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I Consigli del Lunedì #35: Holy Fire

Holy FireAutore: Bruce Sterling
Titolo italiano: Fuoco sacro
Genere: Science Fiction / Cyberpunk / Social SF / Bildungsroman
Tipo: Romanzo

Anno: 1996
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 300 ca.

Difficoltà in inglese: ***

No matter how carefully she guarded herself, life was too short. Life would always be too short. 

Mia Ziemann ha 94 anni ed è all’apice della sua carriera. Nulla di strano, in un tardo XXI secolo in cui i progressi della tecnologia medica sono tali da aver eliminato quasi qualsiasi malattia e rallentato i processi di invecchiamento al punto che si può vivere in gran forma anche un paio di secoli. La società moderna è dominata da una bonaria gerontocrazia, che ha posto fine alle guerre e ha reso possibile una vita dignitosa per tutta la popolazione terrestre, al prezzo di schiacciare e tenere lontane dal potere le nuove generazioni. La sanità è pubblica e accessibile a tutti, ma ci sono delle graduatorie – e solo chi ha uno stile di vita impeccabile avrà accesso alle cure migliori e potrà vivere più a lungo.
Mia ha sempre vissuto un’esistenza cauta, controllata, calcolatrice, così da assicurarsi una splendida e lunga vecchiaia. Ma la morte di un ex amante che non vedeva da ottant’anni e l’incontro con una coppia di ragazzi focosi la riempiono di incertezze e di rimpianti. Ora Mia rivuole la sua giovinezza. E un rivoluzionario trattamento medico potrebbe ridargliela, restituendole un corpo da ventenne. Quello che non sa è che ci sono degli effetti collaterali: non solo il suo corpo, ma anche la sua mente, le sue emozioni, i suoi sogni, potrebbero ritornare quelli di una impulsiva ventenne. E la nuova Mia potrebbe non voler più sottostare al rigore metodico della vecchia Mia. Potrebbe decidere di fare qualche pazzia, come ribattezzarsi Maya, prendere e scappare senza un soldo nella favoleggiata vecchia Europa. Ma cosa la aspetta alla fine del viaggio – felicità o disillusione? E chi la spunterà, la vecchia Mia o la giovane Maya?

Bruce Sterling è spesso considerato, almeno in Italia, l’amico sfigato di William Gibson. Lo ricordiamo come l’ideologo del cyberpunk, o come il curatore dell’antologia di racconti cyberpunk Mirrorshades, e al limite, quando lo pensiamo come scrittore, ci vengono in mente i lavori a quattro mani con Gibson. Perciò mi ha colpito scoprire che in realtà Sterling è uno scrittore più interessante di Gibson. Le cose che scrive sono molto più sci-fi di quelle di Gibson – che ha sempre strizzato l’occhio al mainstream e ci si è buttato dopo pochi anni – il suo amore per il weird e la speculazione futuristica molto più evidente.
Holy Fire non è il migliore tra i romanzi di Sterling ma è quello che più ha catturato la mia curiosità. A differenza del cyberpunk tradizionale, il futuro di questo romanzo non è una società capitalistica andata a male, zeppa di povertà e criminalità; al contrario è un mondo quasi utopico, dove tutti stanno bene o hanno il potere di farlo. La domanda, che trovo molto affascinante, è se anche un eccesso di moralismo, di controllo, di benessere imposto, di paternalismo, possa portare a un’infelicità di massa.


Quale altra colonna sonora avrebbe potuto avere un romanzo come questo?

Uno sguardo approfondito
La struttura di Holy Fire è atipica per un cyberpunk: è quella del Bildungsroman, o romanzo di formazione. Se avete mai letto libri come Il giovane Holden o Demian o L’apprendistato di Wilhelm Meister sapete di cosa parlo: il protagonista si imbarca in un viaggio senza meta o scopo, alla ricerca di un senso alla propria vita e di un posto da ritagliarsi nel mondo. In questo tipo di storie non c’è, in genere, la catena di causa/effetto tipica del romanzo d’azione; si succedono, invece, una serie di episodi più o meno slegati, ciascuno dei quali fa ‘crescere’ in qualche modo il protagonista. Alla fine del percorso, il personaggio sarà qualcuno di diverso da quello che era all’inizio.
Holy Fire segue il medesimo canovaccio. Dopo un primo capitolo introduttivo, che ci dà un assaggio del mondo del romanzo e ci familiarizza con la psicologia della protagonista, Mia si sottopone al trattamento ringiovanente – e da qui comincia la sua fuga e il suo viaggio iniziatico attraverso l’Europa del 2100, fatto di incontri, dialoghi filosofici ed esperienze di vita. E se il primo capitolo ha ancora un po’ il sapore della fantascienza sociale “classica”, andando avanti se ne stacca sempre di più.

Capirete bene che in un romanzo come questo, il realismo dei personaggi, l’immersività della narrazione e la capacità di immedesimarsi completamente nella protagonista (ossia tutti gli elementi cardine dello ‘scrivere bene’ in narrativa) sono tutto. Non bastano le idee geniali, perché Holy Fire vuole arrivarti alla pancia, parlarti delle scelte di base nella vita di una persona e del senso della vita. Fortunatamente Sterling scrive piuttosto bene. Il romanzo è in terza persona attraverso un unico pov, quello della protagonista, e l’autore ci si attiene per tutto il libro. Non assistiamo mai a niente che Mia non veda con i propri occhi.
Il rapporto mostrato/raccontato è più ambivalente. Quando vuole, Sterling è molto bravo a mostrare. Prendiamo uno degli episodi iniziali del libro: Mia si imbatte nel delizioso cane parlante Plato, il quale le comunica con evidente sofferenza che il suo padrone (nonché ex amante di lunga data di Mia) sta morendo e vorrebbe vederla. Senza stare a dirci molto del carattere di Mia, Sterling ce lo fa capire attraverso i suoi gesti e le sue parole: il modo freddo, esitante, impacciato con cui tratta prima il cane e poi l’uomo. La sua quasi indifferenza di fronte al loro dolore. Lo stesso cane Plato è un bell’esempio di mostrato. Si tratta di un cane intelligente, ma di intelligenza modesta, e i suoi istinti sono pur sempre quelli di un cane: Sterling lo fa parlare e agire in modo buffissimo, con inconsequenzialità, facilità a distrarsi, l’importanza degli odori e la fedeltà ingenua verso il proprio padrone.

Cane parlante

Non è che se un cane impara a parlare diventa Einstein.

Altre volte, Sterling si abbandona senza problemi al raccontato – che si tratti di esplorare le sensazioni di Mia in quel momento o, ancora più spesso, lanciarsi in infodump sulla sua ambientazione. Il secondo capitolo comincia così: “The medical-industrial complex dominated the planet’s economy”, e Sterling va avanti per pagine e pagine a spiegarci, da bravo narratore onnisciente, in che modo il complesso medico-industriale domini l’economia mondiale. Non che non sia capace di mostrare le sue invenzioni in azione, o di spiegarcele attraverso le parole di un personaggio. Ad esempio, il trattamento ringiovanente rivoluzionario a cui si sottoporrà Mia ci viene spiegato nel dettaglio dal suo medico. Semplicemente, Sterling usa l’uno o l’altro metodo in modo indifferenziato, come se non cogliesse la differenza.
Si perdona facilmente, in realtà: il worldbuilding di Holy Fire è veramente spettacolare e lo si legge rapiti anche quando ci viene fatto piovere dall’alto. Sul piano macroscopico, veniamo introdotti a poco a poco alle tante piccole crudeltà che conseguono da una società organizzata secondo principi moralistici e salutisti, dove lo stato di salute di ciascuno è tracciato continuamente anche contro la propria volontà. Nessuno ti vieta (legalmente) di bere alcol, fumare, assumere droghe; ma se lo fai, questo lascerà tracce sul tuo profilo medico, e scenderai di graduatoria. E se il tuo cattivo comportamento diventa sistematico, non avrai mai accesso ai trattamenti, il che significa il peggiore degli stigmi sociali: guardare i tuoi coetanei rimanere giovani, belli e in salute mentre tu invecchi, diventi brutto e malato… E questo è solo un piccolo esempio di tutte le conseguenze immaginate da Sterling.
Ma Sterling è brillante anche sul piano microscopico, e il romanzo è disseminato da piccole invenzioni affascinanti. Ad esempio, i “ninnoli” da indossare per entrare nella realtà virtuale (che in Holy Fire, a differenza degli ingenui cyberspazi degli anni ’80, ricordano gli ambienti customizzabili tipo Second Life). Sterling aveva capito una cosa per nulla scontata: che per commercializzare una tecnologia mass market, il design è importante quanto l’utilità pratica. Sicché, per entrare nella realtà virtuale, due orecchini diventano delle cuffie, un neo finto da poggiare accanto al labbro il microfono, le ciglia finte dei tracciatori dei movimenti oculari e così via.

Insomma, sul piano fantascientifico Holy Fire è una gioia. Ma come romanzo di formazione? Ecco – qui cominciano i problemi. E sono parecchi.
Il conflitto centrale, il cuore del romanzo, dovrebbe essere il rapporto tra la vecchia e la giovane Mia. Abbiamo due individualità intrappolate nella stessa persona, separate fin quasi a sfiorare lo sdoppiamento di personalità con obiettivi antitetici: Maya odia l’esistenza an-emotiva di Mia e vuole ribellarsi, uscire dalla gabbia di regole e bon-ton che si è costruita e vivere una vita “autentica”; e d’altro canto, Mia è terrorizzata dall’impulsività di Maya, teme giustamente di perdere la propria reputazione, e che un momento di pazzia possa distruggere settant’anni di duro lavoro. E chi dei due abbia più ragione non è scontato. Insomma, sembra materiale perfetto per dare corpo a un conflitto avvincente, no? 1
No. A parte qualche piccolo confronto in un paio di punti cruciali del libro, il rapporto tra Mia e Maya è quasi inesistente. Il conflitto è ai minimi termini. Né si tratta di un episodio isolato – sembra che Sterling cerchi per tutto il romanzo di appianare ogni conflitto o momento di tensione ogni volta che si affaccia. C’è un punto, nel romanzo, in cui Mia sfugge a un agguato violento; di colpo si sente braccata, ricercata dalla polizia e dai medici che seguivano la sua terapia prima che scappasse. E’ terrorizzata, in preda ai sensi di colpa, non sa cosa fare. Cosa fa Sterling? Avanti veloce a quando Mia risolve la situazione e si ritrova in pace con il suo pugno di alleati. Un’altra volta, la sua terapia ha un rigetto e Mia rischia di morire. Cosa fa Sterling? Avanti veloce a quando Mia è guarita e in salute. What the fuck?

Old medicine

Si stava meglio quando si stava peggio.

Il conflitto tra Mia e Maya, poi, dovrebbe essere uno specchio per parlare del conflitto su larga scala del mondo di Sterling: quello tra i vecchi e i giovani. Ma anche quest’ultimo rimane poco a fuoco. Nei suoi viaggi, Mia/Maya incontra ragazzi di ogni tipo: furfantelli, artisti, rivoluzionari, hacker. Tutti questi fanno un gran parlare della condizione infelice in cui sono tenuti dai vecchi che tengono le redini della società. Ma appunto: sono tutte chiacchiere. Sterling ci parla, parla, parla, delle ingiustizie e dei problemi di questo ordinamento sociale, ma mostra poco, e non convince. Troppo spesso i giovani europei di Holy Fire sembrano soltanto dei ragazzetti viziati che si lamentano per attirare l’attenzione, che fanno i ribelli ma poi vivono senza una preoccupazione.
Spesso Sterling sembra anche perdersi negli stereotipi sulla gioventù e la vecchiaia. I giovani non sono tutti impulsivi e irrazionali, i vecchi non sono tutti dei gelidi calcolatori (mi sento quasi cretino a dirlo); eppure in Holy Fire troviamo di continuo questa polarità. Il comportamento scatenato di Maya si potrebbe spiegare come una reazione violenta all’eccesso di autocontrollo nella vita di Mia, ma troppo spesso Sterling sembra spiegarlo con un “perché sì, perché è giovane”.

E si potrebbe andare avanti a lungo. Il personaggio di Maya è perfetto in modo insopportabile, praticamente una Mary Sue: giovane e bellissima, ma al contempo intelligentissima e affascinante per via della sua reale età, tutti gli uomini cadono ai suoi piedi e tutte (o quasi) le donne la invidiano. Tutto le riesce facile, non deve mai sforzarsi per avere ciò che vuole. Per non parlare del gusto sgradevole di Sterling per i discorsi filosofici ad cazzum (in cui spesso i dialoghi con i radical chic europei si arenano) e gli pseudo-intellettualismi. Ditemi ad esempio cosa vuoldire questo periodo:

Now she was beginning to get the hang of it. It was beyond eros, beyond skin. Skinlessness. Skinless memory. Bloody nostalgia, somatic déjà vu, neural mono no aware. Memories she was not allowed to have. From sensations she was not allowed to feel.

Mary Sue

Eccomi qui, mentre rifletto sul mono no aware.

Diversi degli episodi del viaggio di formazione di Mia non sembrano neanche appartenere al mondo futuristico di Holy Fire. In un attico della vecchia Praga, dove (giustamente) i palazzi sono ancora quelli che conosciamo e nulla sembra cambiato, la storia tra Mia e l’artista Emil potrebbe essere tratta pari pari da un romanzo dell’Ottocento – e in effetti mi ha ricordato da vicino il rapporto tra la borghese Bette e lo scultore Wenceslaw di un romanzo di Balzac, La cugina Bette. E uno si chiede: sto ancora leggendo sci-fi?
Al contempo però, il rapporto tra Mia ed Emil, vasaio depresso che a causa di una malattia dimentica ogni mattina quel che gli è successo il giorno prima, è uno dei momenti più belli del romanzo. Dirò di più: è una delle storie d’amore che più mi abbia commosso negli ultimi anni, e questo nonostante occupi una porzione piccola del libro. E funziona anche perché sembra senza tempo.
Né è giusto dire che tutti i dialoghi del romanzo finiscano in merda pseudo-filosofica. La giovane matematica che vuole calcolare il momento storico in cui il progresso della scienza medica sarà tale da rendere virtualmente immortali gli esseri umani è deliziosa; così come il discorso di Paul sulla differenza tra un originale e una replica. L’interrogatorio di Helene Vauxcelles-Serusier è affascinante, e non si può rimanere freddi di fronte alla vicenda del cane Plato.

Insomma, Holy Fire è uno di quei romanzi che si ama o si odia; o, nel mio caso, si ama e si odia contemporaneamente. Per spiegare il mio rapporto con questo libro, uso l’immagine delle montagne russe. Nei suoi momenti più alti, è veramente figo; ma subito dopo precipita ed è merda. Se il worldbuilding è spettacolare, le invenzioni geniali e alcuni personaggi ben fatti, come romanzo di formazione non vale niente, e i tentativi di Sterling di suonare profondo sono adolescenziali.
Merita davvero di essere consigliato? Be’, dipende. Di sicuro Holy Fire non è una storia d’azione o d’avventura o di suspence; è un romanzo di idee, fatto di dialoghi e monologhi interiori. Il ritmo è lento e il conflitto (ingiustificatamente) debole. Il che già allontanerà una parte dei lettori. Per quelli che restano, il mio consiglio è il seguente: scaricatelo e provate a leggerlo. Può valerne la pena, e forse sarete toccati da quelle riflessioni esistenzialiste che a me hanno lasciato freddo. E se invece a un certo punto vi venisse voglia di scaraventare il libro dalla finestra, sentitevi pienamente giustificati.

Su Sterling
Oltre a Holy Fire ho letto altri tre romanzi di Sterling:
 Schismatrix (La matrice spezzata) è una space-opera politica e avventurosa, ambientata in un futuro in cui l’umanità ha colonizzato il sistema solare, ha abbandonato la Terra e sta raggiungendo nuovi stadi evolutivi. Attraverso la vita bicentenaria di Abelard Lindsey, prima giovane rivoluzionario, poi disilluso diplomatico e poi altro ancora, assisteremo allo scontro senza fine tra le due superpotenze post-umane degli Shaper (Mutaforma) e Mechanist (Meccanisti). Un po’ cyberpunk e un po’ biopunk, l’ambientazione ricorda quella del coevo Vacuum Flowers senza essere altrettanto bella. Ma il romanzo, pur affascinante, soffre di eccesso di worldbuilding: infodump a manetta e avvenimenti fuori scena sono la norma, e la tensione va spesso a farsi benedire. Consiglio di procurarsi l’edizione Schismatrix Plus, che contiene i racconti di Sterling sull’universo Shaper/Mechanists (racconti che aveva composto prima di scrivere il romanzo), e di leggere i racconti prima del romanzo, per avere un’esperienza migliore.
Islands in the Net Islands in the Net (Isole nella rete) è un thriller cyberpunk ambientato in un futuro recente. Laura Webster, PR di un’organizzazione di diplomatici democratici chiamata Rizome, si troverà con la sua famiglia al centro di una rete di intrighi e omicidi internazionali. Nonostante all’epoca della sua uscita presentasse molte idee rivoluzionarie sulla Rete, e una versione del cyberspazio molto più aderente alla realtà rispetto a quella dei coevi romanzi gibsoniani dello Sprawl, oggi questo romanzo di Sterling sembra il meno immaginativo e più banale dei suoi. Molte idee affascinanti rimangono, ma affondano comunque in una narrativa lenta e in personaggi noiosi. Datato.
The Difference Engine The Difference Engine (La macchina della realtà), scritto a quattro mani con Gibson, è un’ucronia steampunk tra le più influenti sul genere. Siamo in una Londra vittoriana alternativa in cui la realizzazione della macchina analitica di Babbage ha risvegliato l’entusiasmo per la tecnologia e ha modificato l’equilibrio delle potenze europee. Peccato per l’eccesso di spocchia degli autori, che rende la lettura frustrante e le varie trame difficili da seguire. Ho già parlato di questo romanzo nel Consiglio del Lunedì #26.
Credo di essermi fatto un’idea piuttosto chiara di Sterling. Ha un sacco di idee affascinanti, ma purtroppo finisce spesso per affogarle nell’intellettualismo, nei giri di parole finto-colti, in questa sua tendenza a fare della filosofia spicciola. I commenti che ho letto sui suoi romanzi degli ultimi quindici-vent’anni non sono incoraggianti, quindi credo di aver letto il meglio di Sterling. Direi che per ora sono a posto.

