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I Consigli del Lunedì #21: Vacuum Flowers

Vacuum FlowersAutore: Michael Swanwick
Titolo italiano: L’intrigo Wetware
Genere: Science Fiction / Hard SF / Space Opera / Cyberpunk
Tipo: Romanzo

Anno: 1987
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 260 ca.

Difficoltà in inglese: ****

Rebel Elizabeth Mudlark si risveglia in una clinica nell’Eros Kluster – un grappolo di colonie spaziali costruite nella Fascia di Asteroidi – nelle mani di un chirurgo inquietante, solo per scoprire di aver perso la memoria. In fuga dalla clinica, i ricordi si affacciano gradualmente alla sua memoria. Rebel è la registrazione digitale di una pilota di comete-albero, morta in un incidente mentre viaggiava dalle remote colonie della nube di Oort verso il centro del Sistema Solare. Ma il corpo non è il suo: la sua personalità è stata impiantata in Eucrasia Welsh, un genio della riprogrammazione neurale che per mestiere si fa inserire altre personalità nella testa per ‘testarle’ e correggere prima che vengano lanciate sul mercato, e che in un attacco di follia ha distrutto tutte le altre copie di Rebel. Ora però la personalità di Rebel è diventata proprietà della supercorporation Deutsche-Nakasone, che rivuole indietro il suo prodotto.
In fuga dalla corporation e alla ricerca di un posto nel mondo, Rebel si troverà a viaggiare per il Sistema Solare colonizzato. Nel suo viaggio, incontrerà una serie di personaggi che non è chiaro se siano amici o nemici: il rivoluzionario Wyeth, dalla mente partita in quattro diverse personalità; Snow, una Net-runner bioingegnerizzata al punto da sembrare a malapena un essere umano; Bors, un mercante appassionato di libri antichi, alla ricerca delle tragedie perdute di Shakespeare; e soprattutto la Comprise, una coscienza collettiva che ha assorbito la Terra e tutti i suoi abitanti e ha bandito l’essere umano aldilà dell’orbita lunare. Ma la battaglia più dura, Rebel dovrà combatterla nella sua testa: perché Eucrasia è ancora lì, ed è intenzionata a riprendersi il suo corpo e a cancellare la sua seconda personalità per sempre.

Vacuum Flowers è un’opera che parte da premesse canoniche – la protagonista senza memoria, ribelle, in fuga da una corporazione kattiva – ma prende gradualmente direzioni inaspettate. Pur appartenendo alla prima generazione del cyberpunk (è uscito tre anni dopo Neuromante, e dopo che Swanwick e Gibson avevano collaborato all’antologia Burning Chrome), Vacuum Flowers lascia i temi dell’ingegneria genetica, delle supercorporazioni e soprattutto della Rete un po’ in secondo piano rispetto ai viaggi spaziali, alle colonie artificiali, e a tutto il bagaglio della space opera.
Rimane nodo centrale del romanzo, invece, il tema tipicamente cyberpunk della riprogrammazione neurale. Wetware: il concetto per cui, se consideriamo le connessioni neuronali come i circuiti di un computer, e la psiche umana come un software che gira sulla macchina del cervello, allora la mente umana è riprogrammabile come Windows. Fiko!

Oh, BTW. Visto che non trovavo abbastanza immagini soddisfacenti per questo articolo e sono un simpaticone, vi beccherete invece degli assaggi della perfetta colonna sonora cyberpunk: brani a caso dei Venetian Snares1! So cool! ^.^


Hospitality, dall’omonimo album del 2006 ^_^

Uno sguardo approfondito
Un primo vantaggio di Vacuum Flowers, rispetto alla maggior parte dei successivi romanzi di Swanwick, sta nella gestione del pov. Invece che vagare tra un mucchio di comprimari, la telecamera sta sempre sulle spalle della protagonista, e questo ha due effetti: 1. Gradualmente ci immedesimiamo in Rebel, fino a condividerne gioie e dolori; 2. Non sappiamo cosa succede aldilà della percezione di Rebel, il che amplifica il senso di diffidenza e spaesamento provato dalla protagonista.
Entrambi i risultati sono positivi, data l’atmosfera -punk del romanzo. Swanwick infatti ci precipita in un Sistema Solare sporco, brutale, cinico; dagli slum pieni di piccola criminalità e cellule terroristiche, alle lobby asettiche e gelide delle corporation, ci viene martellato il concetto che non possiamo fidarci di nessuno, che è pieno di gente che vuole farci la pelle. Vacuum Flowers è un romanzo cupo, che mette ansia, e dove succedono molte cose brutte. Rebel si metterà più di una volta a piangere; ma mentre a leggere del pianto di Nihal nelle Cronache troisiane ci veniva da pensare “ma quanto frigna!”, qui ci si stupisce che Rebel pianga così poco.

Il mondo di Vacuum Flowers non è crudele e spietato perché sì perché è fantasy, ma perché è realistico. E’ un mondo dominato dalle leggi di mercato, e dai rapporti economici e politici tra le colonie spaziali, ambienti ostili e tendenzialmente inadatti alla vita umana; un mondo che deve fare a meno della Terra, resa irraggiungibile dalla coscienza collettiva che l’ha posseduta, la Comprise, e che “assorbe” in sé chiunque vi entri in contatto (benché ci si possa ancora fare affari!). Swanwick ha infatti posto molta attenzione nel creare una galassia di sistemi politici diversificati e credibili, dal capitalismo anarchico che regna nelle colonie della Fascia degli Asteroidi al Popolo di Marte, un sistema totalitario che ricorda l’Unione Sovietica, devota al lavoro e al sacrificio di sé per il bene collettivo.
Impegnati nel difficile compito di terraformare Marte e renderlo abitabile nel giro di due secoli, i burocrati del Popolo non esitano a riprogrammare la psiche dei suoi cittadini per sopprimere gli istinti individualistici che rallenterebbero il lavoro e la dedizione alla causa: certo, è una vita orribile, e tuttavia bisogna ammettere che il Popolo sta riuscendo a terraformare Marte e ad assicurare un futuro luminoso per i suoi discendenti! Chi ha torto, chi ha ragione? Ambiguità morale: questa è l’aria che si respira in tutto il romanzo, e che rende quello di Vacuum Flowers un mondo complesso e realistico.
Così come complessi, realistici e moralmente ambigui sono i personaggi della storia. E’ difficile distinguere buoni e cattivi; alcuni, retti e onesti in linea di principio, potrebbero essere indotti a compiere azioni immorali per necessità (di soldi, di prospettive…); altri, dalla volontà debole, perché persuasi; altri perché genuinamente convinti di stare facendo la cosa giusta, e così via. Poiché tutti o quasi i comprimari del romanzo si muovono in un’atmosfera di incertezza, è difficile immaginare come si comporteranno – e questo da un lato li rende più realistici e interessanti, dall’altro alimenta il senso di insicurezza di Rebel e di noi lettori.

Crash di Windows

Non sarebbe bellissimo se succedesse anche alle persone?

L’altra faccia di Vacuum Flowers, la faccia più luminosa/giocosa, è quella delle idee. Già si capisce che Swanwick sarebbe finito a fare new weird: ogni poche pagine si trova una trovata bizzarra o un marchingegno geniale! Dato che la maggior parte del romanzo si svolge su colonie spaziali di varie fogge e funzioni, l’autore deve immaginare da zero il funzionamento di molte attività quotidiane, come ad esempio il sistema di corde e pulegge utilizzato dagli spiantati abitanti degli slum dell’Eros Kluster per spostarsi in ambienti a bassissima gravità (nell’Eros Kluster, infatti, l’attrazione gravitazionale cambia a seconda della distanza dal nucleo).
O ancora, i composti macchina-albero che hanno dato vita ad intere società che vivono su alberi bioingegnerizzati (i treeworlders della Nube di Oort), o i transit rings, o il sistema metodico della Comprise di smantellare le proprie apparecchiature spaziali dopo averle utilizzate per impedire ai popoli dello spazio di ricostruirle o anche solo comprenderne il meccanismo. E la stessa Comprise, che forse è una degradazione dell’essere umano, ma forse è il suo prossimo step evolutivo…

Ma l’invenzione più affascinante e pervasiva del romanzo è proprio quella di wetware. Un wetprogrammer lavora attaccando il cervello del paziente a una macchina che disegna la mappa delle sue connessioni neurali (wetwafers) per poi modificarla tramite un computer.
Una personalità può essere alterata leggermente (quel tanto che serve a dargli quell’equilibrio mentale che gli mancava, per esempio) o completamente; il co-protagonista Wyeth è stato modificato in modo da ospitare al suo interno quattro differenti personalità che operano in sinergia come un team, nei ruoli di Leader, Guerriero, Sciamano e Giullare, e ciascuna di esse ha le sue espressioni facciali e il suo tono di voce. E quando la polizia vuole fare una retata, non ha bisogno di portare molti agenti: pochi tocchi, e qualsiasi passante intercettato si trasformerà per qualche ore in un agente a sua volta, votato all’unico, violento impulso di arrestare i colpevoli.


Cleaning Each Other, dall’album Songs About My Cats (2001). Non perdetevi la parte che comincia a 2:25!

