Archivi del mese: marzo 2013

Saggistica: L’assedio di Gerusalemme

L'assedio di GerusalemmeAutore: Conor Kostick
Titolo originale: The Siege of Jerusalem. Crusade and Conquest in 1099
Argomento: Storia
Editore: Il Mulino / Biblioteca Storica

Anno: 2009
Pagine: 275

Nel Medioevo, le battaglie campali erano un fatto piuttosto raro. I contingenti militari potevano contare su forze dal numero piuttosto esiguo, in genere difficili da controllare e anche più da coordinare tra loro. In compenso, ogni tipo di potere politico – dal signorotto feudale sfigatello al libero comune al principe feudale – possedeva il suo luogo fortificato dietro cui ripararsi, dalla piccola motte fortificata in legno alla doppia fila di mura di pietra. Sicché, uno dei sistemi ricorrenti con cui i signori dell’epoca finivano col risolvere le zuffe era l’assedio. Per esempio pare che tra il 1101 e il 1112 re Luigi VI, nella sua ‘guerra al minuto’ per tenere a bada i signorotti feudali che circondavano il suo piccolo dominio, abbia preso parte ad almeno una dozzina di assedi (contro torrioni, fortezze, città).
Se si vuole scrivere una storia di guerra ambientata in uno pseudo-medioevo, è dunque essenziale capire come funzionassero gli assedi – come venissero organizzati, quali obiettivi avessero, quali strumenti venissero impiegati, eccetera. Mi ero già fatto un’idea di base sull’argomento leggendo saggi, diciamo, ‘di teoria generale’, come La guerra nel Medioevo di Contamine (di cui ho già parlato più di un anno fa); ma dato che un esempio vale più di mille parole, ero alla ricerca di cronache che raccontassero in concreto di questo o quell’assedio. Al contempo, fomentato da quel gioco riuscito a metà che era il primo Assassin’s Creed, avevo tanta voglia di Crociate e di Vicino Oriente. Fu così che mi imbattei ne L’assedio di Gerusalemme di Conor Kostick.

L’assedio di Gerusalemme del 1099, che vide un contingente franco-tedesco-normanno prendere la città santa nel giro di un mese, rappresenta il culmine della Prima Crociata. Ora, bisogna fare una precisazione: questo assedio (come tutta la campagna che lo precedette) non ha nulla di tipico; non può, in tutta onestà, essere preso come archetipo degli assedi medievali.
La mole esagerata di civili (tra pellegrini, preti, contadini) che i crociati si portavano dietro; la mancanza di una leadership chiara (ogni contingente manteneva un certo grado di indipendenza, e verso la fine della campagna l’esercito crociato si spaccò in due vere e proprie fazioni rivali!); il fatto che in diversi momenti fosse proprio la massa degli inermi a spingere e ‘guidare’ l’avanzata dell’esercito (specialmente all’inizio e dopo la presa di Antiochia), accecati dal bisogno di raggiungere Gerusalemme, impedendo così ai signori la pianificazione di una vera strategia; il clima escatologico di tutta la campagna, che mischiava interessi materiali e spirituali e trasmise all’esercito cristiano una determinazione estrema.
La Prima Crociata fu una campagna davvero particolare nel panorama del Medioevo; e tuttavia, nei quattro anni della sua durata, troviamo una tale quantità di assedi, spedizioni, scaramucce, marce, battaglie campali, e incontri diplomatici, da trasmetterci un affresco piuttosto ampio della vita militare di quel periodo.

Mappa della Prima Crociata

Una mappa approssimativa delle fasi della Prima Crociata. Quella che chiama ‘First wave of Crusaders’ è la massa dei ‘crociati poveri’; la seconda sono i contingenti guidati dai principi.

Nonpostante il titolo fuorviante, il saggio di Kostick ci mostra tutta la Prima Crociata: dall’appello di Urbano II al Concilio di Clermont, alla prima ‘Crociata dei poveri’ radunatasi attorno la stramba figura di Pietro l’Eremita; dall’incontro-scontro diplomatico tra l’imperatore bizantino Alessio Comneno e i signori cristiani che guidavano la spedizione crociata, al travestimento del normanno Tancredi per attraversare Costantinopoli senza dover prestare giuramento; dall’assedio di Nicea al primo spaccarsi dell’esercito crociato, quando Baldovino di Boulogne va a insignorirsi di Edessa; dal ritrovamento miracoloso della Lancia di Longino alle lunghe marce attraverso le aride terre della Palestina, all’apparizione ‘miracolosa’ delle navi genovesi sulle coste al largo di Gerusalemme; e poi, dopo la presa della città dalle mani del signore fatimide Iftikhar, la lotta politica tra Goffredo di Buglione e Raimondo di Tolosa – i due leader della spedizione – per chi si farà re della città, e la resa dei conti con il sopraggiunto esercito fatimide nella battaglia di Ascalona.
L’assedio e la presa di Gerusalemme veri e propri occupano il terzo centrale del libro, un centinaio circa di pagine. Kostick entra nel dettaglio di tutti i problemi che l’esercito crociato (diviso nei due accampamenti rivali di Baldovino e Raimondo) dovette affrontare per impossessarsi della città: l’individuazione di fonti d’acqua per combattere la sete mortale che piagava i crociati, la costruzione di macchine d’assedio per aprire una breccia nelle mura, il bisogno di infondere coraggio e speranza tra le proprie file, al tempo stesso tenendo sotto controllo tutti quei preti e quei santoni che di continuo avevano visioni messianiche. Il tutto, nella consapevolezza martellante di dover fare in fretta, perché l’emiro del Cairo stava mettendo in piedi un esercito per venire lì alle porte di Gerusalemme a pigliarli a calci in culo prima che potessero entrare nella città.

Il merito principale del libro di Kostick è nel suo stile narrativo, che gli dà quasi l’aria di un romanzo. Le note sono ridotte al minimo, e qualsiasi discussione sulle fonti è rimandata all’appendice. A campeggiare sono i grandi personaggi che hanno guidato la spedizione, personaggi tragicomici che paiono quasi usciti da un anime: Raimondo di Tolosa, l’austero e santissimo conte che secondo la volontà del papa avrebbe dovuto guidare la spedizione assieme allo stimato vescovo Ademaro di Le Puy, e che si trova continuamente gabbato dalla massa dei crociati; Goffredo di Buglione, che abbandona tutto per lanciarsi nella campagna e si conquista la stima di tutti grazie alle sue imprese eroiche e quasi sovrumane; il pragmatico normanno Boemondo, che passa con nonchalance dal progettare di rovesciare Alessio e insignorirsi di Costantinopoli a diventare suo fedelissimo vassallo nella riconquista dell’Anatolia, e il suo scapestrato nipote Tancredi, un pazzo disposto a tutto pur di non rinunciare alla propria indipendenza e di ritagliarsi un feudo nella Terrasanta; e poi Pietro l’Eremita, il santone un po’ ingenuo che infiamma gli animi dei poveri e li manda a farsi macellare a decine di migliaia, salvo poi essere messo da parte come l’ultimo degli sfigati quando arrivano i veri principi; e tutti gli altri preti ed eremiti che, dopo la morte di Ademaro, si contendono la leadership clericale facendo a gara a chi ha la visione più esagerata.
Questo approccio narrativo non impedisce comunque a Kostick di approfondire il contesto della spedizione, le cause della vittoria, la logica degli assedi. Per esempio, i successi dello scalcinato esercito crociato sono spiegati alla luce dell’incredibile frammentazione politica dei piccoli principati selgiuchidi, in costante lotta tra loro e spesso disposti a chiudere un occhio o anche a dare una mano all’avanzata degli ‘occidentali’ purché essa danneggiasse le città rivali – la tendenza del mondo musulmano a sottovalutare l’avanzata crociata fino a che non fu bene addentro in Palestina è più volte sottolineata da Kostick. L’assedio di Gerusalemme è corredato da una serie di diagrammi che mostrano la disposizione delle forze nelle varie fasi dell’assedio, e l’ordine e la direzione con cui entrarono i contingenti al momento della presa. E ancora, il massacro indiscriminato della popolazione di Gerusalemme da parte dei crociati dopo la presa della città è spiegata dall’autore – oltre che dall’impossibilità dei capi militari di controllare la massa dei pellegrini e dei milites, malridotti, affamati e incazzati neri – dalla frustrazione insorta nella gente dopo l’insoddisfacente cessione di Nicea con tutti i suoi beni all’imperatore bizantino.

Assedio di Gerusalemme

Il contingente di Goffredo di Buglione conquista le mura settentrionali di Gerusalemme grazie a una traballante torre d’assedio su ruote.

L’assedio di Gerusalemme, insomma, non mette semplicemente in scena una campagna militare, ma ci dà anche un’idea di quella che doveva essere la mentalità dell’epoca. I principi cristiani, benché dominati dal bisogno di dimostrare il loro valore, e capaci di infiammarsi sinceramente per una profezia messianica o per il ritrovamento di una reliquia, appaiono come dei pragmatici figli di puttana. Gente concreta, che sa che la propria sopravvivenza e il loro potere deriva dal costruirsi una rete clientelare e dall’impossessarsi di un territorio in loco; gente che dopo qualche anno diventa riluttante a proseguire la campagna, e sarebbe ben disposta a rinunciare alla liberazione del Santo Sepolcro in cambio di una conquista sicura (come Boemondo, che abbandona l’esercito dopo essersi insignorito di Antiochia). Gente che sa che gli assedi e le battaglie sono un problema pratico, che si risolve con accorgimenti tecnici e che non si può abbandonare all’estro demenziale del popolino o dei preti.
Al contempo notiamo come, già in quell’epoca, fossero sempre i poveri e i milites di ‘ceto medio’ a pigliarla in culo: mentre nei deserti del Medio Oriente i pellegrini muoiono come mosche, devastati dalla fame, dalla sete e dalla malattia, i grandi principi continuavano nelle loro tende a fare la bella vita, circondati dei cibi più raffinati. Non è un caso se al termine della Crociata, nonostante l’esercito cristiano abbia perso più di diecimila uomini, i principi che l’hanno guidata siano praticamente ancora tutti vivi. Lo stesso Iftikhar, mentre i suoi concittadini vengono sterminati a migliaia dai cristiani, rifugiatosi con i suoi nella Cittadella fortificata, riesce a contrattare con il conte Raimondo un’onorevole resa e se ne fugge illeso nel cuore della notte.

Certo, è possibile che Kostick si sia preso qualche licenza poetica nel tratteggiare i protagonisti di questa storia – ma nel complesso mi sembra tutto credibile, e coerente con quanto ho letto in altri testi sul periodo. Nell’Appendice bibliografica che chiude il libro, Kostick mette da parte lo stile narrativo per discutere seriamente i criteri che ha seguito nello scrivere il saggio. Come si sia regolato nel caso di fonti discordanti, con che criteri abbia riempito i vuoti; le fonti principali sono anche contestualizzate e discusse nel dettaglio una per una. Insomma, se avevate il dubbio che l’autore, per essere più scorrevole, fosse stato più superficiale, questa appendice dovrebbe togliervelo.
L’assedio di Gerusalemme è, chiaramente, un testo divulgativo, pensato per chi conosce poco la storia della Prima Crociata e della presa della Città Santa. Chi è già esperto dell’argomento ci troverà ben poco; ma per tutti gli altri – aspiranti scrittori o semplici curiosi – è una lettura consigliatissima. Grazie al suo stile, è uno dei libri di storia più piacevoli e affascinanti che mi sia mai capitato di leggere. Soprattutto, mi ha reso più concrete quelle nozioni di guerra e società che avevo appreso su altri libri, inserendole in una storia.

Pietro l’Eremita mostra ai crociati la strada per Gerusalemme. Fatto simpatico, il santone non morirà falcidiato dai turchi come la maggior parte dei suoi seguaci, ma finirà serenamente i suoi giorni in Francia una ventina d’anni dopo la presa di Gerusalemme.

