Archivi tag: narrativa fantastica

Gli Autopubblicati #06: Ultimo Orizzonte

Ultimo OrizzonteAutore: Valentina Coscia
Genere: Fantasy / Post-Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 2012
Pagine: 177
Editore: WePub

Spéza è una città condannata. Un tempo nota come La Spezia, fiorente porto industriale della Liguria a un tiro di schioppo dalle Cinque Terre e da Portovenere, l’innalzamento del livello del mare l’ha trasformata in una palude mefitica. Per contrastare l’avanzata delle acque, gli abitanti hanno eretto la muagia, un muro di rottami e detriti che circonda Spéza da un capo all’altro della costa. Manovrate dalla casta dei massacàn, i “muratori”, le quindici Pompe della muagia lavorano incessantemente per cacciare fuori l’acqua che continua ad infiltrarsi nell’Entromuro.
Artibano er semo è l’ultimo dei massacàn, un lavoro che nessuno vuole più fare. Passa le sue giornate nella solitudine della muagia, osservando le pompe che una dopo l’altra si guastano e smettono di funzionare. Per salvare Spéza, bisognerebbe recuperare dei pezzi di ricambio dall’unico luogo in cui ancora sopravvive l’antica tecnologia – le rovine sommerse della città vecchia – ma tra quei relitti dormono divinità maligne che sarebbe meglio non disturbare. E quando il Vicario della Gese – la Chiesa che comanda col pugno di ferro sulla città – farà convocare Artibano sulla terraferma per trovare una soluzione, la tragedia si metterà in moto.

Valentina Coscia è l’autrice del racconto che ha vinto il concorso Deinos indetto ormai un anno fa da Mr. Giobblin. Lessi e recensii l’antologia nata da quel concorso lo scorso Maggio; e pur bocciandola in gran parte, rimasi colpito positivamente dal racconto della Coscia. Sicché ho continuato a tenerla d’occhio, e non mi sono perso l’annuncio fatto da Giobblin della pubblicazione del suo romanzo post-apocalittico con un piccolo editore indipendente che vende solo e-book (tale WePub).
A rigore, essendo stato pubblicato da un’editore che non coincide con l’autore, Ultimo Orizzonte non potrebbe essere definito un “autopubblicato”. Ma all’atto pratico, per il lettore, non fa molta differenza: si tratta di un romanzo digitale poco pubblicizzato di un autore abbastanza sconosciuto, che si può comprare ad un prezzo irrisorio (2,99 Euro). Vediamo ora se valga la pena sborsare 3 Euro per un post-apocalittico di ambientazione ligure.

Corniglia

E un seguito ambientato a Corniglia no? ❤

Uno sguardo approfondito
La gestione del pov in Ultimo Orizzonte è piuttosto bizzarra. La voce narrante principale è quella del protagonista, ed è in prima persona; tuttavia, un buon numero di capitoli è filtrato attraverso i pov di personaggi secondari, in terza persona. Questo mix di persone, oltre a non avere molta senso, crea anche una certa confusione. La prima volta che succede (nel quarto capitolo), il lettore si aspetta che ciò che sta leggendo sia ancora filtrato dagli occhi di Artibano (anche perché il capitolo si apre con un giudizio di valore: “Giobatta non è mai stato bravo con le parole, ma non glien’è mai fregato niente”), e ci mette un po’ a capire che l’autrice è passata alla terza persona e che il pov è di un altro personaggio (il sopracitato Giobatta). All’inizio di ogni nuovo capitolo, il lettore si trova a domandarsi se si è tornati alla prima persona o c’è ancora una terza – e mi è capitato un paio di volte di sbagliarmi per alcune righe (scambiando un pov in terza per quello in prima o viceversa) e dover poi ricominciare dall’inizio col filtro mentale corretto.
Ora, posso anche immaginare che esistano storie in cui alternare prima e terza persona possa avere un senso. Ma non è questo il caso: qui crea confusione e basta, oltre a spezzare l’immedesimazione a causa del continuo cambio di “timbro” della narrazione. La prima persona si utilizza quando si vuole immergere il lettore in un unico personaggio, al punto da farlo identificare nella voce narrante; non si può fare dentro e fuori. Se si vuole raccontare una storia corale, invece, se si vogliono mostrare anche dettagli di storia che il personaggio principale non potrebbe vedere, allora si scrive tutto in terza persona, compreso il pov del protagonista – del resto, questo Ultimo Orizzonte funzionerebbe benissimo anche se Artibano fosse un normalissimo pov in terza!
La Coscia, invece, sembra oscillare indecisa tra le due formule di romanzo. Se i capitoli con pov in prima di Artibano sono nettamente preponderanti, capita che ci siano anche due capitoli di fila con pov in terza di personaggi molto secondari, come quello di Catò, la moglie di Giobatta (e, in alcuni casi, pov quasi usa-e-getta). Se non altro la regola “un capitolo – un pov” è netta e non ci sono mai salti di punto di vista all’interno di un capitolo.

La voce narrante di Artibano è piacevole. L’ultimo dei massacàn è il classico ‘eroe scazzato’ alla Waterworld: un tipo stanco, cinico, pratico, che non si fida della vita, che vorrebbe essere lasciato in pace e che invece, causa mix di personaggi molesti e sensi di colpa, finisce per farsi coinvolgere. Gli avvenimenti di cui è testimone si mischiano ai suoi giudizi e commenti salaci, e in generale i suoi sono i capitoli che si leggono con maggior piacere. Insomma: non è un personaggio nuovo, ma fa il suo lavoro.
Di contro, gli altri personaggi del romanzo sono piuttosto pallidi. Ognuno ha un suo ruolo all’interno del plot e assolve alla sua funzione, ma di loro non rimane granché a lettura finita. Unica eccezione positiva è a mio avviso quella di Catò: un personaggio che di suo aggiunge poco alla trama principale, chiusa in casa com’è a badare al figlio in attesa del rientro a casa del marito; ma che trasmette in modo convincente sia l’atmosfera rurale-impoverita in cui vivono le famiglie di Spéza, sia il suo dramma privato, di moglie che si ritrova per marito una “cosa” fredda e irriconoscibile. Altre piccole note di merito sono la storia del vecchio Vicario cieco, condannato a comandare su una città che non può più vedere, e il rapporto tra Rafé e Richeto.

Kevin Kostner Waterworld

“Fottetevi tutti, me ne torno a casa.” “Non così in fretta…”

Il problema principale nella gestione dei personaggi è la loro tendenza all’isteria. Spesso e volentieri, in Ultimo Orizzonte, quando all’interno di un dialogo due personaggi si trovano ad esprimere posizioni contrastanti, oppure uno dei due commette un errore che nuoce all’altro, i due suddetti degenerano in una raffica di insulti che può durare anche parecchie righe. Questo anche durante scene d’azione! Immaginate che il cattivo si sia messo in moto, stia per attivare il suo terribile piano, e insomma non c’è tempo da perdere, la tensione è alle stelle, e questi due aprono e chiudono ogni poche pagine i loro siparietti da bambini di cinque anni. Due personaggi che degenerano in modo ricorrente sono Artibano e Rafé:

«Cosa succede?»
«Cazzo ne so, io?»

E qualche riga dopo:

«Ma cosa vuoi che vedo, in queste condizioni?»
«E allora stappati le orecchie e ascolta! Non voglio ritrovarmi quel maledetto elicottero attaccato al culo. Renditi utile, per una volta, massacàn».
«Vaffanculo, margon di merda».
«Quando scendiamo ti spacco la faccia».

Queste scene sono un continuo. Ora, qualcuno potrebbe anche spacciarmele come “reazioni alla tensione di essere di fronte al pericolo”. Ma non è così. Questi non sono ragazzini abituati a una vita di comfort e che sclerano come in un horror americano alla prima cosa che non quadra; questi dovrebbero essere uomini vissuti, abituati alla fatica, agli incidenti, alle disavventure, alla crudeltà della vita. Mi aspetto gente con le palle e l’aplomb dei Malavoglia di Verga. Insulti a freddo o smargiassate machiste ogni tanto ci stanno, fanno parte del contesto; ma questi accessi di aggressività infantile e controproducente (perché li bloccano, li distolgono da quello che stanno facendo, li rendono meno efficienti) non fanno che sospendere l’incredulità del lettore, e ricordargli che quelli non sono uomini veri ma personaggi sfuggiti al controllo dell’autrice.
Per il resto, la prosa della Coscia fa il suo dovere. A volte indulge nell’aggettivo inutile (la “puzza tremenda”, il “massiccio portone”), ma in generale scrive in modo molto asciutto e concreto. La sua Spéza si può toccare, i suoi personaggi si sa esattamente cosa pensano e cosa provano. Riesce a descrivere in modo chiaro azioni non scontate, come le manovre di immersione subacquea dell’equipaggio del Moscone (di cui ho dato un saggio nel secondo estratto, in fondo all’articolo). Il ritmo è sempre molto rapido, molto plot-driven, le descrizioni sintetiche e precise – a volte sono pure troppo brevi! Mi sarebbe piaciuto visualizzare Spéza un po’ meglio – e, quel che è meglio, a differenza della maggior parte degli autori italiani la Coscia non si sbrodola in fiumi di domande retoriche.

I Malavoglia

Gli abitanti di Spéza dovrebbero assomigliare un po’ di più a questi qua.

Ma il limite principale del romanzo a mio avviso non sta nella prosa, bensì nella trama. Premetto subito che qui si entra in un territorio meno oggettivo e più aperto alla discussione. Nei primi capitoli, Ultimo Orizzonte ricorda da vicino i mondi post-apocalittici e invasi dall’acqua di Bacigalupi, e in particolare Ship Breaker (ma anche un pizzico di The Blue World di Vance): fantascienza soft, un po’ slice of life, che mostra come gli abitanti di questi mondi degradati tentino di sopravvivere e di migliorare la propria condizione sociale. Con una diga sul punto di cedere, una cultura tecnica in rapido declino e un vecchio che amministra una città ripiombata nel Medioevo col pugno di ferro, c’era un sacco di materiale per un plot originale e mai visto in Italia.
E invece. Invece anche Ultimo Orizzonte si butta nel mare dei cliché dell’urban fantasy: una scia di delitti paranormali, una creatura malvagia risvegliata da un sonno secolare, divinità del folklore locale e un Prescelto chiamato dai suddetti déi a fermare la minaccia. L’interessante mondo in declino di Spéza diventa il palcoscenico della più classica delle storie d’azione fantasy, perdipiù condita di plot-holes1. Inoltre, non si può dire che la parte sovrannaturale sia curata come quella post-apocalittica “realistica”. Una breve parte del romanzo è ambientata a Portovenere (sfruttando il concetto di luogo di culto dedicato a Venere), ma quel che ci è mostrato del luogo è piuttosto anonimo; la Coscia ci appiccica sopra il nome “Portovenere”, ma poteva anche essere un altro posto e non si sarebbe sentita la differenza.
Nonostante il sentore di “già visto millemila volte” che attraversa quasi tutto il romanzo, comunque, la trama è disseminata di qualche piccola perla che vale la pena di leggere. Su tutte, uno scontro sott’acqua tra due personaggi in tuta da palombaro: una roba fighissima che non ho mai letto da nessun’altra parte!

La Spéza della Coscia, insomma, è un’ambientazione molto sottosfruttata. Ed è un peccato, perché di suo è davvero figa. Le case di legno affastellate le une contro le altre, il legno marcio e la puzza del quartiere povero di Fossamastra; la Gese (Chiesa) dove vive il Vicario, dominata dal profilo arrugginito dello scheletro di un elicottero caduto; l’antica città ormai ricoperta da metri d’acqua, dove si immergono i margòn (palombari) a ritrovare tesori e vecchie attrezzature. L’idea di una città che, anche amministrativamente parlando, sembra tornata al Medioevo, divisa com’è in quartieri semi-autonomi, ciascuno dei quali nomina un rappresentante che partecipa alle assemblee e va a parlare al Vicario.
E poi c’è la muagia con le sue pompe, ciascuna col suo numero che è anche il suo nome. Lo stato di abbandono, la sporcizia, la solitudine di Artibano nella sua cella, il camminamento sopra la diga da cui si può vedere la città da una parte, e il mare aperto dall’altro, rendono la muagia molto affascinante.; peccato non aver dedicato più pagine alla semplice descrizione della vita quotidiana dell’ultimo dei massacàn al suo interno. E peccato anche anche la Coscia non sia ingegnere o non abbia un amico ingegnere che l’aiutasse, perché se c’è un punto debole in questa ambientazione, è che si vive poco il lato ‘tecnico’ della muagia, la fisica delle Pompe e la loro gestione. Molto suggestivo invece l’alone di mistero sovrannaturale attorno alla diga, e ai disgraziati incidenti che hanno spazzato via, uno dopo l’altro, tutti gli altri massacàn.

Muratore

Esempio di Prescelto.

Il tocco finale all’ambientazione lo dà però il dialetto ligure. Come ormai mi capita sempre più spesso di trovare nella narrativa di genere (ma in realtà lo faceva già Conrad nei suoi romanzi malesi di fine Ottocento), la Coscia sparpaglia dentro e fuori dai dialoghi termini ed espressioni del dialetto ligure. E il ligure è bellissimo! Certe espressioni, soprattutto se messe in bocca a personaggi anziani, sembrano proprio tratte di peso dalla vita vera e sono alcuni dei momenti che suonano più ‘autentici’ in tutto il romanzo. Per esempio in questo passaggio (l’espressione dialettale è alla fine):

Sua nonna gliela cantava sempre, quella canzonetta scema. È la storia di un tizio del Mondo di Prima che aveva creduto di vedere una bestia misteriosa su al Casteo. L’aveva detto a tutti, spaventatissimo, facendosi ridere dietro dalla città intera.
«Però» aveva obiettato lei un giorno, «magari quella bestia c’era davvero, no?»
La faccia rugosa della nonna si era contratta in una smorfia. «Caterina» le aveva risposto secca. «Le bestie, chi, de gambe ghe n’han doi».

Unico appunto a questo proposito, l’abuso di note. Solo nella prima pagina, la Coscia ne concentra sei: inutile dire che spezzano la lettura. E in realtà non c’è veramente bisogno della maggior parte di quelle note. Cosa vogliono dire belin, figio de bagassa o Ai cuiosi se ghe strina ‘r cüo lo sa o ci arriva chiunque; e se non ci arriva, be’, fa colore lo stesso. In una eventuale versione 2.0 del romanzo, ridurrei le note di due terzi e lascerei solamente quelle indispensabili, cioè quelle che spiegano espressioni realmente criptiche o termini importanti ai fini del romanzo (margòn, massacàn, Gèse, braga).

Devo essere onesto – se questo fosse stato un romanzo straniero, come quelli che presento nei Consigli, non ne avrei parlato. Non perché sia brutto, non lo è; ma perché non spicca abbastanza.
Il discorso cambia se lo collochiamo nel ristagnante panorama italiano. Innanzitutto, Ultimo Orizzonte è sicuramente più bello, più originale e meglio scritto della grande maggioranza dei romanzi fantastici regolarmente pubblicati dalle grandi case editrici della carta. Lo collocherei sotto Pan di Dimitri2, ma molto sopra Alice nel paese della Vaporità. Tra gli Autopubblicati presentati sul blog, è inferiore al solo Marstenheim di Angra, e sicuramente superiore a La nave dei folli di Girola. Soprattutto, l’autrice mi conferma nell’idea che mi sono fatto di lei – ossia che, pur non sapendo sempre quello che fa sul piano tecnico, ha il potenziale per diventare una scrittrice molto interessante.
Ultimo orizzonte, in conclusione, è un romanzo piacevole e peculiare all’interno del panorama italiano. La storia corre via veloce, leggera, e l’ultimo terzo del romanzo, in particolare, si legge tutto d’un fiato. Quindi buttateci un occhio. Ne vale la pena.

Francesco Dimitri

“La smettiamo di tirarmi in mezzo?”

Dove si trova?
Come ho scritto in apertura di articolo, Ultimo Orizzonte si può comprare sul sito dell’editore, WePub, all’onesto prezzo di 2,99 Euro, nei formati .epub e .mobi. Il che mi fa veramente piacere, perché è questo il giusto prezzo per un libro in formato digitale. Inoltre, cosa più importante, non c’è DRM.
Di recente al (magro) catalogo di WePub si è aggiunto un racconto della Coscia ambientato a Speza di una trentina di pagine, La sentinella del Golfo. Interessante metodo di promozione: per comprarlo non bisogna sganciare soldi, ma collegarsi a Twitter attraverso il sito di WePub e scrivere un tweet sul libro. Io non uso Twitter, quindi non ho scaricato né tantomeno letto il racconto, ma magari è bello; e potreste avere un saggio aggratis dell’ambientazione di Speza prima di sganciare soldi per il romanzo.

