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I Consigli del Lunedì #39: Earth Abides

Earth AbidesAutore: George R. Stewart
Titolo italiano: La Terra sull’abisso
Genere: Science Fiction / Post-Apocalyptic SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1949
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 370 ca.

Difficoltà in inglese: **

Men go and come, but earth abides.
ECCLESIASTES, I, 4

Quando una specie raggiunge un numero elevatissimo di esemplari, e satura il proprio habitat, diventa più soggetta al rischio di essere decimata da un’epidemia. Nel giro di pochi giorni, di quell’animale che sembrava essere ovunque non si trova più traccia. Oggi è toccato all’uomo. Quando Isherwood Williams, giovane studente di geografia all’università di Stanford, torna dalla sua escursione solitaria di due settimane sulle montagne, non trova più anima viva. Le strade sono deserte, le città silenziose. Una pandemia misteriosa si è portata via il 99% degli esseri umani.
Anche la sua casa, nei sobborghi di San Francisco, è vuota; nessuna delle persone che conosceva è ancora in vita. Ma Ish non vuole cedere alla disperazione. Deciso a trovare degli altri sopravvissuti e a impedire il silenzioso tracollo della civiltà, si imbarcherà in un viaggio attraverso gli Stati Uniti. A dargli forza, la curiosità intellettuale di scoprire cosa ne sarà del mondo dopo la fine del dominio dell’uomo. Lo aspettano anni incredibili.

Oggi vi presento un classico dimenticato. Benché non sia certo la prima opera di fantascienza post-apocalittica, Earth Abides è stato a lungo, per il mondo anglosassone, uno dei modelli di riferimento del genere. Uscito un anno dopo 1984, il romanzo di Stewart ha conosciuto una fama crescente nei decenni successivi. Gli scrittori che si sono cimentati in questo sottogenere, da King con The Stand (L’ombra dello scorpione) a McCarthy con The Road, gli si sono dichiaratamente ispirati. Ma con Earth Abides il tempo non è stato clemente come col romanzo di Orwell: oggi, negli States, è uno di quei libri che ricorrono più nella saggistica che nelle librerie di Anobii, e in Italia gli è andata ancora peggio, dove è rimasto un romanzo “da Urania” e non ha mai raggiunto grande notorietà.
Earth Abides parte da premesse consolidate – un protagonista solo, che si ritrova a vagare per le strade vuote di città decimate, in cerca di sopravvissuti – ma prende una direzione inusuale per il genere: quella del realismo documentaristico. Stewart era un saggista e uno storico prima che uno scrittore, e il suo romanzo ha molto della speculative fiction più pura: cosa succederebbe al nostro pianeta se rimuovessimo all’improvviso la quasi totalità della popolazione, e come reagirebbero i pochi superstiti? Stewart ce lo racconta attraverso gli occhi di Ish, in tre fasi della sua vita (corrispondenti alle tre parti in cui è diviso il romanzo): subito dopo il disastro, vent’anni dopo, e alla fine della sua vita. Niente mutazioni zombie, niente eroi, niente epica – solo le ‘normali’ esperienze di un uomo scampato alla fine del mondo.

Panda Extinction

E per non diventare troppo dark, ecco una bella serie di panda stupidi che si estinguono.

Uno sguardo approfondito
I protagonisti tipici della fantascienza post-apocalittica sono degli eroi, dei leader, o quantomeno dei duri – insomma, uomini d’azione. Devono esserlo, altrimenti avremmo dei personaggi-pov che se ne stanno tutto il giorno chiusi in uno sgabuzzino aspettando che qualcuno li salvi, e questa non è una trama molto appassionante. Nel 1949 però le convenzioni del genere non erano ancora state stabilite, e Stewart sceglie un tipo di protagonista molto differente.
Due sono le caratteristiche particolari dell’unico personaggio-pov di Earth Abides, e queste caratteristiche determinano il tono e la filosofia di fondo dell’intero romanzo.

Isherwood, tanto per cominciare, è passivo. Fin dall’inizio si presenta come uno studioso, un osservatore un po’ misantropo; la sua filosofia è quella dello scienziato davanti a un esperimento o dell’etnografo davanti al popolo da studiare: registrare fedelmente e interagire il meno possibile. La sua motivazione per tirare avanti e mettersi in viaggio, dopo aver scoperto che la malattia si è portata via tutti i suoi affetti, non è tanto trovare dei superstiti, quanto scoprire cosa succederà al mondo dopo la scomparsa dell’uomo. Il suo distacco dalla tragedia e la sua politica di non-intervento (soprattutto nella prima parte) riduce anche il coinvolgimento emotivo di noi lettori.
Tutta la narrazione si sviluppa secondo questo mood: il ritmo è pacato e costante, senza quasi mai picchi di tensione o di emozione. Spesso ho provato la sensazione di trovarmi in un documentario alla Piero Angela e di seguire la storia attraverso gli occhi di una fredda telecamera. Sensazione che si accentua quando Stewart intervalla la narrazione con dei brevi paragrafi dal tono esplicitamente saggistico: in questi passaggi, ci allontaniamo per un momento dalla storia di Ish e il Narratore Onnisciente ci racconta la sorte di questa o quella specie animale, o del sistema idrico di una città, o delle grandi autostrade che attraversano le praterie del Midwest. Queste digressioni – che si trovano soprattutto nella prima parte del romanzo, per poi diminuire gradualmente – sono del resto gli unici momenti in cui ci stacchiamo dal pov del protagonista, e sono chiaramente segnalate dall’interruzione di paragrafo.

Panda Endangered

Il nostro protagonista.

Se già questa premessa ha allontanato una buona fetta di voi dal romanzo, aspettate che arriva il bello: Ish è pure un protagonista sgradevole. Rampante universitario nell’America di fine anni ’40, Ish si sente un essere intellettualmente e moralmente superiore agli altri. Per tutto il romanzo, quando si riferisce ad altri da sé, non lo sentiremo dire altro che: questo è stupido, quello è mediocre, quest’altro ha una mente torpida, quello è un sempliciotto, quell’altro ancora si è talmente abbruttito che merita solo di morire.
La sua mancanza di empatia nei confronti degli altri, in particolare, può lasciare interdetti. E dato che un esempio vale più di mille parole, ecco come Ish tratta la prima persona in cui si imbatte dopo settimane, un ubriaco stordito dall’alcool e dal dolore:

Poi imprecò fra i denti, incapace di trattenere una smorfia di disgusto. Di tutti i sopravvissuti che avrebbe potuto trovare gli capitava fra i piedi un imbecille ubriaco, inutile per se stesso e per gli altri.

Mai in un romanzo post-apocalittico mi sarei aspettato di trovare un protagonista che invece di radunare attorno a sé tutti i poveri cristi che incontra, desideroso di compagnia e mutua assistenza, stabilisce che prenderà con sé soltanto quelli che riterrà degni – e che di fatto abbandona al loro destino quasi tutti i superstiti in cui si imbatte. Ish è terribilmente choosy.
Ora; un protagonista-pov sgradevole è una scelta pericolosa ma, di per sé, non è un errore. Corre il rischio di alienarsi la simpatia di molti lettori, impedendo in questo modo la catarsi e quindi l’immersione nella storia; ma può anche essere uno strumento dell’autore per dare un taglio particolare alla sua narrazione. Gli eroi heinleiniani sono tipicamente degli arroganti figli di puttana, ma molti fedelissimi di Heinlein amano i suoi romanzi proprio per questo. I protagonisti di Heinlein, però, non solo dicono di essere dei gran fighi, ma lo mostrano nei fatti: si rivelano davvero degli uomini superiori alla media. Isherwood, invece, è un meschino. Con la sua passività, crea una frattura tra quello che dice di essere (un eletto) e quello che mostra di essere (uno che non combina niente): un cocktail davvero difficile da digerire.

Panda Haters Gonana Hate

È difficile stabilire se quella di fare un protagonista sgradevole sia stata una scelta intenzionale dell’autore. Stewart era lui stesso un professore universitario, e dal tono compiacente che si fa strada a volte nella narrazione, si potrebbe sospettare un’inconsapevole self-insertion nel protagonista. Il modo in cui Ish incolpa vittimisticamente la mediocrità del genere umano per il collasso della civiltà, fa pensare a uno di quegli autori misantropi e autocompiaciuti di cui la storia della letteratura è piena.
In diverse altre occasioni, tuttavia, il mondo di Earth Abides smentisce e prende a schiaffi Ish. Il mondo post-apocalittico non ha bisogno di astrazioni intellettuali o di umanisti – ha bisogno di tecnici, di agricoltori, di ingegneri, di discipline pratiche. Ma queste cose Ish non può offrirle, Ish che alla sera preferisce leggersi Shakespeare piuttosto che una guida a come si coltiva un orto. In questo caso, il nostro protagonista metterebbe in scena l’inadeguatezza e l’impreparazione dell’uomo medio a far fronte agli infiniti problemi del ricostruire la civiltà dopo l’apocalisse.
Se non altro, l’impossibilità di decidere se l’autore sia ‘dalla parte’ del protagonista o meno, dimostra che la gestione dei punto di vista è impeccabile. Che ci piaccia o meno, ciò che vediamo è sempre filtrato dal pov di Ish, e nessun giudizio morale piove dall’alto; sta a noi lettori decidere come pensarla.1

Se la questione del protagonista rimane nebulosa, comunque, il romanzo pullula di errori oggettivi. Troppo spesso Stewart si abbandona a riassuntini raccontati, per esempio quando deve descrivere lunghi lassi di tempo o momenti della giornata in cui non accade nulla di importante. Le tre parti del romanzo, per esempio, sono inframezzate da brevi capitoli intitolati ‘The Quick Years”, in cui l’autore racconta cos’è successo tra un blocco temporale e un altro: queste parti sono interamente dei riassunti. Cosa ancora più irritante, anche alcune scene chiave sono raccontate anziché mostrate – ad esempio, il ritrovamento di molti dei superstiti durante i primi viaggi di Ish, all’inizio del libro.
Difetto ancora più grave, nel libro ci sono diversi errori di trama. Un esempio su tutti: il cibo in scatola. Anche a distanza di venti e più anni dal collasso della civiltà, i superstiti continuano a nutrirsi di scatolette; Stewart concede che il cibo contenuto non abbia più sapore né struttura, ma sembra rimanere commestibile in aeterno. Cosa ancora più ridicola, probabilmente residuo della pruderie di fine anni ’40, nonostante la malattia abbia falcidiato un centinaio di milioni di persone, nel romanzo non ci si imbatte quasi mai nei cadaveri: le vittime hanno avuto la decenza di morire sempre fuori scena, nascosti nelle loro case, lontano in mezzo ai campi, o nei quartieri degli ospedali (da cui Ish si tiene accortamente alla larga). Sembra quasi che l’umanità non sia stata vittima di una pandemia quanto di rapimenti di massa degli alieni. Ora, posso capire che un romanzo di quell’epoca non insisterà mai – ahimé – sullo spettacolo gore di descrivere masse di corpi in putrefazione che invadono ogni dove; ma di qui all’asetticità Wasp di questa morte ‘invisibile’ e pulitina ce ne corre. Per un romanzo che vuole darsi un taglio realista e documentaristico, questi errori rischiano di minare la credibilità di tutta la storia.

Cibo in scatola

No ma, mangiatele tra vent’anni.

 

Al tempo stesso, però, molti aspetti del mondo di Earth Abides suonano credibili e scientificamente accurati. Le ipotesi sui cambiamenti ecologici nel corso degli anni sono affascinanti e ricevono molta più attenzione che nel romanzo post-apocalittico medio, dove in genere fanno da mero sfondo all’azione. Anche la dinamica sociale delle comunità in cui si radunano i sopravvissuti è convincente, e Stewart riesce a costruire alcune scene veramente coinvolgenti. Avanti nel libro – per dirne una – sullo scontro tra Ish e un nuovo arrivato che minaccia la sua leadership nella comunità, l’autore mette in piedi dei bellissimi momenti di tensione, e al contempo ci fa capire molto su come funzionano i rapporti di potere. Ish stesso, che ho tanto maltrattato per tutta la recensione, nel corso del romanzo avrà una crescita psicologica, e alla fine arriverà a capire molte cose che il suo snobistico io giovanile non vedeva o non voleva vedere (e riuscirà persino a combinare qualcosa di pratico!).
Earth Abides è anche un romanzo a tesi, e la sua tesi (dichiarata praticamente da subito: non è uno spoiler) è che un’epidemia che colpisce a caso e indiscriminatamente, non lascerebbe in circolazione i migliori, ma l’uomo medio – la gente che sta nella fetta centrale della gaussiana. Per questo non troviamo, nel romanzo di Stewart, gli uomini straordinari e dalla forte motivazione di tante opere post-apocalittiche successive. I personaggi che popolano Earth Abides sono tutte persone normali, banali, più pigre che cattive; e Ish, nella sua meschinità, è un’altra persona normale. E nella visione cinica ma condivisibile di Stewart, se la ricostruzione della civiltà è affidata a persone normali, non particolarmente talentuose o determinate o visionarie, cosa potrà mai venirne fuori?2

Earth Abides è un romanzo che non può piacere a tutti. La sua visione cinica e fredda dell’essere umano lo associa più a romanzi come Il signore delle mosche di Golding che non al tipico romanzo post-apocalittico, oppure a romanzi apocalittici molto particolari come The Death of Grass di John Cristopher (bel libro di cui parlai in questo vecchio consiglio). Il suo ritmo pacato, i personaggi banali, il pov antipatico, e il taglio naturalistico incline alla filosofia ricorda molta narrativa mainstream più che quella di genere. Quando consideri tutto questo, capisci come mai il romanzo di Stewart stia cadendo nell’oblio mentre The Stand di King continui a vendere.
Ma nonostante tutto è un bel romanzo; e soprattutto è un romanzo che fa riconsiderare il modo in cui siamo abituati a leggere un sottogenere assai codificato della narrativa fantastica.

Gaussiana

Distribuzione dei sopravvissuti alla pandemia.

Dove si trova?
In lingua originale, Earth Abides si trova in formato ePub sia su Library Genesis che su BookFinder. In italiano, cercate La Terra sull’abisso su Emule: troverete una quantità di formati (doc, rtf, pdf, ePub).