Lascio a gente più preparata di me ulteriori giudizi sull’attendibilità della ricostruzione di Kostick. Ma permettetemi di concludere con uno stralcio dall’introduzione:

Martedì 7 giugno 1099: una folla di gente dall’aria provata si era raccolta su una collina per guardare l’orizzonte che schiariva a oriente. A circa un chilometro di distanza, i contorni delle mura e degli edifici di una città andavano facendosi sempre più netti nella luce dell’alba; per raggiungere quel punto ciascuno di loro aveva arrancato nell’oscurità, la notte precedente. Non appena allodole, fringuelli, rondini e rondoni salutarono il nuovo giorno con il loro canto, anche quella folla iniziò a mormorare in un’infinità di voci diverse: preghiere sussurrate in tutte le lingue e dialetti della cristianità.
Come la luce si fece più forte, quella moltitudine divenne più distinta: qui un arciere con l’arco a tracolla, laggiù un fante con la corazza di cuoio, appoggiato alla sua lancia come a un bastone. E in mezzo a coloro che erano pronti a combattere si poteva notare un sorprendente numero di gente disarmata, tra cui preti, suore, donne e bambini di ogni età.
A breve distanza, un gruppo di 70 cavalieri disposti in una fila ordinata scortava la folla appiedata con un certo compiacimento. Le loro cotte di maglia e gli elmi lucidi splendevano delle rosee tinte dell’alba. Quegli stessi cavalieri, il giorno precedente, avevano compiuto un’incursione di avanscoperta, e ne erano tornati con la notizia che la città era ormai vicina, inducendo la folla di straccioni ad arrancare tra le rocce per tutta la notte, nella speranza di vedere finalmente la manifestazione fisica dei loro sogni. Fieri della responsabilità per quanti si erano affidati alla loro protezione, i cavalieri stavano all’erta, scrutando in tutte le direzioni l’orizzonte che schiariva, in cerca di nuvole di polvere nell’aria del mattino, vale a dire di eventuali segni della presenza del nemico. Alla testa della squadra di cavalieri vi era un piccolo drappello di guerrieri, raccolti con stendardi e lance attorno ai due capi della schiera: Tancredi e Gastone di Béarn. A dispetto dei suoi ventisei anni, Tancredi era già l’eroe di quella compagnia.
[…] Insieme ai ritardatari, chiudeva il gruppo l’anziano conte di Tolosa, Raimondo di Saint-Gilles, quarto del suo nome. Cinquantun’anni, la barba grigia, uno sfregio che gli solcava tutto un lato del volto e l’occhio guercio, il conte procedeva scalzo e piuttosto di malumore. Soltanto i preti e chierici provenzali al suo seguito stavano prendendo sul serio le parole di un umile visionario, Pietro Bartolomeo, morto in un’ordalia del fuoco per provare che il conte era stato prescelto dal Signore per guidare le armi cristiane. Pietro Bartolomeo aveva messo in guardia i crociati: il loro ingresso in Terrasanta doveva avvenire a piedi nudi e con cuore contrito, o avrebbero perso il favore divino; ma nell’eccitazione della vicinanza della città la massa di era del tutto dimenticata della profezia. Anche il grosso dei cavalieri e dei seguaci di Raimondo si era precipitato in avanti insieme agli altri, ma il conte calcava pazientemente la pista con i piedi scalzi, e camminava nella polvere creata dalle migliaia di uomini che lo precedevano. Anche se i suoi compagni cristiani trascuravano di osservare questo atto di umiltà, gli occhi onniveggenti di Dio erano sicuramente su di lui.
Più avanti sul costone, la folla si faceva sempre più fitta e più ampia. Nonostante le profonde rivalità politiche tra i sassoni, i normanni, i provenzali e i molti altri contingenti regionali, un senso di successo condiviso invase tutti quanti nel vedere gli edifici della vicina città stagliarsi contro l’orizzonte che schiariva. A quel punto, infatti, tutti quanti furono pervasi dalla consapevolezza di avere raggiunto infine l’obiettivo, un luogo che era stato ritenuto quasi mitico. La parola che ora si levava con gioia, gridata tra le lacrime, era comprensibile in tutte le loro lingue.
Gerusalemme.

Gerusalemme 1099

Bonus: La guerra santa
La guerra santaAutore: Jean Flori
Titolo originale: La guerre sainte. La formation de l’idée de croisade dans l’Occident chrétien
Argomento: Storia
Editore: Il Mulino / Storica Paperbacks

Anno: 2001
Pagine: 441

Il libro di Kostick è molto dettagliato nel racconto della Prima Crociata, ma dice poco sulle motivazioni e sul “clima culturale” che l’ha prodotta. Per chi volesse approfondire quest’ultimo aspetto, una soluzione potrebbe essere La guerra santa di Jean Flori.
Per capire lo strano fenomeno che ha portato alla mobilitazione di massa della popolazione europea (e di tutti i suoi strati sociali!) per la crociata, Flori parte da una domanda: che cos’è esattamente la ‘crociata’? I vari capitoli analizzano uno ad uno tutti i fenomeni religiosi e sociali che nei secoli precedenti il Concilio di Clermont hanno portato alla nascita della ‘mentalità della crociata’: la crescita dell’autorità dei vescovi, le paci e le tregue di Dio, la militarizzazione dei santi, la riforma gregoriana del Papato, la reconquista spagnola e così via. Ciascun fenomeno è studiato nel dettaglio, e a ciascuno è dato il giusto peso.

A differenza di L’assedio di Gerusalemme, il saggio di Flori non ha un andamento narrativo; è un testo molto tecnico e approfondito, che si confronta di continuo con le tesi degli storici che l’hanno preceduto per confermarle o confutarle. Tira fuori stralci di documenti e fa le pulci ad ogni dettaglio. Se le pagine di Kostick sono puro testo, quelle di Flori hanno dalle due alle cinque-sei note a pagina – la bibliografia di riferimento è sterminata.
Certo, non tutte le tesi di Flori mi convincono, e su tutte il mettere troppo in secondo piano il bisogno espansionistico della piccola nobiltà feudale. Un critico marxista direbbe (a ragione) che l’analisi di Flori è tutta sovrastruttura e niente (o quasi) struttura: si concentra talmente sulla storia delle mentalità da trascurare le cause materiali che ci stanno dietro. Ma triangolando La guerra santa con altri saggi di cui ho parlato in precedenza – la seconda parte di La guerra nel Medioevo, La società feudale di Bloch, Civiltà e potere di Elias, La santità nel Medioevo – viene fuori un quadro abbastanza chiaro di ciò che ha causato la nascita delle Crociate.
Ancora, a volte sembra che Flori stia discutendo del sesso degli angeli; alcuni passaggi entrano davvero troppo nel dettaglio per essere di qualche interesse per il non specialista. Ma, di nuovo: diversamente da quello di Kostick, che è divulgazione estrema, questo è un saggio per specialisti. Non è un libro per tutti, ma per chi sia disposto a spaccare il capello in quattro pur di capire che cosa è stata la crociata.

Addendum: Due Osprey sugli assedi
Osprey Medieval Siege Warfare (1)E se volete approfondire la vostra conoscenza degli strumenti d’assedio, vi viene in aiuto Osprey! La collana Vanguard  ha pubblicato una decina d’anni fa due agili volumetti sulla storia, il funzionamento e l’impiego delle armi da assedio. Il primo si incentra sul mondo occidentale, il secondo su Bisanzio, il Medio Oriente e l’India. Sono davvero piccoli: sommati non raggiungono le 100 pagine.

Osprey Medieval Siege Warfare (2) Non li ho ancora letti – anche se probabilmente lo farò, nel momento in cui deciderò di mettere degli assedi in una delle mie storie – ma ci ho dato un’occhiata e sembrano roba buona. Inoltre Zwei vi ha apposto il suo sigillo di approvazione.
Entrambi si possono trovare su Emule.

I Consigli del Lunedì #32: Tau Zero

Tau ZeroAutore: Poul Anderson
Titolo italiano: Tau Zero / Il fattore Tau Zero
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 210 ca.

Difficoltà in inglese: **

“May you have a fortunate voyage and come home safe.”
“If the voyage is really fortunate,” she reminded him, “we will never come home. If we do—” She broke off. He would be in his grave.

Prendiamo una navicella che viaggia nello spazio. Se v è la velocità (uniforme) della navicella, e c la velocità della luce, allora tau equivale a:

Equazione Tau

Più v si avvicina a c, più tau si avvicina a zero. E più tau si avvicina a zero, più la navicella acquisisce massa, maggiore sarà la sfasatura temporale tra l’interno dell’astronave e il mondo all’esterno. Per un membro dell’equipaggio della nave, il tempo scorrerà più lentamente che per coloro che sono rimasti a casa.
Poniamo ora che, in un futuro non troppo lontano dal nostro – un futuro in cui la pace mondiale è stata raggiunta delegando ogni potere politico e poliziesco alla piccola e affidabile Svezia – il governo della Terra organizzi una spedizione spaziale per colonizzare i pianeti della vicina stella Beta Virginis. Questa stella dista trentuno anni luce; ma grazie al Bussard ramjet, un innovativo sistema di propulsione che raccoglie e comprime idrogeno dal medium interstellare fino ad avviare una reazione nucleare, sarà possibile raggiungerla in soli trentatré anni umani, sfiorando la velocità della luce. Inoltre, in virtù della dilatazione temporale, per i membri dell’equipaggio – venticinque uomini e venticinque donne iperselezionati – ne passeranno solo sei.
Tuttavia, i partecipanti sanno benissimo che si tratta di un viaggio di non ritorno. Charles Reymont, ex-colonnello dei Lunar Rescue Corps con un’infanzia di miseria alle spalle, lo fa perché stanco della sua vita e perché sente che nulla lo lega più alla Terra. Ingrid Lindgren, fisica svedese di buona famiglia, lo fa perché fin da piccola sogna le stelle, e non riuscirebbe ad immaginare per sé un futuro diverso da questo. Ma il lungo viaggio e la clausura delle loro vite a bordo della Leonora Christine seminerà dei dubbi nella loro coscienza. E quando uno sfortunato incidente danneggerà la navicella al punto da rendere impossibile invertire l’accelerazione e quindi la costante riduzione del tau, l’intero scopo della missione e il senso delle loro cinquanta vite sarà rimesso in discussione.

Benché in Italia sia poco conosciuto e ancor meno letto, nel mondo anglosassone Tau Zero è considerato uno dei capisaldi dell’Hard SF. Sul solido impianto della relatività generale, Anderson costruisce un device per il viaggio interstellare – il Bussard ramjet – ne trae delle conseguenze fisiche e sociali, e su di questi sviluppa una storia. Come da tradizione della fantascienza hard, Tau Zero non è che una rappresentazione narrativa di una speculazione fantascientifica.
Due sono gli argomenti sviluppati nel romanzo. Il primo è quello propriamente fisico: come funziona il viaggio della Leonora Christine? Quali rischi e quali ostacoli incontreranno i nostri eroi lungo il percorso? E che possibilità ci sono di arrivare a destinazione (o a una qualunque altra destinazione) in seguito all’incidente che impedisce alla nave di ridurre la propria accelerazione? Il secondo è quello sociale: come faranno i cinquanta membri dell’equipaggio a convivere pacificamente per tutti gli anni del viaggio, sopportando il loro isolamento e la consapevolezza di non poter più tornare indietro? Fino a che punto, anche la psiche più equilibrata, più addestrata, più ragionevole, può resistere allo stress di una situazione che sembra senza via d’uscita?

Search for a better planet

Uno sguardo approfondito
L’Hard SF non è mai stato un genere che curi molto lo stile, e Tau Zero non fa eccezione. Anderson, in particolare, è uno degli scrittori più tecnicamente scarsi che abbia mai visto (benché non al livello di bruttura di un Clarke).
I dolori cominciano con la gestione del POV, un bel narratore onnisciente che a seconda della scena si avvicina ai personaggi fino ad entrare nella loro testa, oppure si allontana fino ad osservare l’intera vita dell’equipaggio con uguale distacco. L’approccio generale di Anderson è questo: ampi pezzi raccontati con telecamera distante che descrivono la vita dell’intero equipaggio per lunghi periodi di tempo; intervallati da alcune scene clou in cui la telecamera si avvicina a questo o quel personaggio e al raccontato si mescola un po’ di mostrato. Anche in questi casi, comunque, la voce narrante non si identifica con il personaggio-pov e si riserva la possibilità di spostarsi in qualsiasi momento verso un altro personaggio.
A queste si aggiunge un altro tipo di scena, che Anderson mette all’inizio o alla fine di un capitolo, oppure all’inizio di un paragrafo: la telecamera onnisciente “esce” dalla navicella e ci mostra la Leonora Christine da fuori. In brani quasi più saggistici che narrativi, il narratore ci ‘spiega’ il viaggio della nave: in che punto dello spazio si trovi, come funzioni il motore, quali leggi fisiche abbiano reso possibile la spedizione, che ostacoli stiano per incontrare e quali conseguenze potrebbero comportare per il futuro della missione. E’ in uno di questi brani che ci viene spiegata l’equazione Tau, il rapporto tra velocità, massa dell’astronave e dilatazione del tempo, e l’effetto che tutto ciò ha sull’equipaggio. In questi passaggi di puro infodump, l’immersione crolla, la finzione narrativa viene fatta cadere e Tau Zero si rivela per quello che è: speculazione scientifica con contorno di personaggi.

Benché questi pezzi uccidano il ritmo e siano fatali per la suspension of disbelief, possiedono un certo fascino per chi è appassionato alla materia (cioè, i destinatari ideali del libro): il fascino del professore universitario che ti spiega concetti straordinari e implicazioni inaspettate delle leggi classiche. Fino a un anno fa, sarei forse stato anche incline a ‘perdonare’ questo approccio: sì, è vero che l’autore spezza la narrazione per farti uno spiegone in prima persona, ma lo fa in momenti di cesura (come l’inizio o la fine di un capitolo) e mai in mezzo a un paragrafo, e inoltre non ci sarebbe altro modo di veicolare tutti questi concetti sulla teoria della relatività al neofita (se non attraverso espedienti ancora peggiori, come l’As you know, Bob).
Ma ormai so che non è vero. Quest’ultima affermazione è semplicemente falsa, e può derivare solamente da ignoranza o da pigrizia mentale. Modi plausibili se ne trovano sempre. Dal più banale: il protagonista che, solo nella sua cuccetta o di fronte a un quadro comandi, si abbandona ai suoi pensieri e riflette, malinconico, sul viaggio che sta affrontando, sulla sua destinazione, alle equazioni (che conosce) e così via. Potrebbe anche rivivere la lezione universitaria in cui il suo docente preferito gli spiegava l’equazione del Tau; oppure immaginare di vedere la nave dal di fuori, facendo lui stesso la parte, nei propri pensieri, del narratore onnisciente1. Alle più creative: il protagonista, o un altro dei personaggi-pov, potrebbe decidere di incidere su nastro delle “lezioni” sulla teoria della relatività e rapporti sul loro viaggio: il destinatario potrebbero essere le future generazioni, i suoi discendenti, dei familiari rimasti sulla Terra. E queste sono solo le prime due idee che mi sono venute in mente.
Affidando anche le parte più infodumpose alla voce dei personaggi-pov, integrando ogni spiegone nel corpo della narrazione, trasformando anche uno sguardo ‘impossibile’ come quello della navicella da fuori nell’occhio mentale del protagonista, si mantengono tutti i vantaggi del pov onnisciente senza tutti gli svantaggi di perdita di ritmo e immersività. Quel che voglio dire, è che nella scrittura non bisognerebbe mai fare i pigri ed abbandonarsi alla prima soluzione stilistica che viene in mente: alternative migliori esistono quasi sempre.

