.
“I doubt that,” says the bishop. “Certainly there will be some feelings of shock, of dismay, of injury, of loss, for some of us at first. But these will pass. The inherent goodness of the new pope, to which Rabbi Mueller alluded, will prevail. Also I believe that technologically minded young folk everywhere will be encouraged to join the Church. Irresistible religious impulses will be awakened throughout the world.”
“Can you imagine two hundred and fifty robots clanking into St. Peter’s?” Miss Harshaw demands.
I contemplate the distant Vatican. The morning sunlight is brilliant and dazzling, but the assembled cardinals, walled away from the world, cannot enjoy its gay sparkle. They all have voted, now. The three cardinals who were chosen by lot as this morning’s scrutators of the vote have risen. One of them lifts the chalice and shakes it, mixing the ballots. Then he places it on the table before the altar; a second scrutator removes the ballots and counts them. He ascertains that the number of ballots is identical to the number of cardinals present. The ballots now have been transferred to a ciborium, which is a goblet ordinarily used to hold the consecrated bread of the Mass. The first scrutator withdraws a ballot, unfolds it, reads its inscription; passes it to the second scrutator, who reads it also; then it is given to the third scrutator, who reads the name aloud. Asciuga? Carciofo? Some other? His?
Rabbi Mueller is discussing angels. “Then we have the Angels of the Throne, known in Hebrew as arelim or ophanim. There are seventy of them, noted primarily for their steadfastness. Among them are the angels Orifiel, Ophaniel, Zabkiel, Jophiel, Ambriel, Tychagar, Barael, Quelamia, Paschar, Boel, and Raum. Some of these are no longer found in Heaven and are numbered among the fallen angels in Hell.”
“So much for their steadfastness,” says Kenneth.
“Then, too,” the rabbi goes on, “there are the Angels of the Presence, who apparently were circumcised at the moment of their creation. These are Michael, Metatron, Suriel, Sandalphon, Uriel, Saraqael, Astanphaeus, Phanuel, Jehoel, Zagzagael, Yefefiah, and Akatriel. But I think my favorite of the whole group is the Angel of Lust, who is mentioned in Talmud Bereshith Rabba 85 as follows, that when Judah was about to pass by—”
They have finished counting the votes by this time, surely. An immense throng has assembled in the Square of St. Peter’s. The sunlight gleams off hundreds if not thousands of steel-jacketed craniums. This must be a wonderful day for the robot population of Rome. But most of those in the piazza are creatures of flesh and blood: old women in black, gaunt young pickpockets, boys with puppies, plump vendors of sausages, and an assortment of poets, philosophers, generals, legislators, tourists, and fishermen. How has the tally gone? We will have our answer shortly. If no candidate has had a majority, they will mix the ballots with wet straw before casting them into the chapel stove, and black smoke will billow from the chimney. But if a pope has been elected, the straw will be dry, the smoke will be white.
The system has agreeable resonances. I like it. It gives me the satisfactions one normally derives from a flawless work of art: the Tristan chord, let us say, or the teeth of the frog in Bosch’s Temptation of St. Anthony. I await the outcome with fierce concentration. I am certain of the result; I can already feel the irresistible religious impulses awakening in me. Although I feel, also, an odd nostalgia for the days of flesh and blood popes. Tomorrow’s newspapers will have no interviews with the Holy Father’s aged mother in Sicily, nor with his proud younger brother in San Francisco. And will this grand ceremony of election ever be held again? Will we need another pope, when this one whom we will soon have can be repaired so easily?

Fumo bianco

Ah. The white smoke! The moment of revelation comes!
A figure emerges on the central balcony of the facade of St. Peter’s, spreads a web of cloth-of-gold, and disappears. The blaze of light against that fabric stuns the eye. It reminds me perhaps of moonlight coldly kissing the sea at Castellamare, or, perhaps even more, of the noonday glare rebounding from the breast of the Caribbean off the coast of St. John. A second figure, clad in ermine and vermilion, has appeared on the balcony. “The cardinal-archdeacon,” Bishop FitzPatrick whispers. People have started to faint. Luigi stands beside me, listening to the proceedings on a tiny radio. Kenneth says, “It’s all been fixed.” Rabbi Mueller hisses at him to be still. Miss Harshaw begins to sob. Beverly softly recites the Pledge of Allegiance, crossing herself throughout. This is a wonderful moment for me. I think it is the most truly contemporary moment I have ever experienced.
The amplified voice of the cardinal-archdeacon cries, “I announce to you great joy. We have a pope.”
Cheering commences, and grows in intensity as the cardinal-archdeacon tells the world that the newly chosen pontiff is indeed that cardinal, that noble and distinguished person, that melancholy and austere individual, whose elevation to the Holy See we have all awaited so intensely for so long. “He has imposed upon himself,” says the cardinal-archdeacon, “the name of—”
Lost in the cheering, I turn to Luigi. “Who? What name?”
“Sisto Settimo,” Luigi tells me.
Yes, and there he is, Pope Sixtus the Seventh, as we now must call him. A tiny figure clad in the silver and gold papal robes, arms outstretched to the multitude, and, yes! the sunlight glints on his cheeks, his lofty forehead, there is the brightness of polished steel. Luigi is already on his knees. I kneel beside him. Miss Harshaw, Beverly, Kenneth, even the rabbi, all kneel, for beyond doubt this is a miraculous event. The pope comes forward on his balcony. Now he will deliver the traditional apostolic benediction to the city and to the world. “Our help is in the Name of the Lord,” he declares gravely. He activates the levitator jets beneath his arms; even at this distance I can see the two small puffs of smoke. White smoke, again. He begins to rise into the air. “Who hath made heaven and earth,” he says. “May Almighty God, Father, Son, and Holy Ghost, bless you.” His voice rolls majestically toward us. His shadow extends across the whole piazza. Higher and higher he goes, until he is lost to sight. Kenneth taps Luigi. “Another round of drinks,” he says, and presses a bill of high denomination into the innkeeper’s fleshy palm. Bishop FitzPatrick weeps. Rabbi Mueller embraces Miss Harshaw. The new pontiff, I think, has begun his reign in an auspicious way.

Amen!

I Consigli del Lunedì #36: Roadside Picnic

Roadside PicnicAutore: Arkady e Boris Strugatsky
Titolo italiano: Picnic sul ciglio della strada
Genere: Science Fiction / Crime Fiction
Tipo: Romanzo

Anno: 1972
Nazione: Unione Sovietica
Lingua originale: Russo
Pagine: 220 ca.

Difficoltà in inglese: **

Un tempo, Harmont era una sonnacchiosa cittadina canadese senza nulla da offrire. Poi è arrivata la Visitazione: una civiltà aliena ha invaso senza preavviso Harmont e altri cinque punti del pianeta. Non hanno interagito con gli esseri umani in alcun modo; sono rimasti alcuni giorni e poi, così come sono arrivati, sono ripartiti. Ma dietro di sé hanno lasciato la Zona: chilometri di superficie contaminati dal loro arrivo e ricolmi di tutti gli incomprensibili artefatti che hanno buttato. Come se fossero passati per un picnic e si fossero dimenticati di pulire.
Schuhart Redrick è uno stalker. Di giorno, lavora come assistente di laboratorio per l’Istituto Internazionale di Culture Extraterrestri; di notte, un uomo che si guadagna da vivere infiltrandosi nella Zona e rubando i tesori della civiltà aliena per rivenderli sul mercato nero. La Zona è cintata e pattugliata dalla polizia, ma questo non ha impedito a un intero microcosmo di criminali di radunarsi ad Harmont per contrabbandare i reperti della Visitazione. Ma la Zona è un luogo pericoloso: si aggirano strane cose che possono ucciderti o mutilarti al minimo movimento sbagliato; e anche chi sopravvive, viene cambiato dalla Zona in modi misteriosi e irreversibili…

Era parecchio tempo che non pubblicavo un Consiglio. E quale modo migliore per farlo, se non dedicandolo, una volta tanto, a un’opera di fantascienza russa? In traduzione inglese. Vabbé, non è colpa mia: il russo non lo parlo, e se aspetto di mettere le mani su una traduzione italiana decente sto fresco. Ma dato che recensirò un romanzo letto in traduzione e non in lingua originale, mi soffermerò meno sullo stile e la costruzione delle frasi; d’altronde la cose più importanti da analizzare sono la struttura e i contenuti, e quelli per fortuna sopravvivono nel passaggio da una lingua all’altra (posto che il traduttore sappia fare il suo lavoro).
I fratelli Strugatsky 1 sono generalmente considerati i migliori autori di fantascienza russa della seconda metà del Novecento – e Roadside Picnic (vi risparmio l’originale russo), complice probabilmente l’ambientazione internazionale, è la loro opera più famosa.  Cosa succederebbe se l’umanità si trovasse improvvisamente tra le mani gli artefatti abbandonati di una civiltà infinitamente superiore alla loro? In quali modi verrebbe cambiata la vita quotidiana delle persone? Sono queste le domande alla base di Roadside Picnic. Il romanzo parte da un evento fantastico per poi zoommare sulle vite che da questo evento sono state trasformate – sulla società, sui traffici, sui desideri, le aspirazioni e le angosce che ne sono nati. Chi l’avrebbe detto che anche quei dannati bolscevichi sapessero scrivere fantascienza, eh?