Insomma, Vacuum Flowers è una fiera di trovate weird e speculazioni geniali; ce ne sarebbe abbastanza per scrivere una decina di romanzi, probabilmente! Ma questo, forse, è anche l’errore di Swanwick. Gestire così tante idee in meno di 300 pagine non è compito facile, e certo l’autore non si sforza per mettere a suo agio il lettore. Tra neologismi, riferimenti criptici, allusioni a cose che i personaggi già sanno, e mezze spiegazioni, è facile sentirsi spaesati e non capire di che diavolo stanno parlando o cosa stia succedendo. Il fatto che Rebel cominci il suo “viaggio” con un’amnesia quasi completa permette a Swanwick di spiegarle (e quindi spiegarci) alcune delle caratteristiche del suo mondo, ma altre sono date per scontate e molto è lasciato all’intuizione del lettore. Ora, io apprezzo quando uno scrittore non tratta il suo pubblico come un branco di decerebrati e non spiega tutto per filo e per segno, ma spesso la sensazione è che ci siano troppi pochi indizi per avere il controllo della situazione, e che la fatica sia troppa commisurata al guadagno (ma potrebbe anche essere colpa del mio inglese non eccellente).
Diverse volte, inoltre, Vacuum Flowers sembra perdersi in subplot o digressioni che non sembrano collegati con la quest di Rebel, e inevitabilmente uno arriva a chiedersi, “perché Swanwick mi sta complicando inutilmente la vita?”. Poi spesso si scopre che l’elemento introdotto in sordina ha importanza per l’evoluzione della trama (su tutti, la shyapple, device importantissimo inserito come se niente fosse a metà di un capitolo qualsiasi, e poi dimenticato per svariati altri capitoli!) – ma allora perché non utilizzare un pretesto meno “accidentale” per introdurlo?

Oltretutto, già in questo romanzo troviamo la tendenza spiacevole di Swanwick a fare dei salti temporali tra un capitolo e l’altro, lasciando che il lettore capisca da sé (sempre raccogliendo indizi) cosa sia successo nel frattempo. E ancora, a volte si ha l’impressione che Rebel, benché personaggio-pov, capisca, scopra e sappia più di noi, che pure dovremmo vedere attraverso il suo sguardo e sentire attraverso i suoi pensieri.
Non mi è ben chiaro perché Swanwick si comporti così; forse per alimentare la suspence (oh no! Cos’avrà scoperto Rebel? Oh no! Perché si comportano così all’inizio del capitolo, cos’è successo prima?), forse per fare di ogni capitolo un “quadro”, una scena in sé conclusa. In ogni caso, sono trovate artificiose che, oltre a rendere più faticosa la lettura, allentano il meccanismo immedesimativo con la protagonista. Perché, a meno che abbiate dei disturbi, dubito che durante la vostra giornata vi capitino dei vuoti di memoria che poi dovete ricostruire basandovi su indizi che voi stessi lasciate nei gesti o nelle discussioni con altre persone.

Technobabble

Qualcosa del genere.

Insomma, Vacuum Flowers è un romanzo a tratti faticoso da seguire – sia perché complicato (e a volte, inutilmente complicato), sia perché colpisce a livello emotivo. Ciononostante, è anche un romanzo capace di regalare molto. Personalmente, lo trovo uno dei romanzi più intelligenti e “illuminanti” (dal punto di vista creativo) che abbia mai letto; e benché sia generalmente considerato un’opera ‘minore’ dell’autore, è quello di Swanwick che preferisco. Un’opera che, per quanto ne sappia, non ha eguali nel suo modo di mescolare in modo intelligente Space Opera, Cyberpunk e pure quel lieve tocco Fantasy che non guasta.
Se vi sentite sicuri del vostro inglese, provatelo. O forse, riuscirete a trovarlo in italiano…

Vacuum Flowers e Neuromancer
NeuromanteSe faccio un paragone tra il romanzo di Swanwick e quello di Gibson, è perché hanno molte cose in comune. Uscito tre anni dopo Neuromante, Vacuum Flowers ne condivide molti elementi, dallo strapotere delle multinazionali alla modificazione artificiale del corpo (anche se qui con un accento sulla psiche piuttosto che sui potenziamenti muscolari), dall’atmosfera sporca e cupa all’attenzione al mondo della piccola e grande criminalità. Hanno molto in comune anche dal punto di vista della prosa: entrambi sono molto curati, entrambi mostrano tutto dal punto di vista di un unico protagonista, entrambi cercano di far intuire le caratteristiche del loro mondo al lettore invece di abbandonarsi a spiegoni infodumposi che piovono dall’alto. Gli amanti di Neuromante, quindi, potrebbero amare anche Vacuum Flowers, posto che gli piaccia la Space Opera e un certo sapore fantastico nella speculazione.
Personalmente, ritengo Vacuum Flowers migliore di Neuromante. Tanto per cominciare, il wetprogramming è molto più figo del cyberspazio di Gibson – che non solo è invecchiato maluccio, ma anche visto con gli occhi degli anni ’80, non è che abbia troppo senso (perché ho bisogno di rappresentarmi banche dati e server come cubi e torri-parallelepipedo? La “battaglia finale” tra Case e Neuromante combattuta nel cyberspazio, infatti, è insulsa). Ancora, in Gibson c’è una certa tendenza ad abbandonarsi a periodi convoluti e intellettualoidi che in Swanwick è appena accennata (ma c’è anche in Swanwick ‘>.>). E infine, most importantly, il Sistema Solare di Swanwick suscita più sense of wonder dello Sprawl e della Terra cyberpunk di Gibson.
Non fraintendetemi: Neuromante è un ottimo romanzo, e si è solidamente piazzato tra i miei 20-30 preferiti; ma Vacuum Flowers è meglio ^.^

Dove si trova?
Vacuum Flowers si trova in formato epub sia su Bookfinder, sia su Library Genesis. Esiste anche una vecchia edizione italiana (dal blasfemo titolo L’intrigo Wetware), ma purtroppo non sono riuscito a rintracciarla né sul Mulo né su Amazon.


Szerencsétlen, dall’album Rossz Czillag Alatt Szuletett del 2005 ^-^

Qualche estratto
I due estratti che ho scelto sono un po’ lunghi, ma ne vale la pena. Il primo è un resoconto di Snow sulla personalità di Rebel e il suo rapporto con la wetprogrammer Eucrasia Welsh, e sintetizza gli eventi che mettono in moto la trama principale; il secondo mostra la Comprise, e una discussione su di essa tra il freddo Wyeth e la biologa Constance.

1.
They sat, and there was an odd glint in Snow’s eyes as they faced her again. Was it amusement, Rebel wondered? If so, it was buried deep. Heisen cleared his throat and said, “This is Rebel Elizabeth Mudlark. Two days ago she was a persona bum, name of Eucrasia Walsh. Eucrasia was doing prelim on a string of optioned wetsets when she burned on the Mudlark wafer and popped her base. Wound up in Our Lady of Roses, and—”
“Hold it right there, chucko!” Rebel said angrily. “Reel it back and give it to me without the gobbledegook.”
Heisen glanced at Snow and she nodded slightly. He began again, this time directing his speech at Rebel. “Deutsche Nakasone reviews a lot of wetware every day. Most of it is never used, but it all has to be evaluated. They hire persona bums to do the first screening. Not much to it. They wire you up, suppress your base personality—that’s Eucrasia—program in a new persona, test it, deprogram it, then program you back to your base self. And start all over again. Sound familiar?”
“I… think I remember now,” Rebel said. Then, urgently, “But it doesn’t feel like anything I’ve done. It’s like it all happened to somebody else.”
“I’m coming to that,” Heisen said. “The thing is that persona bums are all notoriously unstable. They’re all suicidally unhappy types—that’s how they end up with that kind of job, you see? They’re looking to be Mister Right. But the joke is that they have such miserable experience structures they’re never happy as anyone. Experience always dominates, as we say.” He paused a beat and looked triumphantly at Snow. “Only this time it didn’t.”
Snow said nothing. After an uncomfortable pause, Heisen said, “Yeah. We’ve got the exception that disproves the rule. Our Eucrasia powered on, tried the persona—and she liked it. She liked it so much that she poured a glass of water into the programmer and shorted it out. Thus destroying not only the safe-copy of her own persona, but also the only copy in existence of the Mudlark program.”
Again, that small lizard-movement. “Then…” Snow said. “Yes. Yes I see. Interesting.” With the small, electric thrill of remembering something she couldn’t possibly know, Rebel realized that Snow was accessing her system, that a tightly-aimed sonic mike or subcortical implant was feeding her data.