Space Core Portal

Tutti pazzi per lo spazio.

Ma Anderson queste cose non le sapeva; e infatti la sua sciatteria colpisce tutto indistintamente. I membri dell’equipaggio sono figure anonime con un cartellino appeso al collo: la xenobiologa con problemi relazionali, il medico rude e buontempone, l’esile cinesina compassata, il vecchio capitano che ne ha viste di cotte e di crude. E dire che Anderson il problema della clausura forzata dei cinquanta passeggeri della Leonora se li è posti; e infatti mette una grande attenzione nello spiegare come sia stata organizzata la vita a bordo della nave, come vengano riempite le ore della giornata, come tutti siano stati addestrati a vincere lo stress, come evolvano nel tempo le dinamiche tra i vari ‘gruppi’ (equipaggio, scienziati, corpo di polizia) e così via. Ma il problema è proprio questo: Anderson spiega. Tutto (o quasi) è raccontato con distacco, e il lettore non se ne sente coinvolto.
Su tutto questo grigiore, Reymont e Lindgren spiccano un poco, con il loro mix di problemi pubblici e privati; ma senza esagerare. In particolare, Reymont è una grande occasione sprecata. Nasce come un personaggio molto ambiguo: un’infanzia difficile alle spalle, vissuta nella povertà e nella violenza, il carattere burbero con cui tiene tutti a distanza, l’alto senso della giustizia, il cinismo del ‘il fine giustifica i mezzi’, unito alla funzione di “capo della security” a bordo della nave. Quando in seguito all’incidente il morale dell’equipaggio precipita e la vita sulla Leonore si fa difficile, spetterà a lui ‘assumere il controllo’ e mantenere l’ordine. Da questa situazione poteva sbocciare una grandissima quantità di conflitti, interiori ed esterni. Reymont poteva finire con l’abusare della sua autorità, come accade ad esempio al poliziotto di The Cube; oppure, pur restando in un certo senso un ‘buono’, avrebbe potuto essere costretto, per il fine superiore di mantenere l’ordine sulla nave, a compiere atti di particolare brutalità (es. sopprimere una rivolta nel sangue?). Ma questo non succede. Certo, scontri ce ne sono – ma nei romanzi di Anderson, il buonsenso prevale sempre.

Ho letto diversi romanzi di Anderson. Si ha come l’impressione che l’autore abbia qualche problema con l’idea di “conflitto”. Come se volesse sempre tenerlo il più basso possibile. Certo, i problemi non mancano, ed anzi, nel corso del romanzo si verifica la giusta escalation drammatica; ma Anderson cerca sempre di risolvere i conflitti il prima possibile, cerca sempre di abbassare i toni, e di non mettere troppa ansia nel lettore. Anche quando danno di matto, i suoi personaggi vengono sempre ricondotti al buonsenso. Ora, non dico che a bordo della Leonora Christine doveva andare a finire come nel condominio di Ballard – non sarebbe neanche stato credibile; ma mi sembra che Anderson ecceda dalla parte opposta.
Il dramma esistenziale dell’equipaggio della Leonora Christine si percepisce, ma sempre mantenendo un certo distacco. Proprio perché si vede la faccenda dal di fuori, e non attraverso gli occhi di un personaggio-pov, il lettore percepisce a livello inconscio che la cosa non lo riguarda personalmente. “Sta accadendo a qualcun altro”: e così ogni emozione viene attutita.

Philosoraptor

Una delle domande di cui Tau Zero potrebbe avere la risposta. Oppure no.

Ma l’Hard SF si misura soprattutto sotto il profilo delle idee – della loro correttezza scientifica, sulla loro genialità, su quanto riescano a meravigliarti. Sul primo punto non mi esprimo, che non ne capisco niente. Quanto al sense of wonder – be’, Tau Zero è un capolavoro. Già il concetto del viaggio generazionale verso una stella lontana, condito dalla spiegazione di come ciò sarebbe fisicamente possibile, era di per sé interessante. La logica del Bussard ramjet, il sistema di propulsione della Leonora Christine (ma che non ha inventato Anderson), è forse la vera protagonista del romanzo.
Ma Anderson è in grado di trasportare tutta la storia su scala mastodontica; e così ci si ritrova a parlare di, e a vivere, spazi tra le galassie, e poi grappoli di galassie, e poi l’origine e la fine ultima dell’Universo, Big Bang, Big Crunch, spazi di tempo talmente grandi da essere incommensurabili… i concetti in gioco sono talmente grandi, talmente incredibili, che a un certo punto mi sono venute le lacrime agli occhi. E’ vero, la prosa è quello che è, ma c’è della vera epica cosmica là in mezzo, e Anderson è in grado di fartela provare – basta avere pazienza e sopportare la sciatteria generale. Il finale è straordinario, e si chiude il libro con una certa serenità, e la sensazione di essersi arricchiti in qualche modo.

Scritto da mani più esperte, Tau Zero poteva diventare uno dei grandi capolavori della fantascienza. Anche così, rimane un bel romanzo, e si conquista un posto nella Top 30 dei miei romanzi preferiti. E se la parte psicologico-sociale soffre particolarmente l’incapacità di Anderson di dare vita ai suoi personaggi, la parte più, diciamo, ‘astrofisica’ se la cava dignitosamente.
Certo, non è un libro per tutti; bisogna innanzitutto avere passione per l’argomento ed essere pronti a sorbirsi un po’ di fisica for dummies, non sempre facilissima. Credo comunque che l’audience di Tau Zero sia più ampio di quello di Mission for Gravity – l’ultimo Hard SF di cui mi sono occupato – se non altro per la generalità e l’ordine di grandezza delle idee coinvolte; sebbene i personaggi del romanzo di Clement siano probabilmente più interessanti.

Bussard ramjet

Una rappresentazione artistica del Bussard ramjet.

Su Anderson
Poul Anderson è uno degli scrittori più prolifici della narrativa fantastica; quanto a numero di romanzi pubblicati, fa impallidire anche grafomani conclamati come Philip Dick o Moorcock. E come Dick e Moorcock, la qualità dei lavori è parecchio altalenante (e lo stile oscilla sempre tra il mediocre e il pessimo). Tra i romanzi suoi che ho letto, ecco i più interessanti:
The High Crusade The High Crusade (Crociata spaziale) è un romanzetto farsesco con una premessa geniale: a metà del Trecento, mentre Edoardo III d’Inghilterra prepara l’invasione della Francia, una navicella aliena atterra in un ameno villaggio del Lincolnshire. Gli alieni hanno intenzioni ostili, ma contro ogni aspettativa Sir Roger de Tourneville, signore del luogo, e i suoi uomini sterminano gli invasori e si impossessano della nave. E’ l’inizio di una crociata che porterà i fanatici cavalieri di Sir Roger alla conquista della galassia. High Crusade è divertentissimo, benché sia in larga parte rovinato dallo stile stra-raccontato e spesso riassunto, che a tratti fa sembrare la storia più un canovaccio di trama che un romanzo vero e proprio.
There Will Be Time There Will be Time (Tempo verrà), un romanzo sui viaggi nel tempo. Jack Havig è nato col dono di potersi spostare, col solo esercizio della volontà, avanti e indietro nel tempo;
ma quando si imbarcherà in un viaggio alla ricerca dei suoi simili, scoprirà di una catastrofe che sta per distruggere la nostra civiltà e di un’organizzazione di viaggiatori intenzionata a diventare la guida del nuovo mondo. Nonostante l’argomento interessante e i continui spostamenti tra passato e futuro, il libro ha spesso poco mordente. Anderson fa la scelta ottocentesca di filtrare la narrazione attraverso il pov di un personaggio marginale (il medico di famiglia del protagonista, a cui Havig racconta le sue vicende); la mole di raccontato, i riassuntoni e la sciattezza generale fanno il resto.
Fire Time Fire Time racconta la storia di Ishtar, un bizzarro pianeta che orbita attorno a tre stelle contemporaneamente. Ogni cinquecento anni la stella Anu si avvicina troppo al pianeta, scatenando un riscaldamento infernale che puntualmente distrugge la civiltà indigena. Ora la stella si sta avvicinando di nuovo, ma i terrestri sono arrivati sul pianeta e potrebbero cambiare le cose – se non fosse che si sta scatenando una guerra interplanetaria. Fire Time è una storia corale che intreccia Hard SF, romanzo politico e di guerra, con un sacco di idee affascinanti su xenobiologia, fisica, evoluzionismo. Purtroppo lo stile un po’ piatto, i personaggi non memorabili, l’eccessivo buonismo e la strana tendenza di Anderson di ridurre sempre al minimo ogni fonte di conflitto lo rendono a tratti noioso. Peccato – poteva essere un altro capolavoro!
Poul Anderson rimane uno scrittore interessante, benché di serie B. Gli altri suoi romanzi che vorrei leggere: il fantasy shakespeariano A Midsummer TempestThe Boat of a Million Years e forse (un grande ‘forse’) il fantasy epico The Broken Sword.

Dove si trova?
Come detto in apertura di articolo, Tau Zero è un romanzo estremamente popolare oltreoceano. Di conseguenza, si trova facilmente su qualunque canale: Bookfinder e Library Genesis per l’edizione in lingua originale, Emule per quella italiana.

Qualche estratto
Come primo estratto ho scelto in realtà un brano abbastanza avanti nel romanzo. E’ la digressione pseudo-saggistica cui ho accennato in apertura d’articolo, in cui Anderson spiega il significato del valore ‘tau’ e la logica del viaggio della Leonora Christine. Il secondo estratto ci riporta al primo capitolo; una scena in cui Reymont e la Lingren si confrontano sulle ragioni che li hanno portati a decidere di partire, e abbandonare la loro Terra per sempre…

1.
 A year after she started, Leonora Christine was close to her ultimate velocity. It would take her thirty-one years to cross interstellar space, and one year more to decelerate as she approached her target sun.
But that is an incomplete statement. It takes no account of relativity. Precisely because there is an absolute limiting speed (at which light travels in vacuo; likewise neutrinos) there is an interdependence of space, time, matter, and energy. The tau factor enters the equations. If v is the (uniform) velocity of a spaceship, and c the velocity of light, then tau equals

Equazione Tau

The closer that v comes to c, the closer tau comes to zero.
Suppose an outside observer measures the mass of the spaceship. The result he gets is her rest mass — i.e., the mass that she has when she is not moving with respect to him — divided by tau. Thus, the faster she travels the more massive she is, as regards the universe at large. She gets the extra mass from the kinetic energy of motion; e=mc^2.
Furthermore, if the “stationary” observer could compare the ship’s clocks with his own, he would notice a disagreement. The interlude between two events (such as the birth and death of a man) measured aboard the ship where they take place, is equal to the interlude which the observer measures … multiplied by tau. One might say that time moves proportionately slower on a starship.
Lengths shrink; the observer sees the ship shortened in the direction of motion by the factor tau.
Now measurements made on shipboard are every bit as valid as those made elsewhere. To a crewman, looking forth at the universe, the stars are compressed and have gained in mass; the distances between them have shriveled; they shine, they evolve at a strangely reduced rate.
Yet the picture is more complicated even than this. You must bear in mind that the ship has, in fact, been accelerated and will be decelerated in relation to the total background of the cosmos. This takes the whole problem out of special and into general relativity. The star-and-ship situation is not really symmetrical. The twin paradox does not arise. When velocities match once more and reunion takes place, the star will have passed through a longer time than the ship did.
If you ran tau down to one one-hundredth and went into free fall, you would cross a light-century in a single year of your own experience. (Though, of course, you could never regain the century that had passed at home, during which your friends grew old and died.) This would inevitably involve a hundredfold increase of mass. A Bussard engine, drawing on the hydrogen of space, could supply that. Indeed, it would be foolish to stop the engine and coast when you could go right on decreasing your tau.
Therefore, to reach other suns in a reasonable portion of your life expectancy: Accelerate continuously, right up to the interstellar midpoint, at which point you activate the decelerator system in the Bussard module and start slowing down again. You are limited by the speed of light, which you can never quite reach. But you are not limited in how close you can approach that speed. And thus you have no limit on your inverse tau factor.
Throughout her year at one gravity, the differences between Leonora Christine and the slow-moving stars had accumulated imperceptibly. Now the curve entered upon the steep part of its climb. Now, more and more, her folk measured the distance to their goal as shrinking, not simply because they traveled, but because, for them, the geometry of space was changing. More and more, they perceived natural processes in the outside universe as speeding up.
It was not yet spectacular. Indeed, the minimum tau in her flight plan, at midpoint, was to be somewhat above 0.015. But an instant came when a minute aboard her corresponded to sixty-one seconds in the rest of the galaxy. A while later, it corresponded to sixty-two. Then sixty-three … sixty-four … the ship time between such counts grew gradually but steadily less … sixty-five … sixty-six … sixty-seven…