Chi devo ringraziare?
In primo luogo Mr. Giobblin, che per primo (tra i pochi blogger che sporadicamente seguo) ha segnalato l’esistenza del romanzo. Ma non so se e quando l’avrei letto se non fosse stato per la mia collaudata beta-reader, Siobhàn, che se l’è scaricato appena saputa la bella notizia, mi ha detto che era carino e me l’ha raccomandato. Per poi rimproverarmi perché mi ero dimenticato di scrivere questa sezione!

Qualche estratto
Il primo estratto viene dal primo capitolo e presenta in breve tutti o quasi gli elementi centrali dell’ambientazione, ossia le rovine di Spéza, la muagia, i margòn e il loro lavoro, filtrati attraverso il pov in prima persona di Artibano. Il secondo estratto è preso invece dal quarto capitolo, il primo in terza persona, e mostra un elemento di trama che a me piace molto: le tecniche di immersione dei margòn.

1.
Lento, il sole cala dietro le colline color cenere: le ombre si allungano, il miserabile sipario di calore puzzolente si schiude ed eccola là.
Gli edifici divelti che sorgono dall’acqua, il profilo tondo della Gese, con il vecchio elicottero contorto e la croce monca a dominare la distesa immobile dell’Entromuro.
Il cadavere spiaggiato di una città.
Spéza.
Giobatta mi osserva con la coda dell’occhio e l’aria schifata di uno che sente una puzza tremenda.
Di me può pensare quello che gli pare, ma la verità è che lui e i suoi margon ieri non sono riusciti a combinare un belin: tanto casino per tirare su la carcassa marcia di un’automobile. Un mucchio di roba inutile: lamiere arrugginite, bighi di mare, ingranaggi inservibili.
Glie l’ho già detto, dove devono cercare, ma questo figio de bagassa ha ghignato con quei quattro denti che si ritrova e poi ha sputato: «Ai cuiosi se ghe strina ‘r cüo».
E, mentre i suoi compari si davano di gomito, si è fatto sotto, una montagna di muscoli frementi. Sono andato via strisciando, inseguito dalle risate.
Sempre la stessa vecchia canzone: brutte voci, brutte ombre, brutte cose nelle acque profonde.
Ma la muagia non resisterà ancora a lungo: denti de can e altre bestie la rodono, il metallo arrugginisce, l’acqua si infiltra sotto le fondamenta. Una dopo l’altra, le pompe che impediscono al mare di inghiottire la città si guastano: la Cinque si è fermata, la Tredici tribola a tenere il passo con la Dodici e la Quattordici, la Dieci va a regime ridotto per una perdita nel condotto del vapore. Ora anche la Sette ha deciso di tirare il ganbin. Loro mollano, il livello dell’Entromuro si alza e io sono solo.
L’ultimo massacàn rimasto.

2.
Il Cimitero delle Navi. A sentirlo nominare, i vecchi fanno scongiuri, sputano e non dicono mezza parola. Maledetto semo, lui, suo nonno e le sue cazzate.
Mentre Bacicia lega il Moscone alla bitta, Angiolo salta sul pontone e, nell’avvicinarsi alla ruota di legno della pompa dell’aria, si stira le braccia e la schiena. Felicìn va prendere la cima zavorrata e getta la pietra che fa da ancora. Lui osserva la corda divincolarsi e venire inghiottita dall’acqua e non riesce a trattenere un brivido al pensiero che, fra poco, seguirà la stessa strada.
Fianco a fianco come sempre, Rafé e Richeto si guardano. La seconda pompa attende il suo addetto. «Rafé alla pompa, Richeto con me».
Il primo abbassa la testa, l’altro apre con più forza del necessario il baule dell’attrezzatura e tira fuori le scarpe piombate, l’elmo e la tuta impermeabile.

Lascia andare l’ultimo piolo e la zavorra lo trascina giù.
La luce avvizzisce, il freddo inizia a mordere. Meglio non pensarci e badare solo ai gesti che lo riportano a casa tutti i giorni che il Santo manda in terra.
Controllare lo scarico dell’aria.
Eseguire le manovre di compensazione.
Regolare l’afflusso allo scafandro.
Gonfiarlo per controbilanciare l’aumento di pressione.
Rallenta, planando lungo la cima.
Quando il nodo che segnala gli ultimi due metri gli passa sotto le dita, piega le ginocchia per assecondare l’impatto con il fondo e una nuvola di sedimento lo avvolge.
Ora c’è solo da aspettare che tutta questa porcheria torni a posarsi. Non c’è bisogno di guardare per sapere che Richeto, lì accanto, fa la stessa cosa.
Il cordino di comunicazione si tende e il campanello dentro l’elmo squilla, facendolo sussultare. Da su vogliono sapere se è tutto a posto. Lui controlla che il coltello sia nel fodero e accende la torcia.
Automobili schiantate e arrugginite, le gambe di una statua troncate al ginocchio, il moncone di un albero spaccato a metà. Gli edifici sono ombre in agguato nell’acqua torbida. Si gira verso Richeto, che tocca la braga come se sgranasse la collana di Rafé.
Tira il cordino in risposta. Ma non c’è un belin, qui sotto, che sia a posto.

Tabella riassuntiva

Un post-apocalittico ambientato nelle rovine di La Spezia! Trama cliché su un prescelto che deve fermare un dio cattivo.
Gradevole voce narrante del cinico protagonista. Infelice scelta di alternare prima e terza persona.
Buon mostrato e ritmo rapido, plot-driven. Personaggi con tendenza all’insulto isterico.
In conclusione: MIGLIORABILE, MA PROMOSSO

————-

(1) Ne cito giusto un paio.
Primo, le meduse acide. Sono un elemento cruciale della trama, perché rendono impossibile muoversi nell’acqua dell’Entromuro con qualsiasi imbarcazione che non sia la Barca Vicaria. Senonché, alla fine del libro, i nostri eroi navigano fino alla muagia su una barca diversa da quella Vicaria. In teoria dovrebbe essere del tutto impossibile – ma le meduse? Pof. Sparite.
Altro elemento che non torna. Teoricamente, la divinità è stata risvegliata proprio da Artibano; ossia, dalla sua richiesta di andare a cercare pezzi di ricambio nella città vecchia. Se non fosse stato per lui, la divinità sarebbe rimasta là sotto. Ora, da un punto di vista accademico è vero che prima o poi il problema andava affrontato, e quei pezzi di ricambio recuperati; ma possibile che Artibano non senta un fortissimo senso di colpa per aver liberato l’entità? Dovrebbe essere questo l’elemento preponderante per convincersi che la faccenda lo riguarda di persona e che non può lavarsene le mani, questo l’elemento su cui il Santo dovrebbe fare pressione per persuaderlo. Ma l’elemento passa subito in secondo piano.Torna su

(2) Non è che Pan mi sia piaciuto particolarmente, ma riconosco che è il migliore tra i fantasy contemporanei italiani da me letti, ed è ormai usato in tutti gli ambienti che frequento come la pietra di paragone per ogni nuovo romanzo fantastico italiano.
In realtà questo primato potrebbe essere stato scalzato da tempo da romanzi che non ho ancora letto. Per esempio, nutro molte aspettative per i libri di Francesco Barbi, L’acchiapparatti e Il burattinaio. Il primo l’ho anche comprato, quindi presto o tardi lo leggerò e vi farò sapere.Torna su

I Consigli del Lunedì #30: Time and Again

Time and AgainAutore: Jack Finney
Titolo italiano: Indietro nel tempo
Genere: Slipstream / Fantasy / Slice of Life
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 400 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Da grande Si Morley voleva fare l’artista. Invece è finito a lavorare come grafico pubblicitario e a trascinarsi giorno dopo giorno in una vita che non lo soddisfa. La New York degli anni ’60 lo deprime, e ogni volta che può evade nel passato, guardando vecchie foto color seppia o perdendosi nei cimeli dell’America dell’Ottocento. E’ così che ha conosciuto la sua attuale ragazza, Kate, proprietaria di un negozio di antiquariato. Così, quando un bel giorno Rube Prien, maggiore dell’esercito, compare alla porta del suo ufficio offrendogli di abbandonare la sua vecchia vita per partecipare a un progetto governativo supersegreto, Si non riesce a dire di no.
Il Dr. Danziger e il suo staff hanno scoperto un modo per viaggiare nel tempo. Non sono necessari complicati macchinari o l’energia di una stella. Ogni momento storico passato e futuro è simultaneamente presente attorno a noi, solo che non lo vediamo, ancorati come siamo al presente da tutti gli oggetti e le sensazioni che ci circondano; ma se si potesse convincere intimamente qualcuno di essere in un dato momento del passato, egli andrebbe davvero nel passato. Poche persone al mondo hanno capacità creative e di autosuggestione tali da poter compiere questo viaggio – e Si è una di loro. La sua destinazione? La New York del 1882.
Riuscirà Si Morley a viaggiare nel passato e a svelare il mistero che aleggia attorno agli antenati di Kate, o si tratta solo di un’illusione indotta dall’ipnosi? E cosa sceglierà, quando si troverà a dover decidere tra il presente e il passato?

Dopo un mese dall’ultimo post e ben due dall’ultimo Consiglio, torniamo con un nuovo romanzo sui viaggi nel tempo. Time and Again è un romanzo molto diverso da The End of Eternity, e non solo per l’impostazione Fantasy piuttosto che fantascientifica; mentre l’interesse di Asimov è quello di esplorare la logica del viaggio nel tempo, quello di Finney è la ricostruzione storica. Com’era la New York della fine dell’Ottocento, quando l’edificio più alto di Manhattan era ancora la cattedrale di St. Patrick, il Ponte di Brooklyn non era ancora stato completato e a nord di Central Park cominciavano le casette coloniali e i campi coltivati? Com’era la vita quotidiana in una New York in cui ci si spostava in carrozza, le donne perbene arrivavano illibate al matrimonio e il telefono era un lusso per i più ricchi? E come dev’essere, per un newyorkese moderno, ritrovarsi in quegli anni, per certi versi simili e per altri così diversi?
La passione di Finney per la ricostruzione è tale che spesso questo Time and Again sembra una commistione tra un romanzo e un documentario. Il libro è corredato di foto d’epoca, illustrazioni e ritagli di giornale, che fanno da contrappunto al testo scritto nel tentativo di immergere il lettore in quel periodo lontano – ne mostro qualcuna nel corso dell’articolo. Combinazione estremamente curiosa, che fa di Time and Again il candidato eccellente per il ritorno dei Consigli del Lunedì!

New York nel 1882

Uno sguardo approfondito
Per spiegare meglio cosa intendo quando parlo di “romanzo d’atmosfera”, voglio soffermarmi prima di tutto su come funziona il viaggio nel tempo in Time and Again. Il viaggio nel tempo è uno stato psicologico: si è così intimamente convinti di essere in un’altra epoca che ci si va davvero. Ma perché questo accada, l’ipnosi da sola non basta. E’ necessario liberarsi di qualsiasi oggetto, pensiero, sensazione che ci ancori al presente. I sotterranei della sede del progetto sono divisi in set che ricostruiscono fin nei minimi dettagli momenti del passato: uno scorcio di Denver agli inizi del Novecento, un campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale in Francia, la piazza di fronte a Notre Dame nella Parigi del ‘400, e così via.
Per viaggiare nell’Ottocento, Si Morley dovrà andare a vivere in un palazzo newyorkese d’epoca, il Dakota, lasciato nelle condizioni in cui era allora. Non solo: dovrà vestirsi come si usava nel 1880, lasciarsi crescere baffi e barba, mangiare quel che si mangiava all’epoca, leggere fedeli riproduzioni dei giornali d’epoca, eccetera. Viaggiare nel tempo significa scivolare giorno dopo giorno sempre più “nella parte”, eliminando dalla coscienza ogni elemento di disturbo – il clacson di un’automobile in strada, i motori di un aereo che ti passa sopra – e sentendosi sempre di più parte del passato. Il lettore viaggia a ritroso come il protagonista.

Il romanzo è scritto in prima persona col pov di Si. Tra tutti gli scrittori che mi sia mai capitato di leggere, Finney è uno di quelli che – a mio avviso – meglio realizzano ciò che Gamberetta chiamava “stile trasparente”, ossia uno stile che ti fa dimenticare che stai leggendo una stupida storia. Autori come Swanwick e Vandermeer sicuramente hanno un senso migliore della “scena” e sono più immaginifici, tuttavia il loro modo pomposo di scrivere ci ricorda costantemente che ci troviamo davanti a una pagina scritta. Mellick è più bravo di Finney, ma le sue voci narranti sopra le righe e l’atmosfera grottesca delle sue storie rende molto difficile una vera sospensione dell’incredulità. Leggendo Time and Again, invece, ho provato il raro piacere di immergermi completamente nell’atmosfera della storia, dimenticando per un po’ che fosse una finzione.
Il protagonista sembra fatto apposta per permettere a chiunque di identificarcisi, telecamera in prima persona dietro cui possiamo mettere noi stessi. Si Morley è una persona qualunque, l’archetipo del lettore occidentale di media cultura: ragionevole, riflessivo, insoddisfatto della propria vita, alla ricerca dell’amore. Il suo tratto distintivo, la nostalgia per un’epoca che non ha mai vissuto, a volte sfiora l’ossessione – chi sarebbe disposto a chiudersi per settimane in una casa autoconvincendosi di essere un gentiluomo dell’Ottocento? A parte il Duca, intendo – ma il tono della voce narrante suona sempre pieno di buonsenso. Un altro scrittore, per esempio un Dick, avrebbe forse sottolineato gli aspetti borderline di Morley e fatto di Time and Again un romanzo sull’alienazione; Finney invece fa di Morley un veicolo per il lettore, qualcosa di molto simile ai protagonisti muti di alcuni gdr giapponesi.

“Ehi, Protagonista, sei pronto a spaccare un po’ di culi demoniaci?” “…” “Mi piace il tuo stile!”

Intendiamoci, lo stile di Finney è lontano dalla perfezione. Molto spesso, quando ritiene una scena poco interessante, si abbandona al raccontato e ai riassuntoni sbrigativi invece che trovare una soluzione più elegante. Passaggi lunghi anche alcune pagine sono scritte più o meno così: “Parlammo di questo e quello, e poi andai da quell’altro e dicemmo queste altre cose, quindi tornai a casa e feci questo e quello e quell’altro. Per alcuni giorni feci così e così, poi una mattina feci cosà”. Proprio verso la fine del romanzo, alcune scene chiave sono raccontate in questo modo, il che mi ha parecchio irritato.
In compenso, quando vuole mostrare fa un gran lavoro. Ciò è vero soprattutto per le scene ambientate nella New York ottocentesca: Finney spende pagine e pagine a descrivere il baccano delle carrozze sul selciato delle strade, le case coloniali della periferia e le palazzine ingombre di insegne di legno del centro, le differenze tra la Quinta Avenue del 1882 e quella del 1970. Le uniche volte in cui le descrizioni sono parche, è quando l’autore piazza una foto o un’illustrazione – che nella finzione narrativa sono opera del protagonista. La gente è descritta in ogni dettaglio, dall’acconciatura alla forma e al materiale dei bottoni sul soprabito; ogni capo d’abbigliamento è chiamato col suo nome1. Il mostrato sfuma nel raccontato quando si tratta di descrivere gesti e atteggiamenti dei personaggi, ma nelle scene importanti – e in particolar modo in quelle d’azione – ogni movimento è descritto con precisione e vividezza.

Soprattutto, dalla prosa di Finney traspare l’amore per la materia trattata. L’autore si è documentato per anni sulla New York degli anni ’80 dell’Ottocento, e questo traspare nella precisione con cui racconta usi e costumi dell’epoca – dall’abitudine dei newyorkesi di andare a mezzogiorno di fronte alla torre della Western Union Telegraph Company per sincronizzare i loro orologi da taschino, ai giochi di società con cui si intrattengono alla sera i pensionanti della locanda di Gramercy Park. In molti momenti del romanzo, Si diventa spettatore passivo della quotidianità della New York ottocentesca, e il libro diventa un vero e proprio slice of life – quasi un documentario. La maniacalità di Finney è arrivata al punto da cercare di sincronizzare le situazioni del romanzo con eventi realmente avvenuti – e documentati nei giornali – tra il Gennaio e il Febbraio del 1882. Lascio a storici esperti dell’epoca l’ultima parola sull’attendibilità della ricostruzione; da lettore abbastanza ignorante del periodo storico, posso solo dire che non mi sono sentito preso in giro.
Discorso diverso per quello che chiamo “effetto nostalgia”, ossia la tendenza (giustamente presa in giro da Woody Allen in Midnight in Paris) a immaginare che le epoche passate fossero più felici della nostra. Su questo terreno Finney si muove in modo ambiguo. Da una parte, il suo protagonista deve ammettere che le condizioni sociali e mediche dell’epoca erano molto peggiori delle nostre; che la polizia agiva in modo molto più arbitrario, e la corruzione era più capillare e più difficile da stanare; che la New York moderna tratta male i suoi vagabondi e i suoi poveri, ma quella dell’Ottocento li trattava anche peggio. Morley si rende conto che ingentiliamo il passato nella nostra immaginazione solo perché non l’abbiamo vissuto, e perché tendiamo volutamente a ignorarne i lati peggiori. Ma dall’altro lato, traspare l’idea che gli uomini del 1880 stessero meglio, se non fisicamente, almeno spiritualmente. Un leitmotiv del romanzo è proprio la convinzione che nei visi dei newyorkesi dell’82 ci sia una vitalità, una gioia di vivere assenti nelle ‘spente’ facce del 1970. A qualcuno questa patina di idealismo farà piacere – io l’ho trovata solo irritante e autoindulgente.