2.
On the graphics window, a glittery wedding band of machinery was afloat in the vacuum. Hundreds of the Comprise crawled about its surface, anchoring and adjusting small compressed gas jets. Painstakingly they guided the ring with a thousand tiny puffs of gas, until the geodesic hung motionless at its precise center. Only now did Rebel get any feel for the ring’s size—miles across, so large that the most distant parts seemed to dwindle to nothing.
[…] Red warning lights blinked on across the length of the transit ring. As one, the Comprise kicked free of the machinery, leaping inward in acrobatic unison, like a swirl of orange flower blossoms seen through a kaleidoscope. By tens and scores they linked hands and were snagged by swooping jitneys. Wandering up out of nowhere, hands deep in pockets, Constance said, “That’s really quite lovely. It’s like a dance.”
Wyeth didn’t look up. “Not quite so lovely when you consider why they’re so perfectly coordinated.”
She blinked. “Oh, quite the contrary. When you think of the complex shapes their thoughts take, the mental structures too wide and large to be held by any one mind… Well, that’s cause for humility, isn’t it?” Then, when Wyeth said nothing, “The Comprise is a full evolutionary step up on us, biologically speaking. It’s like… a hive organism, you see? Like the Portuguese man-of-war, where hundreds of minute organisms go into making up one large creature several orders of magnitude more highly structured than any of its components.”
“I’d say they were an evolutionary step down. Where human thought creates at least one personality per body, the Comprise has subsumed all its personalities into one self. On Earth, some four billion individuals have been sacrificed to make way for one large, nebulous mind. That’s not enrichment, it’s impoverishment. It’s the single greatest act of destruction in human history.”
“But can’t you see the beauty of that mind? Gigantic, immensely complex, almost godlike?”
“I see the entire population of mankind’s home planet reduced to the status of a swarm of bees. A very large swarm of bees, I’ll grant you, but insects nevertheless.”
“I don’t agree.”
“So I see,” Wyeth said coldly. “I will keep that in mind, madam.” The running lights on the transit ring were blinking in rapid unison. To Rebel he said, “See that? They’ve armed their explosives.”
Constance looked confused. “What’s that? Explosives? What in life for?”
The jitneys slowly converged on the geodesic. Ahead of them a gang of spacejacks was fitting an airlock. They welded it through the metal skin, yanking open the exterior iris just as the first transport drifted up. Then they popped the jitney’s drive and replaced it with a compressed air jet system. “They’re about to enter the geodesic, sir,” a samurai said.
“God help you if a single one of the Comprise isn’t accounted for when they reach the sheraton,” Wyeth said darkly. Then, to Constance, “The Comprise doesn’t want us snooping through their technology, Ms. Moorfields. So of course they’ll have programmed the ring to self-destruct if we try anything. And since they have, and since the helium in the ring is only rented, we won’t.”
The jitney eased into the interior atmosphere. It was crammed full and covered over with orange-suited Comprise; they clung three deep to its outside. The pilot hit the jets and it moved toward the sheraton.
“I don’t understand this mutual suspicion,” Constance said. “So mankind has split into two species. Give us time and there’ll be a dozen, a hundred, a thousand! Space is big enough for everyone, I should think, Mr. Wyeth.”
“Is it?”

Tabella riassuntiva

Programmatori cerebrali a spasso per il Sistema Solare! Troppe subplot e troppi passaggi difficili da seguire.
Ci si sente soli e indifesi in un mondo spietato. Sgradevoli “vuoti” tra un capitolo e l’altro.
Rebel è una cara ragazza e un ottimo protagonista. A volte sembra che Rebel ne sappia più di noi.
Una valanga di idee geniali e speculazioni affascinanti.
Mi sono innamorato della Comprise.

(1) Lo so, tecnicamente il tizio è uno solo. Ma dire “il” Venezian Snares è cacofonico, e del resto gli snares sono chiaramente plurali. Soprattutto, se immaginiamo lui come il venetian che produce gli snares, e la sua musica come gli snares da lui prodotti, allora possiamo dire “i Venetian Snares” senza sentirci in errore!
Che interessante digressione.Torna su

Bonus Track: Di aborti e remake

FanfictionLa maggior parte di voi, per un periodo della propria vita, avrà avuto il suo momento fanfiction. Un momento in cui, dopo la fine della vostra serie / videogioco / saga preferita, ne volevate ancora e, disperati, vi siete rivolti alle comunità dei fan. Per chi non lo sapesse: una fanfiction è per l’appunto l’opera di un appassionato che riprende setting e personaggi di un’altra storia (generalmente di una certa fama).
Anch’io ho avuto il mio momento fanfiction, ai bei tempi del ginnasio. Principalmente di Evangelion o Final Fantasy VII. E ho notato una cosa. Esistono fanfiction di tutti i tipi: seguiti della storia principale, spin-off su personaggi o situazioni secondarie, racconti che espandono momenti della storia principale appena accennati dall’opera originale, parodie, AU (storie che riprendono i personaggi dell’opera ma li calano in un contesto diverso), crossover tra serie diverse. Soprattutto – e con mio sommo sdegno – valanghe di racconti in cui tutti o quasi i personaggi maschili dell’opera originale si scoprono improvvisamente ghei e si danno alle ammucchiate selvagge. Un solo tipo di fanfiction si vede molto di rado: la riscrittura alternativa dell’opera originale.
Mi vengono in mente diversi motivi.
Innanzitutto, perché (in un ambito dove non girano soldi) la volontà di fare un remake parte dal presupposto che non si sia rimasti del tutto soddisfatti della storia originale, che si voglia migliorarla; mentre in genere i fan scrivono le fanfiction proprio perché amano alla follia l’opera originale. Al massimo sono disposti a modificare gli orientamenti sessuali dei personaggi così da fargli fare tutte le cosacce che gli vengono in mente.
Un altro motivo, è che un remake è un progetto lungo e ambizioso, difficile da portare a termine e che ti fa chiedere se ne valga davvero la pena; mentre un raccontino in cui Cloud e Sephiroth scoprono le ragioni profonde della loro fascinazione per gli spadoni si può buttare giù in due orette (considerando poi la cura stilistica che tradizionalmente viene messa in una fanfiction…).

Ciccione con spadone

Da Cloud a Gatsu a Zwei ai ciccioni, lo spadone piace proprio a tutti.

Neanch’io mi sono mai cimentato nell’impresa del remake, ma la tentazione è stata molto forte. Soprattutto se parliamo di narrativa. Come forse avrete notato leggendo i miei Consigli – se non ve ne siete accorti in prima persona – il mondo della narrativa fantastica è un mare di libri riusciti a metà, capolavori mancati e occasioni sprecate.
Prendiamo 2001: Odissea nello spazio – il libro. La penultima parte: David Bowman, disattivato il perverso HAL9000, è rimasto solo sull’astronave Discovery, e il viaggio verso Giapeto e il monolite è ancora lungo. Sa che quelli del controllo missione l’hanno ingannato circa lo scopo della Discovery, e sa di essere condannato a morte, perché non c’è una riserva d’aria sufficiente nella navicella per tornare indietro o aspettare i soccorsi. Bowman passa un brutto periodo. Uno scrittore come Dick da una situazione simile avrebbe saputo tirar fuori qualcosa di grandioso; magari un Bowman paranoico e allucinato, che perde progressivamente contatto con la realtà mano a mano che la distanza dalla Terra aumenta. Con una buona costruzione degli ultimi capitoli, si potrebbe insinuare una certa ambiguità nell’incontro col monolite e la visione finale: è avvenuto realmente? E’ un’allucinazione di Bowman? La missione è fallita? E questa è solo una delle molte possibilità.
Ma Clarke, si sa, ha la delicatezza di un Gundam. Le tribolazioni di Bowman, e il modo in cui supera i suoi problemi ascoltando la musica classica immagazzinata nella memoria dei computer di bordo, sono raccontati in modo sbrigativo, riassunto, con pov onnisciente molto distante. Più piatto di così non si poteva fare. A Clarke gliene frega ben poco dello stato psicologico di Bowman; vuole farlo riprendere velocemente (e allora perché ti sei preso la briga di farlo star male?), così poi si può tornare a parlare di monoliti e alieni. Occasione sprecata.
E inevitabilmente, il pensiero: “Cazzo, questo libro sarebbe potuto essere così più bello…”

Ora: Odissea nello spazio resta comunque un bel libro – coerente, con una buona costruzione. Ma cosa succede quando un libro parte con ottime premesse, ti monta un casino di entusiasmo, e poi, per incapacità o pigrizia o malattia mentale dello scrittore, “si ammoscia a metà come il pisello di un vecchio” (cit. Duca)? Succede che ti viene voglia di mettere il libro (o il reader) nel microonde e girare la manopola tutta a destra. Succede che pensi “porcozzio, se avessi avuto io del materiale di partenza simile…!”, o “io saprei come riscriverlo!”. Questi sono i libri che chiamo aborti – potenziali capolavori che falliscono miseramente e ti fanno mangiare le dita dallo sconforto.
Queste storie meriterebbero una seconda chance. Un remake, che partendo dalle stesse premesse donino a questi aborti uno sviluppo e una conclusione degni. Gli scrittori veri, purtroppo, queste cose non le fanno di rado – un po’ per tabù culturale (l’unicità dell’opera, il rispetto dell’artista e bla bla bla), un po’ perché forse dovrebbero appiccicarci sopra il bollino “fanfiction” e non potrebbero guadagnarci un soldo. Abbondano le riscritture di dell’Alice di Carroll, o del Frankenstein di Mary Shelley, o della Macchina del Tempo di Wells, ma non accade praticamente mai con i romanzi degli ultimi 80 anni 1. Un peccato.