Un anno dopo la partenza, la Leonora Christine aveva quasi raggiunto la sua massima velocità. Le ci sarebbero voluti trentun anni per attraversare lo spazio interstellare, e un anno in più per decelerare mentre si avvicinava al sole che rappresentava il suo obiettivo.
Ma questa è un’affermazione incompleta, che non tiene conto della relatività. Proprio perché la velocità assoluta non può superare un certo limite (rappresentato dalla velocità con cui la luce viaggia in vacuo; e ciò varrebbe anche per i neutrini) c’è un’interdipendenza tra spazio, tempo, materia ed energia. Nelle equazioni entra il fattore tau. Se v è la velocità (uniforme) di un’astronave e c la velocità della luce, allora tau è uguale a:

Equazione Tau

Quanto più i valori di v si avvicinano a quelli di c, tanto più tau tende a zero.
Supponiamo che un osservatore esterno misuri la massa di un’astronave. Il risultato che ottiene è la massa a riposo ― cioè la massa che l’astronave ha allorché non si muove rispetto a lui ― divisa per tau. Così, quanto più velocemente si muove l’astronave, tanto maggiore è la sua massa, per quanto riguarda l’universo in generale. Ricava l’eccedenza di massa dall’energia cinetica: e = mc2.
Inoltre, se l’osservatore «fisso» potesse controllare gli orologi dell’astronave e compararli al suo, noterebbe uno sfalsamento. Il periodo di tempo trascorso tra due avvenimenti (per esempio, la nascita e la morte di un uomo), misurato a bordo della nave dove questi avvenimenti si sono verificati, è uguale al periodo di tempo misurato dall’osservatore… moltiplicato per tau. Si potrebbe perciò dire che il tempo si muove proporzionalmente più a rilento su un’astronave.
Anche le misure di lunghezza si contraggono; l’osservatore vede l’astronave accorciata, nella direzione del moto, dal fattore tau.
Ora le misurazioni fatte a bordo di un’astronave sono altrettanto valide, in tutto, di quelle fatte altrove. A un cosmonauta, che guardi l’universo davanti a sé, le stelle appaiono compresse e la loro massa risulta aumentata; le distanze tra loro si sono ridotte; esse scintillano e si muovono a un ritmo stranamente ridotto.
Eppure la situazione è ancora più complicata di così. Bisogna tenere bene a mente che l’astronave, in effetti, è stata accelerata e sarà decelerata in relazione a tutto il cosmo che le fa da sfondo. Ciò fa rientrare l’intero problema nell’ambito della teoria generale della relatività. La situazione stelle-astronave non è realmente simmetrica. Il paradosso dei gemelli non si verifica. Quando le velocità si uguagliano ancora una volta e avviene la riunione, per la stella sarà trascorso un tempo più lungo di quello trascorso per l’astronave.
Se il fattore tau si riduce a un centesimo e l’astronave procede in caduta libera, un secolo-luce verrà percorso in un solo anno di vita degli astronauti (sebbene, naturalmente, non si potrà più riguadagnare il secolo che è trascorso sulla Terra, durante il quale gli amici degli astronauti saranno invecchiati e morti). Ciò comporterà inevitabilmente un aumento della massa di cento volte. Un motore Bussard, sfruttando l’idrogeno dello spazio, poteva produrre un simile effetto, ma sarebbe stato folle fermare il motore e proseguire con moto inerziale quando si poteva ottenere la stessa cosa facendo decrescere il fattore tau.
Perciò, raggiungere altri soli è una parte ragionevole della speranza di vita: tanto vale accelerare continuamente, fino al punto intermedio interstellare, dopodiché si attiverà il deceleratore. C’è il limite imposto dalla velocità della luce, che non si può quasi mai raggiungere. Ma non c’è limite all’approssimarsi quanto più è possibile a tale velocità. Così non si hanno limiti per quanto riguarda l’inverso del fattore tau.
Nonostante l’anno trascorso a gravità uno, le differenze tra la Leonora Christine e le stelle che si muovevano lentamente si erano accumulate impercettibilmente. Adesso la curva si accingeva ad affrontare la parte più ripida della sua discesa. Ora, sempre più la distanza che divideva gli astronauti dal loro obiettivo sembrava loro come contratta, non soltanto perché viaggiavano, ma perché, per loro, la geometria dello spazio stava cambiando. Sempre più gli astronauti si rendevano conto di quanto i processi naturali nell’universo esterno si stessero sviluppando con maggior velocità.
Non era ancora niente di spettacolare. Anzi, il valore minimo di tau nel piano di volo dell’astronave era, al punto intermedio, intorno a 0,015. Ma arrivò un momento in cui un minuto a bordo dell’astronave corrispondeva a sessantun secondi nel resto della galassia. Un po’ più tardi, corrispondeva a sessantadue. Poi a sessantatré… sessantaquattro… il tempo dell’astronave tra tali conteggi cresceva gradualmente ma sistematicamente… sessantacinque… sessantasei… sessantasette…

Red Bull Space Program

2.
 “I … thought you might be lonely. You have no one, have you?”
“No relatives left. I’m only touring the fleshpots of Earth. Won’t be any where we are bound.”
Her sight lifted again, toward Jupiter this time, a steady tawny-white lamp. More stars were treading forth. She shivered and drew her cloak tight around her, against the autumnal air. “No,” she said mutedly. “Everything alien. And when we’ve hardly begun to map, to understand, that world yonder — our neighbor, our sister — to cross thirty-two light-years—”
“People are like that.”
“Why are you going, Carl?”
His shoulders lifted and dropped. “Restless, I suppose. And frankly, I made enemies in the Corps. Rubbed them the wrong way, or outdistanced them for promotion. I was at the point where I couldn’t advance further without playing office politics. Which I despise.” His glance met hers. Both lingered a moment. “You?”
She sighed. “Probably sheer romanticism. Ever since I was a child, I thought I must go to the stars, the way a prince in a fairy tale must go to Elf Land. At last, by insisting to my parents, I got them to let me enroll in the Academy.”
[…] He managed to keep the talk inconsequential while he nosed into Strцmmen, docked the boat, and led her on foot across the bridge to Old Town. Beyond the royal palace they found themselves under softer illumination, walking down narrow streets between high golden-hued buildings that had stood much as they were for several hundred years. Tourist season was past; of the uncounted foreigners in the city, few had reason to visit this enclave; except for an occasional pedestrian or electrocyclist, Reymont and Lindgren were nearly alone.
“I shall miss this,” she said.
“It’s picturesque,” he conceded.
“More than that, Carl. It’s not just an outdoor museum. Real human beings live here. And the ones who were before them, they stay real too. In, oh, Birger Jarl’s Tower, the Riddarholm Church, the shields in the House of Nobles, the Golden Peace where Bellman drank and sang — It’s going to be lonely in space, Carl, so far from our dead.”
“Nevertheless you’re leaving.”
“Yes. Not easily. My mother who bore me, my father who took me by the hand and led me out to teach me constellations. Did he know what he was doing to me that night?” She drew a breath. “That’s partly why I got in touch with you. I had to escape from what I’m doing to them. If only for a single day.”

― Io… pensavo che lei avrebbe potuto sentirsi solo. Lei non ha nessuno, vero?
― Non mi è rimasto alcun parente. Sto facendo un giro turistico per visitare i bordelli della Terra. Non ce ne saranno, là dove siamo diretti.
Gli occhi di lei si alzarono di nuovo, questa volta in direzione di Giove, un lume fisso di colore bianco-bruno. Altre stelle si stavano facendo avanti. Lindgren fu scossa da un brivido e si serrò più strettamente il soprabito intorno al corpo, come per difendersi dall’aria autunnale. ― No ― disse con voce bassa. ― Ogni cosa ci sarà estranea. E ora che abbiamo appena cominciato a tracciare una mappa di quel mondo lassù, a capirlo ― il nostro vicino, la nostra sorella ― un viaggio di trentadue anni-luce…
― La gente è fatta così.
― Perché lei ha deciso di venire, Carl?
L’uomo alzò e abbassò le spalle. ― Sono un individuo irrequieto, suppongo. E, per essere sincero, mi son fatto alcuni nemici nel Corpo di Salvataggio. Ho lisciato loro il pelo dalla parte sbagliata o li ho lasciati troppo indietro per via delle mie promozioni. Ero giunto a un punto morto: non avrei potuto avanzare oltre senza mettermi a brigare tra le quinte. Cosa che disprezzo. ― Lo sguardo di Reymont incontrò quello della donna. Per un attimo indugiarono a guardarsi l’un l’altra negli occhi. ― E lei?
Ingrid sospirò. ― Probabilmente, per puro e semplice romanticismo. Fin da quando ero bambina pensavo di dover andare sulle stelle, nello stesso modo in cui un principe in un racconto di fate deve andare alla terra degli Elfi. Alla fine, dopo aver molto insistito con i miei genitori, li ho convinti a lasciarmi iscrivere all’Accademia.
[…] Reymont tentò di mantenere la conversazione su un piano di assoluta banalità mentre si infilava nello Strömmen, attraccava a riva l’imbarcazione e si avvicinava con la donna a piedi attraverso il ponte che portava alla città vecchia. Superato il palazzo reale si trovarono in una zona illuminata in modo più blando, e camminarono per stradine strette fiancheggiate da edifici dalle facciate color dell’oro che erano rimaste sempre eguali da alcune centinaia d’anni. La stagione turistica era ormai finita; degli innumerevoli forestieri che ospitava la città, pochi avevano ragioni per visitare quel lembo di terra sperduto; fatta eccezione per qualche occasionale pedone o elettrociclista, Reymont e Lindgren erano praticamente soli.
― Mi mancherà tutto questo ― disse la donna.
― È uno spettacolo pittoresco ― concesse Reymont.
― È più di questo, Carl. Non è soltanto un museo all’aperto, perché qui vivono reali esseri umani. E coloro che hanno preceduto gli attuali abitanti è come se vivessero ancora. Oh, la Torre di Birger Jarl, la chiesa di Riddarholm, gli scudi della Casa dei Nobili, la Pace d’Oro dove Bellman bevve e cantò… Ci sentiremo soli nello spazio, Carl, così lontani dai nostri morti.
― Eppure lei sta per partire.
― Sì. Ma non è facile. Mia madre che mi ha partorito, mio padre che mi prendeva per mano e mi portava fuori all’aperto per insegnarmi a riconoscere le costellazioni. Quella prima notte, si sarà reso conto di ciò che stava facendo? ― Trasse un profondo respiro. ― In parte è per questo che mi sono messa in contatto con lei. Dovevo fuggire da ciò che sto facendo loro. Anche se per un solo giorno.

Tabella riassuntiva

Un’avventura interstellare che coinvolge il destino ultimo dell’Universo! Narratore onnisciente e “raccontato” a chili.
Speculazione realistica sulla possibilità di viaggiare a velocità luce. Digressioni infodumpose che spezzano il ritmo.
Un dramma esistenziale sugli equipaggi delle astronavi. Personaggi piatti e conflitto tenuto sempre al minimo.

(1) Non è così strano che una persona pensi e ripensi, anche nel dettaglio, a fatti e concetti così gravidi di conseguenze per la sua vita, considerando anche tutto il tempo libero che hanno i membri dell’equipaggio: è una cosa che facciamo tutti.Torna su

Assassin’s Fail

Assassin's CreedChi mi segue sa che ho da alcuni anni una passione per il Medioevo. Non per i mondi pseudo-medievali alla Tolkien o alla D&D, con i vecchi re saggi, le foreste piene di elfi immortali e le legioni di orchetti che arrivano sempre dall’angolo nord-ovest della mappa (dall’altra parte della catena di montagne a punta dove il cielo è sempre scuro).
Parlo del Medioevo vero, quello degli imperi che si disgregano e dei signorotti avidi che si arroccano nei loro castelli; delle città contese tra vescovi, principi e banchieri; delle flotte mercantili che si imbarcano alla volta dei regni pagani, in cerca di qualche affare. Dai monaci che si allontanano dalle città in dissoluzione rinchiudendosi nei monasteri ai cavalieri teutonici che, nel gelo delle coste del Baltico, convertono anime a colpi di gladio; dalle invasate in unione mistica con Dio al milite scalcinato che cerca fortuna entrando in una compagnia mercenaria. In particolare mi ha sempre affascinato seguire la storia delle nazioni e dei popoli; vedere come dal caos del V secolo d.C. siano nate a poco a poco le nazioni e la cultura di oggi.

E’ stato questo afflato ad avvicinarmi, io ingenuo liceale, ad Assassin’s Creed nel lontano Natale 2008. Aggirarsi tra le città del debole regno crociato sul finire del XII secolo, nei panni di un Assassino, era la realizzazione di uno dei miei sogni proibiti. Questo stesso afflato, risvegliatomi negli ultimi mesi dalla roba di sapore medievale che sto cercando di scrivere, mi ha spinto a rigiocarlo da capo a Natale di quattro anni dopo.
Della serie mi ero disamorato in fretta. Il primo gioco ai tempi mi era piaciuto, seppure con qualche riserva, ma Assassin’s Creed 2 mi aveva fatto talmente cagare da metterci un anno buono a trovare il coraggio di finirlo. I capitoli successivi non li avevo neanche considerati. A quattro anni di distanza, di storia – e soprattutto di storia medievale e rinascimentale – ne capivo molto di più; pensai che un gioco come il primo Assassin’s Creed mi sarebbe parso ridicolo, infantile e antistorico. Ero quindi piuttosto in imbarazzo quando misi il blu-ray nella PS3.