Dove si trovano?
Tutti i libri di Sterling summenzionati si trovano, in lingua originale, sia su Bookfinder che su Library Genesis (assieme a quasi qualsiasi altro romanzo mai pubblicato dall’autore). Di Holy Fire e The Difference Engine si trovano anche l’ePub e il mobi, mentre di Islands in the Net e Schismatrix Plus solo il formato pdf.

Chi devo ringraziare?
Ad attirare la mia attenzione su questo libro stavolta è stato Charles Stross (l’autore di Singularity Sky e Accelerando). In risposta a un utente che sul suo blog gli chiedeva di consigliargli qualche bel titolo poco conosciuto, ecco cos’ha detto Stross a proposito di Holy Fire:

13 years old and unjustly overlooked, this ought to be one of the classics of medium-future extrapolation

In effetti, Holy Fire è stato poi incluso (non so se proprio in seguito a questo commento di Stross) da Paul Di Filippo e Broderick nella loro lista dei 101 migliori romanzi di fantascienza scritti tra il 1985 e il 2010.

Qualche estratto
I tre estratti che ho scelto vengono tutti dal primo capitolo, prima che Mia si sottoponga al trattamento ringiovanente. Il primo è l’incontro tra Mia e il cane Plato (che io adoro); il secondo è la descrizione dell’interfaccia virtuale che Mia deve indossare per connettersi al cyberspazio; l’ultimo, un momento di crisi notturna da cui nascerà la decisione, nella protagonista, di tornare giovane.

1.
A dog was following her up Market Street, loping through the crowd. She stopped behind the shadowed column of a portico and stretched out her bare hand, beckoning.
The dog paused timidly, then came up and sniffed at her fingers.
“Are you Mia Ziemann?” the dog said.
“Yes, I am,” Mia said. People walked past her, brisk and purposeful, their solemn faces set, neat shoes scuffing the red brick sidewalks. Under the steady discipline of Mia’s gaze, the dog settled on his haunches, crouching at her feet.
“I tracked you from your home,” bragged the dog, panting rhythmically. “It’s a long way.” The dog wore a checkered knit sweater, tailored canine trousers, and a knitted black skullcap.
The dog’s gloved front paws were vaguely prehensile, like a raccoon’s hands. The dog had short clean fawn-colored fur and large attractive eyes. His voice came from a speaker implanted in his throat.
A car bleeped once at a tardy pedestrian, rudely breaking the subtle urban murmurs of downtown San Francisco. “I’ve walked a long way,” Mia said. “It was clever of you to find me. Good dog.”
The dog brightened at the praise, and wagged his tail. “I think I’m lost and I feel rather hungry.”
“That’s all right, nice dog.” The dog reeked of cologne. “What’s your name?”
“Plato,” the dog said shyly.
“That’s a fine name for a dog. Why are you following me?”
This sophisticated conversational gambit exhausted the dog’s limited verbal repertoire, but with the usual cheerful resilience of his species he simply changed the subject. “I live with Martin Warshaw! He’s very good to me! He feeds me well. Also Martin smells good! Except not … like other days. Not like …” The dog seemed pained. “Not like now.… ”
“Did Martin send you to follow me?”
The dog pondered this. “He talks about you. He wants to see you. You should come talk to him. He can’t be happy.” The dog sniffed at the paving, then looked up expectantly. “May I have a treat?”
“I don’t carry treats with me, Plato.”
“That’s very sad,” Plato observed.
“How is Martin? How does he feel?”
A dim anxiety puckered the hairy canine wrinkles around the dog’s eyes. It was odd how much more expressive a dog’s face became once it learned to talk. “No,” the dog offered haltingly, “Martin smells unhappy. My home feels bad inside. Martin is making me very sad.” He began to howl.
The citizens of San Francisco were a very tolerant lot, civilized and cosmopolitan. Mia could see that the passersby strongly disapproved of anyone who would publicly bully a dog to tears.
“It’s all right,” Mia soothed, “calm down. I’ll go with you. We’ll go to see Martin right away.”
The dog whined, too distraught to manage speech.
“Take me home to Martin Warshaw,” she commanded.
“Oh, all right,” said the dog, brightening. Order had returned to his moral universe. “I can do that. That’s easy.”
He led her, frisking, to a trolley. The dog paid for both of them, and they got off after three stops.

 

2.
Stuart gave Mia a battered touchslate and a virtuality jewel case. Mia retired to the netsite’s bathroom, with its pedestal sinks and mirrors. She washed her hands.
Mia clicked open the jewelry case, took its two featherlight earring phones, and cuffed them deftly onto her ears. She dabbed the little beauty-mark microphone to the corner of her upper lip. She carefully glued the false lashes to her eyelids. Each lash would monitor the shape of her eyeball, and therefore the direction of her gaze.
Mia opened the hinged lid of a glove font and dipped both her hands, up to the wrists, into a thick bath of hot adhesive plastic. She pulled her hands out, and waved them to cool and congeal.
The gloves crackled on her fingers as they cured and set. Mia worked her finger joints, then clenched her fists, methodically. The plastic surface of the gloves split like drying mud into hundreds of tiny platelets. She then dipped her gloves into a second tank, then pulled free. Thin, conductive veins of wetly glittering organic circuitry dried swiftly among the cracks.
When her gloves were nicely done, Mia pulled a wrist-fan from a slot below the basin. She cracked the fan against her forearm to activate it, then opened it around her left wrist and buttoned it shut. The rainbow-tinted fabric stiffened nicely. When she had opened and buttoned her second wrist-fan, she had two large visual membranes the size of dinner plates radiating from the ends of her arms.
The plastic gloves came alive as their circuitry met and meshed with the undersides of the wrist-fans. Mia worked her fingers again. The wrist-fans swiftly mapped out the shape of the gloves, making themselves thoroughly familiar with the size, shape, and movements of her hands.
The fans went opaque. Her hands vanished from sight. Then the image of her hands reappeared, cleverly mapped and simulated onto the outer surfaces of the wrist-fans. Reality vanished at the rim of the fans, and Mia saw virtual images of both her hands extended into twin circles of blue void.
Tucking the touchslate under one arm, Mia left the bathroom and walked to her chosen curtain unit. She stepped inside and shut and sealed the curtain behind her. The fabric stiffened with a sudden top-to-bottom shudder, and the machine woke itself around her. The stiff curtain fabric turned a uniform shade of cerulean. Much more of reality vanished, and Mia stood suspended in a swimming sky blue virtuality. Immersive virtuality—except, of course, for the solid floor beneath her feet, and the ceiling overhead, an insect-elbowed mess of remote locators, tracking devices, and recording equipment.
The fabric curtain was woven from glass fiber, thousands of hair-thin multicolored fiber-optic scan-lines. Following the cues from her false eyelashes, the curtain wall lit up and displayed its imagery wherever Mia’s eyesight happened to rest. Wherever her gaze moved and fell, the curtain was always ahead of her, instantly illuminated, rendering its imagery in a fraction of a second, so that the woven illusion looked seamless, and surrounded her.
Mia fumbled for a jack and plugged in the touchslate. The curtain unit recognized the smaller machine and immediately wrapped her in a three-hundred-and-sixty-degree touchplate display, a virtual abyss of smoky gray. Mia dabbled at the touchscreen with her gloved fingertips until a few useful displays tumbled up from its glassy depths: a cycle tachometer, a clock, a network chooser.
She picked one of San Francisco’s bigger public net gates, held her breath, and traced in Martin Warshaw’s passtouch. The wall faithfully sketched out the scrawling of her gloved fingertip, monster glyphs of vivid charcoal against the gray fabric.
The tracing faded. The curtain unit went sky blue again. Nothing much happened after that. Still, the little tachometer showed processing churning away, somewhere, somehow, out in the depths of the net. So Mia waited patiently.

3.
The truth was starker: she was old. Night cramps were a minor evil. People got very old, and strange new things went wrong with them, and they repaired what the racing and bursting technology allowed them to repair, and what they could not cure they endured. In certain ways, night cramps were even a good sign. She got leg cramps because she could still walk. It hurt her sometimes, but she had always been able to walk. She wasn’t bedridden. She was lucky. She had to concentrate on that: on the luckiness.
Mia wiped her sweating forehead on her nightgown’s sleeve. She limped into the front room. Brett was still asleep. She lay there undisturbed, head on one arm, utterly at peace. The sight of her lying there flooded Mia with déjà vu.
In a moment Mia had the memory in focus, beating at her heart like a moth in a net. Looking in one night at her sleeping daughter. Chloe at five, maybe six years old. Daniel with her, at her side. The child of their love asleep and safe, and happy in their care.
Human lives, her human life. A night not really different from a thousand other nights, but there had been a profound joy in that one moment, an emotion like holy fire. She had known without speaking that her husband felt it, too, and she had slipped her arm around him. It had been a moment beyond speech and out of time.
And now she was looking at a drugged and naked stranger on her carpet and that sacred moment had come back to her, still exactly what it was, what it had been, what it would always be. This stranger was not her daughter, and this moment of the century was not that other ticking moment, but none of that mattered. The holy fire was more real than time, more real than any such circumstance. She wasn’t merely having a happy memory. She was having happiness. She had become happiness.
The hot glow of deep joy had shed its bed of ashes. Still just as full of mysterious numinous meaning. As rich and alive and authentic as any sensation she had ever had. Emotion that would last with her till death, emotion she would have to deal with in her final reckoning. A feeling bigger than her own identity. She felt the joy of it crackling and kindling inside her, and in its hot fitful glow she recognized the poverty of her life.
[…] Mia heard her own voice in the silent air. When the sentence struck her ears, she felt the power of a terrible resolve. An instant decision, sudden, unconscious, unsought, but irrevocable: “I can’t go on like this.”

Tabella riassuntiva

Uno scenario cyberpunk atipico e affascinante. I conflitti centrali del romanzo sono sempre annacquati.
Grande abilità nel mostrato e nella gestione del pov. Gestione distratta degli infodump.
La narrazione è disseminata di invenzioni geniali. Si perde nello pseudo-filosofico e nei discorsi astratti.
Alcuni episodi sono bellissimi. Maya è una Mary Sue.


(1) Questo conflitto, tra parentesi, ricorda quello visto in Vacuum Flowers di Swanwick, dove due donne condividono lo stesso corpo: Rebel Elizabeth Mudlark, la protagonista, e la cinica hacker Eucrasia Welsh. In questo caso, però, si tratta a tutti gli effetti di due persone diverse.
Peccato che Sterling non abbia saputo fare della situazione un elemento di conflitto altrettanto avvicente.Torna su

Cane parlante

Gli Autopubblicati #07: Soldati a Vapore

Soldati a vaporeAutore: Diego Ferrara
Genere: Guerra / Science Fiction / Steampunk
Tipo: Novella

Anno: 2013
Pagine: 105
Editore: Narcissus

Siamo nel 1848, e il Regno d’Italia, guidato da casa Savoia, è in guerra contro l’Austria. Il fronte corre lungo il corso del fiume Mincio, da dove i crauti pianificano la conquista di Milano.
Il soldato semplice Basile serve da un anno nella Squadra Sei delle meccanizzate, e si è già fatto un nome come inetto e lavativo. Sotto lo sguardo sprezzante del tenente Bregoli, Basile trascorre i suoi giorni tra pattugliamenti, assalti notturni e lunghe attese.
Ma come tutti i suoi compagni di reggimento, ha un privilegio: è un pilota di mec. Quando c’è un’operazione importante, può salire a bordo del suo Manzetti, un esoscheletro di tre metri capace, con le sue braccia meccaniche, di sollevare una camionetta e scaraventarla a metri di dstanza. Ma anche i crauti hanno i loro mec – i Krebs, esoscheletri muniti di due lunghi tentacoli che terminano in pinze capaci di aprirti in due come una lattina. E stanno preparando qualcosa di ancora più grosso, aldilà del fiume, qualcosa che richiederà lo spiegamento di tutta la squadra e non solo…

Soldati a Vapore era una delle opere steampunk presentate allo SteamCamp, ed è stato nel programma dell’evento che ne ho sentito parlare per la prima volta. Ma allo SteamCamp sono arrivato preparato: ispirato da questa microrecensione di Taotor, che aveva fatto da betareader, l’ho letto circa una settimana prima dell’evento. E’ un libro che si legge in una giornata. La storia è semplice, e segue alcune settimane della vita della recluta Basile tra i Pulcini della meccanizzata, culminando in un all-out attack contro le linee nemiche.
La storia editoriale di questo libro è interessante. L’editing è stato seguito dall’Agenzia Duca, quella del buon Duchino (ma l’ho scoperto solo alla fine, leggendo i “titoli di coda”), e poi l’autore si è autopubblicato sulla piattaforma Narcissus. Ho poi incontrato Ferrara allo SteamCamp, come ho raccontato nell’ultimo post. Qui ho scoperto che lui è l’uomo dietro ben due dei racconti dell’antologia steampunk organizzata dal Duca (ma mai pubblicata nella versione definitiva): Il Lunasil e Piloti e Nobiltà. Quest’ultimo, in particolare, era a mio avviso il più bello nella rosa dei candidati per il primo posto nel concorso – anche se poi non ha vinto.
Tutto questo per dire che Ferrara è uno che bazzica lo steampunk da qualche anno. Sarà riuscito a produrre una stand-alone di qualità?

Savoia

Loro ci guideranno verso un radioso avvenire. Avanti Savoia!

Uno sguardo approfondito
Primo elemento positivo: Ferrara è bravo a mostrare. E’ attraverso gli occhi e la voce del protagonista, che narra in prima persona, che assistiamo a tutte le vicende della squadra sei. Il mesetto circa in cui si svolge la vicenda è quindi scandito da una serie di scene vivide – il pattugliamento lungo il corso del Mincio, in cerca di crauti, oppure la sortita notturna aldilà delle basse acque del fiume per sorprendere un convoglio di camion che trasportano vettovaglie.
Questo approccio permette a Ferrara di aggirare il problema dell’infodump, che poteva essere spinoso in un’ucronia. Gli elementi peculiari dell’ambientazione – come i Manzetti, i Wanderer, le corazzate Savoia – sono quasi sempre mostrati in azione piuttosto che spiegati a tavolino, e conditi dai commenti della voce narrante; e anche in quelle poche digressioni che in teoria sarebbero ascrivibili all’infodump (come l’incipit sulla zuppa di cervelli), il tono del protagonista gli dà un tono naturale. In ogni caso, Ferrara ci risparmia lezioncine e spiegoni: la situazione politica non ci è mai spiegata, né si scopre come e perché sia avvenuta la divergenza tecnologica rispetto al nostro mondo. La situazione globale, semplicemente, non è importante – importa solo la storia tragicomica della squadra sei.

Basile è un protagonista simpatico; è il classico soldataccio pigro, che vorrebbe solo andarsene in licenza e invece finisce sempre in punizione – forse l’unico tratto poco credibile è che parla in modo troppo “pulito” (non dice parolacce, non fa granché il villano neanche con i suoi parigrado). Non è un pilota di mec eccezionale, e non lo vedremo mai compiere gesta eroiche – e già questo lo distingue dalla massa di protagonisti amorfi di tanta narrativa di genere. Nelle scene di combattimento svolge soprattutto un ruolo di spettatore, il che permette a Ferrara di farcele vedere in modo vivido senza alterare il punto di vista.
Le scene d’azione – che occupano una buona metà del libro – sono riuscite a metà. Da una parte, Ferrara riesce a mantenere l’interesse del lettore inserendo una grande varietà di situazioni diverse, dall’agguato nel buio al combattimento sul fiume, dalla fuga rocambolesca tra i boschi al rissone – non troviamo quelle serie infinite e tediose di scazzottate tutte uguali alla Marstenheim o Barbarian Beast Bitches of the Badlands. Inoltre il pov molto focalizzato fa sì che il lettore si senta più coinvolto. Dall’altro lato, l’anonimato tanto dei nemici – soldataglia o piloti di Krebs tutti uguali – quanto degli alleati, unito al fatto di sapere che il protagonista non morirà, sortiscono l’effetto opposto. Il bilancio finale mi sembra positivo, ma assai migliorabile.

Guerra in trincea

Mi hanno preso molto di più le altre scene, quella di vita quotidiana. C’è una naturalezza, una spontaneità, nei discorsi tra soldati, negli atteggiamenti, che suona sincera, e che mi ha ricordato storie di guerra tragicomiche come Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu o La grande guerra di Monicelli (senza arrivare alla bellezza di nessuno dei due, s’intende, ma l’atmosfera è un po’ quella). Dirò di più: Soldati a vapore ha poco dello steampunk tradizionale – sia quello gonzo-historical alla Infernal Devices, sia quello serio e politico alla The Difference Engine – e assomiglia di più alle “storie del fronte” della Prima Guerra Mondiale. Ci sono mitragliatrici, camionette, c’è la guerra di posizione; gli italiani hanno il solito esercito un po’ straccione, regolarmente a corto di mezzi, e la tronfia retorica militarista; e i soldati sono gente cinica che sa di essere trattata come carne da macello, e che prega la sua buona stella di tornare tutto intero dal prossimo assalto.
Certo, anche su questo fronte si poteva fare di più, molto di più. Alcuni scambi di battute tra soldati suonano goffi, deboli; il loro linguaggio mi sembra troppo poco crudo, troppo da brava gente di città, e anche se fanno battutacce spesso mi sembravano smorzate, poco incisive. Alcune espressioni sono carine ma sembrano fuori posto nel 1848; ad esempio la battuta di un soldato che difende la sua bella: «Giovanna ha smesso con quel lavoro… e comunque lo faceva solo per dare una mano in famiglia. A tempo determinato, chiaro?». I comprimari sono tutti uguali o quasi. Cordino, Ballarin, Lorenzoni – i loro nomi tendono a confondersi, nessuno ha un tratto particolare che li renda memorabili. E dire che sarebbe bastato poco sforzo e poco spazio per renderli più vividi; e quindi, eventualmente, di coinvolgere di più il lettore in caso uno di loro dovesse morire sul fronte. L’unica nota di merito va al tenente Bregoli che, benché sia in fondo il solito stereotipo dell’ufficiale virile e cazzuto, dell’Uomo-Che-Non-Deve-Chiedere-Mai, è incisivo, dice battute stupende e rimarrà vivido nella mia memoria a distanza di mesi e forse anni1.