Qualche estratto
Per i due estratti, ho scelto due degli elementi più controversi della scrittura di Stewart. Il primo brano è il primo di quei paragrafi saggistici con Narratore Onnisciente che interrompono la narrazione principale di cui vi parlavo; come vedrete, nonostante siano una sfacciata violazione delle regole dell’immersione, sono ben scritti e hanno un certo fascino. Il secondo brano è centrato sull’incontro tra Ish e il primo superstite, l’ubriacone – episodio a cui avevo dedicato qualche riga in corpo di recensione – così che possiate vedere in un contesto più ampio il problema del ‘protagonista non-empatico’.

1.
“It has never happened!” cannot be construed to mean, “It can never happen!”—as well say, “Because I have never broken my leg, my leg is unbreakable,” or “Because I’ve never died, I am immortal.” One thinks first of some great plague of insects—locusts or grasshoppers—when the species suddenly increases out of all proportion, and then just as dramatically sinks to a tiny fraction of what it has recently been. The higher animals also fluctuate. The lemmings work upon their cycle. The snowshoe-rabbits build up through a period of years until they reach a climax when they seem to be everywhere; then with dramatic suddenness their pestilence falls upon them. Some zoologists have even suggested a biological law: that the number of individuals in a species never remains constant, but always rises and falls — the higher the animal and the slower its breeding-rate, the longer its period of fluctuation.
During most of the nineteenth century the African buffalo was a common creature on the veldt. It was a powerful beast with few natural enemies, and if its census could have been taken by decades, it would have proved to be increasing steadily. Then toward the century’s end it reached its climax, and was suddenly struck by a plague of rinderpest. Afterwards the buffalo was almost a curiosity, extinct in many parts of its range. In the last fifty years it has again slowly built up its numbers.
As for man, there is little reason to think that he can in the long run escape the fate of other creatures, and if there is a biological law of flux and reflux, his situation is now a highly perilous one. During ten thousand years his numbers have been on the upgrade in spite of wars, pestilences, and famines. This increase in population has become more and more rapid. Biologically, man has for too long a time been rolling an uninterrupted run of sevens.

Alla frase «Questo non è mai successo» non si può attribuire il significato di «Questo non potrà mai succedere»… sarebbe come dire: «Dato che non mi sono mai rotto una gamba, le mie ossa sono infrangibili», oppure: «Dato che non sono mai morto, io sono immortale». Si pensi ad esempio alle catastrofi causate dall’invasione di certi insetti, come le cavallette o le locuste, quando una specie prolifera improvvisamente oltre le possibilità naturali offerte dall’ambiente, e quindi, per un meccanismo opposto ma altrettanto ignoto, precipita di nuovo sul limite della completa estinzione. Gli animali superiori non sono esenti da fluttuazioni simili. I lemming seguono un ciclo che senza preavviso giunge a un culmine drammatico. I conigli selvatici proliferano normalmente in un territorio per molti anni, finché all’improvviso sembrano sbucar fuori a dozzine da ogni cespuglio; e poi, con uguale rapidità, una pestilenza o qualcosa nell’ambiente ecologico li stermina di nuovo. Gli zoologi hanno perfino ipotizzato l’esistenza di una legge biologica: il numero di individui di una stessa specie non può stabilizzarsi, ma cresce e diminuisce fra un massimo e un minimo, e più si tratta di animali superiori, più lungo è il ciclo di queste fluttuazioni.
Durante la maggior parte del diciannovesimo secolo il bufalo africano ha popolato la savana in branchi più numerosi di ogni altro erbivoro. Era un animale poderoso, con pochi nemici naturali, e tutto fa credere che per secoli la quantità di capi fosse aumentata lentamente e gradualmente. Poi, sul finire del secolo, questo incremento raggiunse l’apice e i branchi furono improvvisamente colpiti da una varietà di peste bovina. Già nei primi anni del millenovecento i bufali erano animali rari, estinti in molte zone che un tempo avevano popolato. Soltanto negli ultimi cinquant’anni il loro numero sembra pian piano essere cresciuto.
In quanto all’uomo, ci sono poche ragioni per non credere che alla lunga possa sfuggire al destino di altri mammiferi superiori, e se davvero esiste una legge biologica di flusso e di riflusso la sua situazione è attualmente vicina al punto di pericolo. Negli ultimi cento anni il suo numero è aumentato vertiginosamente, a dispetto delle guerre e delle carestie che hanno provocato centinaia di milioni di vittime. Questo aumento della popolazione sta diventando anzi sempre più rapido, con aspetti esponenziali. Se quella dell’uomo con l’ambiente fosse una partita a dadi, si potrebbe dire che biologicamente egli sta ottenendo da ormai troppo tempo una ininterrotta serie di sette.

Philosophy Raptor

2.
In the front seat of a car parked at the curb, he saw a man. Even as he looked, the man collapsed and fell forward on the wheel. The horn, pressed down, emitted a long squawk as the body slipped sideways to the seat. Coming closer, Ish smelled a reek of whiskey. He saw the man with a long, straggly beard, his face bloated and red, obviously in the last stages of passing-out. Ish looked around, and saw that the liquor-store close by was wide open.
In sudden anger, Ish shook the yielding body. The man revived a little, opened his eyes, and emitted a kind of grunt which might have meant, “What is it?” Ish shoved the inert body to a sitting position; as he did so, the man’s hand fumbled for the half-empty bottle of whiskey which was propped in the corner of the seat. Ish grabbed it, threw it out, and heard it splinter on the curbing. He was filled only with a deep bitter anger and a sense of horrible irony. Of all the survivors whom he might have found, here was only a poor old drunk, good for nothing more in this world, or any other. Then as the man’s eyes opened and Ish looked into them, he felt suddenly no more anger, but only a great deep pity.
Those eyes had seen too much. There was a fear in them and a horror that could never be told. However gross the bloated body of the drunkard might seem—somewhere, behind it all, lay a sensitive mind, and that mind had seen more than it could endure. Escape and oblivion were all that could remain.
They sat there together on the seat. The eyes of the drunken man glanced here and there, hardly under control. Their tragedy seemed to grow only deeper. The breath came raspingly. On sudden impulse, Ish took the inert wrist and felt for the pulse. It was weak and irregular. The man had been drinking, doubtless, for a week. Whether he could last much longer was questionable.
“This, then is it!” thought Ish. The survivor might have been a beautiful girl, or a fine intelligent man, but it was only this drunkard, too far gone for any help.

Semisdraiato sul sedile anteriore di una Ford bianca c’era un uomo, che mentre lui si avvicinava collassò in avanti piombando col petto sul volante. Il clacson, sotto il peso del suo corpo, emise un ululato continuo. Ancor prima di aver aperto la portiera Ish sentì l’odore del whisky. L’individuo aveva una barba di due settimane, il volto gonfio e arrossato, ed era evidentemente ubriaco fradicio. Ish alzò lo sguardo e capì perché aveva posteggiato lì: a pochi metri di distanza c’era un negozio di liquori, con la porta aperta.
Improvvisamente irritato sollevò l’uomo dal volante e lo scosse. Lo sconosciuto parve riaversi, aprì gli occhi ed emise un grugnito che avrebbe potuto significare: – Eh? Che c’è? – Lui lo fece appoggiare allo schienale. Mentre lo piazzava in quella posizione l’altro annaspò verso una bottiglia di Old Man Ranger piena a metà, incastrata dietro la leva del cambio. Ish la prese, la scaraventò dall’altra parte della strada e la sentì andare in pezzi contro il marciapiede. Poi imprecò fra i denti, incapace di trattenere una smorfia di disgusto. Di tutti i sopravvissuti che avrebbe potuto trovare gli capitava fra i piedi un imbecille ubriaco, inutile per se stesso e per gli altri. Ma allorché l’individuo si volse a scrutarlo e Ish poté vedere meglio i suoi occhi, vacui e storditi, la rabbia che l’aveva invaso lasciò il posto alla compassione.
Quelli erano occhi che avevano visto troppe cose. Nel loro sguardo vitreo stagnavano ancora uno spavento e un dolore che non potevano essere detti a voce. Per quanto rozzo e incivile l’ubriaco potesse ora apparire, da qualche parte dentro di lui c’era una mente sensibile, una mente che aveva sopportato tutto quello che un uomo riesce a sopportare prima di cedere. La fuga e l’oblio erano tutto ciò che poteva restargli.
Aprì lo sportello di destra e sedette al suo fianco. Gli occhi dello sconosciuto si spostarono qua e là sul parabrezza, probabilmente senza vedere niente al di là di esso. Ansimava raucamente, inerte. La sua tragedia personale era una barriera che adesso lo isolava dal mondo. D’impulso Ish gli fece sollevare un polso e controllò le pulsazioni. Erano molto deboli, irregolari. C’era da scommettere che si stava nutrendo d’alcool da almeno una settimana. Quanto avrebbe tirato avanti prima del collasso finale era materia di ipotesi.
Così stanno le cose, già, pensò Ish. A rispondergli col clacson avrebbe potuto essere un uomo solido e ben educato, o magari una bella ragazza, e invece lì c’era un ubriaco che per lui costituiva soltanto un peso morto.

Tabella riassuntiva

Uno sguardo realistico a un possibile futuro post-apocalittico. Protagonista passivo e dall’atteggiamento irritante.
Buona gestione del pov. Ritmo lento e atmosfera fatalista.
Alcune riflessioni interessanti sulla natura umana. Alcuni errori scientifici minano la credibilità dell’insieme.


(1) Fanno eccezione, all’uso sistematico del pov del protagonista, i già citati paragrafi ‘saggistici’ con Narratore Onnisciente. Ma in questi passaggi non vengono pronunciati giudizi morali sui personaggi del romanzo, quindi questa ‘indecidibilità’ rimane.Torna su


(2) Alla luce di questa visione cinica dell’uomo medio di Stewart si potrebbe anche riconsiderare il carattere choosy di Ish. Lui rifiuta di aggregarsi alla maggior parte dei sopravvissuti che incontra, rimanendone inorridito. Questo atteggiamento elitista, sulle prime, ci disturba. Però potremmo anche chiederci: noi ci comporteremmo davvero in modo diverso? Saremmo pronti, nonostante la solitudine e la desolazione del mondo post-apocalittico, a fare banda con le prime persone che incontriamo? Anche se non ci piacessero? Non ci trasformeremmo piuttosto in figuri guardinghi e riservati, come animali selvatici, costretti dall’istinto di sopravvivenza a non fidarci degli estranei?
Le convenzioni del genere post-apocalittico ci hanno ormai abituati a una logica standard delle relazioni umane – ma non è detto che sia quella più corretta. Forse le reazioni di Ish sono molto più vicine alla realtà. E se l’obiettivo di Earth Abides è il realismo, allora ha fatto un buon lavoro.Torna su

Buone notizie dal Vaticano

Conclave“Ever since I read Baron Corvo’s remarkable novel Hadrian the Seventh long ago, I have amused myself with the fantasy of being elected Pope – an ambition complicated to some degree by the fact that I am not in holy orders, nor a Roman Catholilc, nor, indeed, any kind of Christian at all. But I do live in the hope that the Church will some day see fit to make use of my services.”

Così scrive Robert Silverberg nello spiegare come arrivò a scrivere, un giorno di Febbraio del 1971, quel suo bizzarro racconto in cui un cardinale robot viene eletto al Soglio Pontificio.
Esattamente un anno fa papa Ratzinger rinunciava al ministero petrino, facendo strabuzzare gli occhi a tutti. In quell’occasione, andai a recuperare su consiglio di un mio amico un racconto di fantascienza semi-dimenticato scritto da un autore di fantascienza altrettanto semi-dimenticato, Il dilemma di Benedetto XVI di tale Herbie Brenner, e lo pubblicai sul blog. Per una ragione o per un’altra, quell’articolo riscosse un grande successo di visite (anche se ebbe pochi commenti). Sicché mi son detto: perché non provare a ripetere l’esperimento con un altro racconto a tema papale? Se anche questo dovesse piacere e attirare visite e/o commenti, potrei decidere di provare più spesso a postare racconti integrali pescati dal passato.

Good News from the Vatican è un raccontino privo di meriti letterari. Non c’è tensione, non c’è un vero climax, non c’è azione, e il conflitto è ridotto ai minimi termini. Ci sono solo personaggi che chiacchierano davanti al tavolo di un bar a poca distanza da San Pietro, in attesa che dalla piazza si levi la fumata bianca, chiedendosi chi sarà il nuovo Papa, se davvero sarà il cardinale robot. Per di più, il racconto appartiene a quell’epoca in cui sembrava che ogni aspetto della nostra vita sarebbe presto stato contaminato da una visione ipertecnologica del mondo.
Ma è buffo. E un tantino demenziale.
Come la Chiesa.