Gatto Templare

Eppure – eppure non mi è dispiaciuto rigiocarci. Anzi: mi sono divertito di nuovo. E’ vero, il gioco ha molti limiti. La trama, e in particolar modo quella ambientata nel presente, con la teoria complottistica alla Kazzenger dell’eterna lotta tra Templari e Assassini, è roba buona per dodicenni. La meccanica è ripetitiva; non tanto per il fatto degli omicidi in serie – che è un po’ l’anima del gioco, è figo e offre una sufficiente varietà di situazioni – quanto per la parte di preparazione delle uccisioni, che è sempre uguale e quindi sa di finto: la raccolta di informazioni, il soccorso agli abitanti, l’arrampicarsi in cima alle torri per memorizzare la topografia della città. Le città sono un po’ anonime; certo, ciascuna ha qualcosa di particolare (Damasco il fiume, le ville dal tetto a cipolla e i musulmani, Acri i crociati, il porto e la cittadella dei cavalieri, e così via) e un filtro di colori diverso (ehm), ma alla lunga un vicolo vale l’altro. Alcune parti del gioco – in particolare l’inizio e la fine – si vede che sono state fatte di fretta, per rispettare la scadenza.
Di sicuro il primo Assassin’s Creed aveva ampi margini di miglioramento. Ma la formula era spettacolare – una sorta di GTA storico con contorno di Hitman. Ciò che soprattutto intravedevo quattro anni fa, arrivato alle fasi finali del gioco, era il potenziale della serie: dove sarebbe potuta arrivare nei capitoli successivi. Mentre mi scorrevano davanti i titoli di coda, pensai: “Non potevano ritardare l’uscita e hanno dovuto fare le cose di fretta. Ma ora hanno acquisito il know-how. Ora la serie è famosa, e possono prendersi più tempo per sviluppare il prossimo capitolo. Ora hanno capito che la formula funziona, e possono raffinarla”.
Un anno dopo esce Assassin’s Creed 2, e fa cagare a spruzzo.

Assassin's Creed 2

Cos’è andato storto?
Ho già avuto modo di dire in diversi articoli che le regole di base della narrativa valgono per qualunque medium narrativo – letteratura, cinema, fumetto, videogioco. Le stesse regole si applicano ad Assassin’s Creed 2. Questo gioco è sbagliato in talmente tanti modi che non saprei da dove cominciare. Bastano cinque minuti per accorgersi che non ci si sta muovendo davvero nell’Italia rinascimentale, ma in un cartonato hollywoodiano.
Cos’è che per primo fa scattare la molla? Difficile dirlo. Forse sono le texture: i muri di Firenze troppo puliti, troppo levigati, che ricordano più una ricostruzione disneyana che una città vera; l’illuminazione, lampioni a petrolio che sembrano usciti dall’Ottocento e non dal tardo Quattrocento. Quella stessa trascuratezza che più tardi trasforma Venezia da laguna in un’isola in mezzo all’oceano (salite su un campanile e guardate il panorama: mare aperto in tutte le direzioni). “History is our playground” è il motto del team di sviluppo del gioco, ma considerando l’accuratezza storica che ci mettono direi che “history is our whore” sarebbe più appropriato. Per non parlare della tristezza di mettere il quartiere Oltr’arno di Firenze in una DLC a pagamento.

Forse è la trama. Il protagonista del primo Assassin’s Creed era un professionista che, in un mondo in guerra, era chiamato dal suo ordine ad ammazzare una serie di personaggi in vista per “riportare la pace”. Era un terrorista. Il clima di ambiguità morale che si respirava dietro ogni assassinio era affascinante, e il giocatore aveva voglia di scoprire assieme ad Altair quale fosse lo schema dietro gli ordini del Maestro.
La trama di Assassin’s Creed 2 è il Canovaccio Hollywoodiano Standard #652. Al ragazzetto sciupafemmine senza arte né parte viene ammazzata la famiglia. Ma il ragazzetto scopre che il padre era un Assassino, e che ad ucciderlo sono stati nientemeno che i Templari! Segue la solita trama di addestramento e vendetta. Il livello di banalità, la quantità di cliché è tale che tutto urla ‘finto!’; la sensazione di trovarsi sul set di un film d’azione prevale su quella di vivere cinquecento anni nel passato; non si riesce davvero a crederci, e questo è il FAIL più grande per un gioco che vorrebbe essere immersivo.
E oltre ad essere più banale, è anche più infantile. L’ambiguità morale del primo Assassin’s Creed è scomparsa. Là si gettava il seme del dubbio che i Templari potessero essere nel giusto; se gli Assassini fossero davvero migliori dei Templari, o se non fossero due facce della stessa medaglia. Nel secondo il problema non si pone: gli Assassini sono buoni, i Templari sono cattivi. Nel primo, anche le vittime sono interessanti; memorabile ad esempio il mercante omosessuale che organizza un banchetto per riunire i suoi rivali e poi ucciderli tutti insieme, o il vassallo frustrato di Riccardo Cuor di Leone che sfoga sui sottoposti i suoi istinti sadici. Nel secondo, i ‘cattivi’ sono gente genericamente assetata di potere, o di soldi, o di vendetta, individui talmente anonimi che li si confonde gli uni con gli altri. Quanto ai comprimari, sono tutte macchiette che esasperano la gestualità e la ‘veracità’ italiane, e la mancanza di fede religiosa che si attribuisce a quell’epoca.

Ezio Auditore Jackass

Forse è il fatto che la storia non è semplicemente insulsa; è pure raccontata male. Mentre il primo Assassin’s Creed aveva un arco narrativo compatto, il seguito si sfilaccia attraverso svariate decadi. Cosa succede nei mesi o negli anni che passano tra un capitolo e l’altro è infodumpato alla brutta nei dialoghi tra i personaggi; avvenimenti cruciali come il fatto che il ‘capo dei cattivi’ da un capitolo all’altro sia diventato Papa sono appena menzionati. Le distanze sono annullate. Nel primo gioco, il senso di realismo era accentuato dal fatto che le città erano collegate tra loro da ampi spazi di campagna (il ‘Regno’) da percorrersi a cavallo. Nel secondo, ogni ambiente è un compartimento stagno: esci da Firenze e sei a Monteriggioni, giri a destra di Monteriggioni e sei nei sobborghi di San Gimignano, e così via. Quelli di Ubisoft hanno pensato con arroganza di poter continuare a sfornare un gioco all’anno, e i risultati si vedono.
Forse è il background sempre più demenziale. Già il fatto di voler trascinare Assassini e Templari dal Medioevo nelle borghesissime città del Rinascimento italiano fa un po’ ridere. Ma la lotta tra le due fazioni assume proporzioni imbarazzanti. L’origine di Assassini e Templari (sotto altri nomi) vengono fatte risalire addirittura a Caino, neanche fossero i vampiri della Whitewolf; praticamente qualsiasi conflitto o avvenimento importante nella storia del genere umano è reinterpretato alla luce dello scontro tra Assassini e Templari. La Seconda Guerra Mondiale? Causata dai Templari. Giulio Cesare? Era un Templare. La Rivoluzione d’Ottobre? Templari. Non esiste nient’altro. Vengono pure messi in mezzo gli alieni! Diosanto. La sceneggiatura sembra scritta a quattro mani da Giacobbo e Ron Hubbard.

Tutte queste ragioni sono già sufficienti per fare del secondo Assassin’s Creed un gioco di merda. Ma no, il fatto peggiore è ancora un altro. E cioè, che la formula del primo capitolo è buttata alle ortiche: Assassin’s Creed 2 è un gioco su binari. Le uccisioni vanno ancora “preparate”, ma il giocatore non ha alcun controllo sulla suddetta preparazione. Questa consiste in una serie di minigiochi insulsi da eseguire nell’ordine prestabilito, seguendo di volta in volta gli ordini dell’aiutante dell’eroe di quel capitolo. “Vai dal punto X al punto Y, uccidi Z e poi torna a X”: questa è la formula di Assassin’s Creed 2. Tutto è scriptato, persino il modo in cui vanno uccisi i bersagli (espediente usato di rado nel primo gioco della serie). Anche un’escamotage banale come la possibilità di completare alcuni assassinii nell’ordine che si preferisce è sparito.
E dire che qualche timido passo in direzione di GTA viene fatto. Per esempio vengono introdotti il denaro e i negozi, che sono una cosa carina (benché nulla di nuovo) e danno più profondità all’esplorazione della città. Ma per ogni passo avanti, due passi indietro. Il gioco è talmente pilotato, e la storia talmente frammentata e mal raccontata, che è impossibile immergersi nell’ambientazione. Il giocatore smette di “vivere” la città rinascimentale (se mai ha iniziato) e comincia a pensare per obiettivi di gioco, del tipo: “adesso ammazzo questo bersaglio così mi si sblocca il nuovo quartiere”. La suspension of disbelief è morta, non dimentichiamo neanche per un secondo di stare stringendo uno stupido controller.

Assassin's Creed 2

Come sarebbe dovuta andare?
Il primo Assassin’s Creed, dicevo, era sulla buona strada per l’immersività, ma aveva tutta una serie di limiti. Questi si possono così riassumere: troppa poca libertà, e meccanica ripetitiva. I seguiti avrebbero quindi dovuto potenziare proprio gli aspetti che sono stati eliminati.
Personalmente, avrei lasciato la struttura “ad assassinii”: che ogni capitolo di gioco abbia come obiettivo l’uccisione di un personaggio, culmini nell’omicidio e finisca dopo che l’assassino è riuscito a far perdere le proprie tracce. La libertà si costruisce attorno a questo scheletro. Attraverso una varietà di sotto-missioni tra cui il giocatore può scegliere (a seconda dell’approccio che preferisce), l’eroe comincia ad ambientarsi nella o nelle città di gioco e a trovare dei contatti. Da questi dovrà scoprire chi sia la vittima e quale sia il modo migliore per ucciderla. La cosa può essere resa più interessante dall’introduzione di scadenze: per esempio, ogni capitolo potrebbe durare un mese, al termine del quale se la vittima non viene uccisa si ha fallito e bisogna ricominciare.

Nel corso di questo “mese” la vittima non rimarrà immobile. E’ una persona ‘vera’, e come tale farà tutta una serie di cose; un giorno si troverà nel quartiere degli armaioli a contrattare una fornitura, il giorno dopo visiterà la villa di un politico nel quartiere dei ricchi, il terzo starà nascosto nei sobborghi della città. Questo richiede ovviamente l’introduzione del ciclo giorno-notte reale (a partire dal secondo capitolo, Assassin’s Creed avrebbe un ciclo giorno-notte, ma è puramente estetico). Di notte i negozi saranno chiusi e le porte della città chiuse, ma sarà possibile incontrare alcuni personaggi chiave in un vicolo o in una taverna, o giocare a dadi in uno sgabuzzino o andare a puttane. Di notte sarà anche più facile infiltrarsi in una proprietà privata, sfuggire agli occhi delle guardie; e anche, naturalmente, compiere gli omicidi.
E a proposito di infiltrazione e omicidi: bisognerebbe potenziare le dinamiche stealth nella direzione di un Metal Gear Solid, perché negli Assassin’s Creed sono piuttosto deboli. Le mosse, per esempio: appiattirsi contro le pareti, bussare per attirare l’attenzione, sporgersi. Ma anche la possibilità di entrare in case e palazzi, o almeno in una parte di questi. Assassin’s Creed si svolge praticamente sempre all’esterno, e quando si può esplorare un interno in genere è un evento scriptato; ma questo amplifica l’idea che la città di gioco sia solo uno scenario di cartapesta.
E così via.

Things that teach me history

Dove abbiamo sbagliato…?

Ma queste mie parole sono un esercizio accademico, dato che la serie ha ormai decisamente preso un’altra direzione.
Avendo l’opportunità di comprarlo a poco, qualche mese fa mi sono preso Brotherhood, il terzo capitolo della serie. Si vede subito qualche timido tentativo di ritorno a una struttura più aperta, con la possibilità di crearsi reti di alleati, e completare alcune missioni nell’ordine che si vuole. Ma è il solito, magro contentino all’interno di una struttura rigidamente su binari.
Non so quanto abbiano fatturato di preciso i vari capitoli di Assassin’s Creed, e quindi se le scelte di Ubisoft abbiano pagato. Ma l’impressione è che la serie sia in declino. L’ambientazione di Assassin’s Creed 3 non ha prodotto alcun seguito ad alto budget, com’era capitato invece per il secondo gioco.
Proprio mentre cominciavo a scrivere questo articolo sono uscite le prime notizie sul prossimo capitolo, Black Flag. Tristezza a palate: la decisione di Ubisoft di buttarsi su un’ambientazione blockbuster come il Mar dei Caraibi mi lascia pensare che in azienda non sappiano più che pesci pigliare. Ci si allontana sempre di più da quelli che erano gli unicum del primo Assassin’s Creed, annacquando il gioco in ambientazioni e meccaniche che non c’entrano niente (la possibilità di controllare una nave? Gli arrembaggi? WTF?). Del resto, già la decisione di spostare Assassin’s Creed 3 in America suonava bizzarra, e dettata più da esigenze di marketing che di trama.