Pur con questi limiti, Soldati a vapore è una storia carina che si legge con piacere. La prosa è sempre sul pezzo e il ritmo è rapido, non ci sono parole di troppo. Forse si potrebbe rimproverare a Ferrara la mancanza di ambizione: Soldati a vapore è esattamente quello che vi aspettate che sia, una storia di soldataglia e mech, di battaglie e ritirate. Non ci sono colpi di scena o cambi di registro o altro d’inaspettato – what you see is what you get. Che può anche essere un bene; dipende dal gusto del lettore.
In conclusione, la novella di Ferrara è un’opera divertente, che per approccio e argomenti piacerà forse più agli appassionati di racconti di guerra che non ai fan dello steampunk, e che per ambientazione mi ha ricordato più la Prima Guerra Mondiale che non i classici dello steampunk. Il che va benissimo: la varietà è un bene in un genere ancora così giovane e inesplorato (considerato il numero esiguo di opere meritevoli che ha prodotto). Vale sicuramente la pena provarlo, anche considerato il basso prezzo a cui è venduto. E se non siete convinti, provate prima a dare un’occhiata ai due racconti steampunk di Ferrara, andandovi a recuperare la prima (e attualmente unica) versione, non editata, dell’Antologia steampunk del Duca2.

Prima Guerra Mondiale

Le piccole gioie della vita al fronte

Ciò detto, due parole di merito su Ferrara. Avendolo incontrato, ho avuto l’impressione di una persona vogliosa di imparare e di migliorare, e che non si sente “arrivato” perché ha pubblicato qualcosa. Nutro quindi la speranza che possa diventare uno scrittore ancora migliore e produrre cose anche più belle, se ne troverà il tempo e la voglia. E spero di poter mettere le mani, prima o poi, su un romanzo vero e proprio scritto da lui.
Un ultimo “complimenti” a Okamis (Alessandro Canella), che ha realizzato a tempo record la copertina del libro. E’ un piccolo capolavoro, che rispecchia in pieno le sue convinzioni sul modo di fare le copertine più volte espresso sul suo blog.

Dove si trova?
Soldati a Vapore esiste solo in digitale. E’ distribuito su Ultima Books alla cifra irrisoria di 2,49 Euro – una cifra decisamente adeguata al formato novella, forse pure un pelo basso (si poteva fare 2,99 e lo si sarebbe comprato uguale).

Qualche estratto
Il primo estratto viene dall’introduzione, in cui la voce narrante del protagonista spiega all’ignaro lettore la preparazione di una delikatessen del reparto, il brodo di cervello di crauto; il brano è lo stesso proposto da Taotor, ma ho scelto delle parti diverse. Il secondo estratto viene dalla prima vera scena di combattimento del libro – così potete farvi un’idea di come l’autore gestisca le scene d’azione.

1.
La procedura è semplice: si prende un crauto – vivo è molto meglio, ma se proprio non si trova va bene anche morto – e mentre quello piange e strilla nein! Bitte nicht! gli appoggi il bordo di un bossolo da 120 sopra l’orecchio e cominci a menare forte con la mazza da cinque chili. C’è un punto preciso (Costa sa benissimo dov’è) che se lo prendi, con due o tre colpi ben piazzati la calotta cranica del crauto salta via come un tappo di prosecco. Il cervello, sotto, è grigio e bitorzoluto. Bisogna scalzarlo con un grosso cucchiaio e poi tagliare. A questo punto viene fuori parecchio sangue, ma tanto nessuno ci fa caso: stanno tutti lì incantati a vedere quella roba grigia nelle mani di Costa che con aria cerimoniosa la ficca nell’Elmo Potorio, a bagno nella mistura di grappa e olio lubrificante. Stando alle parole del tenente Bregoli, l’olio del Manzetti dovrebbe essere il fottuto sangue nero delle nostre vene. L’Elmo Potorio per noi ha lo stesso valore di un artefatto magico. È la nostra Cornucopia. È il primo pickelhaube catturato dai Pulcini da quando il battaglione è stato assegnato alla zona del Mincio, nel febbraio scorso. Ormai possiede la sua aura di leggenda. Quando non serve per bere il brodo, Costa lo tiene appeso al posto d’onore dietro il banco, insieme a un sacco di altra roba rastrellata sul campo di battaglia: croci di ferro, sciabole, stivali, il cranio di un colonnello crauto di cui non ricordo mai il nome (comunque il cranio è stato ribattezzato Joseph, in onore del sommo bastardo gran comandante di tutti i crauti). Sono cimeli che la compagnia conserva a memoria della sua gloria imperitura. C’è perfino un folgoratore da Wanderer intero, anche se un po’ carbonizzato, che punta il suo naso mortale verso il soffitto. Costa lo adopera come rastrelliera per i bicchieri.
Per finire il discorso, si lascia il cervello del crauto a macerare per mezz’ora, finché non ha preso quel gusto odioso di culo di cane. Un sorso a testa, dice a quel punto Costa (come se ci fosse qualcuno così coglione da scolarselo tutto!) e l’Elmo Potorio passa di mano in mano finché non è stato svuotato. Una volta finito, si butta via il cervello, poi l’Elmo viene sciacquato, asciugato con cura e torna al suo posto dietro il banco.
È così che si fa il brodo da noialtri delle meccanizzate.
Se lo racconti, la gente non ci crede.

Steampunk Tron

2.
Il rombo dei camion fa vibrare il terreno come un principio di terremoto. Compaiono due fari gemelli sormontati da una chioma di vapore ondeggiante. Dietro il primo, si sgrana la colonna dei camion. Procedono serrati nell’oscurità, il muso di uno incollato al cassone dell’altro.
L’inizio dell’attacco è annunciato da uno schianto nel bosco. Il Manzetti di Lorenzoni balza fuori dalla selva, manda zampe all’aria un Krebs e si lancia contro il primo camion centrandolo di spalla nel blocco motore. Il camion sbanda, rotola giù per il pendio e si va a schiantare tra gli alberi. Lorenzoni si ferma in mezzo alla strada, pianta un ginocchio a terra e offre la spalla massiccia del Manzetti al secondo camion. Quest’ultimo non può fare altro che centrarlo: si solleva e poi ricade in un enorme sussulto, uno dei due autisti sfonda il parabrezza e sorvola la testa di Lorenzoni. Gli altri camion si schiantano uno dentro l’altro a fisarmonica. Strilli di paura e dolore si levano nei cassoni.
Corrono fuori anche i Manzetti di Garoglia e De Gregorio, afferrano un camion ciascuno, lo alzano sopra la testa e lo scagliano oltre le fronde degli alberi. Prima di avere il tempo di ripetere l’operazione, tuttavia, i Krebs si gettano su di loro mulinando i tentacoli.
Autisti e passeggeri non hanno ancora avuto il tempo di capire cos’è successo quando apriamo il fuoco. Il sergente Paganin punta la mitragliera sul camion che ha di fronte e lascia partire una raffica. I proiettili si sgranano fluidi dai serbatoi dorsali del suo ESP e disegnano graffi scintillanti nel buio. Sul fianco del camion si apre una fila di fori, le grida si moltiplicano. Poi si mette a sparare anche il resto della squadra e in un baleno sembra arrivato il giorno dell’Apocalisse. Le mitragliere ad alta pressione vomitano una cascata di metallo che attraversa il telo sottile del camion e fa strage dei coscritti ammassati. Lorenzoni solleva il camion che gli si è schiantato contro e lo schiaccia sul camion successivo. Le lamiere si piegano e dai lati schizzano zampilli di sangue. La notte è piena di strilli e richiami. Metà della colonna nemica è già fuori combattimento. Un Krebs discende il pendio a lunghi balzi e si piazza davanti ai soldati in esoscheletro leggero. L’ESP, contro le pinze dei Krebs, offre la stessa protezione di una vestaglia di seta. I miei compagni gli sparano addosso, ma è come se tirassero con le cerbottane: i proiettili scivolano sulla corazza rinforzata senza produrre altro che un sonoro frastuono come di centinaia di martellate.
Il Krebs stacca la testa a uno dei nostri con una pinza, ne impala un secondo con una zampa, bucandogli il torace da parte a parte, lo solleva e lo lancia via nell’oscurità. Gli altri cercano rifugio tra i cespugli ma il Krebs li insegue continuando a uccidere. I coscritti sopravvissuti cominciano a sciamare giù dai camion e ci sono scambi di mitragliate. Una manciata di pallottole mi fischia vicino alla testa. Guardo verso il sergente in cerca d’indicazioni e non lo vedo più. Sparito nella bolgia. I due soldati alla mia destra sono inginocchiati e impegnati a sforacchiare i camion, come ci è stato ordinato. A venti metri, più in giù lungo la colonna, uno dei nostri Manzetti si sta difendendo dall’attacco di tre Krebs, in un groviglio di tentacoli. I rumori fanno sembrare i mec creature viventi. I getti di vapore degli sfiati somigliano a sibili e i cigolii dei perni metallici sono grida di rabbia. Lorenzoni risale la colonna schiantando i camion uno dopo l’altro, e spazzando con le braccia i coscritti, finché un Krebs non gli salta addosso.

Tabella riassuntiva

La vita di un soldato al fronte al tempo dei mech! Scene di combattimento sottosfruttate.
Voce narrante divertente e dal pov saldo. Comprimari tutti uguali e registro non sempre credibile.
Narrazione onesta e dritta al sodo. Plain and simple, pure troppo (forse)
In conclusione: PROMOSSO

(1) Uno dei pezzi più belli del libro sono le parole che Bregoli dice a Basile dopo un certo attacco. Poiché siamo in piena area spoiler le metto in bianco, ma non potevo tacere:

«Basile,» dice.
Non so cosa gli frulla in testa, ma un sorriso conciliatorio dovrebbe andar bene. «Signor tenente… ce l’ha fatta anche lei, eh?»
Un’impercettibile piega di disgusto gli arcua le labbra, sotto i baffi scuri. «Basile, tu sei così lavativo che se anche all’inferno fossero a corto di personale, non ti prenderebbero comunque. Non creperai mai, nemmanco se ti ci impegnassi, e dubito che tu e la parola impegno vi troverete mai sullo stesso continente insieme, fors’anche sullo stesso pianeta. Te ne arrivi di sera come se fossi di ritorno dal bar del paese. E conoscendoti potrebbe anche essere vero…» mi scorre con uno sguardo cinico e quando arriva in fondo gli angoli della sua bocca franano. «…con scarponi da fante ai piedi, perdio.»
«Anch’io sono contento di rivederla, tenente.»
Bregoli scuote la testa e punta lo sguardo oltre le tende. «Sei la vergogna della compagnia, Basile. Unisciti a questi altri disperati e, se riuscite, fate in modo di farvi notare il meno possibile. L’imbarazzo di sapervi miei soldati mi uccide.»
Gira sui tacchi e se ne va, lento come un bastimento.
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(2) Ovviamente questi racconti, non avendo ricevuto editing (se non in modo molto marginale), possono essere indicativi fino a un certo punto della qualità effettiva della prosa dell’autore. Comunque sono una buona approssimazione. E le idee ci sono tutte.Torna su

I Consigli del Lunedì #32: Tau Zero

Tau ZeroAutore: Poul Anderson
Titolo italiano: Tau Zero / Il fattore Tau Zero
Genere: Science Fiction / Hard SF
Tipo: Romanzo

Anno: 1970
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 210 ca.

Difficoltà in inglese: **

“May you have a fortunate voyage and come home safe.”
“If the voyage is really fortunate,” she reminded him, “we will never come home. If we do—” She broke off. He would be in his grave.

Prendiamo una navicella che viaggia nello spazio. Se v è la velocità (uniforme) della navicella, e c la velocità della luce, allora tau equivale a:

Equazione Tau

Più v si avvicina a c, più tau si avvicina a zero. E più tau si avvicina a zero, più la navicella acquisisce massa, maggiore sarà la sfasatura temporale tra l’interno dell’astronave e il mondo all’esterno. Per un membro dell’equipaggio della nave, il tempo scorrerà più lentamente che per coloro che sono rimasti a casa.
Poniamo ora che, in un futuro non troppo lontano dal nostro – un futuro in cui la pace mondiale è stata raggiunta delegando ogni potere politico e poliziesco alla piccola e affidabile Svezia – il governo della Terra organizzi una spedizione spaziale per colonizzare i pianeti della vicina stella Beta Virginis. Questa stella dista trentuno anni luce; ma grazie al Bussard ramjet, un innovativo sistema di propulsione che raccoglie e comprime idrogeno dal medium interstellare fino ad avviare una reazione nucleare, sarà possibile raggiungerla in soli trentatré anni umani, sfiorando la velocità della luce. Inoltre, in virtù della dilatazione temporale, per i membri dell’equipaggio – venticinque uomini e venticinque donne iperselezionati – ne passeranno solo sei.
Tuttavia, i partecipanti sanno benissimo che si tratta di un viaggio di non ritorno. Charles Reymont, ex-colonnello dei Lunar Rescue Corps con un’infanzia di miseria alle spalle, lo fa perché stanco della sua vita e perché sente che nulla lo lega più alla Terra. Ingrid Lindgren, fisica svedese di buona famiglia, lo fa perché fin da piccola sogna le stelle, e non riuscirebbe ad immaginare per sé un futuro diverso da questo. Ma il lungo viaggio e la clausura delle loro vite a bordo della Leonora Christine seminerà dei dubbi nella loro coscienza. E quando uno sfortunato incidente danneggerà la navicella al punto da rendere impossibile invertire l’accelerazione e quindi la costante riduzione del tau, l’intero scopo della missione e il senso delle loro cinquanta vite sarà rimesso in discussione.

Benché in Italia sia poco conosciuto e ancor meno letto, nel mondo anglosassone Tau Zero è considerato uno dei capisaldi dell’Hard SF. Sul solido impianto della relatività generale, Anderson costruisce un device per il viaggio interstellare – il Bussard ramjet – ne trae delle conseguenze fisiche e sociali, e su di questi sviluppa una storia. Come da tradizione della fantascienza hard, Tau Zero non è che una rappresentazione narrativa di una speculazione fantascientifica.
Due sono gli argomenti sviluppati nel romanzo. Il primo è quello propriamente fisico: come funziona il viaggio della Leonora Christine? Quali rischi e quali ostacoli incontreranno i nostri eroi lungo il percorso? E che possibilità ci sono di arrivare a destinazione (o a una qualunque altra destinazione) in seguito all’incidente che impedisce alla nave di ridurre la propria accelerazione? Il secondo è quello sociale: come faranno i cinquanta membri dell’equipaggio a convivere pacificamente per tutti gli anni del viaggio, sopportando il loro isolamento e la consapevolezza di non poter più tornare indietro? Fino a che punto, anche la psiche più equilibrata, più addestrata, più ragionevole, può resistere allo stress di una situazione che sembra senza via d’uscita?

Search for a better planet

Uno sguardo approfondito
L’Hard SF non è mai stato un genere che curi molto lo stile, e Tau Zero non fa eccezione. Anderson, in particolare, è uno degli scrittori più tecnicamente scarsi che abbia mai visto (benché non al livello di bruttura di un Clarke).
I dolori cominciano con la gestione del POV, un bel narratore onnisciente che a seconda della scena si avvicina ai personaggi fino ad entrare nella loro testa, oppure si allontana fino ad osservare l’intera vita dell’equipaggio con uguale distacco. L’approccio generale di Anderson è questo: ampi pezzi raccontati con telecamera distante che descrivono la vita dell’intero equipaggio per lunghi periodi di tempo; intervallati da alcune scene clou in cui la telecamera si avvicina a questo o quel personaggio e al raccontato si mescola un po’ di mostrato. Anche in questi casi, comunque, la voce narrante non si identifica con il personaggio-pov e si riserva la possibilità di spostarsi in qualsiasi momento verso un altro personaggio.
A queste si aggiunge un altro tipo di scena, che Anderson mette all’inizio o alla fine di un capitolo, oppure all’inizio di un paragrafo: la telecamera onnisciente “esce” dalla navicella e ci mostra la Leonora Christine da fuori. In brani quasi più saggistici che narrativi, il narratore ci ‘spiega’ il viaggio della nave: in che punto dello spazio si trovi, come funzioni il motore, quali leggi fisiche abbiano reso possibile la spedizione, che ostacoli stiano per incontrare e quali conseguenze potrebbero comportare per il futuro della missione. E’ in uno di questi brani che ci viene spiegata l’equazione Tau, il rapporto tra velocità, massa dell’astronave e dilatazione del tempo, e l’effetto che tutto ciò ha sull’equipaggio. In questi passaggi di puro infodump, l’immersione crolla, la finzione narrativa viene fatta cadere e Tau Zero si rivela per quello che è: speculazione scientifica con contorno di personaggi.