Good News from the Vatican

Good News from the Vatican
This is the morning everyone has been waiting for, when at last the robot cardinal is to be elected pope. There can no longer be any doubt of the outcome. The conclave has been deadlocked for many days between the obstinate advocates of Cardinal Asciuga of Milan and Cardinal Carciofo of Genoa, and word has gone out that a compromise is in the making. All factions now are agreed on the selection of the robot. This morning I read in Osservatore Romano that the Vatican computer itself has taken a hand in the deliberations. The computer has been strongly urging the candidacy of the robot. I suppose we should not be surprised by this loyalty among machines. Nor should we let it distress us. We absolutely must not let it distress us.
“Every era gets the pope it deserves,” Bishop FitzPatrick observed somewhat gloomily today at breakfast. “The proper pope for our times is a robot, certainly. At some future date it may be desirable for the pope to be a whale, an automobile, a cat, a mountain.” Bishop FitzPatrick stands well over two meters in height and his normal facial expression is a morbid, mournful one. Thus it is impossible for us to determine whether any particular pronouncement of his reflects existential despair or placid acceptance. Many years ago he was a star player for the Holy Cross championship basketball team. He has come to Rome to do research for a biography of St. Marcellus the Righteous.
We have been watching the unfolding drama of the papal election from an outdoor café several blocks from the Square of St. Peter’s. For all of us, this has been an unexpected dividend of our holiday in Rome; the previous pope was reputed to be in good health and there was no reason to suspect that a successor would have to be chosen for him this summer.
Each morning we drive across by taxi from our hotel near the Via Veneto and take up our regular positions around “our” table. From where we sit, we all have a clear view of the Vatican chimney through which the smoke of the burning ballots rises: black smoke if no pope has been elected, white if the conclave has been successful. Luigi, the owner and headwaiter, automatically brings us our preferred beverages: Fernet Branca for Bishop FitzPatrick, Campari and soda for Rabbi Mueller, Turkish coffee for Miss Harshaw, lemon squash for Kenneth and Beverly, and Pernod on the rocks for me. We take turns paying the check, although Kenneth has not paid it even once since our vigil began. Yesterday, when Miss Harshaw paid, she emptied her purse and found her self 350 lire short; she had nothing else except hundred-dollar travelers’ checks. The rest of us looked pointedly at Kenneth but he went on calmly sipping his lemon squash. After a brief period of tension Rabbi Mueller produced a 500-lire coin and rather irascibly slapped the heavy silver piece against the table. The rabbi is known for his short temper and vehement style. He is twenty-eight years old, customarily dresses in a fashionable plaid cassock and silvered sunglasses, and frequently boasts that he has never performed a bar mitzvah ceremony for his congregation, which is in Wicomico County, Maryland. He believes that the rite is vulgar and obsolete, and invariably farms out all his bar mitzvahs to a franchised organization of itinerant clergymen who handle such affairs on a commission basis. Rabbi Mueller is an authority on angels.

Piazza San Pietro

Our group is divided over the merits of electing a robot as the new pope. Bishop FitzPatrick, Rabbi Mueller, and I are in favor of the idea. Miss Harshaw, Kenneth, and Beverly are opposed. It is interesting to note that both of our gentlemen of the cloth, one quite elderly and one fairly young, support this remarkable departure from tradition. Yet the three “swingers” among us do not.
I am not sure why I align myself with the progressives. I am a man of mature years and fairly sedate ways. Nor have I ever concerned myself with the doings of the Church of Rome. I am unfamiliar with Catholic dogma and unaware of recent currents of thought within the Church. Still, I have been hoping for the election of the robot since the start of the conclave.
Why, I wonder? Is it because the image of a metal creature upon the Throne of St. Peter stimulates my imagination and tickles my sense of the incongruous? That is, is my support of the robot purely an aesthetic matter? Or is it, rather, a function of my moral cowardice? Do I secretly think that this gesture will buy the robots off? Am I privately saying, Give them the papacy and maybe they won’t want other things for a while? No. I can’t believe anything so unworthy of myself. Possibly I am for the robot because I am a person of unusual sensitivity to the needs of others.
“If he’s elected,” says Rabbi Mueller, “he plans an immediate time-sharing agreement with the Dalai Lama and a reciprocal plug-in with the head programmer of the Greek Orthodox Church, just for starters. I’m told he’ll make ecumenical overtures to the Rabbinate as well, which is certainly something for all of us to look forward to.”
“I don’t doubt that there’ll be many corrections in the customs and practices of the hierarchy,” Bishop FitzPatrick declares. “For example we can look forward to superior information-gathering techniques as the Vatican computer is given a greater role in the operations of the Curia. Let me illustrate by—”
“What an utterly ghastly notion,” Kenneth says. He is a gaudy young man with white hair and pink eyes. Beverly is either his wife or his sister. She rarely speaks. Kenneth makes the sign of the Cross with offensive brusqueness and murmurs, “In the name of the Father, the Son, and the Holy Automaton.” Miss Harshaw giggles but chokes the giggle off when she sees my disapproving face.
Dejectedly, but not responding at all to the interruption, Bishop FitzPatrick continues, “Let me illustrate by giving you some figures I obtained yesterday afternoon. I read in the newspaper Oggi that during the last five years, according to a spokesman for the Missiones Catholicae, the Church has increased its membership in Yugoslavia from 19,381,403 to 23,501,062. But the government census taken last year gives the total population of Yugoslavia at 23,575,194. That leaves only 74,132 for the other religious and irreligious bodies. Aware of the large Moslem population of Yugoslavia, I suspected an inaccuracy in the published statistics and consulted the computer in St. Peter’s, which informed me”—the bishop, pausing, produces a lengthy printout and unfolds it across much of the table—“that the last count of the Faithful in Yugoslavia, made a year and a half ago, places our numbers at 14,206,198. Therefore an overstatement of 9,294,864 has been made. Which is absurd. And perpetuated. Which is damnable.”

San Pietro

“What does he look like?” Miss Harshaw asks. “Does anyone have any idea?”
“He’s like all the rest,” says Kenneth. “A shiny metal box with wheels below and eyes on top.”
“You haven’t seen him,” Bishop FitzPatrick interjects. “I don’t think it’s proper for you to assume that—”
“They’re all alike,” Kenneth says. “Once you’ve seen one, you’ve seen all of them. Shiny boxes. Wheels. Eyes. And voices coming out of their bellies like mechanized belches. Inside, they’re all cogs and gears.” Kenneth shudders delicately. “It’s too much for me to accept. Let’s have another round of drinks, shall we?”
Rabbi Mueller says, “It so happens that I’ve seen him with my own eyes.”
“You have?” Beverly exclaims.
Kenneth scowls at her. Luigi, approaching, brings a tray of new drinks for everyone. I hand him a 5,000-lire note. Rabbi Mueller removes his sunglasses and breathes on their brilliantly reflective surfaces. He has small, watery grey eyes and a bad squint. He says, “The cardinal was the keynote speaker at the Congress of World Jewry that was held last fall in Beirut. His theme was ‘Cybernetic Ecumenicism for Contemporary Man’. I was there. I can tell you that His Eminency is tall and distinguished, with a fine voice and a gentle smile. There’s something inherently melancholy about his manner that reminds me greatly of our friend the bishop, here. His movements are graceful and his wit is keen.”
“But he’s mounted on wheels, isn’t he?” Kenneth persists.
“On treads,” replies the rabbi, giving Kenneth a fiery, devastating look and resuming his sunglasses. “Treads, like a tractor has. But I don’t think that treads are spiritually inferior to feet, or, for that matter, to wheels. If I were a Catholic I’d be proud to have a man like that as my pope.”
“Not a man,” Miss Harshaw puts in. A giddy edge enters her voice whenever she addresses Rabbi Mueller. “A robot,” she says. “He’s not a man, remember?”
“A robot like that as my pope, then,” Rabbi Mueller says, shrugging at the correction. He raises his glass. “To the new pope!”
“To the new pope!” cries Bishop FitzPatrick.
Luigi comes rushing from his café. Kenneth waves him away. “Wait a second,” Kenneth says. “The election isn’t over yet. How can you be so sure?”
“The Osservatore Romano,” I say, “indicates in this morning’s edition that everything will be decided today. Cardinal Carciofo has agreed to withdraw in his favor, in return for a larger real time allotment when the new computer hours are decreed at next year’s consistory.”
“In other words, the fix is in,” Kenneth says.
Bishop FitzPatrick sadly shakes his head. “You state things much too harshly, my son. For three weeks now we have been without a Holy Father. It is God’s Will that we shall have a pope. The conclave, unable to choose between the candidacies of Cardinal Carciofo and Cardinal Asciuga, thwarts that Will. If necessary, therefore, we must make certain accommodations with the realities of the times so that His Will shall not be further frustrated. Prolonged politicking within the conclave now becomes sinful. Cardinal Carciofo’s sacrifice of his personal ambitions is not as self-seeking an act as you would claim.”
Kenneth continues to attack poor Carciofo’s motives for withdrawing. Beverly occasionally applauds his cruel sallies. Miss Harshaw several times declares her unwillingness to remain a communicant of a Church whose leader is a machine. I find this dispute distasteful and swing my chair away from the table to have a better view of the Vatican. At this moment the cardinals are meeting in the Sistine Chapel. How I wish I were there! What splendid mysteries are being enacted in that gloomy, magnificent room! Each prince of the Church now sits on a small throne surmounted by a violet-hued canopy. Fat wax tapers glimmer on the desk before each throne. Masters of ceremonies move solemnly through the vast chamber, carrying the silver basins in which the blank ballots repose. These basins are placed on the table before the altar. One by one the cardinals advance to the table, take ballots, return to their desks. Now, lifting their quill pens, they begin to write. “I, Cardinal———, elect to the Supreme Pontificate the Most Reverend Lord my Lord Cardinal———.” What name do they fill in? Is it Carciofo? Is it Asciuga? Is it the name of some obscure and shriveled prelate from Madrid or Heidelberg, some last-minute choice of the anti-robot faction in its desperation? Or are they writing his name? The sound of scratching pens is loud in the chapel. The cardinals are completing their ballots, sealing them at the ends, folding them, folding them again and again, carrying them to the altar, dropping them into the great gold chalice. So have they done every morning and every afternoon for days, as the deadlock has prevailed.

Conclave

“I read in the Herald-Tribune a couple of days ago,” says Miss Harshaw, “that a delegation of two hundred and fifty young Catholic robots from Iowa is waiting at the Des Moines airport for news of the election. If their man gets in, they’ve got a chartered flight ready to leave, and they intend to request that they be granted the Holy Father’s first public audience.”
“There can be no doubt,” Bishop FitzPatrick agrees, “that his election will bring a great many people of synthetic origin into the fold of the Church.”
“While driving out plenty of flesh and blood people!” Miss Harshaw says shrilly.
“I doubt that,” says the bishop. “Certainly there will be some feelings of shock, of dismay, of injury, of loss, for some of us at first. But these will pass. The inherent goodness of the new pope, to which Rabbi Mueller alluded, will prevail. Also I believe that technologically minded young folk everywhere will be encouraged to join the Church. Irresistible religious impulses will be awakened throughout the world.”
“Can you imagine two hundred and fifty robots clanking into St. Peter’s?” Miss Harshaw demands.
I contemplate the distant Vatican. The morning sunlight is brilliant and dazzling, but the assembled cardinals, walled away from the world, cannot enjoy its gay sparkle. They all have voted, now. The three cardinals who were chosen by lot as this morning’s scrutators of the vote have risen. One of them lifts the chalice and shakes it, mixing the ballots. Then he places it on the table before the altar; a second scrutator removes the ballots and counts them. He ascertains that the number of ballots is identical to the number of cardinals present. The ballots now have been transferred to a ciborium, which is a goblet ordinarily used to hold the consecrated bread of the Mass. The first scrutator withdraws a ballot, unfolds it, reads its inscription; passes it to the second scrutator, who reads it also; then it is given to the third scrutator, who reads the name aloud. Asciuga? Carciofo? Some other? His?
Rabbi Mueller is discussing angels. “Then we have the Angels of the Throne, known in Hebrew as arelim or ophanim. There are seventy of them, noted primarily for their steadfastness. Among them are the angels Orifiel, Ophaniel, Zabkiel, Jophiel, Ambriel, Tychagar, Barael, Quelamia, Paschar, Boel, and Raum. Some of these are no longer found in Heaven and are numbered among the fallen angels in Hell.”
“So much for their steadfastness,” says Kenneth.
“Then, too,” the rabbi goes on, “there are the Angels of the Presence, who apparently were circumcised at the moment of their creation. These are Michael, Metatron, Suriel, Sandalphon, Uriel, Saraqael, Astanphaeus, Phanuel, Jehoel, Zagzagael, Yefefiah, and Akatriel. But I think my favorite of the whole group is the Angel of Lust, who is mentioned in Talmud Bereshith Rabba 85 as follows, that when Judah was about to pass by—”
They have finished counting the votes by this time, surely. An immense throng has assembled in the Square of St. Peter’s. The sunlight gleams off hundreds if not thousands of steel-jacketed craniums. This must be a wonderful day for the robot population of Rome. But most of those in the piazza are creatures of flesh and blood: old women in black, gaunt young pickpockets, boys with puppies, plump vendors of sausages, and an assortment of poets, philosophers, generals, legislators, tourists, and fishermen. How has the tally gone? We will have our answer shortly. If no candidate has had a majority, they will mix the ballots with wet straw before casting them into the chapel stove, and black smoke will billow from the chimney. But if a pope has been elected, the straw will be dry, the smoke will be white.
The system has agreeable resonances. I like it. It gives me the satisfactions one normally derives from a flawless work of art: the Tristan chord, let us say, or the teeth of the frog in Bosch’s Temptation of St. Anthony. I await the outcome with fierce concentration. I am certain of the result; I can already feel the irresistible religious impulses awakening in me. Although I feel, also, an odd nostalgia for the days of flesh and blood popes. Tomorrow’s newspapers will have no interviews with the Holy Father’s aged mother in Sicily, nor with his proud younger brother in San Francisco. And will this grand ceremony of election ever be held again? Will we need another pope, when this one whom we will soon have can be repaired so easily?

Fumo bianco

Ah. The white smoke! The moment of revelation comes!
A figure emerges on the central balcony of the facade of St. Peter’s, spreads a web of cloth-of-gold, and disappears. The blaze of light against that fabric stuns the eye. It reminds me perhaps of moonlight coldly kissing the sea at Castellamare, or, perhaps even more, of the noonday glare rebounding from the breast of the Caribbean off the coast of St. John. A second figure, clad in ermine and vermilion, has appeared on the balcony. “The cardinal-archdeacon,” Bishop FitzPatrick whispers. People have started to faint. Luigi stands beside me, listening to the proceedings on a tiny radio. Kenneth says, “It’s all been fixed.” Rabbi Mueller hisses at him to be still. Miss Harshaw begins to sob. Beverly softly recites the Pledge of Allegiance, crossing herself throughout. This is a wonderful moment for me. I think it is the most truly contemporary moment I have ever experienced.
The amplified voice of the cardinal-archdeacon cries, “I announce to you great joy. We have a pope.”
Cheering commences, and grows in intensity as the cardinal-archdeacon tells the world that the newly chosen pontiff is indeed that cardinal, that noble and distinguished person, that melancholy and austere individual, whose elevation to the Holy See we have all awaited so intensely for so long. “He has imposed upon himself,” says the cardinal-archdeacon, “the name of—”
Lost in the cheering, I turn to Luigi. “Who? What name?”
“Sisto Settimo,” Luigi tells me.
Yes, and there he is, Pope Sixtus the Seventh, as we now must call him. A tiny figure clad in the silver and gold papal robes, arms outstretched to the multitude, and, yes! the sunlight glints on his cheeks, his lofty forehead, there is the brightness of polished steel. Luigi is already on his knees. I kneel beside him. Miss Harshaw, Beverly, Kenneth, even the rabbi, all kneel, for beyond doubt this is a miraculous event. The pope comes forward on his balcony. Now he will deliver the traditional apostolic benediction to the city and to the world. “Our help is in the Name of the Lord,” he declares gravely. He activates the levitator jets beneath his arms; even at this distance I can see the two small puffs of smoke. White smoke, again. He begins to rise into the air. “Who hath made heaven and earth,” he says. “May Almighty God, Father, Son, and Holy Ghost, bless you.” His voice rolls majestically toward us. His shadow extends across the whole piazza. Higher and higher he goes, until he is lost to sight. Kenneth taps Luigi. “Another round of drinks,” he says, and presses a bill of high denomination into the innkeeper’s fleshy palm. Bishop FitzPatrick weeps. Rabbi Mueller embraces Miss Harshaw. The new pontiff, I think, has begun his reign in an auspicious way.