E tuttavia…
C’è qualcosa di davvero affascinante in Assassin’s Creed. E’ l’idea dell’Animus; della possibilità di rivivere il passato e la vita dei propri antenati risvegliando la nostra memoria genetica. L’idea che tutta la nostra genealogia sia intrappolata nel nostro organismo e possa essere tirata fuori. Certo, Assassin’s Creed non ha “inventato” niente, sono temi presenti nel fantasy e nella fantascienza da tempo; ma gli ha dato una bella veste. Potrei arrivare a dire che forse giocare al primo Assassin’s Creed, quattro anni fa, potrebbe essere stata una delle molle che mi hanno spinto ad approfondire lo studio della storia medievale e rinascimentale. Di certo, rigiocarlo tre mesi fa mi ha ispirato la lettura di alcune cosine interessanti. Quindi, forse, la storia ha un lieto fine.
Quel che è certo, è che non ho intenzione di chiudere il mio rant su note negative. Ho pensato questo post come un articolo d’apertura per un piccolo ciclo di interventi che ha in vario modo a che fare col mondo evocato dal primo Assassin’s Creed: le Crociate, il Medio Oriente bassomedievale, eccetera. Sto lavorando a due o forse tre articoli curiosi che dovrebbero essere pronti nelle prossime settimane. Ovviamente non sono Zwei, non sono un vero esperto, e mi limiterò a parlarvi delle mie letture.
Lunedì prossimo, invece, per i nostalgici, dovrebbe essere pronto il nuovo Consiglio.

Assassin's Creed 3

Il declino inarrestabile della serie.

Appendice: A Modest Proposal
Benché ormai cercare di salvare la serie sia come voler rianimare un cadavere, e nonostante il fatto che non c’è una sola cosa della trama massonica su Assassini e Templari che non mi faccia cagare, la mia immaginazione senza controllo non ha potuto fare a meno di chiedersi dove potrebbe essere ambientato un seguito ‘ideale’ di Assassin’s Creed; un’ambientazione meno demenziale del Mar dei Caraibi. Ecco la mia idea in poche parole.

Due gli spunti da cui sono partito.
Uno: prima che annunciassero Assassin’s Creed 3, ero straconvinto che sarebbe stato ambientato a Parigi durante la Rivoluzione. Oltre ad essere un’epoca di per sé figa, è una delle ambientazioni più conosciute e mainstream della storia europea, assieme a Crociate e Rinascimento italiano. Sarebbe stata una continuazione più fedele allo spirito della serie rispetto alla Rivoluzione Americana.
Due: mi sono sempre chiesto perché non abbiano mai fatto un gioco ambientato nella Parigi trecentesca, all’epoca in cui Filippo il Bello sopprime l’ordine dei Templari. All’interno della storyline di Assassin’s Creed, dovrebbe essere un momento cruciale: una delle due fazioni fondamentali viene dichiarata illegale e sciolta. Il gran maestro dell’ordine, Jacques De Molay, fu arso vivo davanti a Notre Dame. Da allora, secondo la storia demente della serie, i Templari cominceranno a muoversi nell’ombra. Interessante, no?
Una risposta che mi sono dato alla domanda di cui sopra, è che la Parigi medievale (per non parlare della Francia feudale in generale) non è probabilmente un’ambientazione interessante come le altre; sceglierla sarebbe stato un azzardo. Ma poi mi sono detto: perché non mettere le due cose insieme?

Assassin's Creed 5

Immaginate. Un gioco a cavallo tra due epoche, tra due Parigi: quella trecentesca, e quella di fine ancien régime. Il gioco si muoverebbe tra l’una e l’altra, magari con un capitolo a testa, magari in modo più sofisticato (per esempio, il giocatore potrebbe scegliere con un comando apposito di spostarsi in qualunque momento dall’una all’altra). A livello narrativo, la cosa sarebbe giustificata prendendo come protagonisti due antenati parigini della stessa persona, che quindi può ripercorrere a piacere la propria memoria genetica dall’uno all’altro antenato.
Sul piano della trama, il giocatore potrebbe scoprire cosa sia successo veramente all’epoca del processo ai Templari. La cosa potrebbe essere resa ancora più interessante scegliendo come protagonista, questa volta, non un Assassino ma un Templare. Magari un Templare sbarbino: questo tizio si trova da un giorno all’altro a non poter più vivere alla luce del sole ma doversi muovere nell’ombra, da ricercato. Il punto di contatto tra le due timeline potrebbe essere la ricerca di uno di quei tristissimi Frutti dell’Eden: magari il Templare protagonista della prima timeline lo nasconde da qualche parte a Parigi (per esempio nelle Catacombe?), mentre il protagonista della seconda deve ritrovarlo. La necessità di rivivere entrambe le vite si spiega così con il bisogno di tracciare i movimenti del frutto.
Sul piano dell’esperienza di gioco, il giocatore potrebbe vedere come si è trasformata la stessa città da un’epoca all’altra. Cosa è rimasto, come Notre Dame, cos’è cambiato. Prendere alcune decisioni nella prima timeline potrebbe influenzare situazioni nella seconda – da cose importanti come biforcazioni nella trama ad altre più sottili come l’apertura o meno di un negozio esclusivo (fondato, magari, dal discendente di un uomo che potrebbe essere o non essere morto prima di avere figli nel passato).

Io l’ho buttata lì; secondo me, sarebbe una figata1.

It was Templars

I’m not saying it was Templars but…

(1) Pur rimanendo all’interno della cornice mongoloide della serie.Torna su

Metto gli occhialoni e arrivo

SteamCamp 2013Dai un genere narrativo in pasto a un markettaro, e dal suo sfintere usciranno tonnellate di merda. Garantito.
E’ questo che ci ha insegnato, ancora una volta, il boom statunitense dello Steampunk. In una maniera che ricorda l’epoca d’oro (se così vogliamo dire) del fantasy adolescienziale italiano, nell’arco di tre-quattro anni il mercato della narrativa fantastica si è popolato di opere che di steampunk avevano solo il claim.  Gli autori: scrittori di basso livello che, capito il nuovo trend (e magari imbeccati dal loro agente), si saranno fatti un giretto su Wikipedia e su qualche sitarello di “estetica steampunk”, per poi buttare giù la prima storia che gli veniva in mente. Quando si è imbarcata nell’impresa, l’autrice di Steamed – un capolavoro del porno con dirigibili – era reduce da un ciclo di libri sui vampiri innamorati, e nove copertine su dieci dei suoi romanzi ospitano bei tenebrosi a petto nudo. Giusto per darvi un’idea.
Qualcosa di buono forse c’è stato, come la trilogia The Bookman Histories di Lavie Tidhar (qui Mr. Giobblin ha recensito The Bookman, primo libro del ciclo). Ma poca roba.

Attorno allo Steampunk c’è grande confusione; un sacco di gente si è messa a compilarne “canoni” senza criterio e ci ha messo roba diversa. Del resto è naturale; lo steampunk non è un genere facile, esige molta documentazione. Il Duca, che oltre ad essere un esperto enciclopedico del Lungo XIX Secolo è una persona precisa e ama la chiarezza, ha dedicato il suo blog a spiegare cosa sia esattamente lo Steampunk; quali siano le sue radici e  i suoi elementi costitutivi. Il suo sogno: che prima o poi gli scrittori italiani (ma anche i filmmaker, i cosplayer, e così via) la smettano di fare le cose a sentimento e imparino a informarsi.
Lo SteamCamp, che il Duca ha contribuito a realizzare con altri appassionati, nasce dallo stesso desiderio. Unito a quello di fare una figata di evento. Ma cos’è lo SteamCamp? Nelle parole del Duca, è

un evento dedicato allo Steampunk in senso ampio (un po’ di Dieselpunk incluso, fantascienza d’epoca inclusa), voluto da un gruppo di appassionati e organizzato nei mesi scorsi con il mio aiuto. A loro gli aspetti pratici e concreti, quelli senza cui non si possono fare eventi, e a me le decisioni sugli argomenti da trattare e su come indirizzare il Camp.

Lo SteamCamp si terrà sabato 6 e domenica 7 aprile (il weekend successivo a Pasqua, quindi) all’Hotel Filanda di Cittadella, in provincia di Padova. Il Duca ci ha dedicato un articolo su Baionette Librarie un mesetto fa; vi consiglio di darci un’occhiata. Qui invece il sito dello SteamCamp. Da un po’ di tempo volevo rimbalzare la notizia, ma in questo periodo, come forse avrete notato, ho potuto dedicare ben poche attenzioni al blog. Be’, come si dice: meglio tardi che mai. E poi, un remainder a un mese dalla scadenza non è una brutta idea.

Steampunk Italia

Quelli di Steampunk Italia. Tutte le foto dell’articolo sono prese dalla galleria fotografica del sito dell’evento.

In questi giorni mi sono girato un po’ il sito dello SteamCamp, per farmi un’idea dell’evento. E dato che sono un nerd assetato di sapere, la prima cosa che sono andato a guardarmi è il programma delle conferenze. Ne ho subito adocchiato una manciata di interessanti. Cominciamo da quelle a carattere letterario.
Introduzione allo Steampunk e Le fonti dello Steampunk sono le due conferenze tenute dal nostro Duchino (nome quando non è un coniglietto: Marco Carrara). Non mi aspetto che dica molte cose nuove rispetto a quello che già dice sul suo blog – e che si può sintetizzare in questo e in quest’altro articolo – ma volete mettere l’ebbrezza  di sentirglielo dire dalla sua viva bocca? Poi c’è Alieni nella fantascienza storica, un excursus sulla narrativa con gli “alieni”, e in particolare con la fissa per Marte sbocciata tra la fine dell’Ottocento e il secondo decennio del Novecento. La presentazione sul sito cita La guerra dei mondi, Edison’s Conquest of Mars e i romanzi marziani di Burroughs – tutta roba che può diventare (e in alcuni romanzi lo è già diventato) ottimo materiale per storie e ambientazioni steampunk. Questa conferenza mi accattiva di meno delle altre – non credo mi dirà granché di nuovo sull’argomento – ma se avrò un buco libero la seguirò volentieri.

Le più interessanti sul versante letterario sono sicuramente le due conferenze che sponsorizzano nuove pubblicazioni italiane. Libri marziani presenta due libri a tema steampunk pubblicati (o in via di pubblicazione) da Delos Books: L’ambasciatore di Marte alla corte della regina Vittoria di Alan K. Baker (The Martian Ambassador in originale) e Le ombre di Marte, trilogia di romanzi dell’autopubblicato Augusto Chiarle che dovrebbero essere dei seguiti de La guerra dei mondi. Sì: Delos è la casa che gestisce quella fogna di Fantasy Magazine e ha pubblicato opere memorabili come i romanzi di Kay Pendragon; e sì, a presentare è Silvio Sosio, quello che sotto vari alias trollava su Gamberi Fantasy. Sarà la loro occasione per redimersi? Lo scoprirò di persona.
Due ore dopo, un’altra conferenza introduce altri due steampunk italiani: Mondo9 di Dario Tonani, una raccolta di quattro racconti con cornice su di una grossa macchina senziente che vaga per un pianeta desertico, ancora una volta pubblicato da Delos, e il racconto lungo dell’autopubblicato Ferrara Soldati a Vapore, ambientato all’epoca delle guerre d’indipendenza italiane.
Non ho ancora letto nessuno dei libri che saranno presentati, ma sono ottimista. Il romanzo di Baker ha buone recensioni su Amazon e pare interessante – più della media dei libri etichettati ‘steampunk’ degli ultimi anni – e Chiarle sembra uno che ci capisce; oltre a far parte del comitato organizzativo dello SteamCamp, è un musicista e si occuperà di una conferenza sulla musica steampunk! Il racconto steampunk di Ferrara è l’unico che abbia mai letto – a parte qualcuno presente nell’antologia del Duca di prossima pubblicazione – ad ambientazione risorgimentale, e Tonani sembra essersi guadagnato una piccola popolarità anche all’estero. Sicuramente leggerò alcune di queste opere nei giorni dello SteamCamp o dopo il mio rientro; e non mi dispiacerebbe l’idea di dedicare qualche articolo del blog alle mie impressioni.

SteamCamp

What the fuck is this shit!?

In realtà, però, le conferenze che mi incuriosiscono di più non sono quelle sulla narrativa ma quelle più storiche! Per la precisione mi riferisco a queste due conferenze:
Informatica nel XIX secolo, che partendo dalla macchina analitica del fighissimo Babbage (ispiratrice del romanzo steampunk The Difference Engine, recensito sul blog) si lancia in una storia dell’informatica dell’epoca. A parlare è Gino Roncaglia – un tipo in gamba, dato che oltre ad essere filosofo è l’autore dell’e-book La quarta rivoluzione.
Innocenzo Manzetti: automa e altro, sul negletto inventore italiano bravissimo a progettare marchingegni rivoluzionari ma, purtroppo per lui, inetto a trasformarli in un business. Ha inventato un automa capace di suonare il flauto per davvero e avrebbe pure battuto sul tempo Meucci nella realizzazione di un telefono funzionante! Non avevo mai sentito parlare di Manzetti prima che il Duca gli dedicasse uno spazio nel suo articolo sul Risorgimento italiano, ma ora sono decisamente incuriosito.
E le conferenze sono solo la punta dell’iceberg! Allo SteamCamp saranno presenti anche cosplayer e appassionati di estetica steampunk; si parlerà anche di fumetto, di cinema, di design steampunk; ci sarà un laboratorio di costume vittoriano; spazi per condividere e discutere idee legate a questo mondo; una festa con musica al sabato sera; e così via. E il programma continua ad essere aggiornato! Dalla prima volta che ho visitato il sito sono già stati aggiunti altri eventi, e altri probabilmente se ne aggiungeranno. Quindi vi consiglio di aggiungere la pagina del sito al vostro feed reader.