Stalin smiles

“Scrivi, scrivi i tuoi romanzetti sovversivi. D’altronde, quella Stazione Spaziale Sovietica non si costruirà da sola, no?”

Uno sguardo più approfondito
Cominciamo dalla struttura del libro, che è piuttosto particolare. Dopo un breve prologo-intervista con lo scazzato premio Nobel dottor Pilman – utile a introdurre al lettore le ‘basi’ dell’ambientazione – il romanzo è composto da quattro lunghi capitoli che sono praticamente dei racconti autoconclusivi. O meglio, degli episodi nella storia della cittadina di Harmont dopo la Visitazione. Ogni episodio racconta la propria storia, e tra un episodio e l’altro trascorrono anni (eccezion fatta per il passaggio dal terzo al quarto).
La gestione del pov è impeccabile. Ognuno dei quattro capitoli segue un unico punto di vista; in tre dei quattro, il personaggio-pov è lo stalker Redrick, cosa che lo rende il vero protagonista del romanzo. Ma lo stile cambia nel corso del libro. Il primo capitolo (per ragioni che non ho capito) è scritto in prima persona, mentre i successivi sono tutti in terza con telecamera ora nei pressi, ora nella testa del personaggio. E se all’inizio del libro il tono è prevalentemente ironico, leggero – soprattutto nell’intervista al dottor Pilman, piena di sarcasmo e assolutamente piacevole da leggere – mano a mano che si va avanti l’atmosfera si fa più drammatica.

I fratelli Strugatsky, poi, mostrano che è un piacere. I movimenti che fanno i personaggi mentre parlano, l’accendersi e lo spegnersi del mozzicone di sigaretta, i gesti nervosi delle dita e l’espressione degli occhi – tutto viene registrato e comunicato al lettore. C’è un passaggio del libro in cui un Redrick distrutto si trascina sotto il sole lungo una pianura brulla, a ridosso di una cava, dove possiamo sentire sulla nostra pelle la stanchezza, le labbra che si spaccano per l’arsura, i solchi lasciati dalle cinghie dello zaino sulla pelle coperta di bolle.
E questa capacità di mostrare perdura nella gestione degli infodump. Le coordinate essenziali dell’ambientazione, come dicevo prima, sono introdotte nella breve intervista che apre il romanzo. Il dottor Pilman spiega (in un tono leggero e svogliato che assolutamente non annoia) cosa siano la Visitazione, la Zona, gli stalker. Dopodiché, dall’inizio del primo capitolo in poi, gli infodump nel vero senso della parola quasi spariscono dalla narrazione. Redrick descrive le cose mano a mano che le vede; le informazioni appaiono a spezzoni, sotto forma di ricordi o di istruzioni che dà ai novizi che lo accompagnano.
Prendiamo la cosiddetta mosquito mange, o zona di gravità iperconcentrata, un fenomeno che si manifesta in alcuni punti della Zona e che comprime in modi orribili qualunque cosa gli si avvicini. Inizialmente è nominata senza spiegare cosa sia. Poi a un tratto Redrick la vede: la percezione di un cambiamento nel moto nell’aria, uno strano inclinarsi degli oggetti ai suoi confini, poi, dei frammenti di materia compressa in strani modi che sembrano fluttuare nel nulla. Solo alla fine Redrick spiega ai suoi compagni che quella è una mosquito mange, e come funziona. E che è meglio non la tocchino.

In Soviet Russia

Redrick, in generale, è una voce narrante eccezionale. Lo sguardo di chi la sa lunga; dello stalker professionista che guarda dall’alto in basso i nuovi arrivati, che si aspetta di essere obbedito all’istante all’interno della Zona, perché lui è il sopravvissuto mentre gli altri sono morti; dell’uomo che sa che la vita è tutto un prendere o dare calci nei denti. Il suo tono cinico e distaccato dà il ritmo a tutta la narrazione; un ritmo pacato, anche nel bel mezzo dei pericoli della Zona. E dato che un esempio vale più di mille parole:

“See those rags over there? You’re looking the wrong way! Over there, to the right.”
“Yes,” said Arthur.
“Well, that was a guy called Whip. A long time ago. He didn’t listen to his elders and now he lies there in order to show smart people the right way. Look just to the right of Whip. Got it? See the spot? Right where the willows are a little thicker. That’s the way. You’re off!”

Il cambiare dell’atmosfera nel corso del romanzo (più ironica all’inizio, più cupa alla fine) non è che un riflesso dell’evolversi della psicologia del personaggio. Sì: pur essendo un romanzo breve, Redrick evolve. E a riprova della bravura degli Strugatsky: quando nel terzo capitolo si dà il cambio col pov del businessman cicciobombo Richard Noonan, anche il ‘timbro vocale’ della narrazione cambia.

Ma la vera protagonista del romanzo, alla fine, è la Zona. E’ uno dei tipi di ambientazione che preferisco in assoluto, perché è un luogo familiare, quotidiano, a cui si mescola in modi subdoli l’assurdo. La Zona si presenta come un posto normalissimo: una strada, un garage, degli edifici abbandonati, campi, una collina, una cava di pietra. Nella cava c’è un bulldozer abbandonato, inclinato su un lato; le case sono vuote. E poi, all’improvviso, le vedi: un’ombra sbagliata, un luccichio che non dovrebbe esserci, luci lampeggianti che a un tratto diventano una tempesta infernale che sa di ozono e che ti brucia vivo se passi troppo vicino; o una gelatina apparentemente innocua, ma che trasforma in gomma inerte tutto ciò con cui entra in contatto. E la morte può arrivare in qualsiasi momento, al minimo segnale, alla minima disattenzione. L’atmosfera è molto differente, eppure in qualche maniera mi ha ricordato la serie di Silent Hill.
Nella Zona, però, si trascorre non più di un terzo del romanzo. Il resto avviene fuori, per le strade di Harmont. E in duecento pagine, gli Strugatsky ti creano tutto un microcosmo che ruota attorno al concetto della Zona: ci sono gli stalker, con tutta la loro mitologia – come la leggendaria sfera dorata che, si dice, può realizzare i desideri, ma che in cambio esige un pegno di sangue – e i loro eroi – come il vecchio e cinico ‘Avvoltoio’ Burbridge, famoso per essere tornato sempre illeso dalla Zona, mentre il prezzo lo pagavano sempre quelli che lo accompagnavano. E poi i ricettatori, le organizzazioni che rivendono e distribuiscono sul mercato nero gli artefatti della Zona, la polizia, le famiglie degli stalker, la comunità degli scienziati e dei tecnici dell’IIEC. In queste pagine Roadside Picnic smette (in parte) i panni del mystery fantascientifico e diventa crime fiction del tipo più cinico, un po’ The Shield, un po’ Breaking Bad. E queste due metà si armonizzano perfettamente nel raccontare il dramma di una cittadina la cui vita è stata cambiata per sempre da un avvenimento incomprensibile.