Amen!

I Consigli del Lunedì #38: The Dancers at the End of Time

The Dancers at the End of TimeAutore: Michael Moorcock
Titolo italiano: I danzatori alla fine del tempo
Genere: Fantasy / Dying Earth / Commedia
Tipo: Romanzo (Trilogia)

Anno: 1972-1976 / 1993
Nazione: UK
Lingua: Inglese
Pagine: 670 ca.

Difficoltà in inglese: ***

The cycle of our Earth (indeed, our universe, if the truth had been known) was nearing its end, and the human race had at last ceased to take itself seriously…

Può esistere l’amore alla Fine del Tempo? Jherek Carnelian crede di sì.
Miliardi di anni nel futuro, quando il sole è ormai consumato e la Terra si avvicina alla fine della sua vita, gli esseri umani sono ormai diventati simili a dèi. Gli anelli che hanno alle dita permettono, con il più piccolo dei movimenti, di comporre e disgregare la materia a piacimento, così che in un secondo possono fare o disfare palazzi, città, interi continenti, esseri viventi. Non conoscono il dolore né la malattia, e possono vivere in eterno; perciò passano la vita a divertirsi, correndo da un party all’altro, creando capolavori di bellezza e scambiandosi complimenti.
Jherek Carnelian, l’ultimo essere umano ad essere nato da un ventre materno, è un’esteta, ammirato da tutti per il buongusto delle sue creazioni e delle sue maniere. E quando un bel giorno, durante un party, appare dal nulla una viaggiatrice del tempo venuta dalla Londra di fine ‘800, Jherek decide di innamorarsene e vivere una bellissima storia d’amore. Ma Mrs. Underwood è una donna di sani principi, e farà di tutto per resistere alle tentazioni e tornare nella sua epoca. E mentre Jherek si lancia attraverso il tempo e lo spazio per coronare il suo impossibile sogno d’amore, si avvicina il giorno della morte dell’intero Universo… Quella tra Jherek e Amelia Underwood potrebbe anche essere l’ultima delle storie d’amore.

Anelli dai poteri illimitati, viaggi nel tempo, banditi spaziali, inseguimenti, galassie che esplodono, intrighi diabolici che si dipanano lungo milioni di anni: The Dancers at the End of Time è una commedia d’avventura che non può essere presa sul serio. La Gollancz l’ha pubblicata negli SF Masterworks, ma anche se si maschera dietro il gergo della fantascienza l’opera di Michael Moorcock è un Fantasy spensierato. Ciò che mi ha incuriosito e affascinato da subito è il soggetto: esseri semidivini che riprendono l’atteggiamento decadente dei dandy fine-ottocenteschi alla Oscar Wilde, i cui unici timori sono la noia e il cattivo gusto.
The Dancers at the End of Time si presenta come una trilogia – composta da An Alien Heat, The Hollow Lands e The End of All Songs – ma a conti fatti è un’unico romanzo diviso in tre parti; ogni libro comincia dove finiva il precedente, ed elementi e subplot introdotti nel primo libro trovano risoluzione nel terzo. Nel complesso, seguiamo le avventure di Jherek e Amelia Underwood per quasi 700 pagine. La grande domanda con cui avevo avvicinato il romanzo era quindi: come farà l’autore ad acchiappare e mantenere l’interesse del lettore, con protagonisti virtualmente invincibili e un mondo senza conflitti?

I'm Bored

Pure gli abitanti della Fine del Tempo hanno i loro problemi.

Uno sguardo approfondito
I romanzi di Moorcock si possono dividere in due filoni. Ci sono quelli “seri”, drammatici, come Behold the Man o Gloriana (entrambi dei quali hanno un Consiglio dedicato su questo blog) o Mother London: romanzi ben strutturati, con un tema subito riconoscibile e una trama che si dipana in una catena di cause ed effetti. E poi ci sono le minchiate sword&sorcery, come i cicli di Elric, o Corum, o del Nomade del Tempo (The Warlord of the Air e seguiti): serie di episodi più o meno scollegati, che spesso nascevano come racconti autonomi sulle rivistacce di fantascienza e fantasy dell’epoca. Anche la qualità della scrittura era ben diversa. Benché Moorcock non sia mai stato un grande prosatore, i primi erano più curati, mentre i secondi paiono seguire la filosofia del “buona la prima”.
The Dancers at the End of Time è una via di mezzo tra i due filoni. Come le opere della seconda categoria, è scritto abbastanza da cani. La storia è raccontata da un narratore onnisciente, che per la maggior parte del tempo sta alle spalle o nella testa di Jherek, ma di tanto in tanto non si fa problemi a zoommare su altri personaggi, a fare commenti sull’ingenuità, o a parlarci di cose che esplicitamente il personaggio non vede o non nota. I sentimenti dei personaggi sono spesso raccontati, invece che mostrati attraverso le loro azioni. Quando Moorcock non ha voglia di scrivere una scena, ricorre ai riassuntoni e persino a lunghi discorsi indiretti. Interi episodi che vengono anticipati al lettore, e che ci si aspetterebbe sarebbero mostrati in ogni dettaglio, vengono invece risolti fuori scena e spiegati in due righe in maniera del tutto anticlimatica. Ecco ad esempio come vengono trattati i primi appuntamenti amorosi tra Jherek e Amelia: “They explored the world in his locomotive. They went for drives in a horse-drawn carriage. They punted on a river which Jherek made for her”. Pretty lame, huh?

Anche dal punto di vista della struttura, The Dancers at the End of Time ricorda le storie pulp di Elric o Corum. La storia si sviluppa come una serie di episodi autoconclusivi, retti dal tema centrale della quest amorosa di Jherek per conquistare il cuore della bellissima viaggiatrice del tempo: prima Jherek deve scoprire dove si trova; una volta scoperto, dovrà trovare il modo di sottrarla all’uomo che la tiene prigioniera; una volta riscattata, deve riuscire a farla innamorare di sé; e così via, un ostacolo alla volta. E in generale, ho avuto più volte l’impressione che Moorcock sviluppasse la trama man mano che scriveva e gli venivano in mente le cose, senza un vero piano generale
Al contempo, però, diversamente dal filone sword&sorcery, si ha la sensazione ci una certa unitarietà della storia, e che la trama stia andando da qualche parte. Nel corso della vicenda si aprono una serie di subplot che non vengono mai abbandonati, ma si riaffacciano periodicamente e alla fine trovano una conclusione. All’inizio del primo libro, un buffo alieno arriva sulla Terra dai recessi della galassia per annunciare che si sono palesati i segni dell’imminente fine dell’Universo, dopodiché il tema è accantonato. Ma nel terzo libro la fine dell’Universo arriva davvero e i protagonisti dovranno affrontarla.

Big Crunch

A sinistra, il Big Crunch secondo la moderna cosmologia. A destra, il Big Crunch secondo JFK.

Il vero piacere di leggere The Dancers of the End of Time sta nel godersi le trovate e l’ambientazione fuori dal mondo di Moorcock. Gli abitanti della Fine del Tempo sono personaggi buffissimi, talmente abituati a vivere senza rischi o bisogni da essere mentalmente dei bambini: ogni volta che vogliono cambiano sesso, razza, forma, carattere. Non temono neanche la morte, dato che se accidentalmente vengono ammazzati possono essere resuscitati con uno schicco di dita. E’ divertente anche soffermarsi sulla loro immoralità. Affascinati come sono da ogni cosa esotica, amano collezionare alieni e viaggiatori nel tempo, per cui si divertono a catturare tutti quelli che trovano e a imprigionarli nelle loro menagerìe – dei veri e propri harem di schiavi. Ma loro non si accorgono di star facendo qualcosa di orribile; non si sono neanche posti il problema.
I personaggi sono adorabili. L’Orchidea di Ferro, la madre di Jherek, è una donna fine e volubile che ama dipingersi dei colori delle pietre più pure e ha concepito suo figlio con un perfetto sconosciuto per noia. Lord Mongrove è un gigante dal volto deforme che, per posa, passa il tempo ad autocommiserarsi e vive in un castello gotico munito di fulmini e pioggia eterna. E che dire dell’enigmatico Lord Jagged di Canaria, che veste sempre di giallo e non perde mai il suo sorriso beffardo, o del Duca di Queens, famoso per il suo cattivo gusto, o di Mistress Christia, la Concubina Eterna, o di Gaf il Cavallo in Lacrime, o dei Lat, alieni con tre occhi a forma di pera che vivono per stuprare e distruggere. Il romanzo di Moorcock è una galleria di personaggi cretini.

Ma se i comprimari sono perlopiù delle macchiette bidimensionali, i protagonisti sono più sfaccettati e capaci di una certa evoluzione nel tempo. La trasformazione più forte la vediamo in Amelia, che parte come lo stereotipo della donna vittoriana della piccola borghesia, tutto rispettabilità e “cosa penseranno i vicini” ed “esportiamo la civiltà britannica attraverso il tempo e lo spazio”, per poi essere davvero cambiata dagli eventi e diventare qualcosa di diverso alla fine della trilogia. E Jherek, che conosciamo come un dandy perfettamente a suo agio nel proprio mondo, sarà di colpo un fanciullo inerme quando finirà in un’altra epoca, dove i suoi anelli non funzionano.
Anche se i toni della commedia scanzonata sono il mood prevalente del romanzo, Moorcock sa toccare anche altre corde, e in alcuni momenti l’atmosfera diventa seria, o addirittura drammatica, o lirica e romantica. Stesso discorso per il genere: nel corso delle quasi 700 pagine di Dancers, si passa dal romanzaccio d’avventura alla storia d’amore, dal vaudeville alle piccole miserie della vita coniugale, passando per la commedia da salotto.

Vaudeville

Vaudeville. Una roba di questo genere.

Quel che è più importante, The Dancers at the End of Time non si prende mai sul serio. Sa di essere una mezza minchiata, ma vuole esserlo nel modo più appassionante possibile. Non è certo un capolavoro, sia perché è scritto un po’ alla cazzo, sia perché quando si chiude il libro non si ha una nuova visione del mondo né si ha scoperto una grande verità. E’ un romanzo di intrattenimento, puro e semplice, che però riesce a esserlo in modo intelligente, non banale, e fantasioso. Ed è un romanzo dal ritmo serrato, in cui succedono sempre cose e c’è sempre un motivo per andare avanti, e difficilmente ci si annoia. Alcuni dialoghi sono veramente deliranti, e mi è capitato una volta di scoppiare a ridere come un deficiente mentre ero in tram (e non è una cosa che mi capiti spesso). Chissà cos’avranno pensato le vecchiette.
Per gli appassionati dell’ambientazione condivisa moorcockiana del Campione Eterno (che io ho sempre trovato cretina, ma c’è a chi piace), l’opera non manca di lanciare riferimenti e strizzate d’occhio. Ritroviamo Oswald Bastable di The Warlord of the Air, Una Persson del ciclo di Jerry Cornelius, pure la macchina del tempo di Karl Glogauer di Behold the Man (e Glogauer stesso fa una breve apparizione). Né, visto l’elemento vittoriano, possono mancare citazioni de La macchina del tempo, e Wells stesso fa un cameo.

Jherek Carnelian è il fanciullo ingenuo e spontaneo di Rousseau, non conosce il dovere né il dolore. Ma la sua quest per trovare l’amore lo porterà a scoprire cos’è la moralità, la virtù, la colpa, il dubbio, il rimpianto, e la felicità. La sua sarà veramente l’ultima storia d’amore alla fine del Tempo?

Dove si trova?
The Dancers at the End of Time si può scaricare in lingua originale su Bookfinder (formati mobi ed ePub) e su Library Genesis (solo mobi); in italiano non l’ho trovato.

Are we human or are we dancer

Un romanzo che si pone domande importanti.

Qualche estratto
Ho scelto due brani il più possibile diversi. Il primo, tratto dal primissimo capitolo della trilogia, mostra una conversazione tra Jherek e sua madre, l’Orchidea di Ferro: Jherek, che si sta appassionando di letteratura vittoriana, vuole imparare ad essere ‘virtuoso’ ma non è sicuro di aver afferrato il significato. Intanto sua madre rievoca cose divertenti che hanno fatto (tra cui scatenare un olocausto nucleare). L’altro, tratto dal secondo libro, è un dialogo davanti a una tazza di tè tra Jherek e Howard Underwood, rispettabile borghese dell’Inghilterra del 1896, che col suo crescendo di assurdità e conflitto mi ha fatto rotolare per terra dal ridere.