Il Dakota, il palazzo usato da Morley per il viaggio nel tempo, sullo sfondo di Central Park nel gennaio 1882.

I problemi più grossi del romanzo, però, riguardano il ritmo. Time and Again è un romanzo lento, tranquillo, in cui le cose succedono poco alla volta. Questo in parte è dovuto all’approccio del libro – abbiamo detto che è un “romanzo d’atmosfera”, in cui le descrizioni e le sensazioni del protagonista hanno più importanza della trama. L’intreccio c’è, non viene mai dimenticato, ha dei momenti brillanti (anche dal punto di vista speculativo), qualche trovata geniale (il braccio della Statua della Libertà!) e raggiunge una conclusione dignitosa; ma possono anche passare 50 pagine prima che ci sia uno sviluppo nella trama, 50 pagine piene di scorci di Manhattan, conversazioni coi locali, sottotrame amorose. Nell’ultimo quarto del libro ci sono diverse scene d’azione e il ritmo si fa più serrato, ma ormai quel tipo di lettore si è già addormentato. Pure a me qualche volta è calata la palpebra.
E se a volte questa lentezza appare giustificata dal tipo di esperienza che questo libro vuole offrire, altre volte Finney sfocia nella pura e semplice logorrea alla King – intere pagine di dettagli e conversazioni inutili. Questo dilungarsi è particolarmente incomprensibile quando riguarda le parti ambientate nel presente, dove non c’è neanche la scusa dell’affresco storico. A che pro descrivere per pagine e pagine la via e la facciata esterna della sede del progetto governativo, o le allegre scampagnate di Si e Kate? Soltanto intorno a pagina 50 viene spiegato il meccanismo dei viaggi nel tempo e quale sia il ruolo di Si in tutto ciò; solo intorno a pagina 90 cominciano i primi esperimenti di viaggio nel passato. Time and Again è un romanzo così lento che il preambolo dura 50 pagine! Non siamo dalle parti del Silenzio di Lenth ma quasi. Persino scene movimentate come quella dell’incendio finiscono con l’essere troppo lunghe e ripetitive – alla quarta o quinta persona salvata dall’edificio in fiamme anche il lettore più fedele comincia ad averne abbastanza…

Time and Again è un romanzo molto particolare – forse la parola giusta è delicato – e sicuramente non è un romanzo per tutti. Forse potrà piacere più a color che vengono dal mainstream e dallo slice of life che non ai veterani del romanzo di genere, dato il ritmo morbido e la carenza di azione, a patto che riescano ad accettare la premessa fantastica del viaggio nel tempo.
Soprattutto, credo che questo sia il tipo di romanzo che risente tantissimo delle condizioni e dell’umore in cui lo si legge. Letto nei ritagli di tempo, nella pausa pranzo, nel trasbordo da un vagone della metro alla carrozza del tram, può (giustamente) far pensare: “Ma di che parla? Ma cos’è che è successo prima? Ma perché cazzo sto leggendo una roba simile? Che menata di libro”. Letto nella tranquillità di casa propria, magari durante un weekend lungo, senza distrazioni, può farci vivere la stessa magia che prova Si, chiusi anche noi nel nostro Dakota, che lentamente scivoliamo assieme a lui in un’altra epoca.
Nonostante qualche momento di stanca, a me è piaciuto molto, e sono felice di consigliarlo dopo un mese di silenzio. Un libro così insolito non lo dimenticherò facilmente.

Barbe di fine Ottocento

Una cosa della fine dell’Ottocento non dimenticheremo mai: le BARBE.

Su Finney
Jack Finney è considerato in genere un autore di secondo piano, probabilmente non a torto. A parte Time and Again, il suo nome è legato a un solo altro romanzo, famoso per avere ispirato il film L’invasione degli Ultracorpi (The Invasion of the Body Snatchers, 1956):
The Body SnatchersThe Body Snatchers (L’invasione degli Ultracorpi) è un classico romanzo di invasione silenziosa. Baccelli alieni capaci di replicare e sostituirsi a qualsiasi essere vivente atterrano in una piccola cittadina della campagna californiana, con l’intenzione di colonizzare tutta la Terra; toccherà al medico Miles Bennett e ai suoi amici tentare di fermarli. Il romanzo è carino ma non molto originale (neanche per l’epoca), e come sottolineato da Knight spesso i protagonisti si comportano in modo illogicamente stupido e ingenuo. Avrà anche un valore storico, ma si può tranquillamente fare a meno di leggerlo.

Dove si trova
Su Library Genesis, Time and Again si trova in due versioni differenti, pdf ed ePub – quest’ultima è anche completa di tutte le immagini originali. Tuttavia, anche se sono ottimizzate per la lettura su reader, forse un libro così è più comodo e preferireste leggerlo su carta; in questo caso, su Amazon potete trovare a circa 8.50 Euro la bella edizione dei Fantasy Masterworks.
Su Emule si trovano anche diverse traduzioni in italiano, e quanto ai formati c’è solo l’imbarazzo della scelta: ePub, pdf, doc, lit e rar.

Qualche estratto
Innanzitutto mi scuso, perché gli estratti che ho scelto sono molto lunghi; ma come ho già accennato, Finney è tutto meno che sintetico. Tagliare i brani più di quanto abbia già fatto rischiava di rovinarne il godimento – perciò portate pazienza.
Il primo estratto descrive il primo set per viaggi nel tempo che viene mostrato a Si, quando ancora non è stato messo a parte nei dettagli della teoria sul viaggio temporale; oltre a vedere un esempio del metodo autosuggestivo per viaggiare a ritroso, dà un’idea del buon mostrato di Finney. Il secondo estratto, molto più avanti nella storia (sigh), mostra uno dei primi tentativi di Si di viaggiare nel passato mediante ipnosi – è un pezzo molto delicato, ma spero che riesca a trasmettervi un po’ della magia che ha trasmesso a me.

1.
Five stories below and on the far side of the area over which we were standing, I saw a small frame house. From this angle I could see onto the roofed front porch. A man in shirt-sleeves sat on the edge of the porch, his feet on the steps. He was smoking a pipe, staring absently out at the brick-paved street before the house.
On each side of this house stood portions of two other houses. The side walls facing the middle house were complete, including curtains and window shades. So were half of each gable roof and the entire front walls, including porches with worn stair treads. A wicker baby-carriage stood on the porch of one of them. But except for the complete house in the middle these others were only the two walls and part of a roof; from here I could see the pine scaffolding that supported them from behind. In front of all three structures were lawns and shade trees. Beyond these were a brick sidewalk and a brick street, iron hitching posts at the curbs. Across the street stood the fronts of half a dozen more houses. On the porch of one lay a battered bicycle. A fringed hammock hung on the porch of another. But these apparent houses were only false fronts no more than a foot thick; they were built along the area wall behind them, concealing the wall.
Leaning on the rail beside me, Rube said, “From where the man on the porch is sitting and from any window of his house or any place on his lawn, he seems to be in a complete street of small houses. You can’t see it from here, but at the end of the short stretch of actual brick street he is facing now, there is painted and modeled on the area wall, in meticulous dioramic perspective, more of the same street and neighborhood far into the distance.”
While he was talking a boy on a bike appeared on the street below us; I didn’t see where he’d come from. He wore a white sailor cap, its turned-up brim nearly covered with what looked like colored advertising-and campaign-buttons; short brown pants that buckled just below the knees; long black stockings; and dirty canvas shoes that came up over the ankles. Hanging from his shoulder by a wide strap was a torn canvas sack filled with folded newspapers. The boy pedaled from one side of the street to the other, steering with one hand, expertly throwing a folded paper up onto each porch. As he approached the complete house, the man on the porch stood up, the boy tossed the paper, the man caught it, and sat down again, unfolding it. The boy threw a paper onto the porch of the false two-walled house next door, which stood on a corner. Then he pedaled around the corner, and — out of sight of the man on the porch now — got off his bike and walked it to a door in the area wall against which the little cross street abruptly ended. He opened the door and wheeled his bike on through it.
[…] I turned to look at Rube’s face, but he was watching the scene below, forearms on the guardrail, his hands clasped loosely together. I said, “I don’t see a camera but I assume you’re either making or rehearsing some kind of movie down there.” I couldn’t help sounding a little bit irritated.
“No,” said Rube. “The man on the porch is actually living in that house. It’s complete inside, and a middle-aged woman comes in to cook and clean for him. Groceries are delivered every day in a light horse-drawn wagon labeled HENRY DORTMUND, FANCY GROCERIES. Twice a day a mailman in a gray uniform delivers mail, mostly ads. The man is waiting to hear whether he’s been hired for any of several jobs he’s applied for in the town. Presently he’ll hear that he’s been accepted for one of these jobs. At that point his habits will change. He’ll begin going out into the town, to work.” Rube glanced at me, then resumed his contemplation of the scene below. “Meanwhile he putters around the house. Waters his lawn. Reads. Passes the time of day with neighbors. Smokes Lucky Strike cigarettes. From green packages. Sometimes he listens to the radio, although in this weather there’s lots of static. Friends visit him occasionally. Right now he’s reading a freshly printed copy, done an hour ago, of the town newspaper for September 3, 1926. He’s tired; it’s been over a hundred down there in the afternoons for the last three days, and in the high eighties even at night. A real Indian-summer heat wave with no air conditioning. And if he looked up here right now all he’d see is a hot blue sky.”
Keeping my voice patient, I said, “You mean they’re following some sort of script.”
“No, there’s no script. He does as he pleases, and the people he sees act and speak according to the circumstances.”
“Are you telling me that he actually believes he’s in a town in —”
“No, no; not that either. He knows where he is, all right. He knows he’s in a New York storage warehouse, in a kind of stage setting. He’s been careful never to walk around the corner and look, but he knows that the street ends there, out of his sight. He knows that the long stretch of street he sees at the other end is actually a painted perspective. And while no one has told him so, I’m sure he understands that the houses across the street are probably only false fronts.” Rube stood upright, turning from the railing to face me. “Si, all I can tell you right now is that he’s doing his damnedest to feel that he’s really and truly sitting there on the porch on a late-summer afternoon reading what Calvin Coolidge had to say this morning, if anything.”
“Is there actually a town and a street like this?”
“Oh, yes; a street with houses, trees, and lawns precisely like that, right down to the last blade of grass and the wicker baby-carriage on the porch. You’ve seen an aerial shot of it; it’s called Winfield, Vermont.” Rube grinned at me. “Don’t get mad,” he said gently. “You have to see it before you can understand it.”

Cinque piani più in basso, in un angolo remoto rispetto al punto in cui eravamo vidi una casetta di legno. Da quell’angolazione potevo vedere sotto la veranda frontale. Un uomo in maniche corte era seduto sui gradini. Stava fumando una pipa e guardava con aria assente la strada di mattoni che passava proprio davanti alla casa.
La casa era circondata da porzioni di altre case. I muri visibili da quella centrale erano completi in ogni particolare, con tanto di tendine alle finestre. Anche metà dei tetti era a posto, assieme alle facciate e alle verande con i loro scalini di legno. Su una veranda c’era una carrozzina di vimini. Ma solo la casa centrale era completa; le altre due erano composte da due soli muri e una parte di tetto; dal mio punto di vista potevo vedere le intelaiature di legno che sorreggevano i muri. Davanti alle case vi erano aiole e alberi. Più in là un marciapiede e una strada di mattoni, con paletti di ferro per attaccare i cavalli lungo i bordi del marciapiede. Dalla parte opposta vi erano le facciate di un’altra mezza dozzina di case. Sulla veranda di una di queste era appoggiata una bicicletta scassata. Su un’altra avevano sospe- so un’amaca. Ma si trattava solo di facciate, non più spesse di trenta centimetri, costruite sulla parete divisoria in modo da ricoprirla completamente.
Rube si appoggiò alla ringhiera al mio fianco. «Dal punto in cui è seduto quell’uomo» disse «o da qualsiasi finestra della sua casa o da qualsiasi punto del suo giardino, gli sembra di essere in una via piena di piccole casette. Da qui non puoi vederlo, ma in fondo a quel breve tratto di strada è stato dipinto e modellato con prospettiva meticolosa il proseguimento della strada e del quartiere, che si perde in lontananza».
Mentre parlava, sulla strada sotto di noi apparve un bambino in biciclet- ta; non capii da dove era sbucato. Aveva un cappellino da marinaio bianco, coperto di spille che sembravano pubblicitarie o di propaganda elettorale, e indossava pantaloni alla zuava abbottonati sotto il ginocchio e lunghe calze nere. Ai piedi aveva un paio di scarpe di tela consumate che arrivavano sopra la caviglia. Portava con sé una borsa di tela strappata con dentro un mucchio di giornali piegati in due. Il ragazzo pedalava da una parte all’altra della strada, guidando con una mano e lanciando, con l’altra, i giornali su ogni veranda. Quando si avvicinò all’unica casa intera, l’uomo si alzò in piedi, prese il giornale al volo, e si sedette di nuovo a leggerlo. Il ragazzo gettò un altro giornale sotto la veranda della casa accanto, quella con due sole pareti, e svoltò l’angolo, scomparendo alla vista dell’uomo seduto sugli scalini. Quindi scese dalla bici e aprì una porta nel muro dove finiva di colpo la strada. Accompagnò la bici attraverso la porta, e la chiuse alle sue spalle.
[…] Mi voltai per guardare Rube in faccia, ma il suo sguardo era rivolto in basso, e teneva gli avambracci appoggiati alla ringhiera e le mani unite. «Non vedo cineprese, ma immagino che stiate riprendendo o facendo le prove per qualche film, laggiù» dissi. Non potei fare a meno di assumere un tono leggermente irritato.
«No» rispose Rube. «Quell’uomo sta effettivamente vivendo in quella casa. Dentro è completa, e c’è una donna di mezza età che viene a cucinare per lui e a fare le pulizie. I generi alimentari gli vengono consegnati giornalmente da un carretto trainato da cavalli con la scritta HENRY DORTMUND, ALIMENTARI DI QUALITÀ. E due volte al giorno un postino in uniforme grigia gli porta la posta; soprattutto pubblicità. Quell’uomo sta aspettando una risposta a una delle richieste di lavoro che ha inoltrato in città. Fra poco apprenderà che è stato assunto, e la sua vita cambierà. Andrà in città tutti i giorni, a lavorare». Rube mi lanciò un’occhiata, poi tornò a contemplare la scena sottostante. «Nel frattempo non fa altro che bighellonare per casa. Innaffiare il giardino. Leggere. Passare le giornate con i vicini. Fumare Lucky Strike. Col pacchetto verde. A volte ascolta anche la radio, anche se con questo caldo la ricezione è un po’ difettosa. Ogni tanto riceve la visita di qualche amico. In questo momento sta leggendo una copia fresca di stampa, uscita meno di un’ora fa, del giornale locale del 3 settembre 1926. È molto stanco; la temperatura negli ultimi tre giorni ha superato i trentacinque gradi tutti i pomeriggi, e non scende sotto i venticinque neanche la sera. Una calura tremenda da sopportare senza condizionatori. E se ora alzasse lo sguardo, non vedrebbe altro che un caldo cielo azzurro».
Mantenendo un tono paziente, dissi: «Vuoi dire che si attengono a una sceneggiatura?»
«No, non c’è nessuna sceneggiatura. Lui fa ciò che gli pare, e la gente che incontra parla e si comporta in maniera diversa a seconda delle circostanze».
«Non dirmi che lui crede effettivamente di vivere in un paese nel…»
«No, no, non è nemmeno così. Lui sa bene dove si trova. Sa bene di es- sere in un magazzino a New York, in una specie di scenario cinematografico. Si trattiene dal girare l’angolo per guardare ma sa bene che la strada finisce lì. E sa anche che la via che vede perdersi in lontananza non è altro che una prospettiva dipinta. E anche se non gliel’ha detto nessuno, sono certo che si rende conto che le case dall’altra parte della strada non sono altro che facciate dipinte». Rube lasciò la ringhiera, e mi guardò. «Simon, tutto quello che ti posso dire per il momento è che quell’uomo sta facendo del suo meglio per credere di trovarsi veramente sotto quella veranda in un pomeriggio di tarda estate a leggere quello che ha da dire oggi Calvin Coolidge».
«Ed esiste un paese con una strada come questa?»
«Oh si; una strada con case, alberi e aiole esattamente come questa, u- guale in ogni minimo particolare; dal modo in cui è tagliata l’erba alla carrozzina sotto la veranda. È quella della foto aerea che hai visto; Winfield, nel Vermont». Rube mi sorrise. «Non ti arrabbiare» disse con tono cortese. «Devi vedere prima di capire».