In Soviet Russia

In poco più di duecento pagine, insomma, i fratelli Strugatsky riescono a condensare una incredibile quantità di temi – da quelli più umani a quelli più metafisici – e ti colpiscono al cuore. Ciò che rimane alla fine, soprattutto, è l’idea di un mondo vivo, che continua a vivere oltre la pagina; ti chiedi quante altre storie si potrebbero raccontare sul mondo di Roadside Picnic, di quanti personaggi secondari si vorrebbe sapere com’è andata a finire, quali altre peripezie dovranno vivere. E’ davvero incredibile che da questo romanzo non sia mai nato un serial televisivo; si presta naturalmente, avrebbe potuto avere tante stagioni quante Lost senza mai rimanere a corto di materiale. Spero sempre che prima o poi succeda. In compenso ha ispirato un film di Tarkovskij chiamato Stalker. 2
Roadside Picnic è un romanzo che consiglio a tutti; persino agli amanti del crime e che non sono abituati a leggere sci-fi, che forse potrebbero apprezzarlo anche di più degli altri. Lo raccomanderei anche in italiano, visto che comunque la lingua originale è il russo – ma non ne ho trovata una versione decente, e poi c’è sempre il rischio (soprattutto nella narrativa di genere e nelle collane da edicola tipo Urania) di trovarti tra le mani una traduzione di seconda mano, mediata dall’inglese, mentre per definizione questo non può succedere se leggi la versione inglese.

Dove si trova?
Roadside Picnic si può scaricare in inglese sia su Library Genesis che su BookFinder; purtroppo si trova solo in pdf, ma è un file di buona qualità e in una mezz’oretta se ne può fare un ePub più che dignitoso. In alternativa, si può acquistare l’edizione cartacea dei SF Masterworks (in cui, mi dicono, sono stati corretti anche alcuni piccoli errori di traduzione) su Amazon.co.uk; l’ultima ristampa si può portare a casa anche a prezzi molto bassi, spese di spedizione escluse.

Sui fratelli Strugatsky
Non avevo mai sentito parlare di questa coppia di scrittori russi prima di imbattermi in Roadside Picnic. L’introduzione all’edizione che ho letto (quella che si trova su Library Genesis) è scritta nientemeno che da Theodore Sturgeon, il quale nomina altri due libri dall’aria molto interessante: Hard to Be a God e soprattutto il satirico Tale of the Troika. Un’altra loro opera che ha raggiunto una certa notorietà internazionale (ma sembra già meno interessante) è l’utopia Noon: 22th Century.
Mi piacerebbe leggerli, ma purtroppo sui circuiti pirata non ho trovato nessuno di questi titoli, e sui canali legali i prezzi sono proibitivi. In Italia, sono in circolazione due traduzioni edite dalla Marcos y Marcos, e una di queste è proprio È difficile essere un dio – ma dovrei prima superare la mia naturale diffidenza verso le traduzioni italiane di opere di genere in lingue non-occidentali. Magari nei prossimi giorni andrò in libreria a controllare.

Meanwhile in Soviet Russia

Qualche estratto
Il primo brano è preso dal primo capitolo, nel momento in cui lo stalker Redrick entra nella Zona in compagnia del suo amico scienziato Kirill; osservando la zona dal velivolo, ha modo di evocare (e così di farci sapere) varie vicissitudini capitate agli stalker in questo piccolo appezzamento di pensiero. Il secondo pezzo, molto più avanti nel romanzo, è un estratto del dialogo tra Noonan e il dottor Pilman sulla natura della Visitazione e degli alieni: in fondo non si è trattato d’altro che di un picnic sul ciglio della strada.

1.
We were off.
The institute was on our right and the Plague Quarter on our left. We were traveling from pylon to pylon right down the middle of the street. It had been ages since the last time someone had walked or driven down this street. The asphalt was all cracked, and grass had grown in the cracks. But that was still our human grass. On the sidewalk on our left there was black bramble growing, and you could tell the boundaries of the Zone: the black growth ended at the curb as if it had been mown. Yeah, those visitors were well-behaved. They messed up a lot of things but at least they set themselves clear limits. Even the burning fluff never came to our side of the Zone—and you would think that a stiff wind would do it.
The houses in the Plague Quarter were chipped and dead. However, the windows weren’t broken. Only they were so dirty that they looked blind. At night, when you crawl past, you can see the glow inside, like alcohol burning with blue tongues. That’s the witches’ jelly breathing in the cellars. Just a quick glance gives you the impression that it’s a neighborhood like any other, the houses are like any others, only in need of repair, but there’s nothing particularly strange about them. Except that there are no people around. That brick house, by the way, was the home of our math teacher. We used to call him The Comma. He was a bore and a failure. His second wife had left him just before the Visitation, and his daughter had a cataract on one eye, and we used to tease her to tears, I remember. When the panic began he and all his neighbors ran to the bridge in their underwear, three miles nonstop. Then he was sick with the plague for a long time. He lost all his skin and his nails. Almost everyone who had lived in the neighborhood was hit, that’s why we call it the Plague Quarter. Some died, mostly the old people, and not too many of them. I, for one, think that they died from fright and not from the plague. It was terrifying. Everyone who lived here got sick. And people in three neighborhoods went blind. Now we call those areas: First Blind Quarter, Second Blind, and so on. They didn’t go completely blind, but got sort of night blindness. By the way, they said that it wasn’t any explosion that caused it, even though there were plenty of explosions; they said they were blinded from a loud noise. They said it got so loud that they immediately lost their vision. The doctors told them that that was impossible and they should try to remember. But they insisted that it was a powerful thunderbolt that blinded them. By the way, no one else heard the thunder at all.
Yes, it was as though nothing had happened here. There was a glass kiosk, unharmed. A baby carriage in a driveway—even the blankets in it looked clean. The antennas screwed up the effect though—they were overgrown with some hairy stuff that looked like cotton. The eggheads had been cutting their teeth on this cotton problem for some time. You see, they were interested in looking it over. There wasn’t any other like it anywhere. Only in the Plague Quarter and only on the antennas. And most important, it was right there, under their very windows. Finally they had a bright idea: they lowered an anchor on a steel cable from a helicopter and hooked a piece of cotton. As soon as the helicopter pulled at it, there was a pssst! We looked and saw smoke coming from the antenna, from the anchor, and from the cable. The cable wasn’t just smoking—it was hissing poisonously, like a rattler. Well, the pilot was no fool—there was a reason why he was a lieutenant—he quickly figured what was what and dropped the cable and made a quick getaway. There it was, the cable, hanging down almost to the ground and overgrown with cotton.

In Soviet Russia Mr.T

2.
“But what about the Visitation? What do you think about the Visitation?”
“My pleasure. Imagine a picnic.” Noonan shuddered. “What did you say?”
“A picnic. Picture a forest, a country road, a meadow. A car drives , off the country road into the meadow, a group of young people get out of the car carrying bottles, baskets of food, transistor radios, and cameras. They light fires, pitch tents, turn on the music. In the morning they leave. The animals, birds, and insects that watched in horror through the long night creep out from their hiding places. And what do they see? Gas and oil spilled on the grass. Old spark plugs and old filters strewn around. Rags, burnt-out bulbs, and a monkey wrench left behind. Oil slicks on the pond. And of course, the usual mess—apple cores, candy wrappers, charred remains of the campfire, cans, bottles, somebody’s handkerchief, somebody’s penknife, torn newspapers, coins, faded flowers picked in another meadow.”
“I see. A roadside picnic.”
“Precisely. A roadside picnic, on some road in the cosmos. And you ask if they will come back.”
“Let me have a smoke. Goddamn this pseudoscience! Somehow I imagined it all differently.”
“That’s your right.”
“So does that mean they never even noticed us?”
“Why?”
“Well, anyway, didn’t pay any attention to us?”
“You know, I wouldn’t be upset if I were you.”

Tabella riassuntiva

Un blend ben riuscito di mystery sci-fi e crime fiction. Potrebbe essere troppo mainstream per alcuni palati.
Personaggi che evolvono e di cui ci importa il destino. Il ritmo non è sempre al massimo.
La Zona è troppo figa nel suo essere familiare e aliena insieme.
Ottima gestione del mostrato e del timbro narrativo.