Benché questi pezzi uccidano il ritmo e siano fatali per la suspension of disbelief, possiedono un certo fascino per chi è appassionato alla materia (cioè, i destinatari ideali del libro): il fascino del professore universitario che ti spiega concetti straordinari e implicazioni inaspettate delle leggi classiche. Fino a un anno fa, sarei forse stato anche incline a ‘perdonare’ questo approccio: sì, è vero che l’autore spezza la narrazione per farti uno spiegone in prima persona, ma lo fa in momenti di cesura (come l’inizio o la fine di un capitolo) e mai in mezzo a un paragrafo, e inoltre non ci sarebbe altro modo di veicolare tutti questi concetti sulla teoria della relatività al neofita (se non attraverso espedienti ancora peggiori, come l’As you know, Bob).
Ma ormai so che non è vero. Quest’ultima affermazione è semplicemente falsa, e può derivare solamente da ignoranza o da pigrizia mentale. Modi plausibili se ne trovano sempre. Dal più banale: il protagonista che, solo nella sua cuccetta o di fronte a un quadro comandi, si abbandona ai suoi pensieri e riflette, malinconico, sul viaggio che sta affrontando, sulla sua destinazione, alle equazioni (che conosce) e così via. Potrebbe anche rivivere la lezione universitaria in cui il suo docente preferito gli spiegava l’equazione del Tau; oppure immaginare di vedere la nave dal di fuori, facendo lui stesso la parte, nei propri pensieri, del narratore onnisciente1. Alle più creative: il protagonista, o un altro dei personaggi-pov, potrebbe decidere di incidere su nastro delle “lezioni” sulla teoria della relatività e rapporti sul loro viaggio: il destinatario potrebbero essere le future generazioni, i suoi discendenti, dei familiari rimasti sulla Terra. E queste sono solo le prime due idee che mi sono venute in mente.
Affidando anche le parte più infodumpose alla voce dei personaggi-pov, integrando ogni spiegone nel corpo della narrazione, trasformando anche uno sguardo ‘impossibile’ come quello della navicella da fuori nell’occhio mentale del protagonista, si mantengono tutti i vantaggi del pov onnisciente senza tutti gli svantaggi di perdita di ritmo e immersività. Quel che voglio dire, è che nella scrittura non bisognerebbe mai fare i pigri ed abbandonarsi alla prima soluzione stilistica che viene in mente: alternative migliori esistono quasi sempre.

Space Core Portal

Tutti pazzi per lo spazio.

Ma Anderson queste cose non le sapeva; e infatti la sua sciatteria colpisce tutto indistintamente. I membri dell’equipaggio sono figure anonime con un cartellino appeso al collo: la xenobiologa con problemi relazionali, il medico rude e buontempone, l’esile cinesina compassata, il vecchio capitano che ne ha viste di cotte e di crude. E dire che Anderson il problema della clausura forzata dei cinquanta passeggeri della Leonora se li è posti; e infatti mette una grande attenzione nello spiegare come sia stata organizzata la vita a bordo della nave, come vengano riempite le ore della giornata, come tutti siano stati addestrati a vincere lo stress, come evolvano nel tempo le dinamiche tra i vari ‘gruppi’ (equipaggio, scienziati, corpo di polizia) e così via. Ma il problema è proprio questo: Anderson spiega. Tutto (o quasi) è raccontato con distacco, e il lettore non se ne sente coinvolto.
Su tutto questo grigiore, Reymont e Lindgren spiccano un poco, con il loro mix di problemi pubblici e privati; ma senza esagerare. In particolare, Reymont è una grande occasione sprecata. Nasce come un personaggio molto ambiguo: un’infanzia difficile alle spalle, vissuta nella povertà e nella violenza, il carattere burbero con cui tiene tutti a distanza, l’alto senso della giustizia, il cinismo del ‘il fine giustifica i mezzi’, unito alla funzione di “capo della security” a bordo della nave. Quando in seguito all’incidente il morale dell’equipaggio precipita e la vita sulla Leonore si fa difficile, spetterà a lui ‘assumere il controllo’ e mantenere l’ordine. Da questa situazione poteva sbocciare una grandissima quantità di conflitti, interiori ed esterni. Reymont poteva finire con l’abusare della sua autorità, come accade ad esempio al poliziotto di The Cube; oppure, pur restando in un certo senso un ‘buono’, avrebbe potuto essere costretto, per il fine superiore di mantenere l’ordine sulla nave, a compiere atti di particolare brutalità (es. sopprimere una rivolta nel sangue?). Ma questo non succede. Certo, scontri ce ne sono – ma nei romanzi di Anderson, il buonsenso prevale sempre.

Ho letto diversi romanzi di Anderson. Si ha come l’impressione che l’autore abbia qualche problema con l’idea di “conflitto”. Come se volesse sempre tenerlo il più basso possibile. Certo, i problemi non mancano, ed anzi, nel corso del romanzo si verifica la giusta escalation drammatica; ma Anderson cerca sempre di risolvere i conflitti il prima possibile, cerca sempre di abbassare i toni, e di non mettere troppa ansia nel lettore. Anche quando danno di matto, i suoi personaggi vengono sempre ricondotti al buonsenso. Ora, non dico che a bordo della Leonora Christine doveva andare a finire come nel condominio di Ballard – non sarebbe neanche stato credibile; ma mi sembra che Anderson ecceda dalla parte opposta.
Il dramma esistenziale dell’equipaggio della Leonora Christine si percepisce, ma sempre mantenendo un certo distacco. Proprio perché si vede la faccenda dal di fuori, e non attraverso gli occhi di un personaggio-pov, il lettore percepisce a livello inconscio che la cosa non lo riguarda personalmente. “Sta accadendo a qualcun altro”: e così ogni emozione viene attutita.

Philosoraptor

Una delle domande di cui Tau Zero potrebbe avere la risposta. Oppure no.

Ma l’Hard SF si misura soprattutto sotto il profilo delle idee – della loro correttezza scientifica, sulla loro genialità, su quanto riescano a meravigliarti. Sul primo punto non mi esprimo, che non ne capisco niente. Quanto al sense of wonder – be’, Tau Zero è un capolavoro. Già il concetto del viaggio generazionale verso una stella lontana, condito dalla spiegazione di come ciò sarebbe fisicamente possibile, era di per sé interessante. La logica del Bussard ramjet, il sistema di propulsione della Leonora Christine (ma che non ha inventato Anderson), è forse la vera protagonista del romanzo.
Ma Anderson è in grado di trasportare tutta la storia su scala mastodontica; e così ci si ritrova a parlare di, e a vivere, spazi tra le galassie, e poi grappoli di galassie, e poi l’origine e la fine ultima dell’Universo, Big Bang, Big Crunch, spazi di tempo talmente grandi da essere incommensurabili… i concetti in gioco sono talmente grandi, talmente incredibili, che a un certo punto mi sono venute le lacrime agli occhi. E’ vero, la prosa è quello che è, ma c’è della vera epica cosmica là in mezzo, e Anderson è in grado di fartela provare – basta avere pazienza e sopportare la sciatteria generale. Il finale è straordinario, e si chiude il libro con una certa serenità, e la sensazione di essersi arricchiti in qualche modo.

Scritto da mani più esperte, Tau Zero poteva diventare uno dei grandi capolavori della fantascienza. Anche così, rimane un bel romanzo, e si conquista un posto nella Top 30 dei miei romanzi preferiti. E se la parte psicologico-sociale soffre particolarmente l’incapacità di Anderson di dare vita ai suoi personaggi, la parte più, diciamo, ‘astrofisica’ se la cava dignitosamente.
Certo, non è un libro per tutti; bisogna innanzitutto avere passione per l’argomento ed essere pronti a sorbirsi un po’ di fisica for dummies, non sempre facilissima. Credo comunque che l’audience di Tau Zero sia più ampio di quello di Mission for Gravity – l’ultimo Hard SF di cui mi sono occupato – se non altro per la generalità e l’ordine di grandezza delle idee coinvolte; sebbene i personaggi del romanzo di Clement siano probabilmente più interessanti.

Bussard ramjet

Una rappresentazione artistica del Bussard ramjet.

Su Anderson
Poul Anderson è uno degli scrittori più prolifici della narrativa fantastica; quanto a numero di romanzi pubblicati, fa impallidire anche grafomani conclamati come Philip Dick o Moorcock. E come Dick e Moorcock, la qualità dei lavori è parecchio altalenante (e lo stile oscilla sempre tra il mediocre e il pessimo). Tra i romanzi suoi che ho letto, ecco i più interessanti:
The High Crusade The High Crusade (Crociata spaziale) è un romanzetto farsesco con una premessa geniale: a metà del Trecento, mentre Edoardo III d’Inghilterra prepara l’invasione della Francia, una navicella aliena atterra in un ameno villaggio del Lincolnshire. Gli alieni hanno intenzioni ostili, ma contro ogni aspettativa Sir Roger de Tourneville, signore del luogo, e i suoi uomini sterminano gli invasori e si impossessano della nave. E’ l’inizio di una crociata che porterà i fanatici cavalieri di Sir Roger alla conquista della galassia. High Crusade è divertentissimo, benché sia in larga parte rovinato dallo stile stra-raccontato e spesso riassunto, che a tratti fa sembrare la storia più un canovaccio di trama che un romanzo vero e proprio.
There Will Be Time There Will be Time (Tempo verrà), un romanzo sui viaggi nel tempo. Jack Havig è nato col dono di potersi spostare, col solo esercizio della volontà, avanti e indietro nel tempo;
ma quando si imbarcherà in un viaggio alla ricerca dei suoi simili, scoprirà di una catastrofe che sta per distruggere la nostra civiltà e di un’organizzazione di viaggiatori intenzionata a diventare la guida del nuovo mondo. Nonostante l’argomento interessante e i continui spostamenti tra passato e futuro, il libro ha spesso poco mordente. Anderson fa la scelta ottocentesca di filtrare la narrazione attraverso il pov di un personaggio marginale (il medico di famiglia del protagonista, a cui Havig racconta le sue vicende); la mole di raccontato, i riassuntoni e la sciattezza generale fanno il resto.
Fire Time Fire Time racconta la storia di Ishtar, un bizzarro pianeta che orbita attorno a tre stelle contemporaneamente. Ogni cinquecento anni la stella Anu si avvicina troppo al pianeta, scatenando un riscaldamento infernale che puntualmente distrugge la civiltà indigena. Ora la stella si sta avvicinando di nuovo, ma i terrestri sono arrivati sul pianeta e potrebbero cambiare le cose – se non fosse che si sta scatenando una guerra interplanetaria. Fire Time è una storia corale che intreccia Hard SF, romanzo politico e di guerra, con un sacco di idee affascinanti su xenobiologia, fisica, evoluzionismo. Purtroppo lo stile un po’ piatto, i personaggi non memorabili, l’eccessivo buonismo e la strana tendenza di Anderson di ridurre sempre al minimo ogni fonte di conflitto lo rendono a tratti noioso. Peccato – poteva essere un altro capolavoro!
Poul Anderson rimane uno scrittore interessante, benché di serie B. Gli altri suoi romanzi che vorrei leggere: il fantasy shakespeariano A Midsummer TempestThe Boat of a Million Years e forse (un grande ‘forse’) il fantasy epico The Broken Sword.

Dove si trova?
Come detto in apertura di articolo, Tau Zero è un romanzo estremamente popolare oltreoceano. Di conseguenza, si trova facilmente su qualunque canale: Bookfinder e Library Genesis per l’edizione in lingua originale, Emule per quella italiana.

Qualche estratto
Come primo estratto ho scelto in realtà un brano abbastanza avanti nel romanzo. E’ la digressione pseudo-saggistica cui ho accennato in apertura d’articolo, in cui Anderson spiega il significato del valore ‘tau’ e la logica del viaggio della Leonora Christine. Il secondo estratto ci riporta al primo capitolo; una scena in cui Reymont e la Lingren si confrontano sulle ragioni che li hanno portati a decidere di partire, e abbandonare la loro Terra per sempre…

1.
 A year after she started, Leonora Christine was close to her ultimate velocity. It would take her thirty-one years to cross interstellar space, and one year more to decelerate as she approached her target sun.
But that is an incomplete statement. It takes no account of relativity. Precisely because there is an absolute limiting speed (at which light travels in vacuo; likewise neutrinos) there is an interdependence of space, time, matter, and energy. The tau factor enters the equations. If v is the (uniform) velocity of a spaceship, and c the velocity of light, then tau equals

Equazione Tau

The closer that v comes to c, the closer tau comes to zero.
Suppose an outside observer measures the mass of the spaceship. The result he gets is her rest mass — i.e., the mass that she has when she is not moving with respect to him — divided by tau. Thus, the faster she travels the more massive she is, as regards the universe at large. She gets the extra mass from the kinetic energy of motion; e=mc^2.
Furthermore, if the “stationary” observer could compare the ship’s clocks with his own, he would notice a disagreement. The interlude between two events (such as the birth and death of a man) measured aboard the ship where they take place, is equal to the interlude which the observer measures … multiplied by tau. One might say that time moves proportionately slower on a starship.
Lengths shrink; the observer sees the ship shortened in the direction of motion by the factor tau.
Now measurements made on shipboard are every bit as valid as those made elsewhere. To a crewman, looking forth at the universe, the stars are compressed and have gained in mass; the distances between them have shriveled; they shine, they evolve at a strangely reduced rate.
Yet the picture is more complicated even than this. You must bear in mind that the ship has, in fact, been accelerated and will be decelerated in relation to the total background of the cosmos. This takes the whole problem out of special and into general relativity. The star-and-ship situation is not really symmetrical. The twin paradox does not arise. When velocities match once more and reunion takes place, the star will have passed through a longer time than the ship did.
If you ran tau down to one one-hundredth and went into free fall, you would cross a light-century in a single year of your own experience. (Though, of course, you could never regain the century that had passed at home, during which your friends grew old and died.) This would inevitably involve a hundredfold increase of mass. A Bussard engine, drawing on the hydrogen of space, could supply that. Indeed, it would be foolish to stop the engine and coast when you could go right on decreasing your tau.
Therefore, to reach other suns in a reasonable portion of your life expectancy: Accelerate continuously, right up to the interstellar midpoint, at which point you activate the decelerator system in the Bussard module and start slowing down again. You are limited by the speed of light, which you can never quite reach. But you are not limited in how close you can approach that speed. And thus you have no limit on your inverse tau factor.
Throughout her year at one gravity, the differences between Leonora Christine and the slow-moving stars had accumulated imperceptibly. Now the curve entered upon the steep part of its climb. Now, more and more, her folk measured the distance to their goal as shrinking, not simply because they traveled, but because, for them, the geometry of space was changing. More and more, they perceived natural processes in the outside universe as speeding up.
It was not yet spectacular. Indeed, the minimum tau in her flight plan, at midpoint, was to be somewhat above 0.015. But an instant came when a minute aboard her corresponded to sixty-one seconds in the rest of the galaxy. A while later, it corresponded to sixty-two. Then sixty-three … sixty-four … the ship time between such counts grew gradually but steadily less … sixty-five … sixty-six … sixty-seven…

Un anno dopo la partenza, la Leonora Christine aveva quasi raggiunto la sua massima velocità. Le ci sarebbero voluti trentun anni per attraversare lo spazio interstellare, e un anno in più per decelerare mentre si avvicinava al sole che rappresentava il suo obiettivo.
Ma questa è un’affermazione incompleta, che non tiene conto della relatività. Proprio perché la velocità assoluta non può superare un certo limite (rappresentato dalla velocità con cui la luce viaggia in vacuo; e ciò varrebbe anche per i neutrini) c’è un’interdipendenza tra spazio, tempo, materia ed energia. Nelle equazioni entra il fattore tau. Se v è la velocità (uniforme) di un’astronave e c la velocità della luce, allora tau è uguale a:

Equazione Tau

Quanto più i valori di v si avvicinano a quelli di c, tanto più tau tende a zero.
Supponiamo che un osservatore esterno misuri la massa di un’astronave. Il risultato che ottiene è la massa a riposo ― cioè la massa che l’astronave ha allorché non si muove rispetto a lui ― divisa per tau. Così, quanto più velocemente si muove l’astronave, tanto maggiore è la sua massa, per quanto riguarda l’universo in generale. Ricava l’eccedenza di massa dall’energia cinetica: e = mc2.
Inoltre, se l’osservatore «fisso» potesse controllare gli orologi dell’astronave e compararli al suo, noterebbe uno sfalsamento. Il periodo di tempo trascorso tra due avvenimenti (per esempio, la nascita e la morte di un uomo), misurato a bordo della nave dove questi avvenimenti si sono verificati, è uguale al periodo di tempo misurato dall’osservatore… moltiplicato per tau. Si potrebbe perciò dire che il tempo si muove proporzionalmente più a rilento su un’astronave.
Anche le misure di lunghezza si contraggono; l’osservatore vede l’astronave accorciata, nella direzione del moto, dal fattore tau.
Ora le misurazioni fatte a bordo di un’astronave sono altrettanto valide, in tutto, di quelle fatte altrove. A un cosmonauta, che guardi l’universo davanti a sé, le stelle appaiono compresse e la loro massa risulta aumentata; le distanze tra loro si sono ridotte; esse scintillano e si muovono a un ritmo stranamente ridotto.
Eppure la situazione è ancora più complicata di così. Bisogna tenere bene a mente che l’astronave, in effetti, è stata accelerata e sarà decelerata in relazione a tutto il cosmo che le fa da sfondo. Ciò fa rientrare l’intero problema nell’ambito della teoria generale della relatività. La situazione stelle-astronave non è realmente simmetrica. Il paradosso dei gemelli non si verifica. Quando le velocità si uguagliano ancora una volta e avviene la riunione, per la stella sarà trascorso un tempo più lungo di quello trascorso per l’astronave.
Se il fattore tau si riduce a un centesimo e l’astronave procede in caduta libera, un secolo-luce verrà percorso in un solo anno di vita degli astronauti (sebbene, naturalmente, non si potrà più riguadagnare il secolo che è trascorso sulla Terra, durante il quale gli amici degli astronauti saranno invecchiati e morti). Ciò comporterà inevitabilmente un aumento della massa di cento volte. Un motore Bussard, sfruttando l’idrogeno dello spazio, poteva produrre un simile effetto, ma sarebbe stato folle fermare il motore e proseguire con moto inerziale quando si poteva ottenere la stessa cosa facendo decrescere il fattore tau.
Perciò, raggiungere altri soli è una parte ragionevole della speranza di vita: tanto vale accelerare continuamente, fino al punto intermedio interstellare, dopodiché si attiverà il deceleratore. C’è il limite imposto dalla velocità della luce, che non si può quasi mai raggiungere. Ma non c’è limite all’approssimarsi quanto più è possibile a tale velocità. Così non si hanno limiti per quanto riguarda l’inverso del fattore tau.
Nonostante l’anno trascorso a gravità uno, le differenze tra la Leonora Christine e le stelle che si muovevano lentamente si erano accumulate impercettibilmente. Adesso la curva si accingeva ad affrontare la parte più ripida della sua discesa. Ora, sempre più la distanza che divideva gli astronauti dal loro obiettivo sembrava loro come contratta, non soltanto perché viaggiavano, ma perché, per loro, la geometria dello spazio stava cambiando. Sempre più gli astronauti si rendevano conto di quanto i processi naturali nell’universo esterno si stessero sviluppando con maggior velocità.
Non era ancora niente di spettacolare. Anzi, il valore minimo di tau nel piano di volo dell’astronave era, al punto intermedio, intorno a 0,015. Ma arrivò un momento in cui un minuto a bordo dell’astronave corrispondeva a sessantun secondi nel resto della galassia. Un po’ più tardi, corrispondeva a sessantadue. Poi a sessantatré… sessantaquattro… il tempo dell’astronave tra tali conteggi cresceva gradualmente ma sistematicamente… sessantacinque… sessantasei… sessantasette…