Newspaper boy

Ah! Ridatemi gli anni ’20 e i ragazzini che consegnavano i giornali casa per casa!

2.
“But you know what the world is like; you know that very well. You know all about it. Why shouldn’t you know what the world is like tonight, January 21, 1882? Because that is the date; that is the time we’re in, of course. That’s why I’m dressed as I am, and you as you are. That’s why this room is as it is. Don’t sleep quite yet, Si. Hold your eyes open just a bit. For just a few seconds longer.
“Now, hear what I say. I am going to give you a final, irrevocable instruction; you will hear it, you will obey it. You will sleep for twenty minutes. You will awake rested. You will go out for a walk. Just a little walk, a breath of air before you go to bed. You will be as careful as you possibly can be… that no one sees you. You will be absolutely certain to speak to no one. You will allow no act of yours, however small, to influence anyone in any way, however trivial.
“Then you will come back here, go to bed, and sleep all night. You will awaken in the morning as usual, free of all hypnotic suggestion. So that as you open your eyes, all your knowledge of the twentieth century will light up in your mind again. But you will remember your walk. You will remember your walk. You will remember your walk. Now… let go. And sleep.”
[…] I felt rested now; alive and energetic, a little too restless to feel like going to bed, and I decided to take a walk. It was still snowing, but big soft flakes. There was no wind, I’d been indoors too long, and I wanted to get out, into that snow, breathing chill fresh air; and I walked to the closet and put on my overcoat, chest protector, boots, and my round fur cap of black lamb’s wool.
I walked down the building stairs, somehow glad to encounter no one; I didn’t feel like chatting, and if I’d heard someone on the stairs I think I’d have stood waiting till he’d gone. Downstairs I walked out of the building, glancing quickly around, but saw not a soul — tonight I didn’t want to see anyone — and I turned toward Central Park just across the street ahead. It was a fine night, a wonderful night. The air was sharp in my lungs, and snowflakes occasionally caught in my lashes, momentarily blurring the streetlamps just ahead, already misty in the swirls of snow around them.
Just ahead the street was almost level with the curbs, unmarked by steps or tracks of any kind. I crossed it and walked into the park. […] I plodded on just a little way more, feet lifting high, boots clogged with damp snow, enjoying the exercise of it, exhilarated by the feel of this snowy luminous night, and my aloneness in it. Behind me and to the north I heard a distant rhythmical jingle, perceptibly louder each time it sounded, and I turned to look back toward the street once again. For a moment or two I stood listening to the jink-jink-jingle sound, and then just beyond the silhouetted branches, down the center of the lighted street, there it came, the only kind of vehicle that could move on a night like this: a light, airy, one-seated sleigh drawn by a single slim horse trotting easily and silently through the snow. The sleigh had no top; they sat out in the falling snow, bundled snugly together under a robe, a man and a woman passing jink-jink-jingle through the snow-swirled cones of light under each lamp. They wore fur caps like mine, and the man held a whip and the reins in one hand. The woman was smiling, her face tilted to receive the snow, and the only sounds were the bells, the muffled hoof-clops, and the hiss of the sleigh runners. Then their backs were to me, the sleigh drawing away, diminishing, the steady rhythm of the sleigh bells receding.
They were nearly gone when I heard the woman laugh momentarily, her voice muffled by the falling snow, the sound distant and happy.

«Eppure sai com’è fatto il mondo; lo sai molto bene. Sai tutto del mon-do. Perché mai non dovresti sapere come è fatto il mondo in questa notte del 21 gennaio 1882? Perché questa è la data, naturalmente; questo è il giorno che stiamo vivendo. È per questo che io sono vestito a questo modo, e anche tu. Ed è per questo che questa stanza è così com’è. Non addormentarti ancora, Simon. Tieni gli occhi aperti ancora per un istante. Solo qualche secondo ancora.
«Ora, ascolta ciò che ti dico. Ti darò delle istruzioni finali e irrevocabili; tu le ascolterai, e ubbidirai. Dormirai per venti minuti, e ti sveglierai riposato. Quindi uscirai a fare una passeggiata. Giusto quattro passi per prendere un po’ d’aria prima di andare a dormire. Starai attentissimo… a non farti vedere da nessuno. Farai in modo di non parlare con nessuno, assolutamente. E non permetterai a nessun tuo gesto, per quanto piccolo, di in- fluenzare nessuno in nessun modo, nemmeno il più insignificante.
«Quindi tornerai in questo appartamento, te ne andrai a letto, e dormirai per tutta la notte. Ti risveglierai domani mattina come al solito, libero da qualsiasi genere di suggestione ipnotica. Quando aprirai gli occhi, tutto ciò che sai del Ventesimo secolo sarà di nuovo disponibile nella tua memoria. Ma ricorderai la tua passeggiata. Ricorderai la tua passeggiata. Ricorde- rai la tua passeggiata. E ora, lasciati pure andare… e dormi».
[…] Ora mi sentivo riposatissimo; pieno di vitalità ed energia, tanto che non me la sentivo di andare subito a letto, e decisi di fare una passeggiata. Nevicava ancora, ma i fiocchi erano grossi e morbidi. Non c’era un alito di vento, ero stato in casa fin troppo tempo, e avevo voglia di uscire, in mezzo alla neve, a respirare quell’aria fresca. Mi avvicinai all’armadio, dove presi il soprabito, gli stivali e il mio cappello di astrakan.
Discesi le scale dell’edificio, stranamente contento di non incrociare altri inquilini; non me la sentivo di chiacchierare, e credo che se avessi sentito qualche rumore sulle scale mi sarei fermato ad aspettare che la via fosse libera. Una volta fuori mi guardai attorno rapidamente, ma non vidi anima viva. Stasera non volevo proprio incontrare nessuno. Mi diressi verso Central Park, dalla parte opposta della strada. Era una bella serata; una serata meravigliosa. L’aria era fredda nei miei polmoni, e ogni tanto un fiocco di neve mi si fermava sulle ciglia, annebbiando momentaneamente i lampioni, già offuscati dai vortici di nevischio che li avvolgevano.
La strada era alla stessa altezza del marciapiede, ed era completamente intatta da orme o tracce di qualsiasi genere. La attraversai ed entrai nel parco. […] Procedetti ancora per un poco, sollevando i piedi a fatica a ogni passo, con gli stivali coperti di neve umida, godendomi l’esercizio, esaltato dalla sensazione di quella notte luminosa e innevata nella quale mi trovavo in solitudine. A un certo punto udii alle mie spalle un tintinnare ritmico e distante, che diventava sempre più vicino. Mi voltai nuovamente verso la strada. Rimasi per un attimo ad ascoltare il tintinnio, poi, da dietro i rami degli alberi, in mezzo alla strada illuminata, la vidi; l’unico veicolo che po- teva aggirarsi in una notte come questa: una slitta aperta, leggera, trainata da un solo cavallo, piuttosto magro, che trottava tranquillo e silenzioso sulla neve. Un uomo e una donna sedevano sulla slitta, sotto la neve, avvolti in una coperta di lana. Attraversarono tintinnando i coni di luce innevati di ogni lampione. Avevano entrambi cappelli di pelliccia come il mio, e l’uomo teneva le redini e la frusta in una mano. La donna sorrideva, il viso inclinato all’indietro, godendosi la neve, e si udivano solo i campanelli, i passi soffocati del cavallo, e il leggero sibilo della slitta sulla neve. Mi passarono davanti, e li seguii con lo sguardo finché non scomparvero nel nevischio, il tintinnio sempre più distante.
Poco prima che scomparissero del tutto, sentii la donna che rideva; una risata distante e felice, attutita dalla neve.

Tabella riassuntiva

Un modo incredibilmente suggestivo di viaggiare nel passato! Trama minimale, subordinata alla ricostruzione storica.
Affascinante e precisa ricostruzione della New York del 1882. Ritmo lento che mette alla prova e tendenza alla logorrea.
Quando vuole, Finney è molto bravo a mostrare. Tendenza sentimentalista a idealizzare il passato.

(1) La precisione è pure troppa! Come quando Finney descrive l’abbigliamento ottocentesco: usa una valanga di termini che non solo io non avevo mai sentito nominare, ma che non conosce neppure il dizionario del mio reader! Dannazione.Torna su

Bonus Track: Lest Darkness Fall

Lest Darkness FallAutore: L. Sprague DeCamp
Titolo italiano: L’abisso del passato
Genere: Ucronia / Fantasy / Storico
Tipo: Romanzo

Anno: 1941
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 250 ca.

Difficoltà in inglese: **

He was in the twilight of western classical civilization. The Age of Faith, better known as the Dark Ages, was closing down. Europe would be in darkness for nearly a thousand year. […] Could one man change the course of history to the extent of preventing this interregnum? Maybe.

Martin Padway, archeologo americano, sta tranquillamente passeggiando nel Pantheon di Roma e riflettendo sulla vita, quando un fulmine si abbatte sul tempio. Un momento dopo, non si trova più negli anni ’30 del Novecento, e uomini in toga che parlano una lingua arcaica lo circondano. Padway ha viaggiato nel tempo, e ora si trova nella Roma altomedievale, tra le rovine dell’Impero Romano d’Occidente. Per l’esattezza è il 535 d.C.; l’Italia è dominata dagli Ostrogoti; sul trono di Ravenna siede il debole Teodato, nipote di Teodorico il Grande; e a est, l’imperatore Giustiniano sta raccogliendo l’esercito con cui ha intenzione di invadere l’Italia per ricomporre l’Impero.
La guerra Greco-Gotica, quei vent’anni di devastazione che avrebbero dato il colpo di grazia alla penisola e aperto le porte ai Longobardi invasori, sta per cominciare. Con in tasca pochi spiccioli di nichel e argento e la sua conoscenza accademica del latino tardoantico, Padway dovrà trovare il suo posto al sole in una Roma in rovina prima che la situazione precipiti. Ma ha almeno un vantaggio dalla sua: la conoscenza del futuro, e delle meraviglie tecnologiche dell’età moderna. Padway sa di essere l’unico a poter fermare la guerra e impedire l’avvento del Medioevo – impedire che sui resti dell’Impero possano scendere le tenebre dei secoli barbari. Finisce la storia di Martin Padway, comincia quella di Martinus Paduei…

Uno dei periodi storici che mi mandano più in fissa in assoluto è il primissimo centennio dopo il crollo dell’Impero Romano. In quel periodo si è deciso (quasi) tutto: il destino dell’Italia, i confini dei Regni barbarici, la forma dell’Europa in cui oggi viviamo. Ricordo a questo proposito una discussione con Zwei – altro grande cultore di questa fase storica – in cui io sostenevo che non tanto i Longobardi né poi gli arabi, ma la guerra greco-gotica scatenata da Giustiniano avesse condannato l’Italia. Questi vent’anni di devastazione, infatti, non solo seminarono carestie, malattie, e decimarono una popolazione già in diminuzione; ma sostituirono un governo così così con un altro debole e odioso, e soprattutto tolsero ai superstiti la voglia e l’energia per resistere a ulteriori invasioni. Se i bizantini non si fossero intromessi nel giovane regno dei Goti, forse la nostra storia sarebbe stata diversa.
Con Lest Darkness Fall, L. Sprague DeCamp si pone la stessa domanda. Scrittore oggi ben avviato sul viale dell’oblio, soprattutto in Italia, DeCamp durante la Golden Age fu uno degli autori di fantascienza e alternative histories più influenti e ammirati. Lest Darkness Fall, la sua opera prima, si colloca sulla stessa scia di A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court di Twain – con la differenza che DeCamp non vuole fare della satira fiabesca, ma della sincera speculazione storica (con giusto un pizzico di fantasy nelle premesse iniziali). Può un uomo catapultato dal ventesimo secolo sopravvivere nell’alba dell’Alto Medioevo? E può, con le sue sole forze, cambiare il corso della storia?

Europa nel VI secolo

L’Europa pochi anni prima della guerra greco-gotica

Uno sguardo approfondito
Non sono la persona migliore per giudicare e sicuramente Zwei o uno storico, se leggessero il romanzo, potrebbe dare un parere più competente; ma l’impressione è che DeCamp di storia tardoantica ci capisca. Già solo il fatto di aver scelto come momento storico il regno del misconosciuto Teodato la dice lunga. La sua fonte principale sembra essere il De Bello Gothico di Procopio di Cesarea.
Per le strade mezze sterrate della Roma altomedievale, a Romani in toga e rigorosamente disarmati si mescolano Goti chiassosi e armati di tutto punto. Nelle tavernacce si possono incontrare vagabondi Vandali reduci delle campagne di riconquista bizantine in Africa; e se ti ammali, puoi star certo che alla tua porta si affolleranno stuoli di medici, maghi e preti, ognuno con un rimedio infallibile diverso dal precedente. E una volta tanto, il passato sembra essere realistico anche negli aspetti più sgradevoli (o almeno in alcuni di questi). Ad un certo punto, la serva siciliana di Padway si infilerà nel suo letto; ma invece che gratificarlo, come vorrebbe il canovaccio standard, si rivelerà un’esperienza disgustosa: la donna è sudicia, e ricoperta di zecche e pidocchi 1.
Non manca comunque qualche nota stonata. Su tutte, l’adagiarsi di DeCamp sul vecchio pregiudizio del Medioevo come millennio di barbarie, come età uniformemente buia e retrograda – un pregiudizio che già alla fine degli altri ’30 era datato, e letto oggi suona proprio male. Ma anche alcune scene tanto dense di retardness da parere uscite da un romanzo della Troisi; tipo il fatto – e succede più di una volta – che Padway, pur non avendo mai usato una spada in vita sua, sia in grado non solamente di difendersi in duello contro un veterano, ma anche di avere la meglio. E in modo del tutto accidentale! Srsly u guys?

Se nel complesso la Roma di Lest Darkness Fall pare credibile, bisogna anche ammettere che rimane piuttosto anonima. DeCamp non è un granché come scrittore: il suo stile è un uniforme raccontato con spiragli di mostrato quando c’è una scena importante. Tutta la storia è filtrata attraverso il pov del protagonista, ma la telecamera rimane sempre piuttosto distante da Padway, sicché non ci sentiamo molto partecipi delle sue avventure; anche i suoi pensieri e i suoi stati d’animo, le sue preoccupazioni, ci vengono piattamente raccontate. La cosa si fa particolarmente sentire nelle battaglie, che si riducono quasi sempre ad anonimi riassunti di manovre e azioni di masse d’uomini: il pathos è ai minimi termini, l’immersione non pervenuta.
Altre volte, spunti interessanti vengono ridotte a macchiette comiche. Prendiamo la questione dell’intolleranza religiosa: nella Roma del VI secolo coesistevano molte religioni, dalle varie correnti del cristianesimo (i Romani cattolici, i Goti ariani, i Siriani nestoriani, e così via) alle sopravvivenze pagane. Tutte queste religioni erano ammesse, ma la convivenza non era sempre facile. Be’, DeCamp mette in scena la questione con una rissa da fumetto in un’osteria, tra esponenti di credi diversi che si tirano cazzotti e boccali. Argomento chiuso.

Nestorianesimo

Eretici!

Stesso discorso si può fare per i comprimari. Thomasus, il banchiere siriano dal braccino corto, è un tipo simpatico: sempre pronto a lamentarsi, a contrattare sul nulla, a cercare di truffare l’interlocutore, a invocare Dio ogni volta che qualcosa non gli va a genio (“Do You hear that, God? He comes in here, a barbarian who hardly knows Latin, and admits that he has no security and no guarantors, and still he expects me to lend him money! Did You ever hear the like?”). E’ un personaggio che rimane impresso, e DeCamp riesce a costruire un sacco di dialoghi divertenti tra lui e Padway; ma Thomasus rimane sempre una macchietta, uno stereotipo, non sembrerà mai una persona vera. Stesso discorso per Fritharik, il nobile Vandalo decaduto che passa il tempo a lamentare le sue glorie passate e a fare la vittima, o Teodato, il re squilibrato e immerso in un mondo tutto suo, in cui lui è il più grande erudito che sia mai esistito. Tutti questi personaggi regalano dei momenti piacevoli, ma sempre a un livello da cabaret.
Le cose peggiorano ulteriormente se diamo un’occhiata al protagonista. Padway è un manichino senza personalità, un veicolo dell’esperimento ucronico dell’autore; non sembra avere delle vere motivazioni. La situazione in cui precipita sin dalle prime pagine è atroce: catapultato millecinquecento anni nel passato, in un mondo ostile, sporco, retrogrado, senza un amico né un parente, e con ben presto la certezza di non poter mai più tornare alla propria epoca. Ma Padway non si strappa i capelli, non nega la realtà, non tenta nemmeno di trovare una soluzione; la sua reazione emotiva è quasi inesistente. Superato lo spaesamento iniziale, Padway si darà da fare per raggranellare soldi e farsi una posizione. Il conflitto interiore è azzerato ancora prima di nascere.