(1) Il sistema europeo di traslitterazione dei caratteri russi vorrebbe che il loro nome si scrivesse “Arkadij e Boris Strugackij”; così come scriviamo Fëdor Dostoevskij e non Fyodor Dostoyesky, Lev Tolstoj e non Leo Tolstoy. In questo caso però faccio uno strappo alla regola: a livello internazionale i due scrittori russi sono molto più conosciuti nella traslitterazione americana che non in quella nostrana. In altre parole, è molto più facile che troviate qualcosa su Internet scrivendo “Strugatsky” che non “Strugackij”. Persino in Italia sono confusi sull’argomento: per esempio, la casa editrice Marcos y Marcos, che pubblica qualcuno dei loro libri, li chiama “Arkadi e Boris Strugatzki”.
Ecco cosa succede quando invece di essere uno scrittore coccolato dalla critica sei uno che viene pubblicato nelle riviste pulp!Torna su


(2) Inizialmente pensavo di parlarne qui, in fondo all’articolo, ma poi è venuta fuori un’analisi talmente lunga che ho preferito dedicarle un post separato, come parte di un piccolo ‘esperimento’ sulla narrativa. Potete trovarlo qui. Torna su

Bonus Track: Le avventure post-utopiche di Darger e Surplus

Michael Swanwick Darger and Surplus“Behold! A careful accounting of your perfidy and deceit. Which you tried to conceal from me. To begin: You obtained your current situations as my secretaries by presenting me with forged letters of commendation from the Sultan of Krakow—a personage and indeed a position which, under later investigation, turned out not to exist.”
“Sir, everybody puffs their resume. ’Tis a venial sin, at worst.”
[…] “Further, it says here, you are both notorious confidence-men and swindlers who have defrauded your way through the entirety of Europe.”
“Swindlers is such a harsh word. Say rather that we live by our wits.”
[…] “In Paris, you sold a businessman the location of the long-lost remains of the Eiffel Tower. In Stockholm, you dispensed government offices and royal titles to which you had no claim. In Prague, you unleashed a plague of golems upon an unsuspecting city.”
“The golem is a supernatural creature, and thus nonexistent,” Darger stipulated. His mount whickered, as if in agreement. “Those you speak of were either robots or androids—the taxonomy gets a bit muddled, I admit—and in either instance, revenant technology from the Utopian era. We did Prague a favor by discovering their existence before they had the chance to do any real damage.”
“You burned London to the ground!”
“We were there when it burned, granted. But it was hardly our fault. Not entirely.”

C’è stato un tempo in cui gli uomini vivevano nell’abbondanza, e le macchine facevano tutto per loro. Industrie automatizzate, mezzi di trasporto rapidissimi, navicelle mandate nello spazio, un network virtuale – il leggendario Internet – che metteva in comunicazione ogni parte del globo con qualsiasi altra. Ubriachi della loro tracotanza, gli uomini avevano delegato tutto alle macchine. Finché l’Utopia è tramontata: le IA che popolavano il cyberspazio si sono ribellate e nel giro di un attimo hanno preso il controllo delle macchine e della rete elettrica mondiale. La guerra è durata pochi giorni, ma in quei giorni la civiltà come la conosciamo è stata spazzata via. Finché i superstiti hanno reciso ogni legame con la Rete, intrappolando le malefiche entità nei reami virtuali, e hanno costruito una nuova civiltà libera dalle macchine. Il mondo è regredito a una tecnologia pre-elettrica e a costumi vittoriani, un mondo di piccoli Stati regionali dove le distanze sono tornate immense e i viaggi pericolosi.
Ma un’epoca post-utopica ha bisogno di eroi post-utopici. Aubrey Darger è un gentiluomo londinese col dono di una faccia talmente banale da passare completamente inosservato; Sir Blackthorpe Ravenscairn de Plus Precieux (per gli amici Sir Plus o Surplus) è un cane umanoide geneticamente modificato, nonché un diplomatico giunto in Europa dal favoleggiato Feudo del Vermont Occidentale, oltreoceano. I due si incontrano per caso sulla banchina del Tamigi – ma un furfante ne riconosce subito un altro. Cominciano così le avventure di Darger e Surplus, partner nel crimine, e i loro viaggi in lungo e in largo in quest’Europa neo-vittoriana alla ricerca del colpaccio che li renderà ricchi e felici. Seminando distruzione sul loro cammino…

Snake? Yes this is Dog

Scusate, ma a noi ci piacciono i cani parlanti.

La ‘saga’ di Darger e Surplus nasce per caso dalla penna di Michael Swanwick nel 2001, con il racconto “The Dog Said Bow-Wow” (Il cane disse bau bau). All’epoca, Swanwick non aveva alcuna intenzione di riprendere in mano i due personaggi. Ma il finale aperto del racconto sembrava implorare un seguito. Così, negli anni successivi, Swanwick ha scritto altri due racconti sui viaggi della strana coppia in giro per l’Europa post-utopica, e infine un vero e proprio romanzo che li vede arrivare nel favoleggiato Ducato di Moscovia.
Darger e Surplus sono stati più volte paragonati ad altre coppie storiche del fantasy, come Fafhrd e il Gray Mouser delle storie di Fritz Leiber. In effetti le storie di Swanwick hanno diverse cose in comune con lo sword & sorcery cazzone: le avventure autoconclusive in giro per un mondo vasto e ‘magico’, il tono leggero e umoristico, il ritmo plot-driven. Molti altri elementi, però, lo distinguono. Le storie di Darger e Surplus non sono ambientate in un mondo secondario ma in un’Europa del futuro remoto; sono storie molto più ciniche, e i due protagonisti dei veri e propri anti-eroi amorali, che cercano di cavarsela in ogni situazione non con la forza ma con l’astuzia e il raggiro; la magia vera e propria è sostituita da una bioingegneria pseudo-scientifica, che però non è mai spiegata e quindi (come direbbe Clarke) sembra magia. 1
Ma andiamo a vederle nel dettaglio.

The Dog Said Bow-Wow

The Dog Said Bow-Wow Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / Science Fiction
Tipo: Raccolta di racconti

Anno: 2006
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 256

Difficoltà in inglese: **

Questa raccolta contiene i racconti scritti da Swanwick tra il 2001 e il 2007, e in particolare i primi tre racconti di Darger e Surplus. In “The Dog Said Bow-Wow”, ambientato a Londra, i due furfanti – che si sono appena conosciuti – improvvisano un colpaccio a Buckingam Labyrinth, il palazzo neo-vittoriano dove vive e governa l’immortale Regina e dove si raduna la corte britannica. Il piano? Vendere agli annoiati aristocratici un vecchio cimelio dell’epoca Utopica, facendolo passare per un modem ancora connesso con le perverse intelligenze che abitano la Rete, e levare le tende prima che quelli si accorgano di essere stati gabbati. Ma i piani di Darger e Surplus non vanno mai a finire come previsto.
La prima cosa che si nota leggendo il racconto è il tono; un tono che risalta soprattutto nei dialoghi, ma filtra anche nelle descrizioni del narratore. Gli abitanti del mondo post-utopico parlano e si comportano come gentiluomini ottocenteschi; gente che gira col bastone da passeggio, dice sir, lad, rapscallion, most pleased, intriguing scheme, ed è sempre posata e imperturbabile. Lo stridore tra l’atteggiamento compunto dei due furfanti e l’immoralità delle loro azioni è alla base di buona parte degli sketch, e più in generale dell’atmosfera umoristica del racconto.