Red Bull Space Program

2.
 “I … thought you might be lonely. You have no one, have you?”
“No relatives left. I’m only touring the fleshpots of Earth. Won’t be any where we are bound.”
Her sight lifted again, toward Jupiter this time, a steady tawny-white lamp. More stars were treading forth. She shivered and drew her cloak tight around her, against the autumnal air. “No,” she said mutedly. “Everything alien. And when we’ve hardly begun to map, to understand, that world yonder — our neighbor, our sister — to cross thirty-two light-years—”
“People are like that.”
“Why are you going, Carl?”
His shoulders lifted and dropped. “Restless, I suppose. And frankly, I made enemies in the Corps. Rubbed them the wrong way, or outdistanced them for promotion. I was at the point where I couldn’t advance further without playing office politics. Which I despise.” His glance met hers. Both lingered a moment. “You?”
She sighed. “Probably sheer romanticism. Ever since I was a child, I thought I must go to the stars, the way a prince in a fairy tale must go to Elf Land. At last, by insisting to my parents, I got them to let me enroll in the Academy.”
[…] He managed to keep the talk inconsequential while he nosed into Strцmmen, docked the boat, and led her on foot across the bridge to Old Town. Beyond the royal palace they found themselves under softer illumination, walking down narrow streets between high golden-hued buildings that had stood much as they were for several hundred years. Tourist season was past; of the uncounted foreigners in the city, few had reason to visit this enclave; except for an occasional pedestrian or electrocyclist, Reymont and Lindgren were nearly alone.
“I shall miss this,” she said.
“It’s picturesque,” he conceded.
“More than that, Carl. It’s not just an outdoor museum. Real human beings live here. And the ones who were before them, they stay real too. In, oh, Birger Jarl’s Tower, the Riddarholm Church, the shields in the House of Nobles, the Golden Peace where Bellman drank and sang — It’s going to be lonely in space, Carl, so far from our dead.”
“Nevertheless you’re leaving.”
“Yes. Not easily. My mother who bore me, my father who took me by the hand and led me out to teach me constellations. Did he know what he was doing to me that night?” She drew a breath. “That’s partly why I got in touch with you. I had to escape from what I’m doing to them. If only for a single day.”

― Io… pensavo che lei avrebbe potuto sentirsi solo. Lei non ha nessuno, vero?
― Non mi è rimasto alcun parente. Sto facendo un giro turistico per visitare i bordelli della Terra. Non ce ne saranno, là dove siamo diretti.
Gli occhi di lei si alzarono di nuovo, questa volta in direzione di Giove, un lume fisso di colore bianco-bruno. Altre stelle si stavano facendo avanti. Lindgren fu scossa da un brivido e si serrò più strettamente il soprabito intorno al corpo, come per difendersi dall’aria autunnale. ― No ― disse con voce bassa. ― Ogni cosa ci sarà estranea. E ora che abbiamo appena cominciato a tracciare una mappa di quel mondo lassù, a capirlo ― il nostro vicino, la nostra sorella ― un viaggio di trentadue anni-luce…
― La gente è fatta così.
― Perché lei ha deciso di venire, Carl?
L’uomo alzò e abbassò le spalle. ― Sono un individuo irrequieto, suppongo. E, per essere sincero, mi son fatto alcuni nemici nel Corpo di Salvataggio. Ho lisciato loro il pelo dalla parte sbagliata o li ho lasciati troppo indietro per via delle mie promozioni. Ero giunto a un punto morto: non avrei potuto avanzare oltre senza mettermi a brigare tra le quinte. Cosa che disprezzo. ― Lo sguardo di Reymont incontrò quello della donna. Per un attimo indugiarono a guardarsi l’un l’altra negli occhi. ― E lei?
Ingrid sospirò. ― Probabilmente, per puro e semplice romanticismo. Fin da quando ero bambina pensavo di dover andare sulle stelle, nello stesso modo in cui un principe in un racconto di fate deve andare alla terra degli Elfi. Alla fine, dopo aver molto insistito con i miei genitori, li ho convinti a lasciarmi iscrivere all’Accademia.
[…] Reymont tentò di mantenere la conversazione su un piano di assoluta banalità mentre si infilava nello Strömmen, attraccava a riva l’imbarcazione e si avvicinava con la donna a piedi attraverso il ponte che portava alla città vecchia. Superato il palazzo reale si trovarono in una zona illuminata in modo più blando, e camminarono per stradine strette fiancheggiate da edifici dalle facciate color dell’oro che erano rimaste sempre eguali da alcune centinaia d’anni. La stagione turistica era ormai finita; degli innumerevoli forestieri che ospitava la città, pochi avevano ragioni per visitare quel lembo di terra sperduto; fatta eccezione per qualche occasionale pedone o elettrociclista, Reymont e Lindgren erano praticamente soli.
― Mi mancherà tutto questo ― disse la donna.
― È uno spettacolo pittoresco ― concesse Reymont.
― È più di questo, Carl. Non è soltanto un museo all’aperto, perché qui vivono reali esseri umani. E coloro che hanno preceduto gli attuali abitanti è come se vivessero ancora. Oh, la Torre di Birger Jarl, la chiesa di Riddarholm, gli scudi della Casa dei Nobili, la Pace d’Oro dove Bellman bevve e cantò… Ci sentiremo soli nello spazio, Carl, così lontani dai nostri morti.
― Eppure lei sta per partire.
― Sì. Ma non è facile. Mia madre che mi ha partorito, mio padre che mi prendeva per mano e mi portava fuori all’aperto per insegnarmi a riconoscere le costellazioni. Quella prima notte, si sarà reso conto di ciò che stava facendo? ― Trasse un profondo respiro. ― In parte è per questo che mi sono messa in contatto con lei. Dovevo fuggire da ciò che sto facendo loro. Anche se per un solo giorno.

Tabella riassuntiva

Un’avventura interstellare che coinvolge il destino ultimo dell’Universo! Narratore onnisciente e “raccontato” a chili.
Speculazione realistica sulla possibilità di viaggiare a velocità luce. Digressioni infodumpose che spezzano il ritmo.
Un dramma esistenziale sugli equipaggi delle astronavi. Personaggi piatti e conflitto tenuto sempre al minimo.

(1) Non è così strano che una persona pensi e ripensi, anche nel dettaglio, a fatti e concetti così gravidi di conseguenze per la sua vita, considerando anche tutto il tempo libero che hanno i membri dell’equipaggio: è una cosa che facciamo tutti.Torna su

I Consigli del Lunedì #31: Farewell Horizontal

Farewell HorizontalAutore: K. W. Jeter
Titolo italiano: L’addio orizzontale
Genere: Science Fiction / Social SF / Distopia / Cyberpunk
Tipo: Romanzo

Anno: 1989
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 260 ca.

Difficoltà in inglese: ***

In un remoto futuro che ha perso il ricordo del proprio passato, l’intera umanità vive chiusa nel Cilindro, una gigantesca torre cilindrica le cui fondamenta si perdono sotto le nuvole. Ny Axxter è un artista freelance che per non perdere la propria libertà si è trasferito sulla superficie esterna del grattacielo. La società del Cilindro, infatti, è dominata dalle supercorporazioni della tecnologia e delle comunicazioni; essere assunti da una di esse significa firmare un contratto a vita che trasforma in poco più che schiavi, con orari di lavoro estremi e libertà di movimento quasi inesistente. Coloro che non accettano questo compromesso hanno una sola possibilità: abbandonare l’orizzontale e andarsene a vivere sulla verticale.
Ma quella del freelance è una lotta contro la fame. Axxter si guadagna da vivere creando simboli e animazioni di guerra per le tribù della verticale – clan guerreschi che competono per la vita e la posizione sociale e vengono quotati nella Borsa delle corporation. Ma il suo agente è un incapace (nonché un truffatore che gli frega una percentuale più alta di quella dovuta), e tutte le tribù con cui gli stila dei contratti si rivelano dei fallimenti. Finché ad Axxter capita l’occasione di una vita; l’opportunità di legarsi a uno dei più forti clan della verticale e assicurarsi un futuro di prosperità, proprio mentre nel Cilindro si prepara una grandiosa rivoluzione…

Nella narrativa di genere, Jeter è sempre stato un autore di secondo piano; di lui si è detto spesso che è il successore di Dick, ma viene letto poco. Non ha mai vinto grandi premi, e la maggior parte dei suoi libri sono andati fuori stampa. Si è guadagnato un piccolo posto nella storia della fantascienza come l’inventore del termine ‘steampunk’, e grazie alla recente rinascita del movimento è stato riscoperto come pioniere del genere (e di questo dobbiamo anche ringraziare la Angry Robot, che ha ripubblicato nel 2011 l’orrido Morlock Night e il divertente Infernal Devices).
Ma Jeter è prima di tutto uno scrittore di cupa Science Fiction, e di un tipo molto particolare di cyberpunk. Farewell Horizontal – che ritengo, e non sono il solo, il miglior libro di Jeter – ne è un esempio calzante: una storia di sopravvivenza e cinismo in un mondo alieno, sul confine tra romanzo d’azione, slice of life cyberpunk e metafisica. La domanda è: sarà riuscito a tenere tutto insieme?

Parkour

Qualcosa del genere.

Uno sguardo approfondito
Il romanzo è scritto in terza persona, ma il pov è fissato per tutto il romanzo sul protagonista – tutto è filtrato attraverso la sua cinica voce narrante. Ny Axxter è il tipico protagonista delle storie non-steampunk di Jeter: un tipo che dalla vita ne ha prese tante, e quindi è diventato disilluso e scazzato; un egocentrico e ipocrita, che a parole fa la vittima ma poi non esiterebbe a pugnalare i suoi colleghi per salire qualche gradino della scala sociale; un tipo con una certa vena autodistruttiva e la tendenza a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato, in un modo che ricorda i protagonisti dickiani. Insomma – un vero antieroe, che però è talmente perseguitato dalle sfighe che non può non suscitare empatia e una certa immedesimazione. E in questo aiuta una certa dose di ironia, un tono leggero e sarcastico nel raccontare il susseguirsi di disavventure che toglie pesantezza al cinismo della storia.
A livello di prosa, Jeter si piazza nella fascia alta degli scrittori di genere – un gradino sotto virtuosi come Mellick o VanderMeer, ma sopra Finney, Asimov e la maggior parte degli altri. Anche Jeter gioca a volte a fare l’intellettualoide dalle frasi ricercate, come tutti o quasi gli scrittori New Wave, ma molto meno di uno snob come Gibson, e in questo romanzo meno che negli altri. Soprattutto, è un buon mostratore. Il mondo di Farewell Horizontal è stranissimo, pieno di idee bizzarre e difficile da visualizzare; ma Jeter riesce a illustrarlo mantenendo gli infodump al minimo. Ogni nuovo gadget o caratteristica del Cilindro è descritta in azione, accompagnato (e non sempre) da poche righe di spiegazione nel timbro naturale del protagonista.

Soprattutto, la prosa di Jeter è in grado di trasmettere la sensazione, l’ebbrezza di vivere su una superficie verticale. Per gran parte del romanzo, Axxter si muove lungo la superficie esterna del Cilindro, assistito dagli snakes, cavi metallici con ganci intelligenti che gli partono da piedi, gambe e cintura e, conficcandosi e sconficcandosi nel muro, gli permettono di spostarsi. Ma i cavi fanno molto di più; per esempio, si trasformano in una sorta di culla-branda agganciata al muro per permettergli di dormire. Jeter deve descrivere al lettore tutta una serie di movimenti e gesti molto complicati e innaturali, oltre che tenere costantemente conto degli effetti della forza di gravità, dell’afflusso sanguigno, eccetera.
Una cosa del genere, nelle mani di uno scrittore non all’altezza, poteva trasformarsi in un guazzabuglio visivamente incomprensibile oppure spegnersi in un romanzo trascurato, dove solo ogni tanto l’autore si ricorda di essere in verticale anziché in orizzontale. Invece, in Farewell Horizontal, anche nei momenti più concitati – e ci sono un paio di scene d’azione piuttosto complesse – si capisce cosa sta succedendo, si riesce a visualizzare la scena. E Jeter è molto preciso nella descrizione dei movimenti, al punto da mostrare come Ny redistribuisca il peso quando passa dalla posizione “culla” alla posizione in piedi.
Certo, neanche Jeter si risparmia alcuni errori da principiante. In un paio di occasioni, durante scene d’azione, apre delle parentesi di spiegazione che, benché brevi e filtrate dall’io narrante, arrivano al lettore come un pugno in un occhio. Più spesso, Axxter si mette a riflettere e a sviscerare ciò che gli sta accadendo, e diventa logorroico: tripudio di domande retoriche (ma allora stava succedendo così e così? O volevano fargli questo e quell’altro? Davvero lui aveva pensato di poter…? Come aveva potuto essere così sciocco?), dubbi, avvenimenti rianalizzati a poche pagine di distanza alla luce di un solo nuovo elemento. Forse Jeter voleva semplicemente caratterizzare meglio il suo antieroe, mostrandoci le sue ansie e la sua umanità – o, pensiero peggiore, è un’operazione scemo-friendly per ricapitolare e far capire anche ai lettori inetti cosa esattamente stia succedendo – ma facendo così diventa pesante e ridondante.

Il cavallo che non volle piegarsi al sistema.

Come ritmo e gestione della trama, il romanzo ha luci e ombre. La storia parte molto in sordina; i primi capitoli introducono l’ambientazione e i problemi finanziari (ed esistenziali) del protagonista, ma non è chiaro dove l’autore voglia andare a parare. Solo le continue trovate e la ricchezza del mondo di Farewell Horizontal fanno superare al lettore l’inerzia di questa cinquantina abbondante di pagine. Dopo i primi quattro capitoli la storia finalmente decolla – la direzione del romanzo diventa più chiara, il ritmo si fa serrato; salvo poi rallentare nell’ultima parte del romanzo e finire in maniera del tutto anticlimatica.
Il problema sta forse nel fatto che Jeter cerca di conciliare in questo romanzo tre anime diverse, senza riuscirci davvero. C’è il romanzo d’azione: inseguimenti rocamboleschi, pestaggi, esplosioni, Axxter che deve di volta in volta trovare l’escamotage per non rimetterci il collo. Poi c’è il romanzo esistenziale: il dramma dell’outcast, dell’artista di strada alla ricerca della felicità in un mondo cinico che non lo ama, e che probabilmente è un’allegoria di quella che a Jeter pareva essere la propria vita. E il romanzo metafisico, che punta al sense of wonder attraverso la stranezza dell’ambientazione, l’enorme Cilindro semi-disabitato di cui non si sa chi l’abbia costruito, quanto sia lungo, chi ne abiti le profondità. Queste anime si giustappongono l’una all’altra per tutto il romanzo, ma non si amalgamano mai molto tra di loro; e nessuna di queste raggiunge un epilogo davvero soddisfacente.

Prendiamo l’ambientazione. Le idee fighe abbondano, a partire dalla vita quotidiana di chi vive sulla verticale. Moto truccate munite di serpenti alle ruote, per viaggiare velocissimi seguendo i cavi-guida posti negli snodi più importanti del Cilindro dall’amministrazione centrale; prese nei muri che permettono agli outcast di collegarsi alla rete per scaricare le notizie del giorno e mappe GPS che danno la posizione delle bande guerriere lungo la verticale. La rete di Farewell Horizontal è qualcosa di molto più rudimentale del nostro Internet; assomiglia alla rete telefonica degli anni ’50, con un centralino che filtra tutte le richieste, e i servizi che sono tutti a pagamento. Ma attraverso la rete si può anche proiettare la propria coscienza in ologrammi in qualsiasi punto del Cilindro. E ci sono pure gli hacker, maghi della rete capaci di impossessarsi dei corpi della gente loggata e controllarli come marionette; ma la concezione di Jeter degli hacker e della loro genialità è un po’ diversa (e più cinica) rispetto a quella di un Gibson o di uno Sterling.
Poi ci sono gli angeli, creature umanoidi, eteree e dall’intelligenza rudimentale, che si tengono lontane dagli uomini ma che talvolta possono essere viste volteggiare attorno al Cilindro, mentre scopano a mezz’aria con i loro simili. O i Dead Centers, creature luciferine che nessuno ha mai visto in faccia, di cui si dice che vivano murati al centro del Cilindro e che attraverso le pareti tentino gli esseri umani ad aprirgli con le loro lusinghe; e che talvolta si manifestano con enormi esplosioni che cancellano interi settori e aprono ferite fumanti sulla verticale. O l’altro lato del Cilindro, quello dove il sole tramonta, e che nessuno ha mai mappato perché nessuno ne è mai tornato. E una marea di altre trovate, calate in un mondo dove tutti ti vogliono fregare e i primi a pugnalarti alle spalle sono i tuoi collaboratori più stretti.