E’ raro che io vada a una fiera o a un “evento”; mi annoio. Se ho deciso di andare a questo, è perché sembra una roba come Dio comanda. Del resto, le prime voci attorno allo SteamCamp lo davano per lo scorso autunno; se il Duca e gli altri organizzatori l’hanno via via posticipato, è stato per organizzare le cose per bene e fornire un’esperienza completa, invece di una roba raccogliticcia.
Cosplay e rievocazione storica, design, narrativa, nuove proposte, storia, musica. Lo SteamCamp sembra rivolto sia ai cosplayer1, sia agli amanti dello steampunk, sia agli interessati in generale alla cultura dell’Ottocento. Io ci vado. Voi fateci un pensiero – e ricordatevi di iscrivervi sul sito se decidete di venire, sia che (come me) vogliate essere semplici spettatori, sia che vogliate esporre anche voi qualcosa. Le iscrizioni chiudono il 3 aprile.

Link rapidi:
Sito dell’evento SteamCamp 2013
Pagina Facebook dello SteamCamp
Articolo del Duca sullo SteamCamp

Modern Steam Motorbike

Mi ricorda un romanzo di Dick…

(1) Ma se riuscite a lasciare a casa gli occhialoni con gli ingranaggi dentro è meglio.Torna su

I Consigli del Lunedì #31: Farewell Horizontal

Farewell HorizontalAutore: K. W. Jeter
Titolo italiano: L’addio orizzontale
Genere: Science Fiction / Social SF / Distopia / Cyberpunk
Tipo: Romanzo

Anno: 1989
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 260 ca.

Difficoltà in inglese: ***

In un remoto futuro che ha perso il ricordo del proprio passato, l’intera umanità vive chiusa nel Cilindro, una gigantesca torre cilindrica le cui fondamenta si perdono sotto le nuvole. Ny Axxter è un artista freelance che per non perdere la propria libertà si è trasferito sulla superficie esterna del grattacielo. La società del Cilindro, infatti, è dominata dalle supercorporazioni della tecnologia e delle comunicazioni; essere assunti da una di esse significa firmare un contratto a vita che trasforma in poco più che schiavi, con orari di lavoro estremi e libertà di movimento quasi inesistente. Coloro che non accettano questo compromesso hanno una sola possibilità: abbandonare l’orizzontale e andarsene a vivere sulla verticale.
Ma quella del freelance è una lotta contro la fame. Axxter si guadagna da vivere creando simboli e animazioni di guerra per le tribù della verticale – clan guerreschi che competono per la vita e la posizione sociale e vengono quotati nella Borsa delle corporation. Ma il suo agente è un incapace (nonché un truffatore che gli frega una percentuale più alta di quella dovuta), e tutte le tribù con cui gli stila dei contratti si rivelano dei fallimenti. Finché ad Axxter capita l’occasione di una vita; l’opportunità di legarsi a uno dei più forti clan della verticale e assicurarsi un futuro di prosperità, proprio mentre nel Cilindro si prepara una grandiosa rivoluzione…

Nella narrativa di genere, Jeter è sempre stato un autore di secondo piano; di lui si è detto spesso che è il successore di Dick, ma viene letto poco. Non ha mai vinto grandi premi, e la maggior parte dei suoi libri sono andati fuori stampa. Si è guadagnato un piccolo posto nella storia della fantascienza come l’inventore del termine ‘steampunk’, e grazie alla recente rinascita del movimento è stato riscoperto come pioniere del genere (e di questo dobbiamo anche ringraziare la Angry Robot, che ha ripubblicato nel 2011 l’orrido Morlock Night e il divertente Infernal Devices).
Ma Jeter è prima di tutto uno scrittore di cupa Science Fiction, e di un tipo molto particolare di cyberpunk. Farewell Horizontal – che ritengo, e non sono il solo, il miglior libro di Jeter – ne è un esempio calzante: una storia di sopravvivenza e cinismo in un mondo alieno, sul confine tra romanzo d’azione, slice of life cyberpunk e metafisica. La domanda è: sarà riuscito a tenere tutto insieme?

Parkour

Qualcosa del genere.

Uno sguardo approfondito
Il romanzo è scritto in terza persona, ma il pov è fissato per tutto il romanzo sul protagonista – tutto è filtrato attraverso la sua cinica voce narrante. Ny Axxter è il tipico protagonista delle storie non-steampunk di Jeter: un tipo che dalla vita ne ha prese tante, e quindi è diventato disilluso e scazzato; un egocentrico e ipocrita, che a parole fa la vittima ma poi non esiterebbe a pugnalare i suoi colleghi per salire qualche gradino della scala sociale; un tipo con una certa vena autodistruttiva e la tendenza a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato, in un modo che ricorda i protagonisti dickiani. Insomma – un vero antieroe, che però è talmente perseguitato dalle sfighe che non può non suscitare empatia e una certa immedesimazione. E in questo aiuta una certa dose di ironia, un tono leggero e sarcastico nel raccontare il susseguirsi di disavventure che toglie pesantezza al cinismo della storia.
A livello di prosa, Jeter si piazza nella fascia alta degli scrittori di genere – un gradino sotto virtuosi come Mellick o VanderMeer, ma sopra Finney, Asimov e la maggior parte degli altri. Anche Jeter gioca a volte a fare l’intellettualoide dalle frasi ricercate, come tutti o quasi gli scrittori New Wave, ma molto meno di uno snob come Gibson, e in questo romanzo meno che negli altri. Soprattutto, è un buon mostratore. Il mondo di Farewell Horizontal è stranissimo, pieno di idee bizzarre e difficile da visualizzare; ma Jeter riesce a illustrarlo mantenendo gli infodump al minimo. Ogni nuovo gadget o caratteristica del Cilindro è descritta in azione, accompagnato (e non sempre) da poche righe di spiegazione nel timbro naturale del protagonista.

Soprattutto, la prosa di Jeter è in grado di trasmettere la sensazione, l’ebbrezza di vivere su una superficie verticale. Per gran parte del romanzo, Axxter si muove lungo la superficie esterna del Cilindro, assistito dagli snakes, cavi metallici con ganci intelligenti che gli partono da piedi, gambe e cintura e, conficcandosi e sconficcandosi nel muro, gli permettono di spostarsi. Ma i cavi fanno molto di più; per esempio, si trasformano in una sorta di culla-branda agganciata al muro per permettergli di dormire. Jeter deve descrivere al lettore tutta una serie di movimenti e gesti molto complicati e innaturali, oltre che tenere costantemente conto degli effetti della forza di gravità, dell’afflusso sanguigno, eccetera.
Una cosa del genere, nelle mani di uno scrittore non all’altezza, poteva trasformarsi in un guazzabuglio visivamente incomprensibile oppure spegnersi in un romanzo trascurato, dove solo ogni tanto l’autore si ricorda di essere in verticale anziché in orizzontale. Invece, in Farewell Horizontal, anche nei momenti più concitati – e ci sono un paio di scene d’azione piuttosto complesse – si capisce cosa sta succedendo, si riesce a visualizzare la scena. E Jeter è molto preciso nella descrizione dei movimenti, al punto da mostrare come Ny redistribuisca il peso quando passa dalla posizione “culla” alla posizione in piedi.
Certo, neanche Jeter si risparmia alcuni errori da principiante. In un paio di occasioni, durante scene d’azione, apre delle parentesi di spiegazione che, benché brevi e filtrate dall’io narrante, arrivano al lettore come un pugno in un occhio. Più spesso, Axxter si mette a riflettere e a sviscerare ciò che gli sta accadendo, e diventa logorroico: tripudio di domande retoriche (ma allora stava succedendo così e così? O volevano fargli questo e quell’altro? Davvero lui aveva pensato di poter…? Come aveva potuto essere così sciocco?), dubbi, avvenimenti rianalizzati a poche pagine di distanza alla luce di un solo nuovo elemento. Forse Jeter voleva semplicemente caratterizzare meglio il suo antieroe, mostrandoci le sue ansie e la sua umanità – o, pensiero peggiore, è un’operazione scemo-friendly per ricapitolare e far capire anche ai lettori inetti cosa esattamente stia succedendo – ma facendo così diventa pesante e ridondante.

Il cavallo che non volle piegarsi al sistema.

Come ritmo e gestione della trama, il romanzo ha luci e ombre. La storia parte molto in sordina; i primi capitoli introducono l’ambientazione e i problemi finanziari (ed esistenziali) del protagonista, ma non è chiaro dove l’autore voglia andare a parare. Solo le continue trovate e la ricchezza del mondo di Farewell Horizontal fanno superare al lettore l’inerzia di questa cinquantina abbondante di pagine. Dopo i primi quattro capitoli la storia finalmente decolla – la direzione del romanzo diventa più chiara, il ritmo si fa serrato; salvo poi rallentare nell’ultima parte del romanzo e finire in maniera del tutto anticlimatica.
Il problema sta forse nel fatto che Jeter cerca di conciliare in questo romanzo tre anime diverse, senza riuscirci davvero. C’è il romanzo d’azione: inseguimenti rocamboleschi, pestaggi, esplosioni, Axxter che deve di volta in volta trovare l’escamotage per non rimetterci il collo. Poi c’è il romanzo esistenziale: il dramma dell’outcast, dell’artista di strada alla ricerca della felicità in un mondo cinico che non lo ama, e che probabilmente è un’allegoria di quella che a Jeter pareva essere la propria vita. E il romanzo metafisico, che punta al sense of wonder attraverso la stranezza dell’ambientazione, l’enorme Cilindro semi-disabitato di cui non si sa chi l’abbia costruito, quanto sia lungo, chi ne abiti le profondità. Queste anime si giustappongono l’una all’altra per tutto il romanzo, ma non si amalgamano mai molto tra di loro; e nessuna di queste raggiunge un epilogo davvero soddisfacente.

Prendiamo l’ambientazione. Le idee fighe abbondano, a partire dalla vita quotidiana di chi vive sulla verticale. Moto truccate munite di serpenti alle ruote, per viaggiare velocissimi seguendo i cavi-guida posti negli snodi più importanti del Cilindro dall’amministrazione centrale; prese nei muri che permettono agli outcast di collegarsi alla rete per scaricare le notizie del giorno e mappe GPS che danno la posizione delle bande guerriere lungo la verticale. La rete di Farewell Horizontal è qualcosa di molto più rudimentale del nostro Internet; assomiglia alla rete telefonica degli anni ’50, con un centralino che filtra tutte le richieste, e i servizi che sono tutti a pagamento. Ma attraverso la rete si può anche proiettare la propria coscienza in ologrammi in qualsiasi punto del Cilindro. E ci sono pure gli hacker, maghi della rete capaci di impossessarsi dei corpi della gente loggata e controllarli come marionette; ma la concezione di Jeter degli hacker e della loro genialità è un po’ diversa (e più cinica) rispetto a quella di un Gibson o di uno Sterling.
Poi ci sono gli angeli, creature umanoidi, eteree e dall’intelligenza rudimentale, che si tengono lontane dagli uomini ma che talvolta possono essere viste volteggiare attorno al Cilindro, mentre scopano a mezz’aria con i loro simili. O i Dead Centers, creature luciferine che nessuno ha mai visto in faccia, di cui si dice che vivano murati al centro del Cilindro e che attraverso le pareti tentino gli esseri umani ad aprirgli con le loro lusinghe; e che talvolta si manifestano con enormi esplosioni che cancellano interi settori e aprono ferite fumanti sulla verticale. O l’altro lato del Cilindro, quello dove il sole tramonta, e che nessuno ha mai mappato perché nessuno ne è mai tornato. E una marea di altre trovate, calate in un mondo dove tutti ti vogliono fregare e i primi a pugnalarti alle spalle sono i tuoi collaboratori più stretti.

Questa è più o meno la stima che Jeter ha degli hacker.

Eppure… eppure si arriva alla fine del libro con l’amaro in bocca. Troppe le domande lasciate senza risposta, troppe le idee interessanti abbandonate a sé stesse subito dopo essere state introdotte, troppe le false piste che si aprono nel corso della storia e finiscono nel niente. Anche in Rendezvous with Rama si scopre ben poco sulla navicella aliena che ha invaso il Sistema Solare; ma nel romanzo di Clarke, il senso di irrisolto fa parte di quel che l’autore voleva dire, ha un senso nell’economia della storia – insomma, va bene così. In Farewell Horizontal, l’impressione è invece quella di incompiuto, di lasciato a metà, come se semplicemente Jeter non avesse più nulla da dire, non sapesse più che farsene del suo Cilindro.
E come la componente metafisica lascia insoddisfatti, così anche le altre. Nonostante il continuo crescendo di azione e di tensione tra i vari personaggi del romanzo, non si arriva mai a un epico scontro finale. Né, alla fine, l’eroe trova delle risposte alla sua ricerca interiore di felicità – anche se forse la componente “esistenziale” del romanzo trova un epilogo un po’ più degno delle altre. Forse.