E' un Gundam

Un esempio di delicatezza.

Un peccato perché il remake insegna una cosa interessante. Ossia che nessun’opera è sacra e inviolabile; che un autore può migliorare qualcosa di scritto da un altro; e che in genere questi miglioramenti si possono ottenere seguendo una serie di regole, che sono sempre quelle.
Facciamo un esercizio.

Tre aborti
Nell’articolo di oggi vi presenterò tre aborti, libri che mi hanno provocato gran digrignar di denti e copiosa mole di bestemmie al cielo. Tre romanzi che sarebbero potuti ascendere all’Olimpo della Narrativa Fantastica e invece sono condannati a passare l’eternità nell’anticamera, a eterno monito per le giovani generazioni di scrittori. Sono anche tre romanzi molto diversi tra loro, per forma e contenuto; li ho scelti apposta sperando che ciascuno di voi sia incuriosito da almeno uno di essi.
A parte la solita introduzione, ognuno dei tre pezzi sarà articolato in tre parti: “Perché poteva essere una figata”, “Perché invece è un FAIL”, e “Io avrei fatto così!”. Credo che i titoli parlino da soli. Nell’immaginare possibili migliorie al romanzo originale, mi sono concentrato più sulla macrostruttura che sullo stile (per quello c’è sempre Gamberi Fantasy).
Attenzione: potrebbero esserci spoiler, soprattutto nelle ultime due sezioni.

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The City and the Stars

La città e le stelleAutore: Arthur C. Clarke
Titolo italiano: La città e le stelle
Genere: Science-Fantasy / Dying Earth
Tipo: Romanzo

Anno: 1956
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 250 ca.

Diaspar è l’ultima città al mondo, in una Terra anziana e ridotta a un immenso deserto. E’ una città sigillata dal mondo esterno, e amministrata dalla IA del Computer Centrale. I suoi abitanti sono immortali: quando si avvicinano alla vecchiaia, il computer immagazzina le loro menti e dopo un lasso di tempo di migliaia di anni li rigenera in un corpo nuovo creato per l’occasione. Non solo: all’interno di Diaspar, i suoi abitanti hanno il potere di creare oggetti a piacere o di modificare le dimensioni dei propri appartamenti. E’ una vita serena, senza preoccupazioni, eternamente uguale.
Ma Alvin è diverso. A differenza degli altri abitanti, che alla sola idea di uscire sono terrorizzati, Alvin prova l’impulso irrefrenabile di conoscere il mondo esterno. La leggenda vuole che gli esseri umani si siano sigillati dentro Diaspar sotto la minaccia di invasori stellari, che avrebbero promesso di distruggerli se avessero riprovato ad avventurarsi fuori dal pianeta Terra – ma sarà davvero così? Aiutato dal giullare Khedron e ostacolato dal Computer Centrale, Alvin tenterà di fuggire da Diaspar e scoprire la verità.

Perché poteva essere una figata
Il romanzo di Clarke mette insieme un’ambientazione alla Matrix – in cui realtà materiale e realtà virtuale si confondono, e gli uomini hanno delegato l’autorità alle macchine – con il fascino della Terra morente. La città di Diaspar, città in cui gli esseri umani si reincarnano all’infinito, e vivono tra agi infiniti e strani divieti, è uno dei setting più affascinanti della narrativa fantastica. Il tema del ragazzo ribelle che vuole infrangere la proibizione e varcare i confini del mondo conosciuto è forse un po’ trito, ma funziona sempre, e mantiene accesa l’attenzione del lettore. Da una parte, si vuole esplorare Diaspar e scoprire il funzionamento di una civiltà tanto strana; dall’altra, si vuole scoprire cosa c’è oltre la città – e così, si continua a leggere.

Diaspar Lego

Un'approssimazione della città di Diaspar. Ehm.

Perché invece è un FAIL
I problemi cominciano quando finalmente Alvin riesce ad evadere dalla città – e di lì in poi è un continuo di docce fredde. Lys, l’utopia bucolica condita di poteri psi, è quanto di più improbabile la penna di Clarke potesse inventare. Ma soprattutto, le rivelazioni sulla storia di Diaspar e del destino dell’umanità si accumulano in un infodump raccontato dopo l’altro, tanto da far sembrare Mark Menozzi (quello del Re Negro) uno che si contiene. Noiosissime nella forma – ti viene da pensare, “sto leggendo un romanzo o il canovaccio di un romanzo”? – sono pure raccapriccianti nel contenuto: tra Menti Pazze, creature malvage sigillate nello spazio e in attesa di risvegliarsi, e migrazioni di interi popoli imbarcati in una Grande Missione, sembra di essere precipitati nella mente di un dodicenne drogato di Zelda. Mancano solo le pietre del potere (rigorosamente quattro: una per ogni elemento!) e siamo apposto! E per un romanzo tutto costruito sulla suspence e sulla rivelazione, il peggio che possa capitare è che la rivelazione faccia schifo al cazzo.
A questo bisogna aggiungere la tradizionale bruttezza della prosa di Clarke, e il generale piattume dei personaggi, che non risparmia neppure il protagonista (più una marionetta del suo codice genetico che un individuo pensante). E poi il tema del “prescelto”, benché gestito meglio della media degli YA, è sempre irritante 2.

Io avrei fatto così!
Se la parte ambientata a Diaspar nelle sue linee guida è buona, il resto va completamente cambiato. Due sono le domande essenziali che dobbiamo porci: cosa c’è fuori da Diaspar, e perché è stato imposto il divieto di uscire? Le possibilità sono infinite. Per esempio, il deserto potrebbe essere una finzione, e magari non siamo un miliardo di anni nel futuro ma tipo nel 2100 d.C., e gli abitanti della città sono solo i soggetti di un esperimento modello Truman Show. Troppo scontato? Oppure: Alvin esce da Diaspar per scoprire che non è l’unica città, ma che ci sono altre centinaia o migliaia di città identiche e isolate, tutte convinte di essere l’ultima. Il deserto sarebbe reale, e  l’umanità si sarebbe costruita le città e l’illusione di essere l’ultima per evadere dalla realtà. O ancora: Diaspar è davvero l’ultima città, e Alvin fuori dalle mura trova solamente i resti dell’antica umanità. Ma decide che la terra può essere resa di nuovo fertile e che i cittadini di Diaspar devono uscire dal grembo materno e ripopolare la Terra.
Ora, non è tanto importante quale soluzione narrativa venga adottata. Ciò che conta, è che non si riduca all’esposizione di una storia remota che non ha il minimo impatto sull’attimo presente del romanzo (come avviene nel libro di Clarke), ma al contrario getti una nuova luce tra Diaspar e il mondo esterno e porti a delle conseguenze immediate. Esempio: Alvin decide che la Terra è pronta a riaccogliere l’umanità. Problema: gli abitanti di Diaspar non vogliono uscire. Come li si convince? O li si costringe? Ci sarà una divisione in due fazioni agguerrite? O saranno tutti schierati contro Alvin, che dovrà scegliere tra l’esilio e la resa, e magari la riprogrammazione della propria mente? E così via.

A proposito. Il romanzo filerebbe senza problemi con il solo pov di Alvin. Ma se provassimo invece a giustapporre il suo pov con quello di un altro personaggio? Il giullare Khedron, per esempio: in teoria un individuo che porta disordine e scompiglio tra gli abitanti di Diaspar, Khedron è però un prodotto del Computer Centrale e in ultima analisi condivide la politica isolazionista. Khedron quindi è in contraddizione con sé stesso e con Alvin – potrebbe aiutarlo a scappare, ma anche metterglisi contro se osasse provare a cambiare lo stile di vita dei diaspariani. Mostrare la vicenda alternando i due punti di vista moltiplicherebbe esponenzialmente i livelli di conflitto del romanzo.
A questa rivisitazione massiccia, poi, andrebbe aggiunto un intervento più di cesello. Per esempio, invece che raccontare che Alvin è speciale, e non è come tutti gli altri, come fa Clarke, mostrarlo attraverso piccoli gesti, fraintendimenti, discrepanze tra il suo modo di comportarsi e quello di tutti gli altri. In questo modo il lettore sarebbe il primo a capire che in Alvin c’è qualcosa di diverso.

A Case of Conscience

Autore: James BlishA Case of Conscience
Titolo italiano: Guerra al grande nulla
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1958
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 200 ca.

Agli occhi dei terrestri, il pianeta Lithia sembra il Paradiso terrestre. E’ graziato da una vegetazione rigogliosa e da un clima mite, da un ecosistema in cui ogni specie vivente ha la sua nicchia ecologica e vive in armonia con tutte le altre, e da una civiltà di lucertoloidi antropomorfi che sembra godere di una moralità naturale e non conosce conflitti. L’esatto contrario della Terra, in cui l’umanità, nel terrore di un’apocalisse nucleare, si è rifugiata sottoterra, in enormi città-rifugio sotterranea, e ogni giorno diventa più nevrotica.
Una commissione di quattro scienziati è inviata su Lithia per decidere se aprire liberi contatti con la Terra: il fisico Cleaver, il geologo Agronski, il chimico Michelis e il biologo Ramon Ruiz-Sanchez. Ma Padre Ramon Ruiz non è solo un biologo; è anche un gesuita, e un dottore di teologia morale. E’ l’anno del Giubileo, e la Chiesa l’ha mandato su Lithia affinché risolva un caso di coscienza: se i lithiani abbiano un’anima, cioè se siano veri homines, accomunati ad Adamo nella caduta nel peccato, e quindi evangelizzabili. Ma in Ramon Ruiz si fa strada un terribile sospetto. Che dietro l’apparente perfezione di Lithia si nasconda il pericolo più grande che la Cristianità, e l’umanità tutta, abbiano mai affrontato.