Dove il romanzo dà il meglio di sé è nell’elemento ucronico. E’ interessante vedere come, gradualmente, l’Italia del VI secolo si trasformi, e prenda un corso diverso da quello da noi conosciuto, mano a mano che le innovazioni tecniche di Padway prendono piede. E’ un piacere assistere alla prematura nascita del brandy, piuttosto che della partita doppia. L’approccio di DeCamp, inoltre, è molto realistico: Padway potrà anche conoscere la moderna tecnologia e, in parte, come riprodurla, ma da qui a introdurla in pieno Alto Medioevo è tutto un altro paio di maniche! Bisogna “inventare” prima l’elettricità per poter usare il telegrafo; e già la polvere da sparo darà parecchi grattacapi al nostro protagonista.
All’ucronia tecnologica si combina quella politica, nel momento in cui Padway comincia a chiedersi quali eventi storici dovranno cambiare, e a chi dovrà andare il governo dell’Italia, per impedire il declino dell’Occidente. E non dico più niente perché se no Dunfrey mi cazzia – andate a leggervelo.

Goths

Goti. Invadiamo l’Italia dal 493.

Lest Darkness Fall è ben lontano dall’essere un capolavoro. E’ scritto male, i personaggi sono bidimensionali, la tensione rimane bassa, l’immersione scarsa; siamo a un livello molto più basso rispetto al capostipite di Mark Twain. Di certo non è all’altezza di diventare un Consiglio. Il romanzo di DeCamp è affascinante solo come speculazione fantastorica un po’ romanzata; lo consiglierei solamente agli amanti di quel periodo storico e dei what if.
E, perché no, a chi si voglia fare una cultura sui “classici” della narrativa fantastica. Molti racconti e novellas sono stati scritti su ispirazione di Lest Darkness Fall – alcuni recuperando solo l’idea del viaggio nel tempo che catapulta un uomo moderno in un mondo medievale e gli dà la possibilità di cambiare il corso della storia con l’ausilio della tecnica, altri espandendo proprio la storia di Martin Padway e del mondo che ha creato. E non è escluso che di questi racconti parli in futuro.

Dove si trova?
Non sono riuscito a trovare Lest Darkness Fall su Library Genesis né su Bookfinder, ma grazie agli avvisi di Dunseny e Wolframius sono riuscito a beccarlo sul Mulo. In lingua originale ho trovato tre referenze (rtf, pdf, lit); altre tre in italiano, cercando però “Abisso del passato” senza l’articolo.
Nel caso vogliate pagarlo, su Amazon si trovano due edizioni kindle: quella della collana Gateway della Gollancz, a 6,49 Euro, o l’edizione Phoenix, a 7,21 Euro. Quest’ultima oltre al romanzo di DeCamp contiene in appendice tre racconti ispirati a Lest Darkness Fall; ma tutti e tre i racconti sono rintracciabili aggratis online, quindi non c’è davvero bisogno di prendere questa edizione (di questa info ringrazio il buon Uriele).

Qualche estratto
Il primo estratto mostra i primi tentativi di Padway di razionalizzare ciò che gli sta accadendo dopo essere apparentemente precipitato nel VI secolo

1.
He couldn’t stand there indefinitely. He’d have to ask questions and get himself oriented. The idea gave him gooseflesh. He had a phobia about accosting strangers. Twice he opened his mouth, but his glottis closed up tight with stage fright.
Come on, Padway, get a grip on yourself. “I beg your pardon, but could you tell me the date?”
The man addressed, a mild-looking person with a loaf of bread under his arm, stopped and looked blank. “Qui e’? What is it?”
“I said, could you tell me the date?”
The man frowned. Was he going to be nasty? But all he said was, “Non compr’ endo.” Padway tried again, speaking very slowly. The man repeated that he did not understand.
Padway fumbled for his date-book and pencil. He wrote his request on a page of the date-book, and held the thing up.
The man peered at it, moving his lips. His face cleared. “Oh, you want to know the date?” said he.
Sic, the date.”
The man rattled a long sentence at him. It might as well have been in Trabresh. Padway waved his hands despairingly, crying, “Lento!”
The man backed up and started over. “I said I understood you, and I thought it was October 9th, but I wasn’t sure because I couldn’t remember whether my mother’s wedding anniversary came three days ago or four.”
“What year?”
“What
year?”
“Sic, what year?”
“Twelve eighty-eight
Anno Urbis Conditae”
It was Padway’s turn to be puzzled. “Please, what is that in the Christian era?”
“You mean, how many years since the birth of Christ?”
“Hoc ille-that’s right.”
“Well, now-I don’t know; five hundred and something. Better ask a priest, stranger.”
“I will,” said Padway. “Thank you.”
“It’s nothing,” said the man, and went about his business. Padway’s knees were weak, though the man hadn’t bitten him, and had answered his question in a civil enough manner. But it sounded as though Padway, who was a peaceable man, had not picked a very peaceable period.

Srsly

La reazione amorfa di Padway fa inarcare qualche sopracciglio.

2.
“Let’s drink to—” Thomasus started to say “success” for the thirtieth time, but changed his mind. “Say, Martinus, we’d better buy some of this lousy wine, or he’ll have us thrown out. How does this stuff mix with wine?” At Padway’s expression, he said: “Don’t worry, Martinus, old friend, this is on me. Haven’t made a night of it in years. You know, family man.” He winked and snapped his fingers for the waiter. When he had finally gotten through his little ceremony, he said: “Just a minute, Martinus, old friend, I see a man who owes me money. I’ll be right back.” He waddled unsteadily across the room.
“A man at the next table asked Padway suddenly: What’s that stuff you and old one-eye have been drinking, friend?”
“Oh, just a foreign drink called brandy,” said Padway uneasily.
“That’s right, you’re a foreigner, aren’t you? I can tell by your accent.” He screwed up his face, and then said: “I know; you’re a Persian. I know a Persian accent.”
“Not exactly,” said Padway. “Farther away than that.”
“That so? How do you like Rome?” The man had very large and very black eyebrows.
“Fine, so far,” said Padway.
“Well, you haven’t seen anything,” said the man. “It hasn’t been the same since the Goths came.” He lowered his voice conspiratorially: “Mark my words, it won’t be like this always, either!”
“You don’t like the Goths?”
“No! Not with the persecution we have to put up with!”
“Persecution?” Padway raised his eyebrows.
“Religious persecution. We won’t stand for it forever.”
“I thought the Goths let everybody worship as they pleased.”
“That’s just it! We Orthodox are forced to stand around and watch Arians and Monophysites and Nestorians and Jews going about their business unmolested, as if they owned the country. If that isn’t persecution, I’d like to know what is!”
“You mean that you’re persecuted because the heretics and such are not?”
“Certainly, isn’t that obvious? We won’t stand- What’s your religion, by the way?”
“Well,” said Padway, “I’m what in my country is called a Congregationalist. That’s the nearest thing to Orthodoxy that we have.”
“Hm-m-m. We’ll make a good Catholic out of you, perhaps. So long as you’re not one of these Maronites or Nestorians—”
“What’s that about Nestorians?” said Thomasus, who had returned unobserved. “We who have the only logical view of the nature of the Son-that He was a man in whom the Father indwelt—”
“Nonsense!” snapped Eyebrows. “That’s what you expect of half-baked amateur theologians. Our view- that of the dual nature of the Son-has been irrefutably shown—”
“Hear that, God? As if one person could have more than one nature—”
“You’re all crazy!” rumbled a tall, sad-looking man with thin yellow hair, watery blue eyes, and a heavy accent. “We Arians abhor theological controversy, being sensible men. But if you want a sensible view of the nature of the Son-” “You’re a Goth?” barked Eyebrows tensely.
“No, I’m a Vandal, exiled from Africa. But as I was saying” -he began counting on his fingers—“either the Son was a man, or He was a god, or He was something in between. Well, now, we admit He wasn’t a man. And there’s only one God, so He wasn’t a god. So He must have been—”
About that time things began to happen too fast for Padway to follow them all at once. Eyebrows jumped up and began yelling like one possessed. Padway couldn’t follow him, except to note that the term “infamous heretics” occurred about once per sentence. Yellow Hair roared back at him, and other men began shouting from various parts of the room: “Eat him up, barbarian!” “This is an Orthodox country, and those who don’t like it can go back where they—” “Damned nonsense about dual natures! We Monophysites-” “I’m a Jacobite, and I can lick any man in the place!” “Let’s throw all the heretics out!” “I’m a Eunomian, and I can lick any
two men in the place!”
Padway saw something coming and ducked, the mug missed his head by an inch and a half. When he looked up the room was a blur of action. Eyebrows was holding the self-styled Jacobite by the hair and punching his face; Yellow Hair was swinging four feet of bench around his head and howling a Vandal battle song. Padway hit one champion of Orthodoxy in the middle; his place was immediately taken by another who hit Padway in the middle. Then they were overborne by a rush of men.

Tabella riassuntiva

Un uomo moderno nella Roma altomedievale! Il protagonista è un manichino, gli altri personaggi sono macchiette.
Ricostruzione credibile di un periodo storico interessante e poco sfruttato. Descrizioni approssimative e scenario sottosfruttato.
Elementi ucronici introdotti in modo realistico. Stile raccontato e ritmo piatto che immergono poco.
Qualche scena di combattimento clueless.

(1) Soprattutto, mi è piaciuta la visione disillusa dell’amore tra un uomo moderno e una donna del mondo antico [seguono spoiler in bianco].
Nel corso del romanzo, Padway incontra più di una bella donna; ma non riuscirà a concludere con nessuna di loro. La regina Amalaswentha, che all’inizio aveva affascinato il protagonista, si rivelerà talmente sanguinaria e vendicativa da farlo scappare. Le cose sembrano andare meglio con la dolce Dorotea, figlia di un colto e posato senatore romano; ma non dureranno: quando le riforme promosse da Padway porteranno alla liberazione degli schiavi, la famiglia di Dorothea finirà sul lastrico e la ragazza non lo perdonerà mai più.Torna su

I Consigli del Lunedì #29: The End of Eternity

La fine dell'eternitàAutore: Isaac Asimov
Titolo italiano: La fine dell’eternità
Genere: Science Fiction / Mystery
Tipo: Romanzo

Anno: 1955
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 250 ca.

Difficoltà in inglese: **

L’Eternità: una struttura fuori dal tempo che si estende dal ventisettesimo secolo, quando è stata costruita, sino alla fine dell’esistenza del pianeta Terra. Quei pochi eletti che possono accedervi e viverci, gli Eterni, devono abbandonare per sempre la loro epoca, rinunciare a vivere nel Tempo, e consacrare la propria vita a servire l’Eternità. Il loro scopo? Guidare il genere umano verso un futuro di felicità e sofferenza minima, modificando la Realtà ogni volta che imbocca una direzione pericolosa.
Andrew Harlan è un Tecnico dell’Eternità: il suo scopo è quello di incaricarsi personalmente di modificare la Realtà quando necessario e valutare quale sia il Minimo Mutamento Necessario. Sulle sue spalle porta il peso di tutti i futuri cancellati, di tutte le persone mai nate o alterate dai suoi cambiamenti; le sue responsabilità l’hanno isolato, ma l’hanno anche indurito. Ma un giorno, Harlan conosce l’amore; e quando rischierà di perderlo, comincerà a mettere in discussione le sue scelte e la sua vita, e si renderà conto di avere nelle sue mani il destino di tutta l’Eternità.

Asimov è lo scrittore di fantascienza per antonomasia; e se negli Stati Uniti, quanto ha popolarità, ha un minimo di concorrenza, in Italia è di sicuro il più famoso, il più letto, quello che si prende più spazio negli scaffali di qualsiasi libreria. Quando ho aperto Tapirullanza, mi ero ripromesso di non parlare di Asimov: era mia intenzione portare alla luce autori o libri poco noti (o addirittura mai portati in Italia), non certo uno che conoscono tutti. Se oggi infrango questa promessa, è per venire incontro, una volta tanto, alle richieste dei miei lettori; d’altronde questo blog lo faccio anche per loro. Mi sono però riservato di scegliere uno dei romanzi meno noti di Asimov, un romanzo al di fuori dei suoi cicli più conosciuti (Cicli dei Robot, dell’Impero e della Fondazione). Un romanzo ingiustamente poco conosciuto, dato che è forse il suo più bello.
Non solo The End of Eternity parla di viaggi nel tempo, uno degli argomenti più fiki e difficili della sci-fi; è anche uno di quei pochi romanzi che cerca di spiegare la logica dei viaggi nel tempo, come si potrebbero fare, come si risolverebbero i paradossi. Non oserei chiamarla hard sci-fi, dato che c’è ben poco di fondato sulla fisica moderna; ma certo ci si avvicina quanto più possibile. Come molti altri romanzi di Asimov, inoltre, The End of Eternity è un mystery: un complicato rompicapo, pieno di colpi di scena e di indizi disseminati capitolo dopo capitolo fino all’allucinante risoluzione finale.

Viaggi nel tempo

Uno sguardo approfondito
Cominciamo con una nota di merito: nonostante l’intenzione di fare della speculazione seria sui viaggi nel tempo, e nonostante l’incredibile difficoltà concettuale dell’argomento, Asimov è riuscito a non trasformare il romanzo in un trattatone raccontato. Al contrario: al primo posto ci sono sempre il ritmo e la storia. Il romanzo comincia in medias res, con un Harlan incazzatissimo, che si è già macchiato di una serie di crimini nei confronti dell’Eternità, e che si appresta a ricattare un Sociologo dell’organizzazione per piegarlo ai suoi loschi fini. A partire dal secondo capitolo Asimov apre un flashback per spiegarci cosa sia successo al nostro eroe e come funzioni l’Eternità. Le due timeline continuano ad alternarsi fino a ricongiungersi attorno alla metà del libro; quindi la storia procede a ritmo serrato verso il finale.
La difficoltà principale del romanzo stava nel mantenere viva la storia senza spaesare il lettore con la complessità dell’ambientazione, e Asimov c’è riuscito almeno a metà. Innanzitutto, ha evitato la facile trappola della valanga di infodump e degli As you know, Bob. Gli infodump ci sono, è vero, ma quasi sempre vengono somministrati in piccole dosi e intervallati da scene mostrate e/o momenti d’azione. Inoltre non sembrano quasi mai innaturali, ma appaiono filtrati dai pensieri del protagonista-pov. Molte altre informazioni vengono fornite attraverso i dialoghi tra i personaggi, anche se alcuni di questi – e soprattutto il primo – sembrano a una prima lettura la fiera del technobabble, tra “complessi tensori alternati”, “cronocircoli” e Minimo Mutamento Necessario. Ma tenete duro, e capitolo dopo capitolo, tutta la terminologia e la logica dell’Eternità si chiariranno.

Aldilà dei flashback, la struttura di The End of Eternity è molto semplice. Il romanzo è scritto in terza persona ravvicinata e segue l’unico pov del protagonista. Lo stile è il solito “senza infamia e senza lode” di Asimov, semplice, senza fronzoli né lunghe descrizioni, e a metà tra il mostrato e il raccontato. Le emozioni del protagonista, il suo mondo interiore e i suoi obiettivi sono spesso raccontati, ma anche riflessi nei gesti, nelle azioni, nelle parole.
I dialoghi, in particolare, fanno la parte del leone; interi capitoli, soprattutto verso la fine del romanzo, sono composti interamente di botta e risposta tra due personaggi. Di norma non sopporterei un tale abuso del dialogo; ma i personaggi di Asimov sono sempre dei geni, e hanno così tante cose interessanti da dire e così tanti segreti e plot twist da svelare, che si leggono che è un piacere. Asimov eccelle in particolare nei battibecchi tra scienziati, un mondo che evidentemente conosceva bene – le piccole invidie, i tiri mancini, la lotta per gli avanzamenti di carriera – ma tutti i dialoghi del romanzo sono animati dal sacro fuoco del conflitto.

Complesso tensorio

Complesso tensorio. Non alternato.