La seconda cosa che si nota è il ritmo della storia. Nel giro di una pagina i due protagonisti si sono conosciuti; nel giro di due hanno definito il loro piano; alla terza pagina siamo già arrivati sul luogo della truffa. La narrazione è rapida, succede sempre qualcosa, ci si lascia trasportare e prima di essersene accorti il racconto è finito. E nel frattempo, Swanwick riesce a buttare in poche righe tutti i dettagli fondamentali dell’ambientazione: la storia di come l’era utopica è tramontata, l’odio incontrollato che le IA intrappolate nella Rete nutrono per gli esseri umani, e così via. Un’intero pianeta Terra del futuro prende vita nelle poche pagine del racconto, benché nella storia si veda la sola Londra.
I due racconti successivi, The Little Cat Laughed to See Such Sport” (2003) e “Girls and Boys, Come Out to Play” (2006) seguono la stessa struttura. Sono ambientati rispettivamente a Parigi e in Arcadia (la Grecia del futuro): nel primo, i due confidence-men tenteranno di vendere l’ubicazione perduta della Torre Eiffel a un ricco e ingenuo borghese, mentre nel secondo dovranno confrontarsi con i piani perversi del Governo Scientificamente Razionale del Grande Zimbabwe, che attraverso l’ingegneria genetica intende ricreare gli dèi dell’antica Grecia e utilizzarli come armi di distruzione di massa. Il racconto parigino non mi ha lasciato molto, e a mio avviso è il meno riuscito dei tre; quello arcadico invece ha parecchi bei momenti – come l’orgia che si scatena in città al passaggio di Dioniso, o l’epilogo.

Dioniso / Pan

Racconti piacevoli e facili da leggere, insomma; ma anche racconti che, alla fin fine, scivolano un po’ via. Se vogliamo trovarvi un difetto, si può dire che al centro di queste storie non c’è né il concetto che ti fa fare “WOW”, né l’immagine che ti arriva come un pugno nello stomaco, né risvolti psicologici affascinanti. Sono storie leggere. Darger e Surplus rimangono personaggi superficiali. Certo, nel corso delle loro avventure impariamo qualcosa del loro carattere: Darger ha un temperamento melanconico e un certo afflato poetico, mentre Surplus è più pragmatico, nonché un seduttore nato e capace di acrobazie sessuali fuori dalla portata dei comuni mortali; ma in alcuni dialoghi in cui non erano indicati i loro nomi mi era anche difficile dire chi dicesse cosa.
Insomma, le tre avventure di Darger e Surplus, benché molto divertenti e immaginose, non sono i migliori racconti della raccolta. Tra i miei preferiti:
– “‘Hello’ Said the Stick”, la storia che apre l’antologia, è molto breve e deliziosa, e ruota attorno lo strano incontro tra un soldato in armatura medievaleggiante e un bastoncino parlante.
– “Slow Life” ricorda “The Very Pulse of the Machine” (di cui ho parlato nello scorso articolo): è ambientato su un planetoide remoto, i protagonisti sono la prima spedizione umana che lo visita, e la storia ruota attorno a una specie senziente che abiterebbe la luna e alla morte. Non è altrettanto bello, ma ha un sacco di belle trovate – come l’obbligo degli scienziati di rispondere alle domande cretine degli utenti loggati sul sito che finanzia della spedizione – e il finale è del tutto diverso.
– “Triceratops Summer” è un racconto tranquillo e suggestivo in cui, ancora una volta, Swanwick mette insieme dinosauri e viaggi nel tempo. E’ tutto costruito sul piacevole colpo di scena finale.
– “Tin Marsh” è un racconto morboso che prova a immaginare come potrebbe essere la vita dei cercatori d’oro del futuro su Venere. I cercatori si muovono a coppie a bordo di pesanti esoscheletri, e sono legati da un perverso rapporto di intimità mentale totale; ma gli esseri umani non sono fatti per condividere tutta quella intimità, e ora McArthur e Patang vorrebbero solamente uccidersi a vicenda…
– “The Bordello in Faerie” è il mio preferito, benché sia uno dei pochi a non aver ricevuto né premi né nominations. L’atmosfera è quella da fairytale fantasy cinico-darkettone che abbiamo imparato a conoscere con The Iron Dragon’s Daughter e The Dragons of Babel: ai confini tra il mondo degli umani e quello fatato, c’è un bordello nascosto dove giovani intraprendenti possono assaporare piaceri indicibili; un luogo visitato da elfi, amazzoni, ninfe, e anche divinità… ma tutto ha un prezzo. Swanwick purtroppo non scende mai nei dettagli delle scene di sesso (in questo campo Mellick è insuperato), ma rende bene l’atmosfera. Il finale ha un che di convenzionale, ma Swanwick lo presenta in un modo convincente.

Tra gli altri racconti, “The Skysailor’s Tale” è una menatona molto literary, “Legions in Time” è una storia rocambolesca ‘alla Van Vogt’ che mi ha fatto abbastanza cagare e “The Last Geek” non l’ho ben capito. “An Episode of Stardust” e “A Small Room in Koboldtown” sono due storielle del mondo di Faerie, poi confluite in The Dragons of Babel – il che conferma la mia sensazione che troppo spesso Swanwick metta insieme i suoi romanzi a partire dai racconti.
In conclusione, si tratta di un’ottima raccolta – benché non tutti i racconti siano riusciti e qualcuno sia proprio brutto; familiarizzare con il mondo di Darger e Surplus è solo una delle ragioni, e non la principale, per cui vale la pena di leggersela.

Dancing with Bears

Dancing with Bears Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / New Weird / Biopunk / Commedia
Tipo: Romanzo

Anno: 2011
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 300 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Una carovana è in viaggio attraverso le steppe del Kazakistan. E’ la delegazione del Principe Achmed, ambasciatore del Califfo di Bisanzio, che si sta recando alla corte del Duca di Moscovia per offrirgli un dono da parte del Califfo suo cugino: le Perle Senza Valore, sette donne bioingegnerizzate per essere le più belle e seducenti creature su cui occhio umano si possa mai posare. E chi potrebbero essere i segretari personali dell’Ambasciatore, se non Darger e Surplus? Il loro piano? Infiltrarsi nelle alte sfere del Ducato per mettere a segno un colpo leggendario, naturalmente!
Ma non sanno cosa li aspetta. Il Duca di Moscovia è una figura misteriosa che non riceve mai nessuno, se non i suoi più stretti collaboratori; le Perle, che non hanno mai provato le delizie del sesso, diventano di giorno in giorno più irrequiete; nel sottosuolo di Moscovia si muovono strane genti e circolano strane droghe; e Chortenko, il capo della polizia, sembra avere piani tutti suoi per il destino della grande Russia. Ma soprattutto, le macchine stanno tornando. Nella remota Baikonur, la città spaziale dell’Unione Sovietica da cui decollarono gli Sputnik, le macchine sono sopravvissute; e stanno preparando il più grande piano per cancellare per sempre il genere umano dalla faccia della terra.

Con Dancing with Bears, Swanwick tenta il salto dal racconto breve al romanzo. Ma come può una serie basata sugli sketch e sui piccoli “colpi” reggere il lungo respiro del romanzo? Swanwick risolve il problema con la moltiplicazione dei pov e dei comprimari. Se nei primi tre capitoli – ambientati nelle steppe kazake e incentrate sul faticoso viaggio di avvicinamento dei nostri eroi al Ducato – il pov è quasi sempre di uno dei due con-men, a partire dall’arrivo a Moscovia la prospettiva comincia ad allargarsi. Arkady, giovane debosciato che vive ubriacandosi di poesia e sogna la Perla Aetheria; Koschei, il vecchio strannik invasato religioso; Anna Pepsicolova, la spia che abita il sottosuolo di Moscovia; e poi Chortenko, il ladruncolo Kyril, la baronessa Lukoil-Gazproma, il gaio tenente Evgeny.
Molti pov – pure troppi. Tutti i capitoli a partire dal quarto sono spezzati in quattro, cinque, sei o anche più capoversi, ciascuno con un pov diverso. E se da un lato questa struttura accelera il ritmo narrativo (perché succede sempre qualcosa a qualcuno, e mentre seguiamo la storyline di un personaggio nel frattempo tutti gli altri continuano a muoversi), dall’altro il lettore si trova continuamente catapultato da una situazione all’altra. Inoltre alcuni pov – come quelli di Evgeny o della baronessa – sono abbastanza inutili, non aggiungono nulla alla storia e distraggono dagli eventi personaggi. Infine, il ruolo di Darger e Surplus è ridimensionato fin troppo. Non solo – per numero di apparizioni – non sono più i protagonisti del romanzo ma dei comprimari, non solo non sono più (se non molto indirettamente) il motore della storia, ma alla fin fine il loro ruolo si rivelerà marginale.