Perché poteva essere una figata
Per lo stesso motivo per cui A Canticle for Leibowitz è una figata: il conflitto tra le ragioni della scienza e le ragioni della teologia, tra ragione e fede. Questo conflitto è realizzato alla perfezione nella figura del protagonista, Padre Ruiz-Sanchez, che riesce contemporaneamente ad essere un ottimo biologo (e a pensare da biologo) e un fervente cattolico. Ramon è un personaggio complesso, pieno di timori e contraddizioni, il che non è la norma nella fantascienza degli anni ’50.
C’è poi il mistero dell’apparente perfezione di Lithia, che tiene il lettore col fiato sospeso, e il fascino dell’ambientazione (per esempio, giganteschi alberi utilizzati come torri di trasmissione delle onde radio). E ancora, il raro connubio della tematica etico-religiosa, cuore del romanzo, e l’Hard SF. Blish infatti affronta nel libro tutta una serie di argomenti scientifici, come il modo in cui un pianeta con risorse naturali molto diverse da quelle della Terra abbia prodotto una civiltà diversa dalla nostra. In appendice al romanzo, troviamo pure un rapporto che fa una panoramica completa di Lithia, dalla distanza dal suo sole all’inclinazione dell’asse, dal movimento tettonico alla composizione del suolo, alle varie fasi della diffusione della vita sulla superficie del pianeta. Blish è uno che ne sa, e le discussioni tra gli scienziati suonano sempre competenti.

Gesuiti

Gesuiti: pronti a diffondere la buona novella in tutta la Galassia.

Perché invece è un FAIL
Due sono i problemi gravi del libro.
Primo, la quasi totale mancanza di azione. Blish è un professionista dell’infodump, nel senso che è capace di inanellarne anche tre o quattro uno dietro l’altro e che da soli probabilmente superano il 50% del testo dell’intero romanzo. Per il resto, i personaggi parlano, parlano, parlano, o riflettono, ma fanno poco. Azione nel romanzo ce ne sarebbe: ma per qualche strano motivo, Blish tende a tagliare queste parti, per poi farle riassumere nel capitolo successivo, con un dialogo, un pensiero del personaggio-pov o magari un bell’infodump. Una reticenza quasi da tragedia greca.
L’altro problema, è che A Case of Conscience tradisce fin troppo la sua natura di fix-up. Il romanzo infatti è l’espansione di una novella, che costituisce la prima metà del libro. La prima parte, interamente ambientata su Lithia e centrata sulla decisione che devono prendere i quattro scienziati, è anche la più interessante. La seconda invece – prevalentemente ambientata sulla Terra – è un disastro: il tema principale della storia viene sommerso da una marea di sottotrame, divagazioni, episodi isolati. A ciò si aggiunge una moltiplicazione dei pov (alcuni dei quali usa-e-getta), sviluppi banali, e la generale impressione che l’autore stesso non sappia più che pesci pigliare. La conclusione, che in sé sarebbe anche carina e si riallaccia finalmente alla trama principale, dopo quelle cento pagine di noia e schifo suona improvvisata, artificiosa e maldestra.
Tra le altre cose irritanti, i romani che dicono “che be’o” (sì, c’è una parte ambientata a Roma) e la tipa giapponese che si chiama ‘Liu Meid’. Inoltre il romanzo è invecchiato piuttosto male dal punto di vista della tecnologia futuristica – ma questo è un problema che affligge quasi tutta la Hard SF.

Io avrei fatto così!
Innanzitutto da aristotelico quale sono – cioè da amante dell’unità di tempo e di luogo – avrei svolto tutta la storia su Lithia. E’ l’ecosistema di Lithia il cuore della storia, nonché il centro dell’interesse del lettore. Eliminerei quindi tranquillamente tutta la seconda parte  ambientata sulla Terra (e quindi anche il banale personaggio di Egvertchi); l’unica eccezione potrebbe essere la convocazione di Ramon Ruiz a San Pietro, che è una bella scena. In quel caso, Ramon Ruiz potrebbe volare a Roma e poi tornare su Lithia.
Oltre a questo, più azione. Il che non significa sparatorie e inseguimenti, ma semplicemente mostrare il team di scienziati che esplora il pianeta e studia i lithiani, invece di farli stare chiusi in una stanza a discutere. Qualcosa di simile a Stations of the Tide di Swanwick, strutturato come una graduale esplorazione di Miranda da parte del protagonista che, episodio dopo episodio, penetra sempre più a fondo nella natura del pianeta. Si potrebbe quindi anticipare l’inizio del romanzo di qualche settimana (A Case of Conscience inizia durante il penultimo giorno di permanenza del team di scienziati).

Rettiliano

Lithiani e rettiliani: una somiglianza sospetta.

Quanto alla scelta dei pov, si potrebbe raccontare tutto dal punto di vista di Ramon Ruiz, oppure alternarlo con l’altro personaggio interessante del gruppo, l’agnostico Michelis. I vantaggi sarebbero due: poiché gli scienziati sono divisi in due squadre, ciascuno potrebbe fare le proprie esplorazioni e noi le vedremmo entrambe; inoltre vivremmo meglio il conflitto tra il punto di vista religioso e quello agnostico; e ancora, potremmo avere un pov che rimane sul pianeta anche quando Ramon Ruiz vola a Roma. Sull’altro lato, i vantaggi di usare un unico pov sono i soliti: maggiore facilità di immedesimazione e la possibilità di usare un timbro più forte (quello del personaggio-pov) come voce narrante. Quello della trasferta a Roma sarebbe poi un falso problema: Ramon Ruiz potrebbe tenersi aggiornato con Michelis via radio o via messaggi, oppure si potrebbe proprio puntare sulla suspence di non sapere cosa sta succedendo su Lithia in quelle ore cruciali.
Terrei fermi due momenti del romanzo originale: la fine della prima parte – con la discussione dei quattro scienziati circa il destino di Lithia – e il finale. Quanto al finale (e qui seguirà uno spoiler in bianco, che consiglio di leggere solo a chi abbia già letto il romanzo o abbia deciso che non lo leggerà mai), due sarebbero i modi sensati di raggiungerlo: dopo il colloquio col Papa, Ramon Ruiz potrebbe decidere che la cosa migliore per “purificare” Lithia sarebbe appunto di lasciare che quel pazzo di Cleaver la faccia esplodere con tutto l’impianto, e magari potrebbe persino attivarsi per far sì che Cleaver vinca la partita; oppure potrebbe rimanere contrario, ma la sua assenza da Lithia potrebbe far precipitare gli eventi e far vincere il partito di Cleaver. Il risultato sarebbe identico, cioè una versione rivista e migliorata del finale originale.

Now Wait for Last Year

Autore: Philip K. Dick
Titolo italiano: Illusioni di potere
Genere: Science Fiction / Social SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1966
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 220 ca.

Il piemontese Gino Molinari, detto ‘la Talpa’, è il dittatore assoluto della Terra. Un tempo uomo forte e pragmatico, capace di infiammare il popolo dall’alto del suo pulpito, dieci anni di governo l’hanno ridotto a un individuo fiacco e ipocondriaco. Gli Starmen, alieni umanoidi signori di un vasto Impero Galattico, l’hanno costretto a imbarcare la Terra in un’interminabile guerra interstellare con i Reeg, un popolo di insettoni. E ora tutti lo odiano, e il suo fisico ne risente.
Per questo ha fatto convocare a palazzo Eric Sweetscent, chirurgo specializzato nel trapianto di organi artificiali. Per Eric, questa è l’occasione adatta per liberarsi della moglie Kathy, una donna nevrotica e violenta che passa il tempo a farlo sentire una merda e a rovinargli la vita. Ma così facendo, Eric finirà coinvolto negli intrighi della guerra galattica e della corte di Molinari, e scoprirà il singolare potere del dittatore di viaggiare tra realtà parallele e di collezionare copie di sé stesso. E quando il mercato terrestre comincerà ad essere invaso da una droga letale che oltre a creare dipendenza fa viaggiare nel tempo, Eric diventerà l’asso nella manica di Molinari per vincere la guerra…

Perché poteva essere una figata
Perché Gino Molinari e la sua dittatura baraccona sono divertentissimi. In qualità di suo medico personale, Eric può assistere a tutti gli aspetti della sua vita: i parenti che continuano a chiedergli soldi, cariche e favori personali assortiti; la camera dove Molinari tiene il cadavere dell’altro sé stesso; le riunioni umilianti col gelido Frenesky, primo ministro degli Starmen, che pretende dalla Terra un maggiore impegno bellico; le sofferenze di Molinari, affetto da una malattia psicosomatica per cui assume sul proprio corpo tutti i malanni delle persone che lo circondano.
E’ molto affascinante anche il tema del traffico di organi artificiali. Il mondo di Now Wait for Last Year è una gerontocrazia; i vecchi ricconi che possono permettersi i continui interventi, non muoiono mai (o molto, molto tardi). Virgil Ackerman, il superiore di Eric prima che questi passi al servizio di Molinari, è un arzillo centotrentenne a capo di un’enorme multinazionale. Ha talmente tanti soldi che si è comprato un appezzamento su Marte e ci ha costruito Wash-35, una ricostruzione maniacale della Washington della sua infanzia (cioè degli anni ’30).
Se Dick fosse riuscito a tenere più stretti i fili della gerontocrazia, della guerra galattica, e della vita pubblica e privata di Molinari, ne sarebbe nato un romanzo coerente (anche nei temi) e molto piacevole.