Purtroppo non si può dire lo stesso dei personaggi. Harlan, come protagonista, aveva un grandissimo potenziale: un forte conflitto interiore (la lotta tra il rispetto per l’Eternità e le sue regole, il senso del dovere, e il bisogno di libertà, l’odio sotterraneo che gli fa venire voglia di infrangerle) e molteplici conflitti con i suoi colleghi e le autorità dell’Eternità. I Tecnici come Harlan sono condannati dalla società ipocrita dell’Eternità all’isolamento, perché nessuno vuole avere a che fare con chi si macchia personalmente le mani sovrascrivendo le vecchie Realtà con la nuova. E tuttavia Harlan non brilla, non vive di vita propria, ma rimane un protagonista funzionale.
Oltre all’approccio “raccontato” di Asimov, questo è probabilmente colpa del suo modo di scrivere, talmente plot-driven da eliminare praticamente tutto ciò che non muova l’intreccio principale o non porti alla risoluzione del rompicapo. Non vediamo mai Harlan in un momento intimo, quotidiano. Sappiamo dai suoi flashback che è un appassionato di Storia Primitiva – cioè di quella parte della storia umana precedente l’invenzione dell’Eternità, quell’unica parte che non può essere modificata – e la cosa tornerà utile più avanti nella storia (Asimov non inserisce mai un elemento per caso), ma non lo vediamo mai chiudersi nella sua stanza per sfogliare un National Geographic o una tragedia di Shakespeare.
Così anche gli altri personaggi, che esauriscono la loro umanità nel ruolo che hanno nella storia. Su tutti Noys, la bellissima donna del 482° Secolo per il cui amore Harlan si ribellerà contro l’Eternità, è piatta oltre ogni dire; la loro storia d’amore è meccanica e banale. L’unico personaggio davvero tridimensionale è forse Twissell, il venerabile Calcolatore Anziano, nonché mentore di Harlan: la sua mania di fumare sigarette, il suo nervosismo, il contrasto tra la sua aria senile e l’energia che ancora possiede, i suoi sbalzi d’umore nel corso del romanzo, lo rendono una persona viva. Menzione d’onore anche per un altro personaggio, estremamente secondario: Neron Feruque, il cinico Manipolatore di Vite che si lascia andare a considerazioni amare sulla cura anti-cancro.

Su tutto, però, trionfa la fantasia di Asimov; la sua abilità nel creare un’ambientazione carica di sense of wonder ma anche internamente coerente. Una delle assunzioni base del mondo di The End of Eternity, è che la Realtà sia dotata di inerzia: se apporto una piccola modifica, per esempio, al 50° secolo, questo cambiamento si ripercuoterà ed espanderà per un certo periodo di tempo – per esempio fino al 52° secolo – dopodiché si riappianerà gradualmente fino a che, raggiunto il 55° secolo, le due timeline si saranno reallineate. Questo rende possibile operare cambiamenti (miglioramenti!) circoscritti che non crescono esponenzialmente fino alla fine dei tempi, ma che rimangono “controllabili”. Un’altra assunzione, che ricorda la psicostoria della Fondazione e che mi fa letteralmente andare in fibrillazione, è che i comportamenti umani e le variazioni della Realtà siano studiabili matematicamente.
Di qui l’organizzazione dell’elite intellettuale dell’Eternità, che si divide in cinque gruppi: i Sociologi, che studiano la popolazione dei vari Secoli, confrontando fra loro le varie Realtà possibili, e valutano quando sarebbe desiderabile intervenire per migliorare la Realtà; i Calcolatori (Computers), che calcolano dove, quando e come operare per produrre il Minimo Mutamento Necessario; gli Osservatori, che visitano i secoli interessati per confermare empiricamente le analisi di Sociologi e Calcolatori; i Tecnici, che lo eseguono materialmente; e infine i Manipolatori di Vite (Life-Plotters, lett. Pianificatori di Vite, che mi piace anche di più), che studiano la vita di singoli esseri umani particolarmente importanti, per decidere come modificare la Realtà per migliorarli, dargli un destino diverso, o “salvarli” da un cambiamento della Realtà.

Ritorno al futuro

A viaggiare nel tempo va a finire sempre male.

I membri dell’Eternità devono vivere al di fuori dal Tempo perché devono interferire il meno possibile con la Realtà; sanno che ogni piccolo cambiamento può, in potenza, avere ripercussioni su tutta l’umanità per molti secoli a venire. Anche quando un Osservatore o un Tecnico devono entrare nel Tempo, i loro percorsi sono rigidamente pianificati per ridurre al minimo la loro influenza; devono tenere un bassissimo profilo, la loro libertà è nulla. Quando uno di loro viene prelevato dalla sua epoca – rigorosamente in tenera età – per essere addestrato a diventare un Eterno, la Realtà dev’essere modificata retrospettivamente per rimuovere la sua esistenza e quindi provocare il minimo trauma possibile. E’ come se l’Eterno non fosse mai esistito. Anche se reggono le sorti dell’umanità, gli Eterni vivono come degli esiliati, come dei monaci.
Di qui, Asimov trae tutta una serie di interrogativi filosofici che costituiscono il cuore pulsante del romanzo. Si va dai quesiti più tecnici-fantascientifici – come la risoluzione dei paradossi, dal “paradosso del nonno” alle conseguenze dell’incontrare sé stessi, all’inversione del rapporto causa-effetto – a interrogativi morali, come: è giusto che un pugno di geni diriga le sorti dell’umanità? E’ lecito giocare con la vita delle persone, riscrivendo intere epoche e ricreando infinite volte le storie e le vite del genere umano nel tentativo di migliorarle? Come fanno gli Eterni a sapere cosa è meglio per l’umanità? Il filosofo che è in voi (spero) qui troverà pane per i suoi denti.

La stessa Eternità è affascinante. E’ divisa in una serie di “stazioni”, una per ogni Secolo, e ciascuna adibita allo studio di quel Secolo; ci si sposta tra le stazioni tramite un veicolo azionato nientedimeno che attingendo all’energia sprigionata dal Sole quando nel remoto futuro sarà diventata una nova. Anche se l’Eternità si estende sino alla fine dell’esistenza della Terra, non tutti i secoli sono colonizzabili: quelli tra il 70.000 e il 150.000, chiamati Secoli Nascosti, sembrano essere stati sigillati dall’esterno. Dopo il 150.000 i Secoli sono di nuovo esplorabili, ma sulla Terra non c’è più vita umana. Ma gli Eterni, gravati dai problemi pratici del miglioramento dell’umanità e afflitti dai propri sensi di colpa, preferiscono non pensare a questi misteri.
Certo, anche qui Asimov si sarebbe potuto impegnare di più. Si vede sorprendentemente poco dell’Eternità e delle varie epoche visitate da Harlan. Le sue descrizioni sono quasi sempre minimaliste, e spesso si ha l’impressione che i personaggi si muovano in un ambiente “vuoto”. Allo stesso modo, Asimov si sofferma davvero poco sulla vita di Harlan e sulle sue occupazioni da Tecnico precedenti gli eventi centrali del romanzo. Gli anni che Harlan trascorre da Cucciolo, quando viene iniziato ai misteri dell’Eternità e prima che diventi un Osservatore, potevano essere interessantissimi; ma Asimov ci dedica una manciata di pagine riassunte. Uno dei pezzi meno ispirati del romanzo.

Time travel cat

Non è paradosso se lui non ti vede.

Questo è lo scotto della prosa “onesta” e funzionale di Asimov: da un lato abbiamo la centralità della trama e un ritmo veloce, e ci vengono risparmiati i manierismi letterari; ma dall’altro, i personaggi non emergono e un sacco di possibilità di fare bella narrativa vengono sprecate. The End of Eternity funziona alla perfezione su due piani: quello della risoluzione dell’enigma (che è molto elegante, con tutte le pistole di Ceckov disseminate da Asimov) e quello della speculazione filosofica; funziona poco invece su quello dell’immersività.
Fa niente. The End of Eternity rimane un romanzo geniale, e in assoluto la più bella storia sui viaggi nel tempo che abbia mai letto. E se in quasi sessant’anni questo romanzo, nel suo campo, rimane ancora imbattuto – be’, ci sarà un motivo. E poi, cazzo – tra i colpi di scena, Asimov è riuscito a infilarci pure Enrico Fermi!

Dove si trova?
The End of Eternity in lingua originale si trova in epub sia su Bookfinder che su Library Genesis. In italiano… be’, che ve lo dico a fare? E’ ovunque.

Su Asimov
Dedicare uno spazio ai libri di Asimov sembra stupido, ma in realtà c’è una manciata di libri di quest’autore che meritano, ma che vengono poco letti. Ecco allora una breve carrellata dei libri asimoviani che non appartengono ai cicli più famosi (Cicli dei Robot, dell’Impero e della Fondazione):
The Complete RobotThe Complete Robot (Tutti i miei robot) è una gargantuesca antologia che raccoglie tutti i racconti mai scritti da Asimov sul tema dei robot (ma che, con l’eccezione di un racconto, non appartengono al ciclo di Elijah Baley e Daneel R. Olivaw). Ci sono diversi racconti brutti o mediocri, specialmente all’inizio, ma anche un sacco di storie geniali – specialmente i racconti con Powell e Donovan e quelli con la robotologa Susan Calvin. Si tratta in genere di storie-rompicapo: dei gialli, enigmi, o problemi che ruotano attorno a un robot; il gusto di leggerli è il puro piacere intellettuale di scoprire la soluzione.
The Gods ThemselvesThe Gods Themselves (Neanche gli dei) è un fix-up di tre novelle vagamente correlate che ruotano attorno a un’ipotesi: come sarebbe fatto un universo in cui sia possibile l’esistenza dell’isotopo plutonio-186, e cosa succederebbe se entrasse in contatto col nostro mondo? Il risultato è la creazione di una delle razze aliene più affascinanti che abbia mai letto, creature a tre sessi che vivono in costante unione a tre a tre. La storia di una di queste triplette costituisce la novella centrale del romanzo; la prima tratta dell’accidentale scoperta in un laboratorio dell’esistenza dell’universo parallelo, mentre la terza trasporta l’azione sulla Luna. Il primo e il terzo racconto sono carini, ma non eccezionali come il secondo (anche se adoro il personaggio di Lamont!), e la distanza fra le tre storie rende la lettura sfilacciata e non del tutto soddisfacente. Vale comunque la pena di leggerlo.
NemesisNemesis parte dal presupposto che il nostro Sole abbia una stella compagna – una nana rossa chiamata appunto Nemesis – che in un remoto futuro passerà vicino al Sistema Solare, causandone la distruzione. Mentre, sotto la guida dell’autocrate Janus Pitt, una piccola colonia spaziale abbandona l’orbita della Terra per spostarsi nel sistema solare di Nemesis e avviare una nuova civiltà, i terrestri, guidati dal fisico Fisher, lavorano a un nuovo tipo di motore che renda possibile i viaggi interstellari. La storia – che intreccia minacce cosmiche, utopie isolazioniste, poteri esp, e un pianeta dotato di coscienza collettiva – sarebbe anche molto interessante, ma l’esecuzione è tiepida, e sembra che Asimov voglia tenere al minimo il livello di conflitto. Carino ma dimenticabile.

Qualche estratto
Ho scelto due brani del primo capitolo, per il semplice fatto che in quelli successivi l’ambientazione diventa sufficientemente complicata da non valere la pena di leggerli a muzzo. Il primo è l’incipit, e dà i dettagli essenziali sul protagonista e l’ambientazione mediante infodump; il secondo è il dialogo tra Harlan e il Sociologo Voy a cui avevo accennato nel corso della recensione. Non fatevi spaventare dal gergo!
La traduzione italiana tanto per cambiare sembra scritta da un dislessico.

1.
Andrew Harlan stepped into the kettle. Its sides were perfectly round and it fit snugly inside a vertical shaft composed of widely spaced rods that shimmered into an unseeable haze six feet above Harlan’s head. Harlan set the controls and moved the smoothly working starting lever.
The kettle did not move.
Harlan did not expect it to. He expected no movement; neither up nor down, left nor right, forth nor back. Yet the spaces between the rods had melted into a gray blankness which was solid to the touch, though nonetheless immaterial for all that. And there was the little stir in his stomach, the faint (psychosomatic?) touch of dizziness, that told him that all the kettle contained, including himself, was rushing upwhen through Eternity.
He had boarded the kettle in the 575th Century, the base of operations assigned him two years earlier. At the time the 575th had been the farthest upwhen he had ever traveled. Now he was moving upwhen to the 2456th Century.
Under ordinary circumstances he might have felt a little lost at the prospect. His native Century was in the far downwhen, the 95th Century, to be exact. The 95th was a Century stiffly restrictive of atomic power, faintly rustic, fond of natural wood as a structural material, exporters of certain types of distilled potables to nearly everywhen and importers of clover seed. Although Harlan had not been in the 95th since he entered special training and became a Cub at the age of fifteen, there was always that feeling of loss when one moved outwhen from “home.” At the 2456th he would be nearly two hundred forty millennia from his birthwhen and that is a sizable distance even for a hardened Eternal.
Under ordinary circumstances all this would be so.
But right now Harlan was in poor mood to think of anything but the fact that his documents were heavy in his pocket and his plan heavy on his heart. He was a little frightened, a little tense, a little confused.
It was his hands acting by themselves that brought the kettle to the proper halt at the proper Century.
Strange that a Technician should feel tense or nervous about anything. What was it that Educator Yarrow had once said:
“Above all, a Technician must be dispassionate. The Reality Change he initiates may affect the lives of as many as fifty billion people. A million or more of these may be so drastically affected as to be considered new individuals. Under these conditions, an emotional make-up is a distinct handicap.”
Harlan put the memory of his teacher’s dry voice out of his mind with an almost savage shake of his head. In those days he had never imagined that he himself would have the peculiar talent for that very position. But emotion had come upon him after all. Not for fifty billion people. What in Time did he care for fifty billion people? There was just one. One person.
He became aware that the kettle was stationary and with the merest pause to pull his thoughts together, put himself into the cold, impersonal frame of mind a Technician must have, he stepped out. The kettle he left, of course, was not the same as the one he had boarded, in the sense that it was not composed of the same atoms. He did not worry about that any more than any Eternal would. To concern oneself with the mystique of Time-travel, rather than with the simple fact of it, was the mark of the Cub and newcomer to Eternity.

 Andrew Harlan entrò nel veicolo sferico inserito in un pozzo verticale fatto di sbarre regolarmente distanziate, che più in alto, a circa due metri sulla sua testa, sembravano tremolare in un alone sfuocato. Harlan mise in moto i comandi e azionò la leva d’avviamento, facendola scivolare facilmente.
Il veicolo non si mosse, e del resto Harlan non se lo aspettava. Non si aspettava nessun movimento, né a sinistra né a destra, né in alto né in basso, ma lo spazio fra una sbarra e l’altra si trasformò in un grigiore indistinto, solido al tatto e tuttavia immateriale. Poi Harlan sentì un leggero senso di nausea, una vertigine (psicosomatica?) indice che la sfera e tutto ciò che conteneva – lui compreso – stava sfrecciando in avanti lungo il flusso dell’Eternità.
Harlan era salito a bordo nel 575° Secolo, che era la base di operazione assegnatagli due anni prima, massimo punto da lui raggiunto nell’Eternità, ma ora doveva salire al 2456°.
In circostanze normali si sarebbe sentito forse un po’ smarrito a quest’idea. Il suo secolo natale era molto più indietro, il 99° per essere precisi, un secolo rustico in cui l’energia atomica era proibita: un secolo che preferiva il legno naturale come materiale da costruzione e che esportava ovunque alcuni tipi di liquidi potabili distillati, importando semi di trifoglio. Sebbene Harlan non fosse più tornato nel 95° dopo che era stato arruolato per la sua istruzione e che era diventato Cadetto a quindici anni, provava sempre una sensazione di nostalgia quando si allontanava millenni dal punto natale: era una distanza considerevole anche per un Eterno incallito.
Già, in circostanze normali sarebbe stato proprio così… Ma, in quel momento, Harlan non era in grado di pensare ad altro se non ai documenti che gli pesavano in tasca.
Era un po’ spaventato, un po’ teso e confuso, e le sue mani mossero macchinalmente le leve adatte perché il veicolo si fermasse nel secolo voluto.
Era davvero strano che un Tecnico si sentisse teso o nervoso, perché, come aveva detto una volta l’istruttore Yarrow, “un Tecnico deve sopra ogni cosa essere privo di sentimenti. I cambiamenti di Realtà che egli attua possono incidere sulla sorte di cinquanta miliardi di individui, un miliardo o più dei quali possono venire danneggiati così gravemente da non potersi più considerare le stesse persone. In tali condizioni il sentimento è un ostacolo gravissimo.”
Harlan scosse la testa con forza, come per scacciare il ricordo della voce dell’istruttore. A quei tempi non avrebbe mai pensato di essere vulnerabile alle emozioni… e invece ne era stato sopraffatto. E non per quello che aveva o non aveva fatto a cinquanta miliardi di individui, no. Per il Tempo, a lui che gliene importava? Quello che gli capitava era dovuto a una sola persona. A una sola1.
S’accorse che il veicolo era fermo, e, dopo aver indugiato la frazione di secondo che era necessaria ad assumere la personalità fredda e distaccata del Tecnico, uscì. Naturalmente, l’apparecchio da cui era sceso non era lo stesso su cui era salito, nel senso che non era composto degli stessi atomi, ma Harlan non perse neppure un attimo a soffermarsi su quest’idea. Del resto, nessun Eterno si sarebbe mai sognato di farlo, perché meditare sulla mistica del Viaggio nel Tempo, piuttosto che sui nudi fatti, era il marchio del Cadetto, del novizio dell’Eternità.