Questa è più o meno la stima che Jeter ha degli hacker.

Eppure… eppure si arriva alla fine del libro con l’amaro in bocca. Troppe le domande lasciate senza risposta, troppe le idee interessanti abbandonate a sé stesse subito dopo essere state introdotte, troppe le false piste che si aprono nel corso della storia e finiscono nel niente. Anche in Rendezvous with Rama si scopre ben poco sulla navicella aliena che ha invaso il Sistema Solare; ma nel romanzo di Clarke, il senso di irrisolto fa parte di quel che l’autore voleva dire, ha un senso nell’economia della storia – insomma, va bene così. In Farewell Horizontal, l’impressione è invece quella di incompiuto, di lasciato a metà, come se semplicemente Jeter non avesse più nulla da dire, non sapesse più che farsene del suo Cilindro.
E come la componente metafisica lascia insoddisfatti, così anche le altre. Nonostante il continuo crescendo di azione e di tensione tra i vari personaggi del romanzo, non si arriva mai a un epico scontro finale. Né, alla fine, l’eroe trova delle risposte alla sua ricerca interiore di felicità – anche se forse la componente “esistenziale” del romanzo trova un epilogo un po’ più degno delle altre. Forse.

Insomma, come accade quasi sempre in Jeter, il romanzo parte pieno di ambizioni per poi afflosciarsi, come direbbe il Duca, come il pisello di un vecchio. E’ una di quelle storie che piace di più a metà o a tre quarti, che quando si arriva all’ultima riga. Col che non voglio dire che sia un brutto romanzo; solo, che poteva essere un capolavoro e invece si limita ad essere sopra la media.
Di sicuro è un romanzo originale. Implementa molto del cyberpunk, ma lo fa in modo tutto suo, calandolo in un’ambientazione atipica e con toni molto meno “libertari” di quelli tipici del genere. E’ anche un romanzo che, per tono, concentrato di idee, protagonista e comprimari, ricorda da vicino la Bizarro Fiction, pur restando sempre troppo controllato per diventare Bizarro. Potrebbe essere il cugino più soft e più intellettuale di Warrior Wolf Women of the Wasteland di Mellick (al quale lo preferisco!). Agli amanti della Bizarro meno pop e del New Weird dovrebbe piacere a prima vista.
Ed è uno di quei libri che non si può dimenticare di aver letto. Anche a distanza di anni, continuerà a evocare immagini nella mia testa, ne sono sicuro – l’immagine di artisti sfigati che camminano sulla superficie verticale di un cilindro infinito, sullo sfondo delle nuvole gialle della luce dell’alba, con serpenti metallici che gli escono dalle scarpe, alla ricerca di una presa internet in cui pluggarsi, inseguiti da orde di omaccioni borchiati e tatuati in motocicletta. Come dice un recensore su Amazon: se volete leggere un romanzo di K.W. Jeter, leggete questo.

Star Wars - The Mandalorian Armor

Nella sua vita, Jeter ha dovuto ingoiare molti bocconi amari.

Dove si trova?
Purtroppo Farewell Horizontal in lingua originale non si trova piratato, ma può essere acquistato in formato kindle su Amazon, nell’edizione Herodiade, alla dignitosissima cifra di 3,62 Euro. Se riuscite a guardare la copertina senza che vi esplodano gli occhi, ovvio.
In compenso, su Emule ho trovato diversi file dell’edizione italiana (“L’addio orizzontale”), nei formati ePub, mobi, pdf, doc, rtf.

Su Jeter
Anche se ci sono scrittori migliori di lui sulla piazza, Jeter meriterebbe più notorietà di quella che ha, e soprattutto ci vorrebbero più sue opere digitalizzate. Tra i libri suoi che ho letto ci sono luci e ombre, ma più le prime che le seconde. Eccoli:
Dr. AdderDr. Adder è il primo romanzo scritto da Jeter, benché non sia il primo pubblicato. Realizzato nel 1972 (dodici anni prima della pubblicazione di Neuromante), fu definito da Dick il primo vero Cyberpunk, ma gli editori l’avrebbero respinto per anni perché eccessivamente scabroso. In un prossimo futuro, il disilluso Allen Limmit si reca in una Los Angeles anarchica alla ricerca del famoso Dr. Adder, chirurgo estetico che altera in modi assurdi i corpi delle prostitute per soddisfare le perversioni dei loro cliente. Limmit vuole concludere un affare con Adder, ma i due si troveranno invischiati in una rivoluzione tra gli anarchici dell’Interfaccia e l’esercito perbenista del predicatore televisivo Mox. Il romanzo ha molte idee suggestive, e Adder è un personaggio affascinante; ma la storia è troppo frammentata, un sacco di sub-plot non vanno da nessuna parte e l’ossessione di Jeter per lo scabroso a tutti i costi stanca. Così così.
Morlock Night Morlock Night (La notte dei Morlock) è un seguito horror-fantasy di The Time Machine di Wells. I Morlock si sono impossessati della macchina del tempo, e dal futuro sono tornati nella Londra vittoriana per portare rovina e pasteggiare a base di gentiluomini britannici. L’idea è interessante e il romanzo parte bene, ma prende una bruttissima piega quando si intromettono Re Artù, la lotta del Bene contro il Male e la ricerca di tutti i pezzi della spada Excalibur per ridonare le forze al campione della luce. Una cagata pazzesca, sconsigliata a tutti tranne che agli amanti del trash estremo o a chi nutra una curiosità storica verso le origini dello steampunk.
Infernal Devices Infernal Devices (Le macchine infernali) è una tragicommedia in salsa vittoriana. George Dower, gentiluomo londinese senz’arte né parte, gestisce un negozio di diavolerie meccaniche lasciategli in eredità dal padre geniale. La sua vita tranquilla viene sconvolta dall’arrivo di un cliente negro con una richiesta particolare. Da allora, Dower precipita in una serie di intrighi sgangherati, tra uomini pesce che hanno colonizzato un quartiere di Londra, ordigni capaci di far esplodere il mondo, automi pensanti caricati a molla dalla notevole potenza sessuale, viaggiatori del tempo e logge massoniche. Stile e ritmo sono altalenanti e la storia è troppo esageratamente grottesca per essere davvero immersiva, ma si legge che è un piacere. Questa è l’opera steampunk di Jeter che merita di essere ricordata, e forse ci scriverò un post in futuro. Jesus H. Christ!
Noir Noir è un cyberpunk amarissimo, in un mondo collassato e in preda all’anarchia, dove i corporativi fanno il bello e il cattivo tempo in mezzo a giovani che si prostituiscono e barboni non-morti tenuti in vita finché non avranno pagato tutto il debito che hanno con le banche. McNihil, investigatore privato che si è fatto impiantare negli occhi un filtro in bianco e nero che gli fa vedere il mondo come se fosse un film noir, è arruolato da una supercorporation per indagare su un omicidio che lo metterà sulle tracce di perversi pirati del copyright che minacciano il mondo intero. Noir è immersivo e pieno di trovate affascinanti; ma l’insistenza feticistica di Jeter verso tutto ciò che è disgustoso, crudele, umiliante, sgradevole, la prosa lenta e intellettualoide, e il suo rant destrorso contro i violatori del copyright e i pirati del digitale (alla gogna!), fanno girare i coglioni. Da leggersi solo quando si è di ottimo umore.
Mi piacerebbe leggere qualche altro suo romanzo, come il decantato The Glass Hammer, ma allo stato attuale esistono solo cartacei fuori commercio. Auspicando una futura digitalizzazione dell’autore, per il momento mi limiterò ad aspettare.

Chi devo ringraziare?
Se sono arrivato a leggere Farewell Horizontal, una volta tanto non devo ringraziare persone che conosco personalmente ma due scrittori. In primo luogo Philip Dick, che in vita parlò sempre bene del suo pupillo e spinse molto Dr. Adder. Insomma: se il mio idolo letterario ne parla bene, deve pur valere qualcosa! In secondo luogo Jeff VanderMeer, che nella postfazione a Infernal Devices (nell’edizione della Angry Robot) ricorda ai lettori che Jeter non è solo proto-steampunk; anzi, che alcuni dei suoi risultati migliori li ha avuti nell’horror e nel cyberpunk (e questo è uno dei romanzi citati). Insomma: se lo dice il decano del New Weird, sarà vero…!
Poi, ovviamente, avrei da ringraziare in misura diversa anche il Duca – che nel suo parlare di steampunk mi ha scolpito nella testa il nome di Jeter – e Mr. Giobblin – che mi ha segnalato la ripubblicazione dei romanzi steampunk di Jeter da parte di Angry Robot. E magari la stessa Angry Robot. Insomma, devo ringraziare un macello di gente.

Blade Runner 2 - The Edge of Human

molti bocconi amari…

Qualche estratto
Per questo Consiglio ho scelto due brani che, mentre davano un’idea generale del protagonista e del “tono” della narrazione, si focalizzassero su due degli elementi più interessanti dell’ambientazione: la connessione alla rete e il movimento sulla verticale. Nel primo Axxter, subito dopo aver avuto la fortuna di immortalare due angeli che facevano sesso, vuole loggarsi per contattare il suo agente e verificare quanti soldi può farci. Il secondo è una scena di vita quotidiana: Axxter che smonta il campo alle prime luci dell’alba e chiama la sua motocicletta.

1.
For most of this excursion he’d been traveling off-line, the Small Moon being over-curve, all signal to or from it being blocked by the building itself. And in this scurfy territory, the building’s exterior desolate and abandoned in every direction, Ask & Receive hadn’t been able to sell him a map of plug-in jacks. So finding this one had been a break, as well. Maybe that’s when my luck started. Axxter rattled his fingertip inside the rust-specked socket; a spark jumped from the tiny patch of metal to the ancient wire running inside the building. Last night, when I found this; maybe it’s all going to just roll on from here. At last.
YES? The single word floated up in the center of his eye, bright against the deadfilm’s black drain of ambient light. More followed. GOOD MORNING. “THE GLORIES OF OUR BLOOD AND STATE/ARE SHADOWS, NOT SUBSTANTIAL THINGS/THERE IS NO ARMOR –”
“Jee-zuss.” Axxter’s gaze flicked to CANCEL at the corner of his eye. The trouble with buying secondhand; his low-budget freelancer’s outfit had all sorts of funky cuteness left on it from its previous owner; he had never been able to edit it out.
VERY WELL. Sniffy, feelings wounded. REQUEST?
He hesitated. For a moment he considered not calling anyone up; just not saying anything about the angels at all. His little secret, a private treasure. That would be something. Something nobody had except me. He nodded, playing back the tape inside his head corresponding to the one inside the camera. So pretty; both of them, but especially the female angel. Slender as a wire. A soft wire. And smiling as she’d drifted away. That smile was locked away, coded into the molecules inside the camera. And in my brain – burned right into the neural fibers. As if soft, dreaming smiles could burn.
[…] Angel stuff being rare also made it valuable, however. Beyond the mere smile. That decided the issue. “Get me Registry.”
After he’d zipped the footage from his archive to Reg and got a File Check, Clear & Confirmed Ownership – thank God that much service came free – he asked if anything else had come in lately under the heading Angels, Gas, Coitus (Real Time). For all he knew, whole orgies had been taking place in the skies around the building’s morningside.
Two cents pinged off the meter panel in the corner of his sight, Registry’s charge for the inquiry. The sight/sound made him wince.
NOTHING, JACK. TOTAL NADA. The Registry interface had a flip personality. YOU MIGHT TRY UNDER HISTORICAL AND/OR POETRY. “I WANDERED LONELY AS A –”
Another eyeflick, to DISCONNECT. He didn’t want to get tagged for another charge. Not for ancient nonsense, some pre-War file dredged out of Registry’s deep vaults. “Screw that.”
PARDON?
“Get me, um . . . get me Lenny Red.” By contract, Axxter should have called his agent Brevis. But Brevis took a ten-percenter bite; and any idiot working out of a top-level office could peddle hot angel love stuff. I could do it, from here – Axxter knew Ask & Receive had a call out, all angel footage bought top-price. But Ask & Receive also listed their stringers in a public file; if Brevis found out – and he would – he’d take the whole wad paid, not just ten percent. Contractual penalty. So Lenny’s usual five made him a bargain.
SHIELD LINE?
“Naw, don’t bother.” No sense in paying the extra – he had his Reg confirm. “Just call him straight in.”
YOU’RE THE BOSS.
The cranky wire quavered Lenny’s face. “Howdy, Ny.”
He squinted at the image overlaid in his sight. Lenny’s forehead smeared to the left; his mouth was a rippling loop. This far downwall, you took what you could get. “Got something for you.”
“Oh?” Oh? – the line echoed as well. “Like what?” Kwut?
“Angels.”
A distorted eyebrow lifted like an insect leg at the edge of the film “Really.” Lee-ee.
“Catch this.” Axxter engineered a smug smile into his own face. “Angels having sex.”

2.
Methodically, with elaborate care, Axxter broke down his small camp. Taking more pains than necessary; I know, he told himself once more, as he watched his hands going through routine. Mind working on two levels about the subject. On top, right up against curve of skull, the old subvocal litany: Careful; have to be careful; weren’t born out here like some of them; until you get your wall-legs, better, smarter to be careful still. But underneath, not even words: fear, not caution, slowed his movements. As narrow and cramped as the confines of the bivouac sling were, it was at least something underneath him, a bowed floor of reinforced canvas and plastic beneath his knees as he knelt, or shoulder and hip when he slept, and the empty air beneath. That was as safe, he knew, as you got on the vertical. He could have stayed in the sling forever, hanging on the wall. Money, the lack of it, compelled otherwise.
Eventually everything – not much – was packed into two panniers and a larger amorphous bundle. He closed his eyes for a moment, gathering strength, then stood up, the sling’s fabric stretching beneath his feet. He whistled for his motorcycle.
For close to a minute, as he leaned against the building’s wall, holding onto a transit cable for balance, he heard nothing, no answering roar of the engine as the motorcycle came wheeling back to his summons. Thin green on this sector of the wall; something to do with Cylinder’s weather pattern, Axxter figured. The motorcycle would have to have grazed for some distance to have filled its tank. Just as he was about to whistle again, he heard the rasp of its motor, growing louder as it approached.
Over the building’s vertical curve, due rightaround from where he stood in the bivouac sling, the headlight and handlebars of a Norton Interstate 850 first appeared, then the spoked front wheel and the rest of the machine behind. Bolted to the motorcycle’s left side – the uppermost side now, as the machine moved perpendicular to the metal wall – the classic blunt-nosed shape of a Watsonian Monza sidecar came with the motorcycle, its wheel the parallel third of the whole assemblage. A typical freelancer’s rolling stock; he had eyeballed it for so long back on the horizontal, when he’d been saving up his grubstake, that he’d memorized every bolt before he’d ever actually wrapped his fist around the black throttle grip. Even now, after this long out on the vertical, the sight of the riderless motorcycle heading toward him – accelerating as if impelled by love, though he knew it had only taken a visual lock on his position – affected him, rolled on a sympathetic throttle inside his chest. A notion of freedom, as much so as angels, living or dead.

Tabella riassuntiva

Un cyberpunk atipico dove la gente cammina sui muri! Troppe domande senza risposta e un senso di incompiutezza.
Protagonista sfigato e autoironico in cui è facile immedesimarsi. Brutta tendenza alla logorrea scemo-friendly.
Jeter riesce a mostrare come si vive in verticale. Inizio lento e finale anticlimatico.
Ritmo crescente e buon mix di azione.

Il dilemma di Benedetto XVI

Habemus Papam

— La Gerarchia Ecclesiastica Vaticana e Sua Santità desiderano che vi tratteniate, dottor Steinmann, per tutto il tempo che sarà necessario per stabilire quali sono attualmente le condizioni psicologiche di Sua Santità.
[… ] — Il cardinale Orsini è forse più diplomatico del necessario. Mi hanno detto che un esame psichiatrico esige un’assoluta franchezza. — Il sorriso svanì, e il Papa fissò Steinmann diritto negli occhi. — In questo caso la franchezza esige che vi chiediamo di decidere, nel più breve tempo possibile, se io sono matto.

Benedetto XVI ha delle visioni. Gli impongono di muovere guerra ad uno stato canaglia che minaccia di gettare la nostra civiltà nel baratro. Ma – e se non fosse un segno di Dio? Se fosse solo pazzo? Come potrebbe continuare ad esercitare il suo magistero?
Non stiamo parlando di papa Ratzinger; nel 1978, quando fu pubblicato in Italia il racconto di Herbie Brennan Il dilemma di Benedetto XVI, sul soglio pontificio sedeva ancora Paolo VI. Nel futuro immaginato da Brenner, il Vaticano è molto cambiato. Per esempio non si trova più a Roma, ma si affaccia sul lago di Ginevra. E poi ha un esercito privato. E il papa ha bisogno della visita di uno psichiatra – di uno psichiatra ebreo.

L’idea di un papa con dei dubbi, di un papa che chiede aiuto personale ai laici possiede un fascino tutto particolare. Un individuo titanico, quasi superumano che un papa dovrebbe essere, di colpo diventa così umano. Per questo è così affascinante un film come Habemus Papam di Moretti, dove un papa neoeletto si rivolge ad uno psicanalista per ritrovare la fede e la forza per sobbarcarsi il peso della cristianità. Per questo è così affascinante l’abdicazione del Benedetto “reale” e la sua decisione di ritirarsi in un umile e ritirato convento carmelitano. Sembra di tornare al medioevo.
Erano quasi seicento anni che un Papa non si dimetteva dalla carica. Seicento, non ottocento come rimbalzano i giornalisti – Celestino V, il papa che nel 1294 fece per viltade il gran rifiuto, non fu l’ultimo. L’ultimo fu Gregorio XII, che del resto fu eletto un po’ a muzzo nel 1406, in pieno Scisma d’Occidente, da un conclave ridotto a quindici cardinali, mentre ad Avignone imperversavano gli Antipapi. Ma seicento anni sono comunque tantissimi.