Mussolini

L'ispiratore di Gino Molinari.

Perché invece è un FAIL
Ma Now Wait for Last Year soffre gli stessi problemi di molti romanzi di Dick: troppe idee in gioco, troppe sotto-trame, troppa carne al fuoco, e una storia che procede più o meno a caso. Viaggi nel tempo, infiltrazioni di spie, clonazioni, sedute diplomatiche, crisi da overdose, cambi di casacca, il tutto condensato in poco più di 200 pagine – tutto questo sarebbe ingestibile anche per un genio. Alcuni passaggi sono demenziali oltre ogni immaginazione; come quando, viaggiando nel futuro, Eric si imbatte in un protoplasma alieno superintelligente che gli somministra consigli sul suo matrimonio (WTF?).
Nel finale, poi, la trama principale viene completamente abbandonata, e Dick si butta, ancora una volta, sul rapporto tra il protagonista e la moglie psicopatica. EPIC FAIL.

Io avrei fatto così!
Tagliare, tagliare, tagliare. Abbiamo detto che il punto forte del romanzo è la dittatura baraccona di Molinari; allora, via innanziutto le cose che non c’entrano, come la moglie e i problemi coniugali. Non che Dick non sia bravo a riprodurre rapporti di coppia disfunzionali, ma ci sono già fin troppi romanzi al mondo su drammi familiari, mogli abusive e frustrazioni assortite. Eric allora potrebbe essere un semplice scapolone insoddisfatto della propria vita, o desideroso di fare un salto di qualità. Il romanzo potrebbe allora aprirsi su Wash-35, con la proposta di Molinari di andare a palazzo; in questo modo avremmo un’introduzione di uno o due capitoli sul protagonista, il mercato del trapianto d’organi artificiali e una prima panoramica del dittatore; per poi arrivare al cuore del romanzo con il trasferimento a palazzo Molinari.
Eliminerei (o ridimensionerei molto) anche la JJ-180: una droga che contemporaneamente crea dipendenza, ti distrugge il fegato e ti fa viaggiare nel tempo o tra le dimensioni è decisamente troppo (e poi, non è molto intelligente dare ai propri nemici il vantaggio del viaggio nel tempo). Molinari avrebbe bisogno di un’altra fonte dei suoi poteri, ma non è un problema – si potrebbe dargli un potere esp, o una macchina sperimentale o che so io.

In generale, centrerei il romanzo sulla “vita di corte” sotto la dittatura di Molinari. In qualità di suo medico personale, Eric (che lascerei come unico personaggio-pov del romanzo) assisterebbe a ogni momento della giornata e della vita del dittatore, dalle pretese dei suoi parenti alle angherie di Frenesky. Diventando il suo braccio destro, potrebbe aiutarlo a viaggiare tra le dimensioni a raccogliere gli altri sé stessi; potrebbe anche fare da ambasciatore segreto presso i Reeg, così da non lasciare la trama bellica troppo sullo sfondo.
Now Wait for Last Year assumerebbe così i toni di una tragicommedia sulla vita sfigata del dittatore di un pianeta sfigato (nell’ottica della guerra tra gli imperi galattici dei Reeg e degli Starmen).

In conclusione
Vale la pena di leggere questi romanzi? Dipende.
Di regola no, soprattutto se avete poco tempo libero e vi interessa semplicemente leggere un buon libro. Hanno troppe falle.
Ma se ambite a scrivere anche voi narrativa fantastica, o se semplicemente vi interessa studiare la narrativa, allora dovreste provarne almeno uno. Dei tre, A Case of Conscience probabilmente è quello più coerente, e più interessante sul piano filosofico; Now Wait for Last Year quello più divertente da leggere; The City and the Stars, quello con l’ambientazione più suggestiva.
Verificate se ciò che ho detto è vero; se provate fastidio e delusione negli stessi punti in cui lo ho provato io; se vi sembra che effettivamente ci sia del potenziale sprecato; e se le mie correzioni li migliorerebbero, o se bisognerebbe riscriverli in un altro modo ancora. Un romanzo riuscito male può essere un caso di studio utile quanto un capolavoro.
E magari, chissà, qualcuno di voi proverà davvero a scrivere il remake uno di questi romanzi… No, non ci credo, questo non succederà mai ^-^ Ma almeno avrò gettato in voi il germe dell’ “io avrei fatto così!”.
E possa tassobarbasso rivoltarsi nella sua tomba.

Fanfiction yaoi

(1) Un’eccezione che mi viene in mente è la novella Palimpsest di Charles Stross, del 2009; l’autore stesso ha detto che si tratta in buona sostanza di una riscrittura dell’ottimo The End of Eternity di Asimov. Non mi esprimo sulla novella perché non l’ho letta. Da non confondersi con il romanzo omonimo di Catherynne Valente.Torna su

(2) Aneddoto divertente: The City and the Stars è già la riscrittura di un romanzo – Against the Fall of Night, opera d’esordio di Clarke. L’avrebbe riscritto perché insoddisfatto della versione originale. A quanto pare è recidivo.Torna su

I Consigli del Lunedì #03: Ringworld

RingworldAutore: Larry Niven
Titolo italiano: I burattinai
Genere: Science Fiction / Hard SF / Space Opera / Big Dumb Object
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 290 ca.

Difficoltà in inglese: ***

Giunto al suo duecentesimo compleanno, Louis Wu, che ne dimostra ancora venti, è annoiato dalla vita: ne ha viste troppe, niente sulla Terra sembra più in grado di regalargli un’emozione, e sta meditando di prendersi un nuovo anno sabbatico in giro per lo spazio. Perciò è davvero una fortuna per lui imbattersi in Nessus, un Burattinaio di Pierson che sta reclutando una ciurma per una missione segreta di esplorazione nello spazio. L’unica informazione che il Burattinaio è disposto a fornire sullo scopo della missione, è una fotografia che mostra una stella attorno a cui ruota una specie di enorme anello circonfuso di azzurro…
Assieme a Nessus, al violento micione Speaker-to-Animals e a Teela Brown, la ragazza con una predisposizione genetica alla fortuna, Louis Wu si imbarcherà alla volta del Ringworld, un artefatto di tale complessità da intimidire persino le più avanzate tra le civiltà aliene dello Spazio Conosciuto. Ma chi sono i costruttori di Ringworld, e che fine hanno fatto?

Ero un po’ in imbarazzo quando ho dovuto decidere se catalogare quest’opera come Hard SF. La fantascienza hard pretende il massimo possibile di verosimiglianza scientifica; la speculazione sulle future tecnologie deve essere il più possibile ancorata alle nostre conoscenze attuali, e pertanto il setting di questo tipo di fiction non è quasi mai troppo spostato nel futuro.
Ringworld invece è ambientato a quasi un millennio di distanza da noi, e contempla: astronavi in grado di superare la velocità della luce; campi di stasi che bloccano il tempo in una regione dello spazio; una profusione di bizzarre civiltà aliene, una delle quali talmente evoluta da poter spostare artificialmente interi sistemi planetari; e così via. Ciononostante, Niven cerca di dare plausibilità scientifica ad ogni sua invenzione, e dedica molto spazio alla fisica del suo mondo1 – insomma, siamo lontani dal menefreghismo scientifico della Soft SF.
Diciamo allora che Ringworld è un’opera di confine tra la fantascienza hard e la minchiata divertente. Ha quindi le potenzialità per piacere a entrambi i tipi di pubblico – o a nessuno.

Ringworld

Come ogni BDO che si rispetti, la superficie dell’anello esterno potrebbe comodamente contenere milioni di pianeti Terra.