Baikonur

Baikonur. Ora è una città in mano alle macchine…

La dilatazione delle storie di Darger e Surplus a romanzo mette in luce un altro difetto, che nella forma racconto passava inosservato: l’abuso di raccontato. Swanwick non è mai stato un purista del mostrato, ma qui intere scene o episodi vengono raccontati, riassunti e pesantemente aggettivati; i sentimenti e i ragionamenti dei personaggi vengono spesso spiegati. A volte l’uso del raccontato ha uno scopo umoristico, per esempio in questa descrizione di come Darger, legato a una barella, evade: “Darger eyed the blade yearningly. It might be just possible, he judged, that a desperate and determined man to, by shifting his weight vigorously and repeatedly, overtopple the gurney. Then, by various stratagems, he could draw the knife to himself and so cut through one of his restraints. After which, the rest would be a breeze.
A harrowing, difficult, and suspenseful half hour later, it was done.”
Ma alla lunga questo modo di narrare stanca, si ha voglia di più immagini e meno riassuntini.
Non me la sento invece di indicare come difetto oggettivo l’uso del narratore onnisciente. Non c’è dubbio che Swanwick utilizzi l’onnisciente. A partire dal primo capitolo, dove il narratore parte descrivendo i piani machiavellici nella mente del Duca di Moscovia per riunire la Madre Russia, per poi restringere progressivamente il campo visivo sulla carovana bizantina fino a fermarsi sui nostri eroi (e qui, il pov onnisciente arriva a coincidere con quello di Darger). Altre volte, il narratore commenta le gesta dei suoi personaggi. L’effetto è sicuramente distanziante, anti-immersivo, e ci ricorda che stiamo leggendo una storia inventata – ma Dancing with Bears è prima di tutto una commedia, una storia comica, un romanzo che non si prende sul serio. Calcare sul grottesco, sul finto, è uno scopo dichiarato.
Inoltre, l’uso dell’onnisciente rende più facili – e meno traumatico per il lettore – i continui passaggi da un personaggio all’altro. Poiché non siamo mai davvero nella testa del personaggio (ma nei suoi pressi), non ci identifichiamo, e quindi seguiamo con maggiore facilità tante sottotrame contemporaneamente. E quindi, vada pure il narratore onnisciente!

Contemporaneamente, emerge in Swanwick un grande amore per la Russia. In alcuni passaggi – come quando si mette a parlare di linguistica, o una in modo corretto i diminutivi o i vezzeggiativi – sembra che per scrivere il romanzo si sia davvero messo a imparare il russo! E poi il fatalismo rassegnato, il misticismo confuso della classe media e dell’aristocrazia, le figure degli strannik invasati e le loro dissertazioni sull’ineffabilità dell’Uno e Trino. Così come il romanzo è pieno delle invenzioni fantastiche a cui Swanwick di ha abituato, dalla poesia in bottiglia (sicché ci si può sbronzare di sonetti di Puskin) ai nanetti bioingegnerizzati per essere delle specie di Wikipedia ambulanti. E poi – c’è Lenin! LENIN!
Dancing with Bears, insomma, è divertente. Non perde mai di ritmo, e l’ultimo centinaio di pagine (un terzo del romanzo) è un’escalation che si legge tutto d’un fiato. Può non piacere l’idea di un divertissement lungo 300 pagine, ma si tratta di un giudizio soggettivo. E soprattutto, è cinico: non ci sono buoni e non ci sono cattivi, ognuno segue il proprio interesse particolare, e due o tre diversi piani per il dominio della Russia (e del mondo) si contendono la vittoria. Insomma, Darger e Surplus sono i personaggi più positivi di tutto il romanzo! L’impressione globale è Pirati dei Caraibi incontra Jack Vance e tutti e due 1997: Fuga da New York, con una punta di Tre Uomini in Barca – se riuscite a immaginare una cosa del genere.

Mummia di Lenin

IT LIVES!!

Quello che invece è un difetto oggettivo, soprattutto in un romanzo di trama come questo, è l’uso sistematico che Swanwick fa di deus ex machina ed escamotage da quattro soldi. Alcuni personaggi sembrano semplicemente troppo “livellati”: escono senza difficoltà da qualunque situazione, e anche episodi a lungo preparati e percepiti dal lettore come estremamente pericolosi e tensivi (come la cattura da parte di Chortenko) si risolvono in un anti-climax. Zoesophia, in particolare, è troppo brava: riesce a fare qualsiasi cosa. Il che va bene finché si tratta di un comprimario visto dall’esterno, ma non è più accettabile quando diventa un personaggio-pov: semplicemente, non c’è più tensione, perché sappiamo già che qualsiasi cosa vorrà fare riuscirà a farla.
La risoluzione finale del romanzo è letteralmente un deus ex machina.2 E anche l’epilogo, benché perfettamente in linea con quello delle storie di Darger e Surplus, è un po’ deludente.3

Tabella riassuntiva

Una Mosca neo-Ottocentesca con bizzarie bioingegnerizzate. Troppi pov, alcuni quasi usa-e-getta.
Una galassia di sottotrame dal ritmo rapido. Troppi raccontati e scene riassunte.
Darger e Surplus parlano in un modo delizioso! Deus-ex-machina e personaggi a cui riesce tutto facile.
Pirati dei Caraibi incontra Jack Vance e Fuga da New York!

Il futuro di Swanwick
Nel 2011, poco dopo la pubblicazione di Dancing with Bears, Swanwick veniva intervistato da Amazon. L’intervista è stata riportata su Shelfari da Jeff VanderMeer (sì, l’autore di City of Saints and Madmen che piace tanto a Gamberetta e non dispiace neanche a me), e potete leggerla qui. Riporto la parte finale dell’intervista:

Amazon.com: Please tell readers we will soon see Darger and Surplus again?
Michael Swanwick: Absolutely. I’m working on stories about them at this very moment. Also, I realized some time ago that Darger and Surplus are on an accidental trip around the world. There are secrets about Surplus’s youth in the Demesne of Western Vermont that need to be explored. And they both must ultimately return to London to confront the consequences of their first adventures. Alas, the next novel, which I already have in broad outline in my mind, can’t begin until I’ve returned to China for some necessary research. Next spring, I hope.

Dall’intervista sono passati due anni, e ad oggi Dancing with Bears rimane l’ultimo romanzo pubblicato da Swanwick. Ma si sa che Swanwick ha ritmi lenti: dalla pubblicazione di Bones of the Earth a quella di The Dragons of Babel, per esempio, ne erano passati sette. E l’attesa potrebbe stare per finire.
Spulciando qua e là il suo blog Flogging Babel, ho recuperato un po’ di informazioni. Stando a questo articolo di marzo, il nuovo romanzo di Darger e Surplus potrebbe essere finito in pochi mesi, e ha il titolo provvisorio di Chasing the Phoenix. Swanwick non ha cambiato idea, ed effettivamente sarà ambientato in Cina, come racconta in questo articolo di gennaio sulla città di Guilin.
E non è tutto – proprio questo maggio Swanwick, nell’antologia Rogues curata da Gardner Dozois e George R.R. Martin, ha pubblicato un nuovo racconto sulla strana coppia. Si chiama “Tawny Petticoat” ed è ambientato a New Orleans, per cui sospetto sia cronologicamente posteriore al romanzo cinese non ancora uscito. Non l’ho letto ma vedrò di procurarmelo.

Meanwhile in China...

Insomma, sembra che i prossimi anni lo vedranno ancora al lavoro su questi personaggi e questa ambientazione. Chissà – magari proprio alla fine dell’anno, o l’anno prossimo, mi ritroverò a scrivere un Consiglio sul prossimo capitolo della saga. Certo è curioso che lo stesso uomo che a trenta e quarant’anni scriveva con piglio intellettualoide opere drammatiche e complicate come Vacuum Flowers o Stations of the Tide, nel suo inizio di vecchiaia si sia spostato verso la tragicommedia ‘leggera’. Alcuni storceranno il naso, ma a me la cosa non dispiace. Il ritmo, di sicuro, ci ha guadagnato.
Voglio leggere altre avventure di Darger e Surplus.