Insomma, come accade quasi sempre in Jeter, il romanzo parte pieno di ambizioni per poi afflosciarsi, come direbbe il Duca, come il pisello di un vecchio. E’ una di quelle storie che piace di più a metà o a tre quarti, che quando si arriva all’ultima riga. Col che non voglio dire che sia un brutto romanzo; solo, che poteva essere un capolavoro e invece si limita ad essere sopra la media.
Di sicuro è un romanzo originale. Implementa molto del cyberpunk, ma lo fa in modo tutto suo, calandolo in un’ambientazione atipica e con toni molto meno “libertari” di quelli tipici del genere. E’ anche un romanzo che, per tono, concentrato di idee, protagonista e comprimari, ricorda da vicino la Bizarro Fiction, pur restando sempre troppo controllato per diventare Bizarro. Potrebbe essere il cugino più soft e più intellettuale di Warrior Wolf Women of the Wasteland di Mellick (al quale lo preferisco!). Agli amanti della Bizarro meno pop e del New Weird dovrebbe piacere a prima vista.
Ed è uno di quei libri che non si può dimenticare di aver letto. Anche a distanza di anni, continuerà a evocare immagini nella mia testa, ne sono sicuro – l’immagine di artisti sfigati che camminano sulla superficie verticale di un cilindro infinito, sullo sfondo delle nuvole gialle della luce dell’alba, con serpenti metallici che gli escono dalle scarpe, alla ricerca di una presa internet in cui pluggarsi, inseguiti da orde di omaccioni borchiati e tatuati in motocicletta. Come dice un recensore su Amazon: se volete leggere un romanzo di K.W. Jeter, leggete questo.

Star Wars - The Mandalorian Armor

Nella sua vita, Jeter ha dovuto ingoiare molti bocconi amari.

Dove si trova?
Purtroppo Farewell Horizontal in lingua originale non si trova piratato, ma può essere acquistato in formato kindle su Amazon, nell’edizione Herodiade, alla dignitosissima cifra di 3,62 Euro. Se riuscite a guardare la copertina senza che vi esplodano gli occhi, ovvio.
In compenso, su Emule ho trovato diversi file dell’edizione italiana (“L’addio orizzontale”), nei formati ePub, mobi, pdf, doc, rtf.

Su Jeter
Anche se ci sono scrittori migliori di lui sulla piazza, Jeter meriterebbe più notorietà di quella che ha, e soprattutto ci vorrebbero più sue opere digitalizzate. Tra i libri suoi che ho letto ci sono luci e ombre, ma più le prime che le seconde. Eccoli:
Dr. AdderDr. Adder è il primo romanzo scritto da Jeter, benché non sia il primo pubblicato. Realizzato nel 1972 (dodici anni prima della pubblicazione di Neuromante), fu definito da Dick il primo vero Cyberpunk, ma gli editori l’avrebbero respinto per anni perché eccessivamente scabroso. In un prossimo futuro, il disilluso Allen Limmit si reca in una Los Angeles anarchica alla ricerca del famoso Dr. Adder, chirurgo estetico che altera in modi assurdi i corpi delle prostitute per soddisfare le perversioni dei loro cliente. Limmit vuole concludere un affare con Adder, ma i due si troveranno invischiati in una rivoluzione tra gli anarchici dell’Interfaccia e l’esercito perbenista del predicatore televisivo Mox. Il romanzo ha molte idee suggestive, e Adder è un personaggio affascinante; ma la storia è troppo frammentata, un sacco di sub-plot non vanno da nessuna parte e l’ossessione di Jeter per lo scabroso a tutti i costi stanca. Così così.
Morlock Night Morlock Night (La notte dei Morlock) è un seguito horror-fantasy di The Time Machine di Wells. I Morlock si sono impossessati della macchina del tempo, e dal futuro sono tornati nella Londra vittoriana per portare rovina e pasteggiare a base di gentiluomini britannici. L’idea è interessante e il romanzo parte bene, ma prende una bruttissima piega quando si intromettono Re Artù, la lotta del Bene contro il Male e la ricerca di tutti i pezzi della spada Excalibur per ridonare le forze al campione della luce. Una cagata pazzesca, sconsigliata a tutti tranne che agli amanti del trash estremo o a chi nutra una curiosità storica verso le origini dello steampunk.
Infernal Devices Infernal Devices (Le macchine infernali) è una tragicommedia in salsa vittoriana. George Dower, gentiluomo londinese senz’arte né parte, gestisce un negozio di diavolerie meccaniche lasciategli in eredità dal padre geniale. La sua vita tranquilla viene sconvolta dall’arrivo di un cliente negro con una richiesta particolare. Da allora, Dower precipita in una serie di intrighi sgangherati, tra uomini pesce che hanno colonizzato un quartiere di Londra, ordigni capaci di far esplodere il mondo, automi pensanti caricati a molla dalla notevole potenza sessuale, viaggiatori del tempo e logge massoniche. Stile e ritmo sono altalenanti e la storia è troppo esageratamente grottesca per essere davvero immersiva, ma si legge che è un piacere. Questa è l’opera steampunk di Jeter che merita di essere ricordata, e forse ci scriverò un post in futuro. Jesus H. Christ!
Noir Noir è un cyberpunk amarissimo, in un mondo collassato e in preda all’anarchia, dove i corporativi fanno il bello e il cattivo tempo in mezzo a giovani che si prostituiscono e barboni non-morti tenuti in vita finché non avranno pagato tutto il debito che hanno con le banche. McNihil, investigatore privato che si è fatto impiantare negli occhi un filtro in bianco e nero che gli fa vedere il mondo come se fosse un film noir, è arruolato da una supercorporation per indagare su un omicidio che lo metterà sulle tracce di perversi pirati del copyright che minacciano il mondo intero. Noir è immersivo e pieno di trovate affascinanti; ma l’insistenza feticistica di Jeter verso tutto ciò che è disgustoso, crudele, umiliante, sgradevole, la prosa lenta e intellettualoide, e il suo rant destrorso contro i violatori del copyright e i pirati del digitale (alla gogna!), fanno girare i coglioni. Da leggersi solo quando si è di ottimo umore.
Mi piacerebbe leggere qualche altro suo romanzo, come il decantato The Glass Hammer, ma allo stato attuale esistono solo cartacei fuori commercio. Auspicando una futura digitalizzazione dell’autore, per il momento mi limiterò ad aspettare.

Chi devo ringraziare?
Se sono arrivato a leggere Farewell Horizontal, una volta tanto non devo ringraziare persone che conosco personalmente ma due scrittori. In primo luogo Philip Dick, che in vita parlò sempre bene del suo pupillo e spinse molto Dr. Adder. Insomma: se il mio idolo letterario ne parla bene, deve pur valere qualcosa! In secondo luogo Jeff VanderMeer, che nella postfazione a Infernal Devices (nell’edizione della Angry Robot) ricorda ai lettori che Jeter non è solo proto-steampunk; anzi, che alcuni dei suoi risultati migliori li ha avuti nell’horror e nel cyberpunk (e questo è uno dei romanzi citati). Insomma: se lo dice il decano del New Weird, sarà vero…!
Poi, ovviamente, avrei da ringraziare in misura diversa anche il Duca – che nel suo parlare di steampunk mi ha scolpito nella testa il nome di Jeter – e Mr. Giobblin – che mi ha segnalato la ripubblicazione dei romanzi steampunk di Jeter da parte di Angry Robot. E magari la stessa Angry Robot. Insomma, devo ringraziare un macello di gente.

Blade Runner 2 - The Edge of Human

molti bocconi amari…

Qualche estratto
Per questo Consiglio ho scelto due brani che, mentre davano un’idea generale del protagonista e del “tono” della narrazione, si focalizzassero su due degli elementi più interessanti dell’ambientazione: la connessione alla rete e il movimento sulla verticale. Nel primo Axxter, subito dopo aver avuto la fortuna di immortalare due angeli che facevano sesso, vuole loggarsi per contattare il suo agente e verificare quanti soldi può farci. Il secondo è una scena di vita quotidiana: Axxter che smonta il campo alle prime luci dell’alba e chiama la sua motocicletta.

1.
For most of this excursion he’d been traveling off-line, the Small Moon being over-curve, all signal to or from it being blocked by the building itself. And in this scurfy territory, the building’s exterior desolate and abandoned in every direction, Ask & Receive hadn’t been able to sell him a map of plug-in jacks. So finding this one had been a break, as well. Maybe that’s when my luck started. Axxter rattled his fingertip inside the rust-specked socket; a spark jumped from the tiny patch of metal to the ancient wire running inside the building. Last night, when I found this; maybe it’s all going to just roll on from here. At last.
YES? The single word floated up in the center of his eye, bright against the deadfilm’s black drain of ambient light. More followed. GOOD MORNING. “THE GLORIES OF OUR BLOOD AND STATE/ARE SHADOWS, NOT SUBSTANTIAL THINGS/THERE IS NO ARMOR –”
“Jee-zuss.” Axxter’s gaze flicked to CANCEL at the corner of his eye. The trouble with buying secondhand; his low-budget freelancer’s outfit had all sorts of funky cuteness left on it from its previous owner; he had never been able to edit it out.
VERY WELL. Sniffy, feelings wounded. REQUEST?
He hesitated. For a moment he considered not calling anyone up; just not saying anything about the angels at all. His little secret, a private treasure. That would be something. Something nobody had except me. He nodded, playing back the tape inside his head corresponding to the one inside the camera. So pretty; both of them, but especially the female angel. Slender as a wire. A soft wire. And smiling as she’d drifted away. That smile was locked away, coded into the molecules inside the camera. And in my brain – burned right into the neural fibers. As if soft, dreaming smiles could burn.
[…] Angel stuff being rare also made it valuable, however. Beyond the mere smile. That decided the issue. “Get me Registry.”
After he’d zipped the footage from his archive to Reg and got a File Check, Clear & Confirmed Ownership – thank God that much service came free – he asked if anything else had come in lately under the heading Angels, Gas, Coitus (Real Time). For all he knew, whole orgies had been taking place in the skies around the building’s morningside.
Two cents pinged off the meter panel in the corner of his sight, Registry’s charge for the inquiry. The sight/sound made him wince.
NOTHING, JACK. TOTAL NADA. The Registry interface had a flip personality. YOU MIGHT TRY UNDER HISTORICAL AND/OR POETRY. “I WANDERED LONELY AS A –”
Another eyeflick, to DISCONNECT. He didn’t want to get tagged for another charge. Not for ancient nonsense, some pre-War file dredged out of Registry’s deep vaults. “Screw that.”
PARDON?
“Get me, um . . . get me Lenny Red.” By contract, Axxter should have called his agent Brevis. But Brevis took a ten-percenter bite; and any idiot working out of a top-level office could peddle hot angel love stuff. I could do it, from here – Axxter knew Ask & Receive had a call out, all angel footage bought top-price. But Ask & Receive also listed their stringers in a public file; if Brevis found out – and he would – he’d take the whole wad paid, not just ten percent. Contractual penalty. So Lenny’s usual five made him a bargain.
SHIELD LINE?
“Naw, don’t bother.” No sense in paying the extra – he had his Reg confirm. “Just call him straight in.”
YOU’RE THE BOSS.
The cranky wire quavered Lenny’s face. “Howdy, Ny.”
He squinted at the image overlaid in his sight. Lenny’s forehead smeared to the left; his mouth was a rippling loop. This far downwall, you took what you could get. “Got something for you.”
“Oh?” Oh? – the line echoed as well. “Like what?” Kwut?
“Angels.”
A distorted eyebrow lifted like an insect leg at the edge of the film “Really.” Lee-ee.
“Catch this.” Axxter engineered a smug smile into his own face. “Angels having sex.”

2.
Methodically, with elaborate care, Axxter broke down his small camp. Taking more pains than necessary; I know, he told himself once more, as he watched his hands going through routine. Mind working on two levels about the subject. On top, right up against curve of skull, the old subvocal litany: Careful; have to be careful; weren’t born out here like some of them; until you get your wall-legs, better, smarter to be careful still. But underneath, not even words: fear, not caution, slowed his movements. As narrow and cramped as the confines of the bivouac sling were, it was at least something underneath him, a bowed floor of reinforced canvas and plastic beneath his knees as he knelt, or shoulder and hip when he slept, and the empty air beneath. That was as safe, he knew, as you got on the vertical. He could have stayed in the sling forever, hanging on the wall. Money, the lack of it, compelled otherwise.
Eventually everything – not much – was packed into two panniers and a larger amorphous bundle. He closed his eyes for a moment, gathering strength, then stood up, the sling’s fabric stretching beneath his feet. He whistled for his motorcycle.
For close to a minute, as he leaned against the building’s wall, holding onto a transit cable for balance, he heard nothing, no answering roar of the engine as the motorcycle came wheeling back to his summons. Thin green on this sector of the wall; something to do with Cylinder’s weather pattern, Axxter figured. The motorcycle would have to have grazed for some distance to have filled its tank. Just as he was about to whistle again, he heard the rasp of its motor, growing louder as it approached.
Over the building’s vertical curve, due rightaround from where he stood in the bivouac sling, the headlight and handlebars of a Norton Interstate 850 first appeared, then the spoked front wheel and the rest of the machine behind. Bolted to the motorcycle’s left side – the uppermost side now, as the machine moved perpendicular to the metal wall – the classic blunt-nosed shape of a Watsonian Monza sidecar came with the motorcycle, its wheel the parallel third of the whole assemblage. A typical freelancer’s rolling stock; he had eyeballed it for so long back on the horizontal, when he’d been saving up his grubstake, that he’d memorized every bolt before he’d ever actually wrapped his fist around the black throttle grip. Even now, after this long out on the vertical, the sight of the riderless motorcycle heading toward him – accelerating as if impelled by love, though he knew it had only taken a visual lock on his position – affected him, rolled on a sympathetic throttle inside his chest. A notion of freedom, as much so as angels, living or dead.

Tabella riassuntiva

Un cyberpunk atipico dove la gente cammina sui muri! Troppe domande senza risposta e un senso di incompiutezza.
Protagonista sfigato e autoironico in cui è facile immedesimarsi. Brutta tendenza alla logorrea scemo-friendly.
Jeter riesce a mostrare come si vive in verticale. Inizio lento e finale anticlimatico.
Ritmo crescente e buon mix di azione.