2.
Harlan kept one arm across the back of his chair, the other in his lap. He must let neither hand drum restless fingers. He must not bite his lips. He must not show his feelings in any way.
Ever since the whole orientation of his life had so changed itself, he had been watching the summaries of projected Reality Changes as they passed through the grinding administrative gears of the Allwhen Council. As Senior Computer Twissell’s personally assigned Technician, he could arrange that by a slight bending of professional ethics. Particularly with Twissell’s attention caught ever more tightly in his own overwhelming project. (Harlan’s nostrils flared. He knew now a little of the nature of that project.)
Harlan had had no assurance that he would ever find what he was looking for in a reasonable time. When he had first glanced over projected Reality Change 2456–2781, Serial Number V-5, he was half inclined to believe his reasoning powers were warped by wishing. For a full day he had checked and rechecked equations and relationships in a rattling uncertainty, mixed with growing excitement and a bitter gratitude that he had been taught at least elementary psycho-mathematics.
Now Voy went over those same puncture patterns with a half-puzzled, half-worried eye.
He said, “It seems to me; I say, it seems to me that this is all perfectly in order.”
Harlan said, “I refer you particularly to the matter of the courtship characteristics of the society of the current Reality of this Century. That’s sociology and your responsibility, I believe. It’s why I arranged to see you when I arrived, rather than someone else.”
Voy was now frowning. He was still polite, but with an icy touch now. He said,
“The Observers assigned to our Section are highly competent. I have every certainty that those assigned to this project have given accurate data. Have you evidence to the contrary?”
“Not at all, Sociologist Voy. I accept their data. It is the development of the data I question. Do you not have an alternate tensorcomplex at this point, if the courtship data is taken properly into consideration?”
Voy stared, and then a look of relief washed over him visibly. “Of course, Technician, of course, but it resolves itself into an identity. There is a loop of small dimensions with no tributaries on either side. I hope you’ll forgive me for using picturesque language rather than precise mathematical expressions.”
“I appreciate it,” said Harlan dryly. “I am no more a Computer than a Sociologist.”
“Very good, then. The alternate tensor-complex you refer to, or the forking of the road, as we might say, is non-significant. The forks join up again and it is a single road. There was not even any need to mention it in our recommendations.”
“If you say so, sir, I will defer to your better judgment. However, there is still the matter of the M.N.C.”
The Sociologist winced at the initials as Harlan knew he would. M.N.C.–Minitnum Necessary Change. There the Technician was master. A Sociologist might consider himself above criticism by lesser beings in anything involving the mathematical analysis of the infinite possible Realities in Time, but in matters of M.N.C. the Technician stood supreme.
Mechanical computing would not do. The largest Computaplex ever built, manned by the cleverest and most experienced Senior Computer ever born, could do no better than to indicate the ranges in which the M.N.C. might be found. It was then the Technician, glancing over the data, who decided on an exact point within that range. A good Technician was rarely wrong. A top Technician was never wrong.
Harlan was never wrong.
“Now the M.N.C. recommended,” said Harlan (he spoke coolly, evenly, pronouncing the Standard Intertemporal Language in precise syllables), “by your Section involves induction of an accident in space and the immediate death by fairly horrible means of a dozen or more men.”
“Unavoidable,” said Voy, shrugging.
“On the other hand,” said Harlan, “I suggest that the M.N.C. can be reduced to the mere displacement of a container from one shelf to another. Here!” His long finger pointed. His white, well-cared-for index nail made the faintest mark along one set of perforations.
Voy considered matters with a painful but silent intensity.
Harlan said, “Doesn’t that alter the situation with regard to your unconsidered fork? Doesn’t it take advantage of the fork of lesser probability, changing it to near-certainty, and does that not then lead to–”
“–to virtually the M.D.R.” whispered Voy.
“To exactly the Maximum Desired Response,” said Harlan.

Harlan appoggiò un braccio sullo schienale della sedia, l’altro in grembo. Doveva impedirsi di tamburellare le dita, di mordersi le labbra, di mostrare insomma i suoi sentimenti.
Da quando la sua vita era cambiata, si era fatto scrupolo di esaminare tutti i progetti di Mutamento di Realtà che passavano attraverso il pesante filtro amministrativo del Consiglio di Tutti i Tempi. In qualità di Tecnico assegnato personalmente al Calcolatore Anziano Twissell, Harlan era in grado di guardare quei documenti con una leggerissima forzatura dell’etica professionale, specie ora che Twissell era tutto preso nel suo colossale progetto. (Le narici di Harlan si dilatarono, perché aveva appena scoperto qualcosa sulla natura del progetto.)
Tuttavia non aveva nessuna certezza che sarebbe riuscito a trovare quello che gli premeva in un tempo ragionevole. La prima volta che aveva guardato il progetto di Mutamento della Realtà 2456-2781, numero di serie V-5, aveva pensato che le sue facoltà mentali fossero appannate dal pregiudizio. Per un’intera giornata aveva controllato e ricontrollato equazioni e rapporti con crescente incertezza, mista a eccitazione e all’amara soddisfazione di aver studiato almeno un po’ di psicomatematica.
Ora Voy esaminava gli stesi schemi temporali con un’aria fra il sorpreso e il corrucciato.
Alla fine disse: “Mi sembra, dico mi sembra, che sia tutto in perfetto ordine.”
Harlan replicò: “Alludo in modo particolare alla questione del corteggiamento secondo i costumi di questo secolo. La sociologia è il tuo campo, credo, e per questo ho fatto in modo di parlare con te appena arrivato.”
Voy aveva la fronte aggrottata. “Gli Osservatori assegnati alla nostra Sezione” ribatté sempre educato, ma più freddo di prima, “sono abilissimi, e sono certo che quelli assegnati alla questione dell’innamoramento hanno inviato dati precisi. Hai le prove del contrario?”
“No, Sociologo Voy. Accetto per buoni i loro dati. La mia perplessità si riferisce alla loro elaborazione. Se le informazioni sul corteggiamento vengono prese nella giusta considerazione, non si profila un complesso tensorio alternato?”
Voy parve subito sollevato: “Certo, certo, Tecnico, ma si risolve in un’identità. Siamo in presenza di un cronocircolo vizioso di piccole dimensioni, senza tributari nell’una o nell’altra direzione. Spero che scuserai il mio linguaggio pittoresco al posto delle equazioni…”
“Lo apprezzo” disse seccamente Harlan, “perché non sono un Calcolatore, proprio come non sono un Sociologo.”
“Molto bene, allora. Questo secondo complesso-tensorio, che potremmo paragonare a una biforcazione, è insignificante. Poco dopo, la diramazione storica sfocia di nuovo nella strada maestra. Perciò non è stata menzionata nei nostri dati.”
“Molto bene, mi inchino di fronte al tuo parere. Tuttavia c’è ancora la questione del M.M.N.”
Il Sociologo fece una smorfia nel sentir pronunciare quelle iniziali, e Harlan se l’era aspettato. M.M.N., Minimo Mutamento Necessario, la formula che spalancava le porte al regno dei Tecnici. Un Sociologo poteva sentirsi superiore a molti, per cò che riguardava l’analisi matematica delle infinite Realtà possibili nel Tempo, ma in materia di M.M.N. il Tecnico era l’autorità suprema.
I computer non servivano a niente, in questo campo: il più grande Computaplex che fosse mai costruito, ideato dal più intelligente ed esperto Calcolatore Anziano, non poteva far altro che indicare la portata in cui era possibile trovare il M.M.N. Ma era il Tecnico che, dopo aver esaminato i dati, decideva il punto esatto. Un buon Tecnico sbagliava di rado, un Tecnico ottimo, mai.
Harlan non sbagliava mai.
“Ora, il M.M.N. prospettato dalla vostra Sezione” disse Harlan, pronunciando con fredda esattezza le parole in Lingua Standard Intertemporale, “comporta un incidente nello spazio seguito dalla morte orribile e immediata di una dozzina di uomini, forse più.”
“Inevitabile” disse Voy, stringendosi nelle spalle.
“E invece io dico che le conseguenze del Mutamento possono essere ridotte allo spostamento di un recipiente da uno scaffale all’altro. Tutto qui!” Harlan puntò il dito indice, e l’unghia ben curata sfiorò una serie di forellini sul documento aperto sopra il tavolo.
Voy considerò la questione in silenzio e con serietà.
Harlan disse: “Non vedi come cambia la situazione? Non ti accorgi che c’è una diramazione che non avete considerato? E tutto questo, non si risolve in un cambiamento veramente infinitesimale, non ci avvicina alla quasi-certezza del…”
“…M.R.P.” finì per lui il Sociologo.
“Proprio così, il Miglior Risultato Possibile” disse Harlan.

Tabella riassuntiva

Il viaggio nel tempo affrontato in modo rigoroso e affascinante. Personaggi piatti e troppo raccontati.
Ritmo serrato e narrazione plot-driven. Descrizioni approssimative e poco immersive.
Acchiappante costruzione ‘a enigma’ e colpi di scena a non finire. Intrighi politici “raccontati” e difficili da seguire.

(1) In genere me ne sto zitto sulle traduzioni, ma questa frase è troppo. L’originale dice semplicemente: “There was just one. One person”, ossia “Ce n’era solo una. Una persona”. Vale a dire che a Harlan importava solo una di una persona (e non dei miliardi sopraddetti), non che “quello che gli capitava era colpa di una sola persona”.Torna su

I Consigli del Lunedì #28: The Windup Girl

The Windup GirlAutore: Paolo Bacigalupi
Titolo italiano: –
Genere: Science Fiction / Social SF / Distopia / Politico / Biopunk
Tipo: Romanzo

Anno: 2009
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 361

Difficoltà in inglese: ***

In un XXIII secolo povero e decadente, vittima di una serie di virus artificiali andati fuori controllo, che hanno decimato il genere umano e spazzato via la gran parte della flora, il Regno di Thai lotta per la sopravvivenza. L’innalzamento delle acque ha spazzato via molte delle antiche megalopoli, e Bangkok, capitale del regno, è sopravvissuta solo grazie ad un miracolo ingegneristico: una barriera circolare alta duecento piedi che impedisce all’acqua di entrare. Assediata dall’oceano e dalle calorie companies, multinazionali della bioingegneria che ricreano organismi del passato per poi brevettarli e rivenderli, Bangkok deve la sua sopravvivenza alla custodia segreta di una ricca banca di sementi – su cui ora gli stranieri vogliono mettere le mani.
Ma ora la ripresa economica rischia di travolgere l’isolazionismo thailandese. In una Bangkok dagli equilibri politici sempre più fragili, si muovono quattro personaggi: Anderson Lake, calorie man in missione segreta per trovare la banca dei semi e far penetrare la sua compagnia nel paese; Hock Seng, profugo cinese che ha perso tutto e con la determinazione di tornare in alto; Jaidee, capitano del potente Ministero dell’Ambiente, ex campione di muay thai e flagello dei contrabbandieri; ed Emiko, la ragazza caricata a molla, abbandonata dal suo padrone giapponese e costretta a servire in uno strip club e a sopportare ogni sevizia. Chi resterà in piedi attraverso gli sconvolgimenti che stanno per abbattersi sulla città?

La prima volta che sentii parlare di The Windup Girl, e del fatto che aveva vinto il Premio Hugo nel 2009, mi dissi: “No! Non è possibile! Un italiano?”. E infatti non era possibile: Bacigalupi è un americano dalla testa ai piedi, nato e cresciuto nell’insulso stato del Colorado. Non sono il primo blogger italiano a recensire il romanzo di Baciglupi – per esempio, Mr. Giobblin ne ha parlato quasi un anno fa. Ma quando un romanzo è veramente bello (e poco conosciuto qui da noi), è giusto pubblicizzarlo; e poi, spero di dire qualcosa in più oltre a quanto è già stato detto.
The Windup Girl è un raro esempio del sottogenere Biopunk, un cugino più giovane del Cyberpunk in cui il fulcro dell’innovazione tecnologica non è più il cyberspazio né la robotica, ma l’ingegneria genetica. Si sintetizzano nuove piante e animali in laboratorio, e si modifica il genoma umano per creare delle nostre varianti – i windup. The Windup Girl è anche un romanzo corale, in cui si alternano le avventure (e i pov) di quattro (…cinque?) personaggi diversi. E’ un’opera prima molto ambiziosa. Ce l’avrà fatta?

Bob-omb

La nuova razza che soppianterà la specie umana?

Uno sguardo approfondito
The Windup Girl mette a nudo sia i pregi che i difetti del romanzo corale. La scelta di alternare i punti di vista di quattro personaggi diversi può essere inizialmente spaesante e anti-immersivo, e in effetti nelle prime 50-60 pagine il ritmo del romanzo è piuttosto blando. Man mano che si procede nella lettura, però, le vite dei quattro personaggi cominciano a intrecciarsi – il lettore comincia a parteggiare per l’uno o per l’altro, a chiedersi chi la spunterà e chi farà una brutta fine, e insomma, mettere giù il libro diventa sempre più difficile. Superato il primo quarto, il romanzo decolla.
Molti premi attendono lo scrittore che sappia sfruttare il potenziale del romanzo corale. I livelli di conflitto si moltiplicano: si prova empatia per personaggi che hanno interessi e obiettivi diversi, e che spesso tenteranno di farsi la pelle a vicenda.
Prendiamo Anderson, il protagonista: è il primo pov del romanzo, il personaggio attraverso cui esploriamo per la prima volta Bangkok. Difficile non identificarsi in lui e appassionarci alla sua missione, provare dolore e sconforto ogni volta che un nuovo ostacolo si frappone tra lui e il segreto della banca dati, e una punta di entusiasmo per ogni piccolo successo; ma al contempo, la parte più critica di noi ci ricorda che Anderson è uno stronzo, interessato solo a far penetrare la sua compagnia nell’economia thailandese e disposto a fare terra bruciata di qualsiasi ostacolo. E per la cronaca, le calorie companies sono veramente delle merde: una volta sintetizzate o acquisite nuove piante, le brevettano per vietare la libera distribuzione, dopodiché vendono ai governi sementi a tempo che diventano sterili dopo X raccolti e devono essere comprate di nuovo (delle specie di sementi con DRM!). I nostri giudizi morali sono ulteriormente complicati dal fatto che un altro dei personaggi-pov, il capitano Jaidee, è il più agguerrito avversario delle calorie company e di Anderson – e nel corso del romanzo farà di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote.

Attraverso gli occhi dei quattro personaggi-pov, possiamo vedere sfaccettature diverse della città, ed esplorare gli stessi macroconflitti da punti di vista diversi. Attraverso Anderson vediamo le fabbriche di molle a torsione, la difficile accoglienza che i farang stranieri hanno nel regno, il quartiere dei calorie men dove si passa il tempo a bere e a maledire gli apatici thai. Col punto di vista di Hock Seng viviamo la miseria dei profughi, i più fortunati dei quali – come lui – vivono in cubicoli di lamiera, mentre le masse di immigrati malesi stanno rinchiuse nei piani alti dei grattacieli abbandonati e senza energia elettrica. Attraverso Jaidee e il tenente Kayla entriamo nelle vastità labirintiche, ma sulla via del degrado, del Ministero dell’Ambiente, mentre con Emiko visitiamo il mondo notturno dei night club, dove gli uomini più irreprensibili, che in pubblico condannano le ragazze a molla come un’aberrazione contronatura, si abbandonano a nuove perversioni. E il mondo di Bangkok appare incredibilmente vivo e tridimensionale.

Semi

Semi: godeteveli prima che diventino sterili. E ovviamente non potete prestarli in giro: sarebbe la morte della bioingegneria creativa.

In The Windup Girl si respira la stessa atmosfera dei romanzi coloniali di Conrad, Kipling, Orwell, condita da un tocco fantascientifico. I mercati rionali all’ombra dei grattacieli abbandonati, che da un giorno all’altro possono essere invasi da nuovi frutti di cui nessuno ha mai sentito parlare; i megadonti, enormi elefanti che trasportano merci per le strade della città e fanno girare perni giganteschi nelle fabbriche di molle supertorcenti; l’ostilità passiva dei nativi verso gli stranieri, che si manifesta nell’apatia, nell’inefficienza, in mille piccoli sabotaggi, e nello strapotere dei sindacati coordinati dal Signore dello Sterco; la venerazione dei thai per la gerarchia e i loro complicati rituali di sottomissione e di umiliazione.
Ora, io non so niente della cultura thai, e non so quanto questo ritratto di una Thailandia del XXIII sia verosimile. Ciononostante, l’affresco di Bacigalupi è incredibilmente convincente; si ha l’impressione di una civiltà simile e al tempo stesso aliena a quella occidentale, intrisa di quel confucianesimo che fa tanto Estremo Oriente. Questo tra l’altro dovrebbe infilare una patata in bocca a quei geni che portano alle estreme conseguenze la massima “scrivi di ciò che sai” e affermano che si possa parlare solo della propria terra e della propria cultura 1.
Certo, Bacigalupi a volte esagera. Per esempio nell’abuso di termini stranieri. Anche questo è un tratto preso dai maestri del romanzo coloniale – molti romanzi di Conrad sono punteggiati di termini come farang o rajah – ed è utile a dare un tocco esotico all’ambientazione. Ma poi Bacigalupi se ne esce con periodi come questi:

All around her, clotheslines draped with rustling pha sin and trousers rustle in the sea breeze. The sun is sinking, glistening from the tip of wats and chedi. The water of the khlongs and the Chao Praya glistens.