Dove si trovano?
The Dog Said Bow-Wow e Dancing with Bears si trovano in lingua originale sia su Bookfinder (qui e qui), sia su Library Genesis (qui e qui), nei formati ePub e pdf. Che io sappia, alas, nessuno dei due libri è mai stato tradotto in italiano.

Qualche estratto
Per gli estratti di oggi ho scelto due incipit. Il primo è quello di The Dog Said Bow-Wow, in cui Darger e Surplus si incontrano per la prima volta e capiscono che è loro destino diventare partner nel crimine; il secondo è quello di Dancing with Bears, in cui, come avevo accennato, la telecamera si sposta dalla mente quasi onnisciente del Duca di Moscovia ai nostri piccoli eroi…
Il tono di questi incipit setta il mood di tutta la serie di Darger e Surplus!

1.
THE DOG LOOKED like he had just stepped out of a children’s book. There must have been a hundred physical adaptations required to allow him to walk upright. The pelvis, of course, had been entirely reshaped. The feet alone would have needed dozens of changes. He had knees, and knees were tricky.
To say nothing of the neurological enhancements.
But what Darger found himself most fascinated by was the creature’s costume. His suit fit him perfectly, with a slit in the back for the tail, and — again — a hundred invisible adaptations that caused it to hang on his body in a way that looked perfectly natural.
“You must have an extraordinary tailor,” Darger said.
The dog shifted his cane from one paw to the other, so they could shake, and in the least affected manner imaginable replied, “That is a common observation, sir.”
“You’re from the States?” It was a safe assumption, given where they stood — on the docks — and that the schooner Yankee Dreamer had sailed up the Thames with the morning tide. Darger had seen its bubble sails over the rooftops, like so many rainbows. “Have you found lodgings yet?”
“Indeed I am, and no I have not. If you could recommend a tavern of the cleaner sort?”
“No need for that. I would be only too happy to put you up for a few days in my own rooms.” And, lowering his voice, Darger said, “I have a business proposition to put to you.”
“Then lead on, sir, and I shall follow you with a right good will.”
The dog’s name was Sir Blackthorpe Ravenscairn de Plus Precieux, but “Call me Sir Plus,” he said with a self-denigrating smile, and “Surplus” he was ever after.
Surplus was, as Darger had at first glance suspected and by conversation confirmed, a bit of a rogue — something more than mischievous and less than a cut-throat. A dog, in fine, after Darger’s own heart.
Over drinks in a public house, Darger displayed his box and explained his intentions for it. Surplus warily touched the intricately carved teak housing, and then drew away from it. “You outline an intriguing scheme, Master Darger —”
“Please. Call me Aubrey.”
“Aubrey, then. Yet here we have a delicate point. How shall we divide up the… ah,
spoils of this enterprise? I hesitate to mention this, but many a promising partnership has foundered on precisely such shoals.”
Darger unscrewed the salt cellar and poured its contents onto the table. With his dagger, he drew a fine line down the middle of the heap. “I divide — you choose. Or the other way around, if you please. From self-interest, you’ll not find a grain’s difference between the two.”
“Excellent!” cried Surplus and, dropping a pinch of salt in his beer, drank to the bargain.

2.
Deep in the heart of the Kremlin, the Duke of Muscovy dreamt of empire. Advisors and spies from every quarter of the shattered remnants of Old Russia came to whisper in his ear. Most he listened to impassively. But sometimes he would nod and mumble a few soft words. Then messengers would be sent flying to provision his navy, redeploy his armies, comfort his allies, humor those who thought they could deceive and mislead him. Other times he sent for the head of his secret police and with a few oblique but impossible to misunderstand sentences, launched a saboteur at an enemy’s industries or an assassin at an insufficiently stalwart friend.
The great man’s mind never rested. In the liberal state of Greater St. Petersburg, he considered student radicals who dabbled in forbidden electronic wizardry, and in the Siberian polity of Yekaterinburg, he brooded over the forges where mighty cannons were being cast and fools blinded by greed strove to recover lost industrial processes. In Kiev and Novo Ruthenia and the principality of Suzdal, which were vassal states in all but name, he looked for ambitious men to encourage and suborn. In the low dives of Moscow itself, he tracked the shifting movements of monks, gangsters, dissidents, and prostitutes, and pondered the fluctuations in the prices of hashish and opium. Patient as a spider, he spun his webs. Passionless as a gargoyle, he did what needed to be done. His thoughts ranged from the merchant ports of the Baltic Sea to the pirate shipyards of the Pacific coast, from the shaman-haunted fringes of the Arctic to the radioactive wastes of the Mongolian Desert. Always he watched.
But nobody’s thoughts can be everywhere. And so the mighty duke missed the single greatest threat to his ambitions as it slipped quietly across the border into his someday empire from the desolate territory which had once been known as Kazakhstan…
The wagon train moved slowly across the bleak and empty land, three brightly painted and heavily laden caravans pulled by teams of six Neanderthals apiece. The beast-men plodded stoically onward, glancing neither right nor left. They were brutish creatures whose shaggy fleece coats and heavy boots only made them look all the more like animals. Bringing up the rear was a proud giant of a man on a great white stallion. In the lead were two lesser figures on nondescript horses. The first was himself nondescript to the point of being instantly forgettable. The second, though possessed of the stance and posture of a man, had the fur, head, ears, tail, and other features of a dog.
“Russia at last!” Darger exclaimed. “To be perfectly honest, there were times I thought we would never make it.”
“It has been an eventful journey,” Surplus agreed, “and a tragic one as well, for most of our companions. Yet I feel certain that now we are so close to our destination, adventure will recede into memory and our lives will resume their customary placid contours once more.”
“I am not the optimist you are, my friend. We started out with forty wagons and a company of hundreds that included scholars, jugglers, gene manipulators, musicians, storytellers, and three of the best chefs in Byzantium. And now look at us,” Darger said darkly. “This has been an ill-starred expedition, and it can only get worse.”

Cane parlante ottocentesco


(1) Un anti-eroe sicuramente più vicino allo spirito di Darger e Surplus è il Cugel di Jack Vance, di cui ho parlato nelle Tales of the Dying Earth. Lo spirito è lo stesso. Cugel però viaggia da solo.Torna su


(2) Ovviamente (per chi abbia letto il romanzo) mi riferisco al risveglio del Duca di Moscovia. E’ davvero un deus ex machina: il Duca domanda un miracolo, e all’improvviso si sveglia. Questo è l’atto che distrugge i piani degli underlords di Moscovia, perché poi il gigante ucciderà il falso Lenin, disperderà la folla e stopperà la rivoluzione.Torna su


(3) Mi sarei aspettato un finale del romanzo ambientato a Baikonur, qualche sprazzo di epica lotta all’ultimo sangue tra gli uomini e le macchine. O quantomeno, Darger e Surplus costretti a infiltrarsi nella città delle macchine. Cazzo, quell’ambientazione è così suggestiva!
E invece, non è minimamente sfruttata. La sua distruzione è appena accennata e rimane tagliata fuori dalla pagina scritta.Torna su

La lezione di Swanwick

Io“Scrivi di ciò che sai”: questo vecchio adagio vale anche per la narrativa fantastica. Joe Haldeman ha potuto scrivere The Forever War, uno dei classici della fantascienza militare, perché era un veterano della guerra nel Vietnam. Asimov ha potuto scrivere The Gods Themselves – che nasce dalla domanda: “sotto che condizioni potrebbe esistere l’isotopo plutonio-186”? – perché era un chimico. I romanzi marinareschi di Conrad – La follia di Almayer, Cuore di tenebra, La linea d’ombra – nascono dai viaggi che realmente fece, come marinaio, nelle terre semi-selvagge del Sud-Est Asiatico e del Congo belga.
E ciò che non sai? Ti documenti per saperlo. Alcuni scrittori hanno avuto una vita noiosissima, ma questo non li ha fermati. Né Gibson né Sterling sono vissuti nell’Ottocento, eppure hanno scritto The Difference Engine. Guardate però alla mole di lavoro che c’è dietro: gli studi sulla Londra vittoriana dell’Ottocento reale, sulla situazione politica mondiale dell’epoca, su Babbage e sull’informatica ottocentesca. Questo romanzo è diventato il punto di riferimento dello steampunk in letteratura in larga parte per tutto il lavoro di ricerca che c’è a monte (anche perché dal punto di vista della trama è noiosotto). E lo stesso Haldeman, a prescindere dal fatto di aver assaggiato la guerra sulla propria pelle, non avrebbe potuto scrivere con cognizione di causa di tute potenziate e battaglie nello spazio senza una preparazione in fisica.