1.
Jherek went to sit with his back against the bole of the aspidistra. “And now, lovely Iron Orchid, tell me what you have been doing.”
She looked up at him, her eyes shining. “I’ve been making babies, dearest. Hundreds of them!” She giggled. “I couldn’t stop. Cherubs, mainly. I built a little aviary for them, too. And I made them trumpets to blow and harps to pluck and I composed the sweetest music you ever heard. And they played it!”
“I should like to hear it.”
“What a shame.” She was genuinely upset that she had not thought of him, her favourite, her only real son. “I’m making microscopes now. And gardens, of course, to go with them. And tiny beasts. But perhaps I’ll do the cherubs again some day. And you shall hear them, then.”
“If I am not being ‘virtuous,’ ” he said archly.
“Ah, now I begin to understand the meaning. If you have an impulse to do something — you do the opposite. You want to be a man, so you become a woman. You wish to fly somewhere, so you go underground. You wish to drink, but instead you emit fluid. And so on. Yes, that’s splendid. You’ll set a fashion, mark my words. In a month, blood of my blood, everyone will be virtuous. And what shall we do then? Is there anything else? Tell me!”
“Yes. We could be ‘evil’ — or ‘modest’ — or ‘lazy’ — or ‘poor’ — or, oh, I don’t know — ‘worthy.’ There’s hundreds.”
“And you would tell us how to be it?”
“Well…” He frowned. “I still have to work out exactly what’s involved. But by that time I should know a little more.”
“We’ll all be grateful to you. I remember when you taught us Lunar Cannibals. And Swimming. And — what was it — Flags?”
“I enjoyed Flags,” he said. “Particularly when My Lady Charlotina made that delicious one which covered the whole of the western hemisphere. In metal cloth the thickness of an ant’s web. Do you remember how we laughed when it fell on us?”
“Oh, yes!” She clapped her hands. “Then Lord Jagged built a Flag Pole on which to fly it and the pole melted so we each made a Niagara to see who could do the biggest and used up every drop of water and had to make a whole new batch and you went round and round in a cloud raining on everyone, even on Mongrove. And Mongrove dug himself an underground Hell, with devils and everything, out of that book the time-traveller brought us, and he set fire to Bulio Himmler’s ‘Bunkerworld 2’ which he didn’t know was right next door to him and Bulio was so upset he kept dropping atom bombs on Mongrove’s Hell, not knowing that he was supplying Mongrove with all the heat he needed!”
They laughed heartily.
“Was it really three hundred years ago?” said Jherek nostalgically.

Nope, Still Bored

2.
A silence followed. He was handed a tea-cup.
“What do you think?” Mr. Underwood had become quite animated as he watched Jherek sip.
“There are those who shun the use of tea, claiming that it is a stimulant we can well do without.” He smiled bleakly. “But I’m afraid we should not be human if we did not have our little sins, eh? Is it good, Mr. Carnelian?”
“Very nice,” said Jherek. “Actually, I have had it before. But we called it something different. A longer name. What was it, Mrs. Underwood?”
“How should I know, Mr. Carnelian.” She spoke lightly, but she was glaring at him.
“Lap something,” said Jherek. “Sou something.”
“Lap-san-sou-chong! Ah, yes. A great favourite of yours, my dear, is it not? China tea.”
“There!” said Jherek beaming by way of confirmation.
“You have met my wife before, Mr. Carnelian?”
“As children,” said Mrs. Underwood. “I explained it to you, Harold.”
“You surely were not given tea to drink as children?”
“Of course not,” she replied.
“Children?” Jherek’s mind had been on other things, but now he brightened. “Children? Do you plan to have any children, Mr. Underwood?”
“Unfortunately.” Mr. Underwood cleared his throat. “We have not so far been blessed…”
“Something wrong?”
“Ah, no…”
“Perhaps you haven’t got the hang of making them by the straightforward old-fashioned method? I must admit it took me a while to work it out. You know,” Jherek turned to make sure that Mrs.Underwood was included in the conversation, “finding what goes in where and so forth!”
“Nnng,” said Mrs. Underwood.
“Good heavens!” Mr. Underwood still had his tea-cup poised half-way to his lips. For the first time, since he had entered the room, his eyes seemed to live.
Jherek’s body shook with laughter. “It involved a lot of research. My mother, the Iron Orchid, explained what she knew and, in the long run, when we had pooled the information, was able to give me quite a lot of practical experience. She has always been interested in new ideas for love-making. She told me that while genuine sperm had been used in my conception, otherwise the older method had not been adhered to. Once she got the thing worked out, however (and it involved some minor biological transformations) she told me that she had rarely enjoyed love-making in the conventional ways more. Is anything the matter, Mr. Underwood? Mrs. Underwood?”
“Sir,” said Mr. Underwood, addressing Jherek with cool reluctance, “I believe you to be mad. In charity, I must assume that you and your brother are cursed with that same disease of the brain which sent him to the gallows.”
[…] Mrs. Underwood, breathing heavily, sat down suddenly upon the rug, while Maude Emily had her lips together, had gone very red in the face, and was making strange, strangled noises.
“Why did you come here? Oh, why did you come here?” murmured Mrs. Underwood from the floor.
“Because I love you, as you know,” explained Jherek patiently. “You see, Mr. Underwood,” he began confidentially, “I wish to take Mrs. Underwood away with me.”
“Indeed?” Mr. Underwood presented to Jherek a peculiarly glassy and crooked grin. “And what, might I ask, do you intend to offer my wife, Mr. Carnelian?”
“Offer? Gifts? Yes, well,” again he felt in his pockets but again could find nothing but the deceptor-gun. He drew it out. “This?”
Mr. Underwood flung his hands into the air.

Tabella riassuntiva

Una commedia assurda e iperbolica ambientata alla Fine del Tempo. Struttura della trama molto episodica, poco “da romanzo”.
Fantasia scatenata e ritmo serrato. Moorcock scrive da cani.
Un romanzo d’avventura fantasy che è anche una storia d’amore. Difficile “immergersi” in un mondo così cretino ed esagerato.

Bonus Track: Something Wicked This Way Comes

Something Wicked This Way Comes

Autore: Ray Bradbury
Titolo italiano: Il popolo dell’autunno
Genere: Horror / Fantasy / Fairytale Fantasy / Literary Fiction / Young Adult
Tipo: Romanzo

Anno: 1962
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 270

Difficoltà in inglese: ***

First of all, it was October, a rare month for boys. Not that all months aren’t rare. But there be bad and good, as the pirates say. Take September, a bad month: school begins. Consider August, a good month: school hasn’t begun yet. July, well, July’s really fine: there’s no chance in the world for school. June, no doubting it, June’s best of all, for the school doors spring wide and September’s a billion years away.
But you take October, now…

Un legame speciale unisce William Halloway e Jim Nightshade. Will, dai capelli color del grano e gli occhi chiari come la pioggia d’estate, è nato il 30 Ottobre, un minuto prima di mezzanotte; Jim, dai capelli selvatici e gli occhi verdi come l’erba, è nato il 31 Ottobre, un minuto dopo mezzanotte. Vicini di casa dalla nascita, nella sonnacchiosa cittadina di Green Town, Illinois, sono amici inseparabili, e tutto quello che sanno l’anno imparato l’uno dall’altro. Ma ora, a quattordici anni, sul finire del mese di Ottobre, la loro infanzia sta per finire.
Perché a Green Town sta arrivando il carnevale. Un carnevale itinerante che porta con sé le più bizzarre meraviglie, da un labirinto di specchi che non sembra avere fine a una vecchia cieca dai poteri sovrannaturali, e soprattutto Mr. Dark, l’impresario – un uomo dagli occhi di fuoco e con tatuaggi che gli coprono tutto il corpo, tatuaggi che sembrano vivi e si muovono con lui. Gli abitanti di Green Town cominciano a comportarsi in modo strano dopo l’arrivo del carnevale, e nonostante le proteste di Will, Jim rimane stregato da Mr. Dark e dalle energie che sembrano spirare dalle sue attrazioni. Cosa ne sarà del loro rapporto? Al compiersi del quindicesimo anno d’età, Will e Jim non saranno più gli stessi.

Di tutti gli autori associati al fantastico e soprattutto alla fantascienza, Ray Bradbury è forse il più famoso in assoluto. Ma se romanzi come Cronache Marziane e Fahrenheit 451 sono celebri anche in Italia, e se molti dei suoi racconti migliori si sono fatti largo fino nelle antologie scolastiche, questo Something Wicked This Way Comes rimane ampiamente ignorato dalle nostre parti. E dire che negli States è considerato un’opera seminale, la fonte di ispirazione dichiarata di una pletora di scrittori di horror e urban fantasy come King e Gaiman. Mi sembrava giusto, quindi, far conoscere questo romanzo e di passaggio dire la mia.
La premessa di Something Wicked This Way Comes è classica: qualcosa di caotico e maligno irrompe nella vita quotidiana, e due ragazzini si trovano soli ad affrontarlo, mentre gli adulti non sembrano rendersi conto del pericolo. Ma combattere la minaccia è anche un rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta. La storia di Bradbury ha molto del romanzo per ragazzi, ma si capisce che vuole essere qualcosa di più; una di quelle storie di formazione che può essere letta a tutte le età e con più livelli di lettura. Vedremo se gli è riuscito.

Ray Bradbury quotes

Stanno arrivando.

Uno sguardo approfondito
Basta leggere le prime righe per rendersi conto che a Bradbury non gliene può fregare di meno dell’immersività totale, e che piuttosto appartiene alla scuola di Vonnegut e Calvino. Ecco come ci parla di Will e Jim, nel secondo capitolo, quando si incamminano verso la biblioteca pubblica: “Like all boys, they never walked anywhere, but named a goal and lit for it, scissors and elbows. Nobody won. Nobody wanted to win. It was in their friendship they just wanted to run forever, shadow and shadow.” Il suo narratore è un narratore onnisciente e invadente, che va ora da questo e ora da quel personaggio, li commetta, racconta le loro emozioni, si lancia in flashback e flashforward, snocciola raffinate metafore.
Ma se Vonnegut lo faceva per ottenere l’effetto comico, e per trasmettere un’atmosfera satirica ai suoi romanzi, Bradbury punta a fare della poesia in prosa. Sotto la sua penna, una sensazione sgradevole diventa una nuova Era Glaciale, la madre di Will diventa una rosa in una serra in una giornata d’inverno, la voce del padre una mano che si agita delicatamente in aria e il volo di un uccello bianco. Tutta una serie di personaggi – da Mr. Fury, il misterioso venditore di parafulmini fenici, a Mr. Dark, il maligno impresario del carnevale – si esprimono come poeti. Ecco il padre di Will, che di mestiere fa il bibliotecario, che saluta i ragazzi quando vengono a trovarlo alla biblioteca:

‘Is that you, Will? Grown an inch since this morning.’ Charles Halloway shifted his gaze. ‘Jim? Eyes darker, cheeks paler; you bum yourself at both ends, Jim?’
‘Heck.’ said Jim.
‘No such place as Heck. But hell’s right here under ‘A’ for Alighieri.’
‘Allegory’s beyond me,’ said Jim.
‘How stupid of me,’ Dad laughed. ‘I mean Dante. Look at this. Pictures by Mister Doré, showing all the aspects. Hell never looked better. Here’s souls sunk to their gills in slime. There’s someone upside down, wrong side out.’

In conseguenza di questo stile, tutti i movimenti e i gesti dei personaggi appaiono stilizzati, come delle coreografie, tutti i dialoghi suonano sagaci, ma artefatti. A volte così facendo, lo devo ammettere, Bradbury riesce a creare dei begli effetti; ad esempio la scena in cui Will e Jim, circondati da poliziotti nel tendone da circo del carnevale, si vedono arrivare di fronte, introdotto da Mr. Dark, il grottesco Mr. Electrico: un uomo talmente vecchio che pare morto, legato a una sedia elettrica da cui sta per partire una scarica da centomila volt. O il misterioso Mr. Fury, il venditore ambulante di parafulmini magici con iscrizioni fenicie che parla per enigmi. O la Strega della Polvere, capace di togliere la voglia di vivere agli individui con la sua sola presenza…
Certo, chi ormai si è abituato alla Bizarro Fiction o al New Weird troverà abbastanza innocue le invenzioni di Bradbury. Eppure, inserite nel contesto di tranquilla normalità di Green Town, alcune di queste colpiscono davvero. E la prosa ornata di Bradbury, benché il più delle volte non faccia altro che distrarre dalla storia, talvolta riesce ad aggiungere fascino alle sue creature.

Ray Bradbury quotes

Chi esce meglio da questo modo di scrivere, comunque, sono i personaggi. Nonostante Bradbury li presenti come degli archetipi ambulanti e li carichi di simboli (basti solo pensare ai protagonisti: il ragazzo dai capelli chiari e in ordine nato un minuto prima di mezzanotte, il ragazzo dai capelli scuri e disordinati nato un minuto dopo mezzanotte, così diversi eppure così uniti; più yin e yang di così…), hanno una loro tridimensionalità, e un carattere coerente che ci viene mostrato dai loro comportamenti, oltre che raccontato dal Narratore Onnisciente. Jim è un ragazzo impulsivo suo malgrado, prova un’attrazione incontrollabile per le ambiguità e le stranezze del mondo adulto, ma al tempo stesso se ne vergogna e vorrebbe ‘addomesticarsi’; Will invece è terrorizzato all’idea di rimanere indietro, vede Jim che si allontana verso il mondo dei grandi e si chiede perché a lui non succeda lo stesso.
Ancora più riuscito, a mio avviso, è il rapporto padre-figlio tra Will e Charles Halloway. Mentre molto del setting iniziale di Something Wicked This Way Comes sembra un idillio bucolico, la vita perfetta e stereotipica da piccola borghesia di una cittadina di campagna, il legame di Will con suo padre parte già strano. Charles è un tipo umile, stralunato, dall’aria fragile, il genere di padre per cui non puoi provare rispetto ma imbarazzo, perché sai che non sarebbe in grado di difenderti (per mancanza di coraggio o di attenzione); e lui e Will non hanno un gran rapporto. Ma gli eventi messi in moto dall’arrivo del Carnevale li avvicineranno. E il discorso di Charles Halloway a suo figlio, sul Bene e sul Male, e sul rapporto tra moralità e felicità personale, è molto più ambiguo e realista, molto più cinico di quel che mi aspettassi. Bradbury riesce a evitare di essere melenso e fasullo, e il risultato è bello.