Resign from the papacy

Il racconto di Herbie Brenner, a onor del vero, non ha molte somiglianze con la vicenda di Ratzinger, e i due Benedetto vivono dubbi molto diversi. Ma ho comunque provato un piacere speciale nel leggere il racconto ieri sera, proprio mentre i talk-show in prima serata si mettevano a esplorare pure le mutande sporche del papa alla ricerca di segni che ‘preannunciassero’ la sua decisione di mollare. Non avevo mai sentito parlare del racconto, né dell’autore; devo tutto al kompagno Gimmelli, che mi ha passato questo articolo su Facebook.
Il racconto non è neanche nulla di trascendentale, aldilà del fascino che per me e molti altri hanno tutti i racconti di fantascienza che parlano di Chiesa cattolica, Papato, preti e cardinali. La scrittura di Brenner è goffa, diversi dialoghi sono irreali, ci sono piogge di aggettivi inutili e frasi ridondanti. Gli elementi tecnologici sono messi lì un po’ a cazzo, come il Rhamboid, strumento che permette di connettere la mente del paziente con quella dello psicanalista, ma che non si capisce mai come funziona. E la traduzione italiana non fa che peggiorare la situazione1.
Ma è un racconto che ti incolla. Comincia in medias res, mette fin dai primi capoversi la pulce nell’orecchio al lettore – uno psichiatra convocato in segreto in Vaticano! – e non si allontana mai dal tema iniziale. L’atmosfera che si respira nella corte ginevrina, attraverso gli occhi dello scettico psichiatra ebreo, è suggestiva. Il finale, a modo suo, è carino. E leggerlo in questi giorni fa tutto un’altro effetto.

Ecco perché l’ho integralmente postato in questo articolo. Quale modo migliore per godersi questo passaggio di testimone? Buon divertimento.

Il dilemma di Benedetto XVI

Urania - Il dilemma di Benedetto XVIAutore: Herbie Brennan
Titolo originale: The Armageddon Decision
Genere: Science Fiction
Tipo: Racconto

Anno: 1978
Edizione: Urania n.735
Pagine: 10 ca.

Entrando nel museo, Steinmann si sentiva ancora turbato dal suo sogno di Sarai. L’edificio era quasi deserto, poiché, ovviamente, nelle belle giornate attirava pochi visitatori. Steinmann indugiò ad ammirare le ricostruzioni in miniatura di tombe etrusche finché l’orologio non gli disse che mancavano tre minuti alle undici. Allora si avviò senza fretta lungo la Galleria Egizia. Dopo un poco trovò la stele di Rosetta vicino al sarcofago di una mummia del Medio Impero. Secondo le istruzioni ricevute, aspettò fingendo di leggere il cartiglio su cui era tradotta l’iscrizione. Continuava a pensare a Sarai, cercando di mettere in rapporto quel rigurgito emotivo con la situazione o l’ambiente, quando una mano gli sfiorò il braccio: — Dottor Steinmann?
Steinmann si voltò, annuendo. — Sì. — L’uomo era certamente un italiano, molto bruno e molto snello, sui cinquantacinque.
— Orsini — si presentò, porgendo la mano. — Giovanni Orsini. Benvenuto a Ginevra, dottore. Mi spiace aver dovuto organizzare quest’incontro da cospiratori. Avremmo di molto preferito darvi il benvenuto davanti a tutti, all’aeroporto, ma sono certo che vi rendete conto delle difficoltà.
La stretta di mano era ferma e asciutta. — Non del tutto — disse Steinmann. Dall’esame del comportamento del suo interlocutore, dedusse che Orsini non era tanto nervoso quanto preoccupato e in imbarazzo. Questa scoperta gli procurò un vero senso di sollievo. Forse, dopo tutto, era stata quell’insolita esperienza di dover seguire istruzioni segrete che aveva evocato Sarai dalla tomba nel suo subconscio.
— Se è così — dichiarò serio Orsini — devo ringraziarvi per la vostra pazienza. — Si guardò intorno, quasi per assicurarsi che la galleria fosse deserta. Non c’era anima viva, infatti.
Steinmann passò a osservare l’impeccabile abito da passeggio e poi il portamento di Orsini, che originò una nuova associazione di idee e lo portò a dire a bruciapelo: — Immagino siate un sacerdote.
L’altro sbatté le palpebre: — È così evidente?
— No, se uno non ha una certa esperienza. — Lanciò un’ultima occhiata alla stele e aggiunse: — E ora, cosa facciamo?
Orsini era palesemente a disagio. Dalla tasca interna prese un sottile portafogli e glielo porse con gesto affrettato. — Per favore, prendetelo! È un anticipo sul vostro onorario. C’è anche un biglietto per un giro turistico della città in pullman, che parte alle tre del pomeriggio di oggi. Il pullman parte dal monumento a Guglielmo Tell, a due passi dal vostro albergo. Vi chiediamo il favore di partecipare al giro. — Scrutò attentamente Steinmann. — Se non sbaglio, la vostra specializzazione richiede un particolare addestramento della memoria visiva, non è vero?
Steinmann annuì.
— Allora, per favore, guardatemi bene. Così sarete sicuro di potermi riconoscere.
Orsini irrigidì involontariamente i muscoli, come se si aspettasse un esame manuale.
Steinmann sorrise. — Sì… senz’altro.
— È importante, dottore — incalzò serio Orsini. — Dovrete riconoscermi di primo acchito, anche se sarò vestito in modo totalmente diverso e ci troveremo in un altro ambiente.
— Sì, sì. State sicuro che vi riconoscerò — disse Steinmann in tono rassicurante e, automaticamente, collegò i tratti più caratteristici della fisionomia al nome e al portamento, per noi immagazzinare il tutto nel subconscio. Orsini era adesso per sempre incasellato nella sua memoria.
— Bene. — Il ritmo del respiro rivelò che Orsini aveva tirato dentro di sé un sospiro di sollievo, come se la cosa fosse stata di vitale importanza. Poi continuò: — Avremmo piacere che vi comportaste come un qualunque turista, fino al momento in cui il pullman entrerà nella piazza e i passeggeri scenderanno. Scendete con loro, mettendovi però in fondo al gruppo, in modo da potervi allontanare inosservato.
— Capisco.
— La guida vi condurrà lungo un colonnato. A un certo punto del percorso vi verrò incontro, provenendo dalla direzione opposta. Mi scuserete, se farò finta di non conoscervi.
Steinmann capì che l’imbarazzo dell’altro era sincero. — Non preoccupatevi — disse.
— Poco dopo esserci incrociati, arriverete a una porta sulla vostra destra. Sarà aperta e non sorvegliata. Vi sarò grato se vi entrerete, badando che nessuno se ne accorga. Chiudete la porta a chiave. La serratura è una semplice placca a pressione all’altezza della spalla. Poi, non avrete che da aspettare. Io vi raggiungerò seguendo un’altra strada.
Per allentare un po’ la tensione, Steinmann osservò, con una certa leggerezza: — Mi sembra una cosa molto eccitante.
— È invece una cosa puerile, dottore — disse Orsini, con un sorriso forzato — e voi ve ne rendete conto benissimo. Ma è necessaria. Nessuno deve sapere della vostra visita in Vaticano.

Ginevra. Nota in tutto il mondo per il suo lago, per il CERN, e per il Vaticano.

Un’americana chiacchierona per poco non privò Steinmann della sua prima vista panoramica della Città del Vaticano. Lei stava sproloquiando su Hoosiers – qualunque cosa fosse questo Hoosiers – quando il pullman, superata una svolta, permise un’ampia visuale, sulla destra, del lago di Ginevra. Steinmann escluse la voce della donna dalla sua mente. Al di là dello specchio d’acqua, si vedevano le scintillanti mura e le guglie che s’innalzavano sulla riva opposta. La lettura dell’opuscolo illustrativo non l’aveva preparato del tutto alla magnifica visione. Era più piccolo del Vaticano originale, ma la profusione dei marmi usati nel costruirlo non mancava di fare colpo.
— Ecco, adesso potete vedere da voi — stava dicendo l’americana con aria di enorme soddisfazione.
Steinmann, che vedeva solo la città e il lago, annuì con un sorriso di voluta condiscendenza. Per meglio aderire alla parte del turista, indossava un abito bianco e una sgargiante camicia di seta. Una borsa da aereo, posata di fianco al sedile, conteneva indumenti più sobri.
In meno di un quarto d’ora, il pullman arrivò ai cancelli della città. Osservandola da vicino, Steinmann fu colpito dalla strana combinazione di rutilante cattivo gusto e di splendore medievale. Le pareti di marmo, così imponenti da lontano, sembravano di viscida plastica per via del trattamento protettivo al silicone. Al di sopra dei cancelli, un grande crocefisso dorato mandò un tenue bagliore quando il pullman attivò la fotocellula d’apertura. Ma i cancelli erano delle genuine reliquie di una fortezza medicea.
Steinmann sfogliò l’opuscolo mentre il pullman entrava nella piazza. Non avevano tentato di fare una copia esatta, sia pure in miniatura, del vero Vaticano, ma ne avevano conservato talune caratteristiche. Esisteva ancora una Biblioteca Vaticana, esistevano ancora gli Archivi Segreti, ambedue, purtroppo, molto ridotti. Esisteva anche una Basilica di San Pietro e una Cappella Sistina, in parte costruita con le pietre originali portate di contrabbando dall’Italia, ma sfortunatamente mancavano i gloriosi capolavori di Michelangelo. C’era ancora un Palazzo Vaticano e, sebbene per motivi di sicurezza vi fossero ammessi pochissimi visitatori, correva voce che i sontuosi arredi risalissero come minimo a tre secoli prima.
— Adesso sì, che è davvero una cosa magnifica! — disse ad alta voce l’americana, mentre il pullman si fermava con uno stridio. La donna si guardò intorno con palese ammirazione. — Adesso sì! Non trovate?
— È vero! — rispose con sincerità Steinmann. Anche lui aveva fatto caso che erano più interessanti le differenze che non le somiglianze con il Vaticano originale.
Al posto della Radio Vaticana c’era adesso la Televisione Vaticana, con proiezioni interamente olografiche. La sottile antenna emittente fendeva il cielo, dominando persino la facciata del palazzo. E le Guardie Svizzere, con i loro secoli di tradizione, erano state sostituite, con inconsapevole ironia, da Legionari Romani. Secondo l’opuscolo illustrativo, le armature erano di leggera plastica che imitava l’acciaio, ma l’insieme sarebbe stato accettato anche da Cesare.
— Sono convinta che tutti dovrebbero vederlo — continuava imperterrita l’americana — anche i non cattolici. — Lo guardò con aria bellicosa: —Voi siete cattolico?
— Ebreo — rispose Steinmann, con un cenno di diniego. Per qualche suo motivo personale, la donna sembrò compiaciuta. — Ah, israeliano?
Steinmann tornò a scuotere la testa. Poi, dato che voleva troncare la conversazione, aggiunse: — Sono nato ad Anderstraad.
L’espressione della donna si raggelò per l’imbarazzo.
Via via che il pullman si vuotava, Steinmann fece in modo da restare per ultimo e si accodò al gruppo che s’incamminava verso il colonnato. Ma anche quando erano già entrati nell’ombra fresca, non vide traccia di Orsini, sebbene un dignitario vaticano venisse verso di loro avvolto nella pompa cardinalizia. L’avevano già quasi oltrepassato quando Steinmann lo riconobbe.
Rallentò il passo e, trovata la porta, varcò la soglia senza essere visto. Premette la placca con il pollice, sentì lo scatto della serratura che si chiudeva, poi aspettò. Si trovava sul limitare di un altro cortile su cui torreggiava la mole del Palazzo di Papa Benedetto.
Steinmann era un po’ seccato, perché la sua lunga esperienza fisiognomica non lo aveva aiutato ad individuare le caratteristiche fisiche dell’altro. E poiché era seccato, disse: — Dunque, siete un cardinale. Avrei dovuto trattarvi con maggior rispetto.
— Al contrario — ribatté Orsini — se qualcuno deve fare delle scuse, questo sono io. Sia a titolo personale sia a quello della gerarchia ecclesiastica. Il modo con cui ci siamo messi in contatto con voi, il modo con cui siete stato costretto a venir qui… tutto questo è davvero imperdonabile, ma forse ne comprenderete presto la necessità.
Incuriosito, Steinmann chiese: — Dove stiamo andando, di preciso?
— Sopra la cappella c’è una piccola biblioteca — rispose Orsini. — Sua Santità ha la compiacenza di servirsene come studio. So che vi aspetta là.
Si fermarono davanti ad una porta scorrevole ed entrarono in un cubicolo che, come improvvisamente Steinmann si accorse, era un ascensore. Si guardò intorno deliziato, mentre la porta tornava a chiudersi. — Non vi servite di seggi elevatori? — chiese.
Orsini rabbrividì. — Qui preferiamo andare all’antica, dottore. È una questione di dignità.
Steinmann si ritrovò a pensare a Sarai intanto che l’ascensore li faceva dignitosamente salire al piano sopra la cappella.
Sua Santità Papa Benedetto XVI era più piccolo di quanto Steinmann avesse immaginato, magro come Orsini, ma più vecchio ed incartapecorito. Correva voce che facesse cure per ringiovanire, a dispetto della politica ufficiale della Chiesa, ma se le voci rispondevano al vero, le cure non erano efficaci. Con sorpresa di Steinmann, il Papa indossava il saio marrone dei frati francescani.
Papa Benedetto andò loro incontro porgendo la mano senza formalità. — Mio caro dottor Steinmann, come siete stato gentile a venire! Il cardinale Orsini vi avrà già detto quanto ne siamo felici. — Il suo inglese era privo di accento, ma molto meticoloso, segno che solitamente parlava un’altra lingua. — Non volete sedervi? — Indicò una poltrona con una mano venata d’azzurro. — È molto comoda. Volete del tè? Del caffè? Un goccio di vino… abbiamo vini di ottima annata.
— Magari un caffè — disse Steinmann, che stava studiando il portamento e il tono muscolare del Pontefice. C’era appena un lieve accenno di tremito alle estremità, che senz’altro era dovuto più agli anni che ad un determinato stato psicologico.
Orsini fece scorrere un pannello a muro e compose un numero sul luccicante auto-cuoco. Il caffè si materializzò in tazzine di porcellana.
— È abominevole — osservò Papa Benedetto indicando la macchina — ma i miei cardinali più giovani persistono a dichiarare che dobbiamo essere sempre all’altezza dei tempi. Io mi oppongo finché posso, ma — sorrise — bisogna accettare il fatto che il Pontefice non è più infallibile.
Steinmann ricambiò il sorriso con un sincero sentimento di calorosa comprensione. Prese il caffè e lo trovò molto migliore della solita brodaglia ammannita delle macchine automatiche.
— Vorrei che il cardinale Orsini restasse, se non avete niente in contrario — disse Benedetto XVI.
— No, no di certo — si affrettò a dire Steinmann. Le parti andavano delineandosi. Il Papa era diventato un penitente, sottomesso al parere di Steinmann.
— Vedete, dottore — s’interpose Orsini, con voce pacata — vi abbiamo chiamato qui in veste professionale.
Steinmann spostò lo sguardo dall’uno all’altro. Si era quasi aspettato una cosa del genere, perché solo così si spiegava quella segretezza patologica.
— Prima di continuare — disse il Papa — vi dobbiamo chiedere se siete preparato ad agire in veste professionale. — Ebbe un attimo d’esitazione. — A qualunque onorario vogliate fissare, naturalmente!
— L’onorario non è una questione di principio — dichiarò Steinmann, accigliandosi.
— No davvero. Per una persona della vostra capacità, è soltanto quello che gli spetta. Tuttavia debbo ripetere la domanda. È importante che i nostri rapporti siano chiari sotto tutti gli aspetti.
Steinmann tirò un profondo respiro, ma, ovviamente, aveva già deciso: — Sarei veramente onorato di rendermi utile a voi o alla vostra Chiesa, secondo le mie possibilità. — Gli venne in mente un pensiero un po’ irriverente, e aggiunse: — In fin dei conti è stata fondata da uno del mio popolo.
La faccia del Papa si raggrinzì tutta per un altro sorriso. — È un sollievo costatare che possedete il senso dell’umorismo, dottore. Sono anche certo che vi rendete conto che tutto quello che verrete a sapere qui è da considerarsi strettamente confidenziale.
— Ciò fa parte dell’etica professionale — disse Steinmann, senza offendersi.
— Certo, certo!
Orsini fece per dire qualcosa, ma Steinmann lo prevenne.
— Prima di andare avanti, posso fare una domanda?
— Dite.
— Perché non avete scelto uno psichiatra cattolico? Ce ne sono di ottimi.
— Lo capirete fra poco — disse il Papa, facendo un cenno a Orsini.
— Sua Santità… — cominciò il cardinale, evitando di guardare in faccia Steinmann. Poi, cambiando apparentemente idea, proseguì: — La Gerarchia Ecclesiastica Vaticana e Sua Santità desiderano che vi tratteniate, dottor Steinmann, per tutto il tempo che sarà necessario per stabilire quali sono attualmente le condizioni psicologiche di Sua Santità.
Steinmann guardò prima l’uno poi l’altro, e, soppesando con cura le parole, disse: — Cosa volete dire esattamente con l’espressione “condizioni psicologiche”, in questo contesto?
Papa Benedetto sorrise ancora, con sincero buon umore.
— Il cardinale Orsini è forse più diplomatico del necessario. Mi hanno detto che un esame psichiatrico esige un’assoluta franchezza. — Il sorriso svanì, e il Papa fissò
Steinmann diritto negli occhi. — In questo caso la franchezza esige che vi chiediamo di decidere, nel più breve tempo possibile, se io sono matto.