Uno sguardo approfondito
La prima cosa che salta all’occhio, in Ringworld, è la ricchezza dell’ambientazione. Non mi sto riferendo soltanto al mondo-anello, ma a tutto l’universo che lo circonda: la specie dei Burattinai, erbivori da gregge superevoluti con tre zampe, due teste, una codardia congenita che sfiora la paranoia e la mania del controllo; gli Outsiders, mercanti di tecnologie e informazioni che vengono non si sa da dove e viaggiano nello spazio seguendo la scia dei “semi stellari”; le esplosioni a catena di supernove nel cuore della Galassia, e le sue conseguenze per le specie senzienti; i tasp, aggeggi in grado di stimolare i centri cerebrali del piacere, e la dipendenza che possono creare;  girasoli che catturano l’energia solare per poi spararla in tutte le direzioni e annichilire ogni altra forma di vita; le guerre tra l’Uomo e gli Kzinti; la Lotteria della Fertilità; e così via.
Le idee e le piccole trovate che attraversano il romanzo sono talmente tante, e alcune talmente bizzarre, che mi verrebbe da accostare Ringworld al New Weird. L’effetto complessivo è simile a quello che mi provocò anni fa l’universo della Fondazione di Asimov: quello di un mondo che si dilata oltre la pagina scritta, di un universo molto più vasto di quello che rimane catturato nel romanzo. Un mondo vivo, sul quale si potrebbero raccontare decine di altre storie.

Niven ottiene quest’effetto in due modi.
Innanzitutto, con le digressioni, che sono frequentissime. I primi incontri tra Louis Wu e lo kzin Speaker-to-Animals diventano uno spunto per parlare delle passate guerre tra Uomini e Kzinti; una breve tappa nel mondo dei Burattinai un’occasione per mostrarci qualcosa della loro tecnologia e della loro società. A volte queste parentesi nascono dal dialogo tra i personaggi; altre volte sono riflessioni private di Louis; altre, dei brutali e sgradevoli infodump. Inoltre, questi spunti non vengono quasi mai esauriti, in modo da lasciare nel lettore un fondo di curiosità.
In secondo luogo, con un uso smodato di termini e concetti esotici – come le ramships, i motori hyperdrive, il boosterspice, il Punto Cieco – che non vengono affatto spiegati ma solo “lasciati intuire”. Questo, da un lato, ha senso: i personaggi conoscono già il loro mondo, non hanno bisogno di spiegarselo, e almeno Niven ci risparmia gli As you know, Bob che infestano la fantascienza. Dall’altro, però, mi sono spesso trovato spaesato a non capire cosa facesse una cosa e cosa fosse un’altra.
Niven però fa un abuso di queste tecniche. Soprattutto nel primo terzo del libro, quando non si è ancora arrivati su Ringworld e quindi non c’è ancora la sua esplorazione a fare da catalizzatore della trama, l’autore continua a passare con nonchalance da un argomento all’altro, aprendo finestre su finestre su storia, società, tecnologia, fisica del suo mondo. Niven sembra avere il difetto di chi è troppo innamorato della sua ambientazione. In un paio di occasioni è capace di aprire delle digressioni nel bel mezzo di una scena d’azione!
Viene solo in parte scusato per la mole di buone idee e per il senso di vastità che riesce a generare. Inoltre molte di queste finestre muovono davvero la trama (alcune solo in un secondo tempo); sono poche le trovate davvero gratuite.

Too many windows

Aprire troppe finestre può creare problemi.

Le stesse croci e delizie riguardano i personaggi principali. La “ciurma” di Louis Wu è una collezione di weirdos: Nessus, con i suoi cicli alterni di euforia e di depressione, combattuto tra l’esigenza di fare il capo e la tendenza naturale della sua specie di rintanarsi in un angolo e far fare tutti agli altri; Speaker-to-Animals, enorme micio inquietante con un esagerato senso dell’onore, costretto a collaborare con altre specie nonostante il motto della sua razza sia qualcosa del tipo: “schiavizza e/o divora tutti coloro che non sono tuoi simili”; Teela Brown, sexy e svampita ventenne che non riesce a capire cosa sia questa cosa chiamata “dolore”. Non voglio dire di più su Teela: non voglio rovinarvi la sorpresa. ^-^
I personaggi di Niven, quindi, sono lontani mille miglia dai manichini funzionali e insulsi tipici dell’Hard SF. E tuttavia, anche loro dimostrano molto di rado una vera profondità psicologica. Niven riesce a farli agire bene nell’emergenza del momento, e anche nell’interazione (spesso ruvida) tra loro; ma mancano di motivazioni profonde. La loro scarsa complessità psicologica è mascherata dando a ciascuno di loro uno o due tratti forti, che funzionano per la maggior parte del tempo, ma che quando vengono meno, ti lasciano con l’amaro in bocca.
Un esempio lampante è il modo in cui nel primo capitolo vengono reclutati Louis e Speaker. In sintesi: “Ehi, sto organizzando una missione fikissima e potenzialmente mortale. Vuoi venire? Sarai ben ricompensato”. “Mmmh, ‘kay”. Questi passaggi sono del tutto privi di credibilità, fanno sembrare la storia una farsa; come se Niven ci stesse dicendo: “Okay, diciamoci la verità, non mi frega un cazzo del plot; voglio solo prendere della gente strana e scaraventarla in un mondo strano”.
Anzi: a volte Ringworld mi è sembrato la cronaca di una campagna di un gioco di ruolo. Intendiamoci: il Master è bravissimo e i personaggi sono di quindicesimo livello; però è pur sempre una sessione di gioco di ruolo. Un giocattolone colorato. Difficilmente ci si sente davvero in ansia per i personaggi: si capisce che in qualche modo se la caveranno sempre.

RPG Ringworld

Da sinistra a destra: il DM, Louis Wu, Teela Brown e Speaker-to-Animals. Nessus è andato in bagno.

Dai personaggi passiamo alla gestione del punto di vista. La cosa più esatta che si può dire sul pov di Ringworld, è che sta “nei pressi di Louis”. Il più delle volte la telecamera è dentro la sua testa, la descrizione di quello che vede si confonde coi suoi pensieri e i suoi giudizi (ma è mantenuta la terza persona). Altre volte, retrocede verso il narratore onnisciente; alcuni degli infodump più sgradevoli non si possono attribuire ad altri che al narratore.
Non ci sarebbe stato bisogno di questi scivolamenti: con un po’ d’attenzione, tutta la storia poteva essere raccontata stando ben ancorati alla spalla di Louis. Il tono della narrazione, disincantato e un po’ ironico, funziona bene col personaggio di Louis e con l’andamento un po’ buffonesco di tutto il romanzo.
Ma a Niven piace creare della suspence inutile, anche a costo di far venire la nausea al lettore o di fargli perdere il filo del discorso. Esempio: il narratore ci avverte che Louis ha notato qualcosa di strano, poi lo vediamo andare a chiamare un altro membro dell’equipaggio; i due tornano sul luogo della scoperta, vediamo loro che guardano la cosa misteriosa, poi cominciano a commentarla e a quel punto capiamo di che si tratta. Niven lo fa di continuo. E’ un modo stupido per creare suspence, non solo perché ci sbalza di pov, ma anche perché in una scena concitata il lettore rischia di non capire se la cosa è stata detta e lui se l’è persa o se non è ancora stata detta, torna alla pagina prima, scorre la pagina in cerca delle informazioni mancanti, non le trova, torna a dov’era rimasto, si confonde di nuovo, e insomma, cazzo – non si fa così!

Ciò detto, Ringworld è assolutamente all’altezza di romanzi BDO come 2001: Odissea nello Spazio o Incontro con Rama di Clarke, e pure meglio di un romanzo come Orbitsville di Bob Shaw 2. La dose di meraviglia è paragonabile, lo stile è migliore, e i personaggi pure; l’unica cosa che viene meno, è il senso di piccolezza e impotenza umana che pervade la Hard SF più seria.
Altro vantaggio non trascurabile, a lettura conclusa la soddisfazione è maggiore rispetto a quella che lasciano i romanzi di Clarke; si ha l’impressione che a tutte le domande principali si sia data una risposta o almeno un’ipotesi di risposta.
Ma rimane anche la giusta dose di mistero.

Ringworld

Un’immagine credibile del Ringworld visto dal suolo. In realtà, data la distanza e la densità dell’aria, non sono sicuro che di giorno l’arco si veda così bene.

Dove si trova?
Se volete leggere Ringworld, dovrete affidarvi a Internet. L’ultima edizione in italiano (col titolo I burattinai) è della Nord (collana Cosmo Oro, N.94) e risale a più di venti anni fa. Sul Mulo si trova senza problemi.
La traduzione italiana che ho trovato su Internet però non mi esalta; solo leggendo un paio di brani per prendere gli estratti, ho notato tagli e riscritture di frasi. E poi si è perso il tanj ç_ç Ma niente paura: il pdf in lingua originale si trova tranquillamente su library.nu.

Su Larry Niven
Proprio come Odissea nello Spazio (3 seguiti), Incontro con Rama (3 seguiti, fondamentalmente scritti da un altro), e pure Orbitsville (2 seguiti), anche Ringworld ha sfornato uno dopo l’altro altri tre libri che continuano la storia del mondo-anello, e poi altri quattro libri che fanno da prequel (anche questi scritti in sostanza da un altro). Ora, nutro una certa antipatia verso questi libri scritti perlopiù su commissione per sfruttare un’ambientazione cara ai fan, per cui non penso li leggerò mai. Potrei fare un eccezione per The Ringworld Engineers, ma si tratta comunque di un’evenienza remota.

Ringworld fans

Fans di Ringworld.

Niven ha ambientato altri romanzi nel suo universo del Known Space, ma non li ho ancora letti. Mi ispira Protector, ma non so quando proverò a leggerlo.