Peccato che non duri. Il conflitto centrale del romanzo alla fine non è altro che la lotta tra il Bene e il Male; le istanze positive e negative vengono personificate, e questo lascia ben poco spazio all’ambiguità morale. I buoni non vincono con la forza, o con l’astuzia, ma per superiorità etica; e alla fine la forza per trionfare sui nemici verrà dalle emozioni. In questo si riconosce subito l’influenza che il romanzo ha avuto su scrittori come King, in cui è onnipresente il concetto di Male assoluto, e dove spesso e volentieri lo strumento per vincere il suddetto Male sono le istanze psicologico-filosofiche del protagonista piuttosto che metodi concreti. Cioè la cosa che amo di meno tanto in King quanto in Bradbury e negli altri suoi epigoni.
Uno potrebbe obiettare però che ogni scrittore nella sua opera può adottare il sistema di valori che preferisce. Per carità. Non si può negare, invece, che il plot del romanzo soffra di alcune incoerenze strutturali e occasioni sprecate. Bradbury dissemina la storia di hook che poi si dimentica di usare, e che lasciano il lettore con un palmo di naso. Il primo capitolo, per esempio, si apre (in modo abbastanza riuscito) col personaggio di Mr. Fury, che fa rivelazioni profetiche ai due ragazzi e dona loro un parafulmini dai poteri misteriosi. Tutto farebbe pensare che, per dove sono collocati e per l’enfasi che gli viene data, Mr. Fury e il suo parafulmine siano la chiave di volta della storia. Niente del genere: Mr. Fury sparisce per poi ritornare in un ruolo del tutto marginale, e il parafulmine ancestrale non servirà praticamente a nulla. Al che uno si chiede: perché sprecare un’idea così interessante? E se fin dall’inizio non aveva intenzione di utilizzarla, perché metterla in apertura del romanzo? Bradbury si rivela incapace di maneggiare i suoi stessi simboli.

Horatio Kane on Bradbury

Un anno e mezzo fa questa battuta era una figata.

Volendo sintetizzare il mio discorso in poche righe, Something Wicked This Way Comes è un moral play sul passaggio dall’infanzia all’età adulta. E’ un romanzo che urla ad ogni capoverso: ‘Sono una finzione! Sono un’allegoria!’, è una di quelle storie che piacciono tanto alla sinistra umanista perché suona come una parabola, e ti fa sentire così intelligente e sensibile perché la capisci. E del resto, se lo epurassimo di tutti questi elementi decorativi, quel che rimarrebbe sarebbe una storia esile e strutturata male.
Molta gente adora questo tipo di storia. Ma – benché alcune scene, dialoghi e personaggi mi abbiano colpito positivamente – io non sono tra questi. Pur riconoscendo il valore storico di Something Wicked, come fonte di ispirazione di numerosi scrittori americani contemporanei, lo trovo largamente sopravvalutato. Quanto a Bradbury, una sola delle cose che ha scritto è davvero grande: Cronache marziane. Il resto è mediocrità.
Buon Halloween!

Una considerazione su Bradbury
Mi sono sempre chiesto come mai Bradbury fosse diventato uno dei più celebrati scrittori di narrativa fantastica del Novecento. Anche il suo ruolo nella storia della fantascienza mi pare dubbio. Scrittori come Wells e Stapledon prima, e Orwell, Huxley, Asimov, Heinlein, Clarke, Dick, Ballard poi, hanno gettato nel calderone della science fiction idee che sono diventati veri archetipi del genere; delle idee di Bradbury invece, che cosa ci rimane? Lo rileva anche David Pringle, critico e direttore editoriale di riviste di fantascienza, che nel suo Science Fiction: The 100 Best Novels 1949-19841 scrive, a proposito di The Martian Chronicles: “In fact, that definition [cioè che Cronache Marziane sia un romanzo di sf] has often been disputed, since Bradbury shows no interest in science as such. His space rockets are like firecrackers; his Mars people are Halloween ghosts; while his Martian landscape is an arid version of the American mid-west”.
Forse la soluzione dell’enigma sta in questo: Bradbury ha conquistato notorietà non tanto presso i veterani della narrativa di genere, quanto presso il pubblico mainstream. E’ uno di quegli scrittori che chi non mastica fantascienza o fantasy in genere conosce benissimo. Uno di quelli che vengono lodati per la ‘potenza delle idee’, da parti di chi romanzi di idee non ne legge mai (e quindi non ne conosce gli standard). E dato che il pubblico mainstream è il Grande Pubblico, Bradbury è diventato infinitamente più celebre dei suoi colleghi rimasti nel ghetto della fantascienza. Anche se molti di quelli erano più bravi e più inventivi di lui.

E, giusto per sottolineare che non sono l’unico a pensarla così, ecco di nuovo le parole di David Pringle, questa volta in un commento a Fahrenheit 451:

“It is a rather simple-minded dystopia which Bradbury creates. […] Fahrenheit 451 is a very straightforward book, a scream of rage against the mass media and the whole 20th-century communications landscape. Television, pop music, comic books, digests, theme parks, spectator sports – Bradbury is against ‘em all, and if he had been writing this book thirty years laters he would no dobut have included video games, home computers and role-playing fantasies in his tirade. It is the litany of the old-fashioned, puritanical moralist; small wonder that the message of this novel has fallen sweetly on the ears of schoolteachers and other Guardians of Culture the world over. […] As a tract for teenagers, Fahrenheit 451 still has considerable merits, but it is scarcely a classic of adult science fiction”.

Ray Bradbury vecchio

A noi piace ricordarlo così: vecchio, incazzato e un po’ rincoglionito.

Dove si trova?
Something Wicked This Way Comes è un romanzo celeberrimo, almeno nei paesi anglofoni: non avrete difficoltà a trovarlo su Library Genesis né su BookFinder, nei formati pdf e epub. Per l’edizione italiana, invece, cercate “Il popolo dell’autunno” su Emule; ma non chiedetemi chi diamine sia il genio che ha scelto il titolo italiano.

Qualche estratto
Per questo articolo, ho voluto mostrare il meglio e il peggio dello stile di Bradbury: il primo pezzo è tratto dal primo capitolo, e ci mostra l’incontro di Will e Jim con l’ambiguo Mr. Fury, e la contrattazione per dare loro un parafulmine e proteggersi dalla tempesta imminente; il secondo pezzo un lungo monologo interiore di Charles Halloway, quando nel terzo capitolo vede i due ragazzi andarsene verso casa. Se la prosa di Bradbury non vi nausea, questo libro potrebbe essere fatto per voi.

1.
‘Halloway. Nightshade. No money, you say?’
The man, grieved by his own conscientiousness, rummaged in his leather bag and seized forth an iron contraption.
‘Take this, free! Why? One of those houses will be struck by lightning! Without this rod, bang! Fire and ash, roast pork and cinders! Grab!’
The salesman released the rod. Jim did not move. But Will caught the iron and gasped.
‘Boy, it’s heavy! And funny-looking. Never seen a lightning-rod like this. Look, Jim!’
And Jim, at last, stretched like a cat, and turned his head. His green eyes got big and then very narrow.
The metal thing was hammered and shaped half-crescent, half-cross. Around the rim of the main rod little curlicues and doohingies had been soldered on, later. The entire surface of the rod was finely scratched and etched with strange languages, names that could tie the tongue or break the jaw, numerals that added to incomprehensible sums, pictographs of insect-animals all bristle, chaff, and claw.
‘That’s Egyptian.’ Jim pointed his nose at a bug soldered to the iron. ‘Scarab beetle.’
‘So it is, boy!’
Jim squinted. ‘And those there – Phoenician hen tracks,’
‘Right!’
‘Why?’ asked Jim.
‘Why?’ said the man. ‘Why the Egyptian, Arabic, Abyssinian, Choctaw? Well, what tongue does the wind talk? What nationality is a storm? What country do rains come from? What colour is lightning? Where does thunder go when it dies? Boys, you got to be ready in every dialect with every shape and form to hex the St Elmo’s fires, the balls of blue light that prowl the earth like sizzling cats. I got the only lightning-rods in the world that hear, feel, know, and sass back any storm, no matter what tongue, voice, or sign. No foreign thunder so loud this rod can’t soft-talk it!’
But Will was staring beyond the man now.
‘Which,’ he said. ‘Which house will it strike?’
‘Which? Hold on. Wait.’ The salesman searched deep in their faces. ‘Some folks draw lightning, suck it like cats suck babies’ breath. Some folks’ polarities are negative, some positive. Some glow in the dark. Some snuff out. You now, the two…I – ‘
[…] ‘But which house, which!’ asked Will.
The salesman reared off, blew his nose in a great kerchief, then walked slowly across the lawn as if approaching a huge time-bomb that ticked silently there.
He touched Will’s front porch newels, ran his hand over a post, a floorboard, then shut his eyes and leaned against the house to let its bones speak to him.
Then, hesitant, he made his cautious way to Jim’s house next door.
Jim stood up to watch.
The salesman put his hand out to touch, to stroke, to quiver his fingertips on the old paint.
‘This,’ he said at last, ‘is the one.’

2.
Watching the boys vanish away, Charles Halloway suppressed a sudden urge to run with them, make the pack. He knew what the wind was doing to them, where it was taking them, to all the secret places that were never so secret again in life. Somewhere in him, a shadow turned mournfully over. You had to run with a night like this, so the sadness could not hurt.
Look! he thought. Will runs because running is its own excuse. Jim runs because something’s up ahead of him.
Yet, strangely, they do run together.
What’s the answer, he wondered, walking through the library, putting out the lights, putting out the lights, putting out the lights, is it all in the whorls on our thumbs and fingers? Why are some people all grasshopper fiddlings, scrapings, all antennae shivering, one big ganglion eternally knotting, slip-knotting, square-knotting themselves? They stoke a furnace all their lives, sweat their lips, shine their eyes and start it all in the crib. Caesar’s lean and hungry friends. They eat the dark, who only stand and breathe.
That’s Jim, all bramble-hair and itchweed.
And Will? Why he’s the last peach, high on the summer tree. Some boys walk by and you cry, seeing them. They feel good, they look good, they are good. Oh, they’re not above peeing off a bridge, or stealing an occasional dime-store pencil sharpener; it’s not that. It’s just, you know, seeing them pass, that’s how they’ll be all their life; they’ll get hit, hurt, cut, bruised, and always wonder why, why does it happen? how can it happen to them?
But Jim, now, he knows it happens, he watches for it happening, he sees it start, he sees it finish, he licks the wound he expected, and never asks why; he knows. He always knew. Someone knew before him, a long time ago, someone who had wolves for pets and lions for night conversants. Hell, Jim doesn’t know with his mind. But his body knows. And while Will’s putting a bandage on his latest scratch, Jim’s ducking, waving, bouncing away from the knockout blow which must inevitably come.
So there they go, Jim running slower to stay with Will, Will running faster to stay with Jim, Jim breaking two windows in a haunted house because Will’s along, Will breaking one instead of none, because Jim’s watching. God how we get our fingers in each other’s clay. That’s friendship, each playing the potter to see what shapes we can make of the other.
Jim, Will, he thought, strangers. Go on. I’ll catch up, some day…

Tabella riassuntiva

Una parabola sovrannaturale sul diventare grandi. Atmosfera moraleggiante con tanto di Male personificato.
Personaggi principali ben tratteggiati. Prosa ornata che rende impossibile l’immersione.
Alcune delle creature di Bradbury sono affascinanti. Sotto tutti i fronzoli la storia è esile.
Hook inutilizzati e struttura della trama pencolante.


(1) Di questa antologia, che ambisce a raccogliere i cento migliori romanzi di fantascienza in lingua inglese scritti tra l’uscita di 1984 e quella di Neuromante, mi piacerebbe parlarvi in un articolo futuro. Può essere un utile punto di riferimento per scoprire la narrativa del periodo, e ormai la lista di Pringle è diventata un classico.Torna su

I Consigli del Lunedì #37: Flow My Tears, the Policeman Said

Flow My Tears, the Policeman SaidAutore: Philip K. Dick
Titolo italiano: Scorrete lacrime, disse il poliziotto
Genere: Slipstream / Distopia / Psicologico
Tipo: Romanzo

Anno: 1974
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 230 ca.

Difficoltà in inglese: **

Flow, my tears, fall from your springs!
Exiled for ever, let me mourn;
Where night’s black bird her sad infamy sings,
There let me live forlorn.

Tutti i martedì sera, tra le otto e le nove, trenta milioni di spettatori accendono la TV per guardare il Jason Taverner Show. Taverner, cantante pop, bellissimo quarantenne, nonché un Sei – un essere umano creato in laboratorio e geneticamente modificato per essere più affascinante, più psicologicamente stabile e più sano del normale – ha tutto ciò che si potrebbe desiderare dalla vita. Finché una delle sue amanti, in preda a una crisi di nervi, non tenta di ucciderlo con un parassita alieno. L’ambulanza, la corsa in ospedale: sembra che Taverner sopravviverà. Senonché, al suo risveglio, Taverner non si trova in una corsia d’ospedale; è nella stanza vuota di un albergo fatiscente, addosso non ha più neanche un documento, e la gente – anche i suoi più stretti collaboratori e la sua amante, la gelida cantante Heather Hart – non si ricorda più di lui.
Taverner è diventato una non-persona. E questo è un bel problema, in un’America che in seguito a una nuova guerra civile si è trasformata in uno stato totalitario, retto dalla polizia e dalla guardia nazionale, e dove ogni cittadino è schedato all’interno di un network esteso in tutto il mondo. In questo mondo, ad ogni svolta puoi trovarti davanti a un checkpoint randomico della polizia, e chi non è in regola rischia un viaggio di sola andata nei campi di lavoro sulla Luna. Taverner dovrà riuscire a sopravvivere e a scoprire cosa gli è successo, sperando di non attirare mai l’attenzione dello Stato; il suo destino è nelle mani di Felix Buckman, cinico Generale di Polizia che sogna un mondo di ordine e giustizia universali, e della sua androgina, bisessuale, tossicomane sorella Alys. La caccia è aperta.