OMG! Datti una calmata!
Ma per fortuna questi eccessi sono rari.

Se la Bangkok di Bacigalupi è così immersiva, comunque, il merito sta anche in un’ottima gestione del mostrato. Tutto è sempre filtrato attraverso il personaggio-pov del momento, il narratore onnisciente non si inserisce mai; e ogni capitolo ha un unico pov, così da evitare confusione. Gli infodump, che pure non mancano, sono resi più digeribili perché introdotti come pensieri o flashback dei personaggi. Questo non impedisce che, soprattutto all’inizio, ci si senta un po’ spaesati e soffocati dalla mole di informazioni, e che a volte gli infodump appaiano innaturali; ma il risultato finale rimane più che buono. Soprattutto si evita di cadere nell’eccesso opposto, quello del primo Swanwick: un lettore completamente spaesato perché continuamente privato di informazioni.

Thaitanic

The Windup Girl presenta anche uno degli intrighi politici più realistici e intelligenti che abbia mai letto. La storia è sempre la stessa, e sembra echeggiare le simpatiche avventure coloniali di Gran Bretagna e Stati Uniti nella Cina dell’Ottocento: da una parte, le calorie companies del Midwest Compact vogliono imporre al Regno di Thai una piena libertà di commercio; dall’altra, il governo thailandese sa di essere scampato alla rovina che ha travolto l’Asia proprio grazie alla loro politica isolazionista. Ma le cose sono più complicate di così: un governo non è mai compatto, e ciascuna corrente tenta di fare i propri interessi e imporsi sull’altra…
Lo scenario politico è quantomai complicato, e nel primo quarto del libro seguire il filo dei complotti è piuttosto faticoso. Bacigalupi cade nel solito, facile errore di introdurre le fazioni politiche prima come nomi volanti e solo successivamente come volti ben riconoscibili. Ma a differenza di quanto accadeva in The Difference Engine, queste fazioni a un certo punto prendono corpo, e di lì in poi le cose si fanno veramente appassionanti. Le forze economiche di scala globale, i complotti politici locali, la forza di singoli uomini forti capitati nel posto giusto al momento giusto: Bacigalupi tiene conto di tutto, e il risultato è spettacolare. C’è anche spazio per qualche plot twist, e qualche azione straordinaria che difficilmente potrebbe accadere nel nostro mondo prosaico; ma il tutto inserito in una cornice di estrema credibilità.

E il sense of wonder fantascientifico? C’è anche quello, benché in misura ridotta. Nei romanzi di Bacigalupi gli elementi fantastici sono tenuti al minimo e subordinati a un’ambientazione che pare quasi mainstream, il che è un’ottima scelta, considerata la sua attenzione al realismo e quanta carne al fuoco ci sia. In ogni caso, la ragazza a molla del titolo regala diverse piccole sorprese nel corso del romanzo – alcune più telefonate, altre meno. Nonché diversi spunti affascinanti sulla selezione darwiniana e sul futuro evolutivo della nostra specie.
La tecnologia della Bangkok del XXIII secolo, però, mi suscita qualche perplessità. E dato che non sono il solo, preferisco far parlare il blogger Vanamonde, che ha studiato ingegneria e sicuramente ci capisce più di me. Cito dalla sua recensione:

La principale critica che muovo a The Windup Girl è di natura tecnologica. Per quanto il mondo evocato dal romanzo sia coerente e affascinante, l’ingegnere che è in me ha diverse obiezioni. Per cominciare, in caso di esaurimento del petrolio mi aspetterei un fortissimo incremento nell’utilizzo di fonti rinnovabili di energia. In particolare, un Paese costiero e tropicale come la Thailandia potrebbe sfruttare con grande efficienza il solare, l’eolico, le maree o il gradiente di salinità. Nulla di tutto ciò avviene nel romanzo, dove si utilizzano centrali termoelettriche a carbone dove indispensabile, e per il resto ci si arrangia con energia di origine umana o animale. Si gira una manovella persino per far funzionare una radiolina portatile, roba che anche oggigiorno potrebbe funzionare a energia solare. Una simile assenza di energie alternative è inspiegabile, tanto più che il livello tecnologico è rimasto elevato, e si vedono numerosi esempi di nuovi materiali.
Anche l’utilizzo di energia animale all’interno della produzione industriale (in particolare con l’uso di elefanti geneticamente modificati, detti megodonti) fa molto colore, ma sfugge alle regole della logica. Un elefante “funziona” a biomassa. Per quanto possa essere efficiente, la stessa biomassa che gli si dà come foraggio potrebbe essere trasformata in alcool e usata per far funzionare un motore, che occupa meno spazio di un elefante, non deve riposare, non sporca, non si ammala, richiede meno supervisione umana, e probabilmente ha anche un rendimento migliore in termini di sfruttamento delle calorie.
Del tutto assurdo poi è il fatto che l’energia venga immagazzinata sotto forma meccanica, torcendo molle ad altissima resistenza: chi ha disinventato dinamo, alternatore, accumulatore, batteria e motore elettrico?
Insomma, l’impressione è che Bacigalupi nel creare il suo mondo si sia fatto guidare più dal potenziale simbolico delle situazioni (ogni cosa appare “caricata a molla”, inclusa la ragazza artificiale che è il fulcro della vicenda) che non da un’analisi scientificamente ed economicamente solida. Il che, per un romanzo che tratta un tema così attuale come la scarsità di energia, a me pare un difetto non da poco.

Auto a molla

Ehm, NO.

Detto questo, The Windup Girl rimane a mio avviso un capolavoro. Per ritmo, per complessità dei personaggi, per la ricchezza dell’ambientazione, per il realismo della storia, per ambiguità morale. Bangkok è una città sporca, carica di ingiustizia, di doppiezza e di opportunismo; e nessun personaggio, neanche i più teoricamente “puri”, ne uscirà pulito. E il finale è uno spettacolo.
Ci sarebbero così tante altre cose da dire – ma mi fermo qui, che sennò Dunseny dice che spoilero tutto. Non so se The Windup Girl diventerà un classico della fantascienza, ma dovrebbe diventarlo. Se lo merita. In ogni caso, è diventato uno dei miei romanzi preferiti, schizzando dritto alla tredicesima posizione!

Su Bacigalupi
Paolo Bacigalupi è entrato molto di recente nel panorama fantascientifico americano – ad eccezione dei suoi racconti, che vanno indietro fino al 1999, il suo primo romanzo è del 2009 – ma da allora sta sfornando un libro all’anno. Oltre a The Windup Girl, ne ho letti altri due:
Ship Breaker Ship Breaker, ambientato sulle coste di una Louisiana devastata e impoverita, racconta la storia delle ciurme di braccianti che si guadagnano da vivere smontando i pezzi delle petroliere arenate sulla spiaggia. I protagonisti sono un gruppo di ragazzini che penetrano nei piccoli pertugi delle navi per saccheggiare filo di rame e per conto dei grandi; ma la loro vita d’inferno cambierà quando, in seguito a una tempesta, si imbatteranno nel relitto di un ricco clipper. Il libro è targato come Young Adult, ma di sicuro è uno degli YA più crudi, cinici e onesti in cui mi sia mai imbattuto. Anche qui, l’elemento fantascientifico è molto contenuto.
The Alchemist The Alchemist è una novella fantasy ambientata in un mondo in cui, ogni volta che si casta una magia, da qualche parte nascono rovi indistruttibili. Gran parte del mondo conosciuto è stato inghiottito dai rovi, e ora la magia è bandita; ma gli incantesimi sono troppo utili per la gente, che continua a usarli di nascosto, e i rovi continuano a moltiplicarsi. E quando un alchimista trova un metodo per distruggerli, i signori della città decideranno di piegare la sua scoperta ai loro fini… Il mondo di The Alchemist avrebbe un ottimo potenziale, ma Bacigalupi ci scrive sopra una novella un po’ insipida, scritta così così e coi ritmi sbagliati. Puzza di commercialata, dato che è uscito in coppia con un’altra novellaThe Executioness di Tobias Buckell – con la stessa ambientazione e la stessa premessa di base.
In futuro leggerò sicuramente altro di Bacigalupi – a partire da Pump Six and Other Stories, antologia che raccoglie tutti i racconti da lui scritti fino al 2008. Un po’ mi stuzzica anche Drowned Cities, il suo ultimo romanzo; è un altro Young Adult, ma visto il buon lavoro fatto con Ship Breaker

Dove si trovano?
Su Bookfinder si trovano, in epub e pdf, tutti i libri di Bacigalupi, con l’eccezione di The Alchemist e del recente Drowned Cities; su Library Genesis si trova anche The Alchemist. Ad oggi non mi risulta che alcuno dei suoi libri sia mai stato tradotto in italiano, quindi a chi non sa l’inglese ciccia.

Chi devo ringraziare?
Le prime curiosità verso The Windup Girl mi sono venute grazie alla lettura incrociata della recensione di Mr. Giobblin e di quella di Vanamonde. Ma questi articoli, da soli, non sarebbero bastati a fugare tutti i miei dubbi. Il merito principale va invece a Siobhàn, che ha letto il libro prima di me e mi ha assicurato che mi sarebbe piaciuto un botto. Be’, aveva ragione! ^-^

Bangkok

Qualche estratto
Per il primo estratto, non potevo esimermi dallo scegliere la presentazione della città di Bangkok attraverso gli occhi gelidi di Anderson Lake. Il secondo estratto è preso dalla prima apparizione di Emiko, ed è una breve panoramica del personaggio e delle sue quotidiane esibizioni al night club di Raleigh. Per sapere come vanno a finire le sue sexy disavventure, pigliatevi il libro!

1.
The cigarette’s burning tip reaches Anderson’s fingers. He lets it fall into traffic. Rubs his singed thumb and index finger as Lao Gu pedals on through the clogged streets. Bangkok, City of Divine Beings, slides past.
Saffron-robed monks stroll along the sidewalks under the shade of black umbrellas. Children run in clusters, shoving and swarming, laughing and calling out to one another on their way to monastery schools. Street vendors extend arms draped with garlands of marigolds for temple offerings and hold up glinting amulets of revered monks to protect against everything from infertility to scabis mold. Food carts smoke and hiss with the scents of frying oil and fermented fish while around the ankles of their customers, the flicker-shimmer shapes of cheshires twine, yowling and hoping for scraps.
Overhead, the towers of Bangkok’s old Expansion loom, robed in vines and mold, windows long ago blown out, great bones picked clean. Without air conditioning or elevators to make them habitable, they stand and blister in the sun. The black smoke of illegal dung fires wafts from their pores, marking where Malayan refugees hurriedly scald chapatis and boil kopi before the white shirts can storm the sweltering heights and beat them for their infringements.
In the center of the traffic lanes, northern refugees from the coal war prostrate themselves with hands upstretched, exquisitely polite in postures of need. Cycles and rickshaws and megodont wagons flow past them, parting like a river around boulders. The cauliflower growths of fa’ gan fringe scar the beggars’ noses and mouths. Betel nut stains blacken their teeth. Anderson reaches into his pocket and tosses cash at their feet, nodding slightly at their wais of thanks as he glides past.
A short while later, the whitewashed walls and alleys of the farang manufacturing district come into view. Warehouses and factories all packed together along with the scent of salt and rotting fish. Vendors scab along the alley lengths with bits of tarping and blankets spread above to protect them from the hammer blast of the sun. Just beyond, the dike and lock system of King Rama XII’s seawall looms, holding back the weight of the blue ocean.
It’s difficult not to always be aware of those high walls and the pressure of the water beyond. Difficult to think of the City of Divine Beings as anything other than a disaster waiting to happen. But the Thais are stubborn and have fought to keep their revered city of Krung Thep from drowning. With coal-burning pumps and leveed labor and a deep faith in the visionary leadership of their Chakri Dynasty, they have so far kept at bay that thing which has swallowed New York and Rangoon, Mumbai and New Orleans.

2.
Emiko traces her fingers through the wetness of bar rings. Warm beers sit and sweat wet slick rings, as slick as girls and men, as slick as her skin when she oils it to shine, to be soft like butter when a man touches her. As soft as skin can be, and perhaps more so, because even if her physical movements are all stutter-stop flash-bulb strange, her skin is more than perfect. Even with her augmented vision she barely spies the pores of her flesh. So small. So delicate. So optimal. But made for Nippon and a rich man’s climate control, not for here. Here, she is too hot and sweats too little.
[…] Kannika grabs her by the hair.
Emiko gasps at the sudden attack. She searches for help but none of the other patrons are interested in her. They are watching the girls on stage. Emiko’s peers are servicing the guests, plying them with Khmer whiskey and pressing their bottoms to their laps and running their hands over the men’s chests. And anyway, they have no love for her. Even the good-hearted ones—the ones with jaidee, who somehow manage to care for a windup like herself—will not step in.
Raleigh is talking with another gaijin, smiling and laughing with the man, but his ancient eyes are on Emiko, watching for what she will do.
Kannika yanks her hair again. “Bai!”
Emiko obeys, climbing down from her bar stool and tottering in her windup way toward the circle stage. The men all laugh and point at the Japanese windup and her broken unnatural steps. A freak of nature transplanted from her native habitat, trained from birth to duck her head and bow.
Emiko tries to distance herself from what is about to happen. She is trained to be clinical about such things. The crèche in which she was created and trained had no illusions about the many uses a New Person might be put to, even a refined one. New People serve and do not question. She moves toward the stage with the careful steps of a fine courtesan, stylized and deliberate movements, refined over decades to accommodate her genetic heritage, to emphasize her beauty and her difference. But it is wasted on the crowd. All they see are stutter-stop motions. A joke. An alien toy. A windup.
They have her strip off her clothes.
Kannika flicks water onto her oiled skin. Emiko glistens with water jewels. Her nipples harden. The glow worms twist and writhe overhead, sending out phosphorescent mating light. The men laugh at her. Kannika slaps her hip and makes her bow. Slaps her ass hard enough to burn, tells her to bow lower, to make obeisance to these small men who imagine themselves to be the vanguard of some new Expansion.
The men laugh and wave and point and order more whiskey. Raleigh grins from his place in the corner, the fond elder uncle, happy to teach these newcomers—these small corporate men and women high on fantasies of multinational profiteering—the ways of the old world. Kannika motions that Emiko should kneel.
A black-bearded gaijin with the deep tan of a clipper ship sailor watches from inches away. Emiko meets the man’s eyes. He stares intently, as if he is examining an insect under a magnifying class: fascinated, and yet also repulsed. She has the urge to snap at him, to try to force him to look at her, to see her instead of simply evaluating her as a piece of genetic trash. But instead she bows and knocks her head against the teak stage in subservience while Kannika speaks in Thai and tells them Emiko’s life story. That she was once a rich Japanese plaything. That she is theirs now: a toy for them to play with, to break even.
And then she grabs Emiko’s hair and yanks her up. Emiko gasps as her body arches. She catches a glimpse of the bearded man staring in surprise at the sudden violent gesture, at her abasement. A flash of the crowd. The ceiling with its glow worm cages. Kannika drags her further back, bending her like willow, forcing her to thrust her breasts out to the crowd, to arch further still, to spread her thighs as she struggles not to topple sideways. Her head touches the teak of the stage. Her body forms a perfect arc. Kannika says something and the crowd laughs. The pain in Emiko’s back and neck is extreme. She can feel the crowd’s eyes on her, a physical thing, molesting her. She is utterly exposed.
Liquid gushes over her.
She tries to rise, but Kannika presses her down and dumps more beer in her face. Emiko gags and splutters, drowning. Finally Kannika releases her and Emiko jerks upright, coughing. Liquid foams down her chin, spills down her neck and breasts, trickles to her crotch.
Everyone is laughing.

Tabella riassuntiva

Serratissima trama politica vista da quattro diversi punti di vista. All’inizio è un po’ spaesante.
Bangkok è una città viva e pulsante, che odora di confucianesimo! La tecnologia a molla è poco credibile.
Cinismo e ambiguità morale a go-go.
Emiko è tanto carina!

(1) Ancora poco tempo fa, certuni di questi geni affermavano che gli scrittori italiani dovrebbero scrivere di più dell’Italia e del folklore italiano, e/o ispirarsi ai generi italiani di maggior successo come il poliziesco; allora sì che gli italiani avrebbero finalmente successo! Ah, dannati esterofili!Torna su