Chi devo ringraziare?
Il fatto che esistesse un romanzo di sf ambientato su un mondo a forma di anello fluttuava sulla soglia della mia coscienza chissà da quanto; ma il primo riferimento preciso a Ringworld, se non ricordo male, lo trovai in un articolo di Dr.Jack sul bolognium3.
Man mano che approfondivo la mia conoscenza della fantascienza, comunque, i riferimenti a Ringworld (specialmente come pietra di paragone di altre space operas o di altre storie BDO) si moltiplicavano, finché alla fine mi son deciso e l’ho letto.

Qualche estratto
Come estratti, ho scelto un pezzo che desse risalto ai personaggi e alla voce narrante – l’incontro iniziale tra Louis Wu e Nessus (un po’ tagliato) – e uno più fantascientifico – l’avvicinamento della navicella Lying Bastard a Ringworld. Noterete che la traduzione italiana si prende qualche libertà, inoltre per qualche motivo le ultime due frasi di Louis alla fine del secondo brano sono del tutto assenti.

1.
He emerged in a sunlit room.
“What the tanj?” he wondered, blinking. The transfer booth must have blown its zap. In Sevilla there should have been no sunlight. Louis Wu turned to dial again, then turned back and stared.
[…] Facing him from the middle of the room was something neither human nor humanoid. It stood on three legs, and it regarded Louis Wu from two directions, from two flat heads mounted on flexible, slender necks. Over most of its startling frame, the skin was white and glovesoft; but a thick, coarse brown mane ran from between the beasts necks, back along its spine, to cover the complex-looking hip joint of the hind leg. The two forelegs were set wide apart, so that the beast’s small, clawed hooves formed almost an equilateral triangle.
Louis guessed that the thing was an alien animal. In those flat heads there would be no room for brains. But he noticed the hump that rose between the bases of the necks, where the mane became a thick protective mop… and a memory floated up from eighteen decades behind him.
This was a puppeteer, a Pierson’s puppeteer.
[…] Louis said, “Can I help you?”
“You can,” said the alien…
… in a voice to spark adolescent dreams. Had Louis visualized a woman to go with that voice, she would have been Cleopatra, Helen of Troy, Marilyn Monroe, and Lorelei Huntz, rolled into one.
“Tanj!” The curse seemed more than usually appropriate. There Ain’t No Justice! That such a voice should belong to a two-headed alien of indeterminate sex!

 — Che diavolo? — si chiese sbattendo le palpebre. La cabina trasfert doveva avere sballato. Non avrebbe dovuto esserci il sole a Teheran. Louis Wu si girò per ricomporre il numero, e rimase allibito.
[…] Di fronte a lui, al centro della stanza, c’era qualcosa che non aveva nulla di umano né di umanoide. La cosa stava ritta su tre gambe e osservava Louis Wu da due direzioni, per mezzo di due teste piatte poste su colli esili e flessibili. Quasi tutta la pelle che ricopriva il suo incredibile corpo era chiara e morbida come quella di un guanto; ma dai due colli una scura criniera, folta e ruvida, scendeva lungo la spina dorsale fino a coprire la complessa attaccatura dell’anca con la gamba posteriore. Le due gambe anteriori, molto divaricate, formavano quasi un triangolo equilatero con i minuscoli zoccoli artigliati.
Louis immaginò trattarsi di un animale alieno. Non poteva esserci posto per un cervello, in quelle teste piatte. Tuttavia notò la gibbosità che spun-tava tra la base dei colli, dove la criniera diventava una specie di folta zazzera protettiva… e un ricordo vecchio di centottant’anni gli fluttuò nella memoria.
Quella creatura era un burattinaio. Un burattinaio di Pierson.
[…] — Posso aiutarti? — disse Louis.
— Sì! — rispose l’alieno…
… con una voce che suscitava i sogni dell’adolescenza. Se avesse immaginato una donna con una voce simile sarebbe stata la somma di Cleopatra, Elena di Troia, Marilyn Monroe e Lorelei Huntz.
— Maledizione! — L’imprecazione era quanto mai appropriata. Non c’è giustizia! Una simile voce appartenere a un alieno con due teste e di sesso indefinito!

2.
 That evening, in the space of half an hour, the ringed star came out from behind the sternward block of living-sleeping cabins. The star was small and white, a shade less intense than Sol, and it nestled in a shallow pencil-line of arc blue.
They stood looking over Speaker’s shoulder as Speaker activated the scope screen.
He found the arc-blue line of the Ringworld’s inner surface, touched the expansion button. One question answered itself amost immediately.
“Something at the edge,” said Louis.
“Keep the scope centered on the rim,” Nessus ordered.
The rim of the ring expanded in their view. It was a wall, rising inward toward the star. They could see its black, space-exposed outer side silhouetted against the sunlit blue landscape. A low rim wall, but low only in comparison to the ring itself.
“If the ring is a million miles across,” Louis estimated, “The rim wall must be at least a thousand miles high. Well, now we know. That’s what holds the air in.”
“Would it work?”
“It should. The ring’s spinning for about a gravity. A little air might leak over the edges over the thousands of years, but they could replace it. To build the ring at all, they must have had cheap transmutation–a few tenth-stars per kiloton–not to mention a dozen other impossibilities.”

 Quella sera, la stella con l’Anello sbucò fuori al di là della poppa, dove si trovavano le cabine e la stanza di soggiorno. L’astro era luminoso quasi quanto il Sole. Si annidava dentro un alone azzurro, sottile come un segno di matita.
Speaker accese lo schermoscopio. Si avvicinarono tutti alle sue spalle per osservare insieme a lui. Lo kzin centrò la linea azzurra della superficie interna dell’Anello e girò la manopola dell’ingrandimento…
Uno dei tanti interrogativi si risolse da sé quasi immediatamente.
— C’è qualcosa sul bordo — disse Louis.
— Centra il telescopio — ordinò Nessus.
L’orlo dell’Anello s’ingrandì. Una parete dell’Anello era rivolta verso l’astro. Quella esterna, che guardava verso lo spazio, risaltava nera in confronto all’azzurro del cielo, illuminato dai raggi della stella. La superficie del bordo era bassa, ma solo in paragone alla grandezza dell’Anello.
— Se l’Anello è largo un milione di miglia — calcolò Louis, — il bordo deve essere alto perlomeno un migliaio. Ora lo sappiamo. È quello che trattiene l’aria all’interno.
— E funziona?
— Credo di sì. L’Anello ruota a gravità. Ci deve essere una leggera dispersione ogni mille anni, ma può essere sostituita.

Tabella riassuntiva

L’ambientazione, dal Ringworld allo Spazio Conosciuto, è fikissima. Niven indulge troppo negli infodump e nelle divagazioni.
 I personaggi principali sono brillanti e fantasiosi. A volte sembra più una sessione di gdr che una storia vera.
Unisce la speculazione scientifica dell’hard sf con una fantasia scatenata. Forse si prende troppe libertà per i puristi dell’hard sf.
Tanj!, What the tanj, You’re tanj right, Sure as tanj: non mi stancherei mai di dirlo!

(1) Addirittura, stando a Niven, una delle ragioni principali per cui dieci anni dopo avrebbe scritto un segito, The Ringworld Engineers, sarebbe quella di risolvere alcuni problemi tecnici del Ringworld che gli erano stati fatti notare.
Cito dalla voce di Wikipedia:

“A major problem being that the Ringworld, being a rigid structure, was not actually in orbit around the star it encircled and would eventually drift, resulting in the entire structure colliding with its sun and disintegrating. In the novel’s introduction, Niven says that MIT students attending the 1971 World Science Fiction Convention chanted, “The Ringworld is unstable! The Ringworld is unstable!” Niven says that one reason he wrote The Ringworld Engineers was to address these engineering problems”.Torna su

(2) Come in Ringworld, anche al centro di Orbitsville c’è l’esplorazione di una sfera di Dyson. Invece di un anello, in questo caso si tratta di una sfera cava di dimensioni analoghe all’orbita terrestre, che racchiude il suo sole, è riempita di aria respirabile e attraverso speciali campi gravitazionali permette di camminare lungo la superficie interna.
Inizialmente avevo intenzione di recensire questo romanzo invece di Ringworld, dato che è meno conosciuto; ma rendendomi conto che Ringworld lo batte praticamente sotto ogni aspetto, ho lasciato perdere. Forse potrei dedicargli un Consiglio in futuro. Non saprei. Che ne dite?Torna su

Sfera di Dyson

Le sfere di Dyson sono utili e divertenti!

(3) Non sono sicuro che la definizione di bolognium utilizzata da Dr.Jack sia appropriata per il Ringworld. Il fatto che per costruirlo ci voglia un livello tecnologico e risorse del tutto fuori dalla nostra portata non implica che sia un oggetto “impossibile” (come lo sarebbe un oggetto che viola apertamente le leggi della fisica). Niven cerca infatti di dare la maggiore plausibilità fisica possibile al Ringworld; il fatto che abbia scritto un seguito apposta per risolvere i buchi tecnici che gli erano sfuggiti nel primo libro la dice lunga sulle sue intenzioni.Torna su