“Flow, My Tears” è un’aria per liuto del compositore tardo-rinascimentale John Dowland. Il pezzo, che non sarebbe stato strano ascoltare alla corte della regina Elisabetta, parla del bisogno di nascondersi nei recessi più bui del pianeta in seguito a una grande sventura, per sfuggire alla vergogna, al disprezzo, alla consapevolezza della propria miseria. Allo stesso modo, il romanzo di Dick mette al centro l’inspiegabile caduta di una celebrità, e della lotta che dovrà condurre, in un mondo ostile e disumano, per non fare una fine orribile – o almeno, per trovare un po’ d’amore.
Flow My Tears, the Policeman Said ha vinto a mani basse il sondaggio che avevo lanciato un mese e mezzo fa, su quale romanzo di Dick avrei dovuto recensire fra una rosa di tre titoli. Ammetto che ero scettico all’idea di dedicare un articolo al romanzo, e non fosse stato per le vostre richieste non l’avrei fatto. Per tanti motivi: perché è una storia molto più vicina al mainstream che non al fantastico; perché è un romanzo che polarizza molto i lettori, anche tra i fan di Dick, che o lo amano o lo odiano; perché è un romanzo a cui sono molto legato, e quindi temevo di non poter essere obiettivo o che, rileggendolo a distanza di anni (e per la prima volta in lingua originale), ne sarei rimasto deluso. Be’, mi avete fatto cambiare idea. E quindi eccovi il Consiglio.


“Flow My Tears” di John Dowland, in un’interpretazione di Andreas Scholl. Come mi piace la erre dura dell’inglese classico!

Uno sguardo approfondito
Il primo capitolo è brutto. In uno spazio così piccolo, Dick riesce a compiere quasi tutti gli errori possibili: ci sono gli infodump debolmente mascherati da pensieri del protagonista, che senza un motivo valido si mette a ricapitolare le caratteristiche del mondo in cui vive a tutto beneficio del lettore; ci sono – ancora peggio – gli As you know, Bob, come l’agente di Taverner che declama alla sua stellina: “Do you realize what power you have?” per poi lanciarsi in una serie di precisazioni circa quanto potere egli abbia; ci sono le valanghe di aggettivi e avverbi. In generale, i personaggi di Dick mostrano una certa fretta di mettere a nudo fin da subito il loro animo e il loro carattere, anche se i dialoghi ne risultano forzati e innaturali. Insomma, se dovessimo giudicare il romanzo dal primo capitolo – come sarebbe legittimo fare – non resterebbe che scuotere la testa e riporlo sullo scaffale. Se invece teniamo duro, dal secondo capitolo le cose cominciano a cambiare.
Non che diventi mai un capolavoro di prosa. Dick non si è mai preoccupato troppo di curare il suo stile, e Flow My Tears non è nemmeno dei meglio scritti. Le sue descrizioni sono quasi sempre ai minimi termini, molto raccontate, e infatti a fine lettura dell’ambientazione del romanzo ci si ricorda ben poco. Ecco ad esempio come viene descritto lo studio clandestino della falsaria Kathy:

“It was small. But he saw a number of what appeared to be complex and highly specialized machines. On the far side a workbench. Tools by the hundreds, all neatly mounted in place on the walls of the room. Below the workbench large cartons, probably containing a variety of papers. And a small generator-driven printing press.”

Più nebuloso di così si muore. Per non parlare della costruzione criminale di certe frasi, come le combo letali punto + avverbio: “Sucking in his breath he shuddered. Violently.”

Eppure. Eppure a partire dal secondo capitolo tutta questa trascuratezza comincia a pesare di meno, scivola in secondo piano, e il lettore viene pian piano trascinato nel dramma personale del protagonista. All’inizio del secondo capitolo, Taverner si sveglia in una polverosa stanza d’albergo senza più un documento addosso, e comincia la sua odissea. Dick è molto bravo nel farci percepire l’ansia dei suoi protagonisti, la sensazione di essere precipitati in qualcosa che non si capisce e di non essere nemmeno più sicuri di essere nel mondo reale. I monologhi interiori del protagonista, nel loro oscillare costante tra un tentativo di razionalizzare l’esperienza e le crisi isteriche in cui si manda tutto affanculo, sono credibili e immersive.
Allo stesso modo il mondo in cui Taverner si muove, benché mostrato in modo approssimativo, è convincente e aggiunge ansia all’ansia. Taverner ha paura di essere scambiato per uno studente fuggitivo: negli Stati Uniti del futuro i campus universitari sono cintati di filo spinato perché gli studenti all’interno sono dei dissidenti del regime, e la polizia cerca di prenderli per fame. La burocrazia del nuovo regime è sconfinata, e quando Taverner sarà interrogato in una centrale avvertiremo sulla nostra pelle il suo terrore mentre documento falso dopo documento falso, deposizione dopo deposizione, tutto viene analizzato e rianalizzato e visto sotto luci diverse in cerca del più piccolo neo. Il tutto può ben essere riassunto in una frase di Taverner, che da sola dà l’idea di tutta l’atmosfera del romanzo: “Once they notice you, Jason realized, they never completely close the file. You can never get back your anonymity. It is vital not to be noticed in the first place. But I have been.”

Macchinari

Macchinari complessi e molto specializzati. Non necessariamente quelli dello studio di Kathy.

Ma dove Dick dà il meglio di sé, è nei dialoghi. I suoi dialoghi sono affascinanti per due ragioni. La prima, è che ci infila sempre più livelli di conflitto contemporanei. Non sono mai dialoghi semplicemente informativi – eccettuati quelli del brutto primo capitolo – e se da una parte danno al lettore una serie di informazioni utili (sull’ambientazione, sulla psicologia del personaggio che parla, eccetera), al contempo sono una lotta tra i due interlocutori per la prevalenza. Può essere la lotta tra Taverner e un ufficiale di polizia che lo sta interrogando: il primo vuole scamparla senza tradirsi, l’altro vuole incastrarlo. O può essere che Taverner stia cercando di accattivarsi la falsaria nella speranza di farsi fabbricare documenti falsi, mentre quella non è disposta ad aiutarlo senza qualcosa in cambio. Ognuno tira acqua al suo mulino. A un secondo livello, il personaggio-pov vive dei conflitti interiori: ad esempio Taverner, mentre gioca con freddezza la sua partita dialettica per avere ciò che vuole, deve tenere a bada la sua natura arrogante di ex-privilegiato che vorrebbe dare in escandescenza e mandare affanculo l’interlocutore.
E a volte il dialogo si fa anche più surreale. C’è un momento in cui uno dei personaggi comincia a fare al protagonista rivelazioni cruciali su quello che gli è successo. La faccenda è interessante proprio perché promette rivelazioni, ma potenzialmente noiosa perché è un dialogo strettamente informativo. Sfortunatamente, Taverner in quel momento è pieno di droga fino agli occhi; deve lottare per riuscire a concentrarsi, ed è terrorizzato all’idea che la sua gamba destra si allunghi fino alla luna. Il dialogo diventa obliquo: i due personaggi parlano ma non si ascoltano, ciascuno cerca di interagire con l’altro ma in realtà sono entrambi catturati dai loro problemi personali. Il lettore guadagna comunque l’informazione, ma in un contesto molto più interessante. E molto surreale.

Il secondo motivo per cui i suoi dialoghi sono affascinanti è che, pur senza essere realistici fino alla noia, suonano così verosimili. I personaggi dicono una cosa e poi ne fanno un’altra. Sostengono un’opinione, ma poi ci ripensano. Giocano molti giochi, nel senso di Eric Berne: conversazioni ritualizzate il cui fine nascosto è diverso da quello manifesto, e a volte addirittura antitetico.1 Molti si risentono della schizofrenia dei personaggi di Dick, dicendo che sono incoerenti e quindi mal scritti. Non è così. I suoi personaggi, a guardare la loro psicologia, sono coerenti – semplicemente, sono irresoluti. Oscillano tra due propositi, spesso contraddittori, e spesso finiscono per fare una cosa e poi l’esatto contrario – per poi odiarsi per questo. Taverner vorrebbe rimanere sempre freddo e agire con il cervello, ma il suo orgoglio e la sua insicurezza lo fanno sbroccare e distruggere in un attimo castelli di carte costruiti in ore di lavoro; Buckman vorrebbe non dover fare del male agli altri, ma finisce per farlo per fini superiori, e questo lo logora e gli procura sensi di colpa. Sono personaggi ambigui, complessi, pieni di dubbi, e questa complessità si manifesta proprio nel fatto di non avere un comportamento granitico.
E’ un bene che Dick sia così bravo nei dialoghi, perché di fatto tutto il romanzo è una lunga serie di dialoghi con poca azione intorno. In questo, la struttura di Flow My Tears ricorda un po’ quella del filosofico Holy Fire di Sterling – ne ho parlato giusto qualche mese fa – solo che qui i pericoli sono reali invece che teorici e lontani, e si parla di persone e di relazioni piuttosto che dei massimi sistemi. Attraverso questi dialoghi, Dick disegna una galleria di personaggi affascinanti: Kathy, la falsaria con la faccia da bambina e una psicosi che la sta mangiando da dentro, che usa l’amore come un legaccio per stritolare a sé i suoi uomini e impedire loro di abbandonarla; Heather Hart, la bellissima amante di Taverner, che pur facendo la popstar odia il genere umano ed è felice solo quando è completamente sola; Ruth Rae, la donna tutta sesso invecchiata precocemente; Mary Anne Dominic, l’artista vasaia un po’ sovrappeso, che vorrebbe solo essere lasciata in pace a coltivare la sua arte; Alys Buckman, che si è bruciata chirurgicamente i centri nervosi dell’empatia e vive per consumare tutto ciò che ama; e così via.

Games People Play

Conoscere i giochi a cui la gente gioca può rendere la nostra vita quotidiana molto più efficiente.

Si potrebbe obiettare che, a giudicare dalle mie parole, in questo romanzo c’è ben poco di fantascientifico. Be’, è vero. L’ambientazione ha alcuni elementi weird molto carini, che però sono di contorno – su tutte, l’idea che l’odio razziale sia culminato nella decisione di sterilizzare tutti i neri, con la conseguenza che al tempo della storia ne sono rimasti pochissimi, e sono diventati oggetti di ammirazione, sono riempiti di soldi e trattati come i Panda del WWF. Ci sono anche altri elementi classici della fantascienza dickiana, come i precog, le macchine volanti e le droghe sintetiche dagli effetti assurdi, ma rimangono ai margini. L’America totalitaria del romanzo è inquietante ma molto ‘normale’: se facessimo finta che fosse stato scritto da un dissidente politico nel Blocco Sovietico degli anni ’50, potremmo quasi credere che si tratti di un regime realmente esistito. Di fatto, Flow My Tears è più vicino al mainstream che non alla fantascienza propriamente detta.
Particolare è anche la struttura del romanzo. All’inizio tutto ci fa pensare che Taverner sia il protagonista e l’unico personaggio-pov. Superati i primi capitoli, però, entra in scena Felix Buckman come nuovo personaggio-pov; e anche se i due protagonisti si passano la palla per il resto del romanzo, il baricentro della storia si sposta sempre più verso quest’ultimo. Scelta che approvo: allargando l’orizzonte della storia a Buckman, cominciamo a vedere lo stesso mondo che perseguitava Taverner da un nuovo punto di vista che altrimenti ci sarebbe stato negato. Una volta, in un momento poetico, avevo paragonato questo romanzo con Il processo di Kafka – anche qui l’atmosfera è dominata da un’autorità ottusa e pervasiva, con la differenza che oltre al punto di vista della vittima abbiamo anche quello di chi tiene in mano la scure.

E nonostante la carenza di azione, il ritmo è rapidissimo. Il botta e risposta continuo tra i personaggi, la sensazione di qualcosa di terribile costantemente alle calcagna, incollano alla pagina. La prima volta che lo lessi, lo divorai in un giorno. Oggi non ho modo di leggere dalla mattina alla sera senza mai fermarmi, ma l’ho comunque riletto in tre giorni. E nonostante le iniziali resistenze, l’ho trovato ancora fantastico – anche se oggi sono pronto a riconoscere che, come quasi sempre con Dick, avrebbe potuto essere scritto mille volte meglio.
Obiettivamente posso dire che ci sono molti romanzi migliori, e se lo metto ai primi posti della mia classifica è soprattutto perché ci sono legato in modo personale. Aldilà della trascuratezza dello stile, si porta dietro anche qualche difetto di contenuto. Per esempio, a volte – e soprattutto all’inizio – è difficile identificarsi in Taverner: è così bello, così intelligente, così affascinante, così dotato di autocontrollo, che è quasi un Gary Stu. A differenza di un Gary Stu, viene davvero messo alla prova, soffre sul serio (non si limita a dire che soffre come un Edward qualunque) e la prende davvero in quel posto dagli altri un sacco di volte. Tuttavia, il suo retaggio di ‘Sei’, di essere geneticamente superiore, lo allontana troppo dal lettore. Il problema non è il fatto che fosse una celebrità, quello è un elemento integrante della storia ed è importante – ma non poteva essere una persona nata normale che ce l’aveva fatta con le sue forze? Come il Bel-Ami di Maupassant o il Rastignac di Balzac, uno che era arrivato al vertice della società per talento e calcolo invece che per predestinazione naturale? Quanto sarebbe stato più interessante? E, trovandosi improvvisamente rigettato nell’anonimato e nella miseria, in quali modi più affascinanti avrebbe reagito?

Sorrounded by Police

I regimi totalitari ti fanno sentire al centro dell’attenzione.

Ma è oggettivamente un buon romanzo. E la scena finale (quella alla pompa di benzina) mi ha lasciato di ghiaccio adesso come allora, anche se sapevo già che ci sarebbe stata. Per contro, l’Epilogo che chiude il libro è bruttino e il romanzo ci avrebbe guadagnato senza la sua esistenza.
Insomma, di cosa parla questo Flow My Tears? Diciamo che parla dell’amore tra le persone. E se volessi riassumerlo in poche righe, mi affiderei a queste parole dette a un certo punto da Taverner:

“Then why is love so good? […] You love someone and they leave. They come home one day and start packing their things and you say, ‘What’s happening?’ and they say, ‘I got a better offer someplace else,’ and there they go, out of your life forever, and after that until you’re dead you’re carrying around this huge hunk of love with no one to give it to. And if you do find someone to give it to, the same thing happens all over. Or you call them up on the phone one day and say, ‘This is Jason,’ and they say, ‘Who?’ and then you know you’ve had it. They don’t know who the hell you are. So I guess they never did know; you never had them in the first place.”