E la fantascienza? Bisogna essere dei post-graduate di qualche scienza naturale per poterne scrivere? In effetti, gli autori ‘seri’ degli anni ’40 e ’50 erano per la maggior parte chimici, fisici, ingegneri. C’erano anche gli umanisti, come Philip K. Dick; ma nel loro caso l’elemento ‘scientifico’ era talmente tenue e implausibile da far girare i coglioni a più di un purista. Buona parte dei lavori di Dick si potrebbero tranquillamente definire ‘Fantasy con le pistole a raggi’. Poi negli anni ’60 e ’70 sono arrivati quelli della New Wave: Ballard, la Le Guin, Moorcock, Spinrad. Ma la loro fantascienza era quasi invariabilmente molto soft.
Ora, però, facciamo un salto nel tempo e arriviamo agli anni ’80. Chi si affaccia sulla scena fantascientifica? Michael Swanwick, William Gibson, Bruce Sterling, Kim Stanley Robinson: tutti personaggi di estrazione umanistica. Trattano con nonchalance nozioni scientifiche, talvolta arrivano a rasentare l’Hard SF, e scrivono pure meglio. Sterling immagina intere civiltà che vivono in colonie artificiali in orbita attorno alla Terra, a Marte, alle lune di Giove, o annidate negli asteroidi; Swanwick astronavi alimentate da querce bioingegnerizzate e alberi di Dyson che crescono sulle comete; Gibson ci parla di IA che colonizzano il cyberspazio e Stanley Robinson dedica tre libri alla terraformazione di Marte. Com’è possibile?

Minecraft terraforming

Un esempio di terraformazione.

Flogging Babel
Da un mesetto a questa parte ho cominciato a seguire Flogging Babel, il blog di Michael Swanwick. Mi ci sono imbattuto per caso: neanche mi era venuto in mente che potesse averne uno. Ma dato che Swanwick è uno dei miei scrittori preferiti e lo ritengo un uomo intelligente, ho passato le ultime settimane a spulciarmi qua e là i suoi post in cerca di roba interessante. E l’ho trovata. Nel 1997, Swanwick pubblica un racconto intitolato “The Very Pulse of the Machine”, che l’anno dopo vince il premio Hugo. Lo scenario è quello di Io, la più interna delle lune di Giove, nonché il corpo celeste più vulcanicamente attivo del Sistema Solare. Nel corso del racconto, Io è descritta nel dettaglio: dalle sue spianate di zolfo allo stato solido ai moti convettivi che coinvolgono il suo oceano sotterraneo, dai fiori di cristalli di zolfo che sbocciano sulla superficie al flusso di ioni che corre tra i poli di Io e quelli di Giove. Una mattina di Settembre del 2012, un utente fa a Swanwick questa domanda:

Where you got all the information and research for your short story “Pulse of the Machine” that dealt with the magnificent descriptions of Io. I would like to write a story about Io, but I can’t find any of the background information you found for this story. Any help would be appreciated.

La risposta a questa domanda è diventato il breve articolo Researching Io. Non starò a riportare tutto il post; leggetevelo. Prendiamo soltanto un paio di brani, all’inizio e alla fine:

As it chances, I was inspired to write “The Very Pulse of the Machine” by a remark by (I think) Geoff Landis, who told a mutual friend that he was baffled by the fact that NASA had spent billions of dollars exploring the Solar System and then put all the information they found up on the Web available for free — and yet almost no SF writers were taking advantage of it.
So I chose Io because it seemed an interesting place to me and went to the NASA website to see what they had to say.
[…]
I realize this rather sidesteps your question — how to find these sources. But I’ve had no formal training on running searches (when I was a student, my college had exactly one computer, an IBM mainframe), nor was I particularly ingenious in my research. I just kept poking around, looking and finding until I had what I needed.
Go thou and do likewise.

E tenete conto che all’epoca non esisteva Wikipedia. Oggi, muovere i primi passi in un territorio che non si conosce – perché è a questo che può servire Wikipedia – è ancora più semplice di così.
Ma quanto ci vuole a condurre un lavoro del genere? Quanti giorni di lavoro può portar via una ricerca fatta bene? Sappiamo che Flaubert impiegò sei anni a scrivere Salammbò, il suo romanzo storico ambientato nell’antica Cartagine ai tempi della rivolta dei mercenari. Ma Flaubert non aveva bisogno di guadagnarsi da vivere coi suoi romanzi, quindi poteva permetterselo. E uno scrittore che ci deve campare, invece? Swanwick ci dice anche questo. In questo articolo (che vi consiglio di leggere) cita a titolo esemplificativo il suo racconto The Mask, ispirato alla storia di Venezia e alla figura dei dogi. Il racconto è lungo 1700 parole – circa sei pagine.

From Stan’s story to publication in the April, 1994 issue of Asimov took a mere thirteen years. I’ll leave it as an exercise for the student to work out how much I was earning by the hour.

Ancora sicuri di voler fare gli scrittori?

Vulcanismo di Io

Un esempio dell’attività vulcanica di Io. Le immagini sono state prese dalla sonda Galileo rispettivamente nel 1999 e nel 2000.

The Very Pulse of the Machine
Martha è sola sulla superficie di Io. E’ a quarantacinque miglia dalla navicella di atterraggio, e ha solo quaranta ore prima di finire l’ossigeno. Non può fermarsi, neanche per dormire. Dietro di sé, su una slitta messa insieme alla bell’e meglio, trascina il cadavere di Juliet Burton, la sua compagna di avventure. Andava tutto bene finché non si sono schiantate col moonrover contro un sasso, e un buco grande come un pugno si è aperto nella faccia di Burton. Ora Martha può contare solo su sé stessa. Finché alla radio comincia a sentire la voce di Burton che cita poesie del Settecento e dichiara di essere Io.
OK, documentarsi è importante, abbiamo afferrato il concetto; alla fine, però, ciò che conta è che la storia sia figa, no? E questo The Very Pulse of the Machine, stringi stringi, com’è? Cercherò di essere analitico: è bello in maniera esagerata. Il senso di solitudine di Martha, le routine della sua lunga marcia verso la navetta, l’assenza di vita della superficie di Io, sono rese alla perfezione dal ritmo lento e calmo (ma non noioso) della narrazione. Le descrizioni della ‘natura’ di Io si alternano con i tentativi di Martha di psicanalizzarsi (la ragazza si odia abbastanza…) e coi dialoghi folli con la voce che viene dalla radio.

La cosa più interessante – anche ai fini di questo articolo – è che Io non fa semplicemente da sfondo alla vicenda, non è un pianetino buono come un altro. La geologia e la magnetosfera di Io diventano un vero e proprio personaggio. L’idea del pianeta autocosciente non è affatto nuova nella fantascienza – ad esempio, la troviamo nel romanzo Nemesis di Asimov – nuovo è invece come questa idea è veicolata e spiegata scientificamente. E allora si capisce che tutti i dettagli fisici che Swanwick ci centellina su Io non sono un semplice show-off (“avete visto quanto ho studiato?”), e neanche descrizioni-per-il-gusto-delle-descrizioni alla Tolkien.
Senza tutta quella ricerca, semplicemente The Very Pulse of the Machine non avrebbe potuto essere scritto. Ed è un peccato, perché ad oggi è il miglior racconto di Swanwick che abbia mai letto.
Potete leggere il racconto qui. Ci vorrà mezz’ora, quaranta minuti al massimo: credetemi, ne vale la pena. E non abbiate timore: pur con tutta questa scienza “dura”, The Very Pulse of the Machine rimane essenzialmente un racconto psicologico.

Magnetosfera di Giove

La magnetosfera di Giove e la sua interazione con Io (in giallo). Nel racconto di Swanwick si parla anche di questo!

Tornerò a parlare di Swanwick nel prossimo, e più corposo, articolo.