Habemus Papam

L’alloggio di Steinmann era lussuoso anche per una persona abituata al lusso. C’era perfino un Canaletto autentico, un piccolo preziosissimo quadro, appeso a una parete. Il dottore si sedette dubbioso sull’enorme letto, ma lo trovò sorprendentemente comodo e morbido. Si alzò e andò ad esaminare lo scrittoio, sicuro di scoprire che era un’imitazione. Invece era davvero di legno, e i segni d’invecchiamento potevano benissimo essere stati causati dal tempo, e non fatti apposta da un esperto artigiano. La finestra dava su un cortile interno, su cui, in quel momento, sfilava una processione salmodiante. Un lieve aroma d’incenso impregnava i pannelli di legno.
Steinmann trovò l’autocuoco e, dopo due tentativi, riuscì a ordinarsi la cena. Il brodo di pollo era anemico, ma l’agnello era vicino alla perfezione. Compose a caso un numero per il vino, e gli fu servita una mezza bottiglia di Chianti Classico. Era un po’ troppo secco per il suo palato, ma andava giù liscio che era un piacere.
Se ne versò un bicchiere e andò a sedersi su un seggiolone veneziano a riflettere.
Lo sguardo gli cadde sul terminale di un proiettore olografico abilmente dissimulato tra i fregi che ornavano le pareti e, seguendone il cavo, trovò i comandi inseriti nel muro a fianco della testiera del letto. Si protese, col bicchiere in mano, e premette un pulsante. Un cubo di un metro e ottanta di lato si materializzò al centro della stanza con un ticchettio. Per un istante rimase di un biancore lattiginoso, poi fu bruscamente sostituito da due preti infervorati in un’accalorata discussione. Steinmann non riuscì a capire l’argomento, perché parlavano in latino. Cercò allora il pulsante per cambiare canale, ma non lo trovò. Perciò rimase a guardare per un poco i due preti, e finì con l’assopirsi. Fu strappato bruscamente al sonno da un rumore che gli sembrò un colpo d’arma da fuoco. La trasmissione era cambiata, e per fortuna il commento era in inglese.
Si trattava ancora di Anderstraad, naturalmente, e dei tirapiedi di Ling che, con grande efficienza, mettevano a morte un oppositore politico. L’incidente gli diceva poco in sé, ma gli riportò il bruciante ricordo di Sarai. Come per sottolineare i suoi sentimenti, la scena cambiò, passando a una seduta del Consiglio dell’Unione Parlamentare. Riconobbe Martin Allegro, che con la faccia tesa pronunciava un appassionato discorso anti-Anderstraad. Poi il notiziario continuò con un assassinio nello Zambia, e l’interesse di Steinmann svanì. Spense l’apparecchio, si alzò stiracchiandosi e andò a letto. Ma nonostante il suo addestramento, non riuscì a non sognare gli inevitabili sogni.

La vita era piena di sorprese. Nel corso della notte avevano istallato nella biblioteca un apparato Rhamboid ultimo modello. Aspettando il Papa, Steinmann elaborò un programma-tipo di test psicologici e vi apportò le necessarie correzioni. I comandi rispondevano alla perfezione al tocco delle sue dita.
— Vi sembra che vada bene, dottor Steinmann?
Il dottore alzò gli occhi dal quadro dei comandi: — È una bellissima macchina, Santità.
Benedetto XVI annuì: — Di fabbricazione tedesca. So che sono molto bravi nel costruire macchine psichiatriche. — Poi il Papa andò a sedersi sulla poltroncina destinata all’esaminando e incrociò le mani in grembo. — Cominciamo?
— Se siete pronto.
— Sono pronto — disse il Papa.
Steinmann andò a sistemare il casco sulla testa tonsurata. I contatti scivolarono così perfettamente al loro posto che gli venne il sospetto che la macchina fosse stata costruita su misura per quel paziente. Poi tornò ai comandi, infilò il proprio casco e premette un pulsante. Il pannello si accese.
— Non sento niente, dottore — disse calmo il Papa.
— Non potete sentire niente, ancora — disse Steinmann. — Occorre lasciar passare un certo periodo, mentre ci sintonizziamo. — Controllò i quadranti. Nonostante la calma apparente, gli indici della respirazione, del battito cardiaco, della pressione sanguigna e della traspirazione di Papa Benedetto erano molto superiori al normale.
— Possiamo parlare? — chiese il Papa.
— Sì. Non altera i risultati e, caso mai, può essere di qualche utilità. — Regolò ancora qualche comando, esitando. — Anzi, tanto per rompere il ghiaccio, avrei bisogno di farvi qualche domanda.
L’altro ebbe un lieve sorriso. — Vorreste, per esempio, sapere quali sono i miei sintomi?
Steinmann lo fissò. — Sì. Immagino che abbiate mostrato alcuni sintomi, altrimenti non mi avreste chiamato.
— La vostra supposizione è esatta, dottore — disse il Papa. — Ho avuto quelle che si potrebbero definire esperienze allucinatorie.
— Allucinazioni? — precisò Steinmann.
— La Chiesa ha sempre sostenuto che esistono due diversi tipi di visioni o allucinazioni — disse, con pacatezza, Benedetto XVI. — Una visione può essere un messaggio di Dio, un’altra l’indizio di uno squilibrio psichico. Noi speriamo che voi ci possiate aiutare a determinare a quale dei due tipi appartengono le mie.
Date le circostanze, c’era quasi da aspettarselo. Soppesando con cura le parole, Steinmann rispose: — Temo che la mia filosofia non comprenda messaggi dall’Onnipotente. Il meglio che vi posso offrire è un’indicazione sulle condizioni della vostra mente. Se è sana, deciderete voi stesso la natura delle visioni.
— Non chiediamo di più — concluse Benedetto XVI.
Un lieve ronzio gli faceva vibrare i timpani, segno che il collegamento si stava instaurando. Steinmann chiese: — Le visioni hanno un senso, una forma?
La faccia rugosa rimase inespressiva. Solo gli strumenti rivelavano la tensione interna.
— Si riferiscono all’Apocalisse. Conoscete la dottrina cattolica su questo argomento?
— Solo un’infarinatura da profano — rispose Steinmann. — Non è la battaglia di Armageddon?
— Il regno del male, dottore. E la lotta contro di esso culminante nel Secondo Av-vento. Non credo che vi siate mai interessato molto al problema.
Steinmann spostò una manopola di un quarto di giro in senso antiorario. — Confesso che la cosa non mi ha mai appassionato.
— Invece, per me, è diventata un’ossessione da quando Victor Ling è salito al potere ad Anderstraad — disse il Papa, con voce atona.
Steinmann rimase così sorpreso che per poco il collegamento non si spezzò. Costrinse i muscoli a rilassarsi e passò automaticamente alla respirazione controllata di tipo yoga, necessaria per ritrovare l’equilibrio psichico. Un attimo dopo, disse con voce del tutto priva di emozione: — Temo di non vedere il rapporto tra le due cose.
Papa Benedetto sospirò. — Come sapete — disse — Apocalisse significa “rivelazione”, e la Rivelazione di San Giovanni Evangelista ha dato luogo ad una rozza mitologia e ad aspettative fantastiche: grandi bestie, draghi scarlatti, segni nel cielo… — Sospirò di nuovo. — Ma i dottori della Chiesa hanno suggerito un’interpretazione molto più razionale.
La mente di Steinmann si oscurò un attimo, per tornare a schiarirsi subito dopo. L’esperienza gli suggeriva che il collegamento totale si sarebbe stabilito entro dieci minuti. — Posso chiedere qual è questa interpretazione?
— Due sono i punti fondamentali che chiariscono il significato del libro — rispose Benedetto XVI. — Il primo è il diciottesimo versetto del tredicesimo capitolo. Nell’identificare la realtà dietro l’immagine simbolica della Grande Bestia, Giovanni scrisse: «Chi ha intendimento conti il numero della bestia: perché quel numero è di un uomo: e il suo numero è seicentosessantasei».
— E questo significa qualcosa, per voi? — chiese Steinmann, l’attenzione divisa fra le parole del Papa e i quadranti dell’apparecchio.
— Come studioso, sì. San Giovanni venne educato secondo un mistico sistema ebraico chiamato Cabala. Parte di questo sistema comprende l’identificazione di cose reali attraverso numeri associati a nomi. Essendo ebreo, voi saprete bene che le lettere ebraiche servono anche a rappresentare i numeri. Per questo, nella Cabala, è possibile dare un valore numerico a una parola addizionandone le lettere.
— E voi credete che questa addizione abbia un significato… importante?
Il vecchio Papa scosse la testa, non senza impaccio a causa del casco. — No di certo, dottore — disse sorridendo. — Io non sono un cabalista. La mia personale opinione è che questo sistema ha più a che fare con la superstizione che con la realtà religiosa. Ma ciò non ha alcuna importanza. Quello che è veramente importante è che San Giovanni seguiva il metodo cabalistico. Se noi sappiamo come lui contava le lettere del nome, possiamo ricavare a che cosa si riferivano i numeri.
— E voi sapete come contava il nome?
— Sì — rispose Benedetto XVI, con voce pacata. — È un metodo noto da secoli. Il numero seicentosessantasei si riferisce a colui che, ai tempi di Giovanni, era forse il più grande nemico della Chiesa Cristiana: il “Nero Caesar” di Roma. Traducendo il nome latino in ebraico e sommando le lettere secondo il sistema cabalistico il risultato è seicentosessantasei.
Sorpreso, Steinmann disse:
— Allora Giovanni non stava facendo una profezia? Stava soltanto indicando sotto forma occulta l’Imperatore di Roma?
— Pare proprio di sì, ma prima di parlare di elementi profetici, dobbiamo scoprire il significato del secondo punto fondamentale. Gli storici della Chiesa, come forse sapete, accettano la dottrina dei corsi e ricorsi storici.
Il ronzio cambiò tonalità, indicando che mancavano meno di cinque minuti al collegamento. — A quanto ne so, gli storici della Chiesa non sono i soli — disse Steinmann.
— Infatti. È una dottrina rispettata, in genere, anche dagli accademici. — Il Papa tornò a sorridere. — Interessa persino la vostra specializzazione. L’inconscio collettivo della nostra specie elabora schemi tra loro simili, ad intervalli prevedibili. Tali schemi possono diventare relativamente chiari, offrendo così una prospettiva storica abbastanza ampia. Ma non addentriamoci negli aspetti tecnici, dottore. Basterà dire che lo schema che produsse Nerone si ripeté nella Germania del 1930 quando sorse il movimento nazista. Noi sospettiamo anche che possa ripetersi oggi, che stia ripetendosi… — esitò un attimo, poi aggiunse, sottovoce: — Ad Anderstraad.
Steinmann provò una stretta allo stomaco. — State dicendo che lo schema che originò l’Anticristo Nerone e l’Anticristo Hitler ha oggi suscitato un altro Anticristo in Victor Ling?
— Non affermo niente del genere. Ma, come Papa, devo tenere conto di ogni possibilità. Anche se non professate la nostra fede, potete ugualmente capire quale importanza noi daremmo ad una tale eventualità. Se Ling è realmente il punto focale delle stesse forze inconsce che produssero Nerone, allora Ling non è soltanto un politicante turbolento, ma la manifestazione del grande nemico della Chiesa. E, come tale, la Chiesa deve prendere posizione contro di lui.
— Una posizione militare? — chiese Steinmann, sempre in preda a forte tensione.
— Adesso ne abbiamo la forza.
Era una constatazione di fatto. Sebbene i suoi interventi fossero rari, la Chiesa Militante restava uno dei fattori più importanti nella moderna politica internazionale. Mentre questi pensieri turbinavano nella mente di Steinmann, intrecciandosi al ricordo di Sarai, lui premette il pulsante che attivava il Rhamboid. Il ronzio diventò più acuto. — E le vostre visioni, come entrano nel quadro?
— Confermano i sospetti dei nostri storici — disse il Papa, a bruciapelo. — Suggeriscono che la Chiesa Militante attacchi direttamente Anderstraad. Adesso capite perché sia tanto importante determinare il grado della mia sanità mentale?
— Sì mormorò Steinmann. Il procedimento Rhamboid immobilizzò il suo corpo, poi scagliò la sua mente nel vortice per collegarla con la psiche del Papa.

Habemus Papam

— È stata un’esperienza interessante — disse Benedetto XVI, dopo che gli fu tolto il casco. — Devo confessare che la reazione predominante in me è un senso d’imbarazzo.
— È comprensibile — disse Steinmann. — Questo esame è l’equivalente psicologico del mostrarsi nudo in pubblico.
I vecchi occhi castani si fissarono in quelli dello psichiatra. — E il risultato, dottor Steinmann? Potete dirmi il risultato?
Steinmann si strinse nelle spalle. — Non posso dire quale sia l’origine delle vostre visioni, ma la mia opinione è che siete sano.
Papa Benedetto si raddrizzò, come se gli avessero tolto un peso dalle spalle. —Grazie, dottore — disse con voce pacata. — Questo faciliterà le nostre decisioni.

Orsini gli mise in mano un pacchetto. — Il vostro onorario, dottore. Anche se non avete fissato alcuna cifra, credo che lo troverete adeguato.
Steinmann intascò il pacchetto. — Grazie.
Percorsero i corridoi del Vaticano, un po’ impacciati, fino a una porta massiccia.
— Devo lasciarvi — disse Orsini. — Un sacerdote vi accompagnerà ai cancelli. Troverete un aereo privato ad aspettarvi.
— Sorrise. — Per fortuna non c’è più bisogno di segretezza, sebbene sappia che possiamo senz’altro contare sulla vostra discrezione.
— Non dubitate — disse Steinmann. Poi, esitando: — Cardinale Orsini…
— Sì, dottor Steinmann?
— Sua Santità era già stato sottoposto ad un esame Rhamboid, non è vero?
Orsini lo fissò per un momento, poi annuì. — Come avete fatto a scoprirlo?
— È una prova molto impegnativa, e io non l’ho preparato con la cura dovuta… stavo pensando… ad altro. — Il ricordo di Sarai l’aiutò a dominarsi, e continuò: — Le reazioni, a fine esame, non sono state quelle di chi, per la prima volta, si sia sottoposto a un Rhamboid. Era troppo calmo.
— Vedo — disse Orsini.
Con la mano sulla serratura a pressione della porta, Steinmann disse ancora: — Posso sapere chi l’ha sottoposto al primo esame?
— Io — rispose Orsini. — Ho avuto un certo addestramento di psichiatria.
Steinmann gli puntò gli occhi addosso: — E le vostre conclusioni?
Sul viso di Orsini non apparve il minimo cambiamento d’espressione. — Identiche alle vostre, dottor Steinmann. Ho trovato Sua Santità sano di mente.
— E allora, perché chiamare me?
— La Gerarchia Ecclesiastica ha insistito. Secondo loro, come cattolico e come cardinale, avrei potuto inconsciamente essere parziale nel mio giudizio. Volevano perciò una conferma da parte di uno psichiatra di un’altra fede e, di conseguenza, più obiettivo. Voi, dottor Steinmann. E, per fortuna — Orsini sorrise — il vostro parere concorda con il mio.
Steinmann abbassò la voce a un soffio: — Il Papa è matto, cardinale Orsini.
L’altro annuì gravemente:
— Lo so, dottore.
— Le sue allucinazioni sono il diretto risultato di una schizofrenia monodirezionale.
— Esatto — convenne Orsini.
— L’esame Rhamboid non dà adito a dubbi.
— No, è vero — convenne ancora Orsini.
— Perché allora avete dichiarato sano di mente Papa Benedetto? — chiese Steinmann. Non riusciva più a capire il suo interlocutore.
— Perché voglio che la Chiesa attacchi Anderstraad — rispose il cardinale. — Sono convinto che Victor Ling è un uomo malvagio, sia o non sia l’Anticristo. — Sorrise ancora con un’ombra di tristezza. — Vi prego di ricordare che avete confermato le mie conclusioni.
Steinmann sospirò. — Avevo una figlia, Sarai, che aderì con altri ragazzi a un movimento di protesta. Aveva diciassette anni quando Ling l’ha fatta impiccare.
— Lo so — disse Orsini. — Per questo, ho scelto voi per il secondo esame.
Steinmann uscì nel cortile. Alle sue spalle, la porta si richiuse con uno scatto.

Dove si trova?
Il numero di Urania che raccoglie, assieme a molti altri, questo racconti, si trova facilmente su Emule nei formati pdf, epub, mobi e rar. Basta cercare “Il dilemma di Benedetto XVI”, dato che il racconto dà il titolo alla raccolta. Il racconto in lingua originale non l’ho trovato, ma bisogna dire che l’ho cercato poco.

Conclusione
Sono in fibrillazione; per qualche giorno sarò nell’umore di leggere narrativa sul cattolicesimo. E darei molte cose per essere, in queste ore, nel cervello di Raztinger – sarebbe ottimo materiale per un romanzo, o almeno per un racconto.
Molto meno mi interessa il toto-papa in cui già si stanno lanciando i giornalisti. In fin dei conti, che importa? Non ha forse ragione Padre Pizarro? Vi lascio alle sue sagge parole, con la promessa che a breve pubblicherò articoli un po’ meno mongoli.


E allora, thank you for the music.

Aspetta – non è che siamo appena entrati nella terza stagione?

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(1) Pur non avendo letto l’originale, ho già trovato due errori.
Il primo è l’Hoosiers di cui parla la turista americana. Non esiste nessun signor “Hoosiers”; hoosiers è l’epiteto con cui si chiamano tra di loro gli abitanti dello stato dell’Indiana. Sembra che questa strana nomenclatura abbia generato uno strano senso di fratellanza tra gli hoosiers; la turista dell’Indiana che parla dei propri compatrioti con tutti coloro che le capitano a tiro è ormai diventato una specie di stereotipo americano.
L’altro, ben più grave, è l’immancabile “I see” tradotto con “Vedo” invece che con “Capisco”. E’ una di quelle cose che mi fanno pensare sul serio che i traduttori di narrativa fantastica siano gente presa dalla strada tre mesi prima e schiaffata davanti a un computer.Torna su