Dove si trova?
Come tutti i romanzi di Dick, anche Flow My Tears è facile da trovare online. Potete scaricarlo in lingua originale su BookFinder (pdf o epub) oppure su Library Genesis (pdf o epub); per l’edizione italiana potete serenamente affidarvi a Emule o simili, o potete comprare l’edizione Fanucci in libreria, se non è andata fuori stampa.

Qualche estratto
Il primo brano ci mostra Taverner nel momento in cui scopre di essere diventato una non-persona, ed è bello vedere un Sei come lui in preda alla madre delle crisi di nervi; il secondo mostra invece un dialogo con Kathy, la falsaria, e mi sembra un bell’esempio tanto della bravura di Dick coi dialoghi quanto della sua capacità di dar corpo a personaggi vividi.

1.
Fortunately he had change. He dropped a one-dollar gold piece into the slot, dialed Al Bliss’s number.
“Bliss Talent Agency,” Al’s voice came presently.
“Listen,” Jason said. “I don’t know where I am. In the name of Christ come and get me; get me out of here; get me someplace else. You understand, Al? Do you?”
Silence from the phone. And then in a distant, detached voice Al Bliss said, “Who am I talking to?”
He snarled his answer.
“I don’t know you, Mr. Jason Taverner,” Al Bliss said, again in his most neutral, uninvolved voice. “Are you sure you have the right number? Who did you want to talk to?”
“To you, Al. Al Bliss, my agent. What happened in the hospital? How’d I get out of there into here? Don’t you know?” His panic ebbed as he forced control on himself; he made his words come out reasonably. “Can you get hold of Heather for me?”
“Miss Hart?” Al said, and chuckled. And did not answer.
“You,” Jason said savagely, “are through as my agent. Period. No matter what the situation is. You are out.”
In his ear Al Bliss chuckled again and then, with a click, the line became dead. Al Bliss had hung up.
I’ll kill the son of a bitch, Jason said to himself. I’ll tear that fat balding little bastard into inch-square pieces.
What was he trying to do to me? I don’t understand. What all of a sudden does he have against me? What the hell did I do to him, for chrissakes? He’s been my friend and agent nineteen years. And nothing like this has ever happened before.
I’ll try Bill Wolfer, he decided. He’s always in his office or on call; I’ll be able to get hold of him and find out what this is all about. He dropped a second gold dollar into the phone’s slot and, from memory, once more dialed.
“Wolfer and Blaine, Attorneys-at-law,” a female receptionist’s voice sounded in his ear.
“Let me talk to Bill,” Jason said. “This is Jason Taverner. You know who I am.”
The receptionist said, “Mr. Wolfer is in court today. Would you care to speak to Mr. Blaine instead, or shall I have Mr. Wolfer call you back when he returns to the office later on this afternoon?”
“Do you know who I am?” Jason said. “Do you know who Jason Taverner is? Do you watch TV?” His voice almost got away from him at that point; he heard it break and rise. With great effort he regained control over it, but he could not stop his hands from shaking; his whole body, in fact, shook.
“I’m sorry, Mr. Taverner,” the receptionist said. “I really can’t talk for Mr. Wolfer or—”
“Do you watch TV?” he said.
“Yes.”
“And you haven’t heard of me? The Jason Taverner Show, at nine on Tuesday nights?”
“I’m sorry, Mr. Taverner. You really must talk directly to Mr. Wolfer. Give me the number of the phone you’re calling from and I’ll see to it that he calls you back sometime today.”
He hung up.
I’m insane, he thought.

Per fortuna aveva qualche moneta. Infilò un pezzo d’oro da un dollaro nella fessura e fece il numero di Al Bliss.
— Agenzia artistica Bliss — gli rispose la voce di Al.
— Senti — disse Jason, — non so dove mi trovo. Per amor di Dio, vieni a prendermi. Tirami fuori di qui. Hai capito, Al?
Silenzio. Poi, in tono remoto, distaccato, Al Bliss chiese: — Con chi parlo?
Lui ringhiò la risposta.
— Non la conosco, signor Jason Taverner — disse Al Bliss, ancora con la sua voce più neutra. — È sicuro di avere fatto il numero giusto? Con chi voleva parlare?
— Con te. Al. Al Bliss, il mio agente. Cose successo all’ospedale? Come ho fatto a finire qui? Non lo sai? — La marea del panico salì, e Jason lottò per imporsi l’autocontrollo. Costrinse le proprie parole ad assumere un tono pacato. — Puoi metterti in contatto con Heather per me?
— La signorina Hart? — disse Al, e ridacchiò.
— Tu — disse Jason, furibondo — hai finito di essere il mio agente. Punto. Qualunque sia la situazione. Sei fuori.
Al Bliss ridacchiò un’altra volta, e poi, con un clic, la comunicazione si interruppe. Al Bliss aveva riappeso.
“Ucciderò quel figlio di puttana” si disse Jason. “Ridurrò in pezzettini minuscoli quel bastardo di un grassone calvo.
“Cosa sta cercando di farmi? Non capisco. Cos’ha contro di me, cosi, all’improvviso? Che diavolo gli ho fatto, Cristo santo? È mio amico e mio agente da diciannove anni. E una cosa del genere non è mai successa.
“Proverò con Bill Wolfer” decise. “È sempre in ufficio o comunque reperibile. Riuscirò a raggiungerlo e scoprirò cosa accidente ci sia sotto.” Infilò una seconda moneta da un dollaro nella fessura e, a memoria, compose un altro numero.
— Studio legale Wolfer & Blaine — gli risuonò all’orecchio la voce di un’impiegata.
— Passami Bill — disse Jason. — Sono Jason Taverner. Hai capito bene chi.
L’impiegata disse: — Oggi il signor Wolfer è in aula. Preferisce parlare col signor Blaine, oppure devo farla richiamare dal signor Wolfer quando rientrerà in ufficio, nel pomeriggio?
— Ma sai chi sono? — chiese Jason. — Sai chi è Jason Taverner? Guardi la tivù? — A quel punto perse quasi il controllo della propria voce; la sentì spezzarsi e salire a un livello acuto. Se ne riappropriò con uno sforzo enorme, ma non riuscì a fermare il tremito delle mani. In realtà, tutto il suo corpo stava tremando.
— Mi spiace, signor Taverner — disse l’impiegata. — Proprio non posso parlare a nome del signor Wolfer o…
— Guardi la tivù?
— Sì.
— E non hai mai sentito parlare di me? Del Jason Taverner Show, alle nove di sera del martedì?
— Mi spiace, signor Taverner. Lei deve conferire direttamente col signor Wolfer. Mi lasci il suo numero di telefono e la farò richiamare in giornata.
Jason riappese.
“Sono impazzito” pensò.

Gas station

Pompe di benzina. Non necessariamente quelle alla fine del romanzo

 

2.
Kathy said, “You’re more magnetic than Jack. He’s magnetic, but you’re so much, much more. Maybe after meeting you I couldn’t really love him again. Or do you think a person can love two people equally, but in different ways? My therapy group says no, that I have to choose. They say that’s one of the basic aspects of life. See, this has come up before; I’ve met several men more magnetic than Jack…but none of them as magnetic as you. Now I really don’t know what to do. It’s very difficult to decide such things because there’s no one you can talk to: no one understands. You have to go through it alone, and sometimes you choose wrong. Like, what if I choose you over Jack and then he comes back and I don’t give a shit about him; what then? How is he going to feel? That’s important, but it’s also important how I feel. If I like you or someone like you better than him, then I have to act it out, as our therapy group puts it. Did you know I was in a psychiatric hospital for eight weeks? Morningside Mental Hygiene Relations in Atherton. My folks paid for it. It cost a fortune because for some reason we weren’t eligible for community or federal aid. Anyhow, I learned a lot about myself and I made a whole lot of friends, there. Most of the people I truly know I met at Morningside. Of course, when I originally met them back then I had the delusion that they were famous people like Mickey Quinn and Arlene Howe. You know—celebrities. Like you.”
He said, “I know both Quinn and Howe, and you haven’t missed anything.”
Scrutinizing him, she said, “Maybe you’re not a celebrity; maybe I’ve reverted back to my delusional period. They said I probably would, sometime. Sooner or later. Maybe it’s later now.”
“That,” he pointed out, “would make me a hallucination of yours. Try harder; I don’t feel completely real.”
She laughed. But her mood remained somber. “Wouldn’t that be strange if I made you up, like you just said? That if I fully recovered you’d disappear?”
“I wouldn’t disappear. But I’d cease to be a celebrity.”
“You already have.” She raised her head, confronted him steadily. “Maybe that’s it. Why you’re a celebrity that no one’s ever heard of. I made you up, you’re a product of my delusional mind, and now I’m becoming sane again.”
[…] Her tone became firm and crisp. “The only thing that got me back to sanity was that I loved Jack more than Mickey Quinn. See, I thought this boy named David was really Mickey Quinn, and it was a big secret that Mickey Quinn had lost his mind and he had gone to this mental hospital to get himself back in shape, and no one was supposed to know about it because it would ruin his image. So he pretended his name was David. But I knew. Or rather, I thought I knew. And Dr. Scott said I had to chose between Jack and David, or Jack and Mickey Quinn, which I thought it was. And I chose Jack. So I came out of it. Maybe”—she wavered, her chin trembling—“maybe now you can see why I have to believe Jack is more important than anything or anybody, or a lot of anybodys, else. See?”
He saw. He nodded.
“Even men like you,” Kathy said, “who’re more magnetic than him, even you can’t take me away from Jack.”

— Sei più magnetico di Jack. È magnetico anche lui, ma tu lo sei molto di più. Magari, dopo avere conosciuto te, non riuscirò più ad amarlo sul serio. O tu pensi che si possano amare due persone con la stessa intensità ma in modi diversi? Il conduttore del mio gruppo di terapia dice di no. Dice che devo scegliere. Dice che è uno degli aspetti basilari della vita. Il fatto è che è già successo. Ho incontrato diversi uomini più magnetici di Jack… Però nessuno quanto te. Adesso non so proprio cosa fare. È molto difficile decidere su cose simili perché non ne puoi parlare con nessuno. Nessuno capisce. Bisogna cavarsela da soli, e a volte si fanno le scelte sbagliate. Per esempio, come se io scegliessi te al posto di Jack e poi lui tornasse e a me non fregasse più niente di lui: cosa succederebbe? Cosa proverebbe lui? È importante, ma è importante anche quello che provo io. Se tu, o qualcun altro come te, mi piace più di lui, devo dare via libera a quel che sento, questo almeno secondo il mio gruppo di terapia. Lo sapevi che sono stata in un ospedale psichiatrico per otto settimane? Il Morningside Mental Hygiene Relations di Atherton. Me l’hanno pagato i miei. È costato una fortuna, perché non avevano diritto alle sovvenzioni federali. Comunque, là ho imparato tante cose su di me e mi sono fatta un sacco di amici. La maggior parte della gente che conosco davvero l’ho incontrata al Morningside. Certo, quando li ho visti per la prima volta ero convinta che fossero gente famosa, come Mickey Quinn e Arlene Howe. Insomma, celebrità. Come te.
Lui disse: — Conosco sia Quinn che la Howe. Non ti sei persa niente.
Kathy lo scrutò. — Forse non sei una celebrità. Forse sono regredita al mio periodo delle illusioni. Hanno detto che probabilmente mi sarebbe successo, prima o poi. Ora è capitato.
— Il che — fece notare Jason — mi renderebbe una tua allucinazione. Sforzati di più. Non mi sento del tutto reale.
Lei rise. Ma il suo umore restò piuttosto cupo. — Non sarebbe strano se ti avessi inventato io, come hai appena detto? Se guarissi del tutto, tu scompariresti.
— Non scomparirei. Però smetterei di essere una celebrità.
— Hai già smesso di esserlo. — Kathy alzò la testa e lo fissò senza timori. — Ecco perché, forse. Ecco perché sei una celebrità che nessuno ha mai sentito nominare. Ti ho creato io. Sei un prodotto della mia mente in preda alle illusioni, e adesso sto recuperando la sanità mentale.
[…] Il tono di Kathy diventò deciso, fermo. — L’unica cosa che mi abbia riportata alla normalità è stato il fatto di amare Jack più di Mickey Quinn. Io pensavo che quel ragazzo, quel David, fosse Mickey Quinn, e che fosse un gran segreto che Mickey Quinn fosse uscito di testa e si fosse fatto ricoverare in quell’ospedale per rimettersi in forma, e nessuno doveva saperne niente perché avrebbe rovinato la sua immagine. Così lui faceva finta di chiamarsi David. Però io sapevo. O piuttosto, credevo di sapere. E il dottor Scott ha detto che dovevo scegliere tra Jack e David, o Jack e Mickey Quinn, qualunque cosa pensassi. E ho scelto Jack. Così ne sono uscita. Magari… — Ebbe un attimo di instabilità sulle gambe. Le tremò il mento. — Magari adesso riesci a capire perché devo credere che Jack sia più importante di tutto e di tutti, o comunque di tanta altra gente. Lo capisci?
Jason capiva. Annuì.
— Anche di uomini come te — disse Kathy. — Uomini che sono più magnetici di lui. Nemmeno voi potete strapparmi da Jack.

Tabella riassuntiva

Un uomo solo alla ricerca della propria esistenza in un mondo distopico! Prosa approssimativa con avverbi a cascata.
Dialoghi affascinanti e pieni di conflitto. Dick mostra poco e racconta molto.
Dick ha una capacità unica di tracciare ritratti psicologici. Protagonista in odore di Gary Stu.
L’atmosfera totalitaria è opprimente al punto giusto. Poco fantastico e poca scienza per alcuni palati.


(1) Non so se Dick conoscesse le teorie di Berne, ma non è affatto necessario per mettere in scena dei giochi. Potrebbe averne compreso le regole in modo intuitivo, come molti di noi fanno, semplicemente avendo a che fare con altre persone per tutta la vita.
A questo proposito, mi piacerebbe riprendere il discorso sui giochi mentali di Berne in un articolo futuro. E’ un argomento molto interessante di per sé, e può esserlo ancora di più per uno scrittore.Torna su