Archivi del mese: settembre 2012

Esercizi di dilatazione

Traveling Cropped ClarkUna bella illustrazione, un quadro, possono essere una delle più grandi fonti di ispirazione per lo scrittore. Il nostro cervello non funziona secondo le regole della logica aristotelica, ma per associazioni di idee; cosicché non solo ci è possibile visualizzare immagini illogiche come il famoso Cascata di M.C. Escher, ma addirittura esserne suggestionati al punto da costruirci attorno delle storie.

Seguendo gli articoli di Bizarro Central mi sono imbattuto nel blog di Alan M. Clark, The Imagination Fully Dilated, e nei suoi settimanali Dilation Exercises. Clark è un illustratore del fantastico piuttosto famoso oltreoceano; ha realizzato le copertine per autori come Stephen King o Ray Bradbury, ma soprattutto per scrittori horror come Richard Laymon, Edward Lee e Brian Keene (i preferiti di Zwe, insomma). Dato il suo mestiere, ha disegnato roba di tutti i tipi e con molti stili diversi, ma le illustrazioni che preferisco, quelle più surreali, sembrano uno strano incrocio tra René Magritte, Max Ernst e certe litografie di Escher (quelle “metamorfiche”, dove c’è qualcosa che si trasforma gradualmente in qualcos’altro). Tutto questo per dire che Alan Clark è un tipo in gamba.
Che cosa sono questi “esercizi di dilatazione”? Una volta alla settimana, sul suo blog e su Bizarro Central, Clark propone un’immagine fatta da lui accompagnata da poche righe ambigue. Lo scopo non è certo “spiegare” l’illustrazione, ma al contrario, ispirare nello spettatore una scena, una storia. Ecco cosa dice Clark nella pagina di spiegazione sul suo blog:

To engage my audience, I try to create images that are compelling on a storytelling level. With my choice of subject matter, I try to present more questions than answers; give three out of five elements of a story and then depend on my audience to fill in the rest. If my audience participates in the creative process in this way, they carry the experience beyond the picture plane, and I’ve succeeded in creating something more than just a portrait, landscape, still-life or frozen action scene. Hopefully I’ve helped to create something much more memorable and rewarding.

Alan M. Clark immagini

Due illustrazioni di Alan M. Clark. Che storie vi ispirano?

Many years ago, unaware that I engaged in this practice within my work—or at least having never thought it through and articulated it—I was surprise to discover that a writer, Gary A. Braunbeck, had seen a piece of my artwork and been so inspired by the story it suggested to him that he had written a story based on it and that the story had been published. I met two other writers who had done the same with other images of mine. […] This gave me the idea of producing anthologies of stories based on my artwork.

Clark sostiene che nella sua professione ci sono due tipi di esercizi per migliorarsi. Il primo tipo di esercizi consiste nell’affinare la propria tecnica e nello studio delle regole di composizione, per riuscire così a dare la forma appropriata alle proprie idee; il secondo tipo consiste nel lasciarsi andare alla propria ispirazione per esplorare nuove idee e immagini1. E’ interessante, perché troviamo la stessa cosa in narrativa: da una parte bisogna lavorare sul proprio stile, sulla propria tecnica, per immergere il nostro lettore e comunicargli al meglio le nostre idee (la forma); dall’altra parte bisogna coltivare la propria immaginazione per sviluppare storie originali (il contenuto). Serve l’una e serve l’altra.
Se per affinare il proprio stile servono lo studio dei manuali e della prosa dei migliori scrittori, per migliorare la propria creatività tutto potenzialmente fa brodo. Anche se le immagini non sono storie, suggeriscono delle storie. Chi, guardando un quadro particolarmente accattivante, non si è mai chiesto cosa accadesse aldilà della cornice, come continuassero l’azione o il mondo immobilizzati nell’immagine? Per questo sono sempre a caccia di nuove immagini, navigando su 4chan (dove, fatto curioso, non c’è solo il pr0n) o spulciando tra gli archivi di Siobhàn, che è un’assidua visitatrice di DeviantArt.

Per quanti anni possano trascorrere, credo che non riuscirò mai a dimenticare L’isola dei morti, la serie di dipinti del pittore simbolista Arnold Bocklin. La prima volta che lo vidi su un libro – dovevo avere quattordici o quindici anni – mi mise addosso un’ansia terribile. Dovetti voltare pagina per rallentare il battito cardiaco. Esagerato? Forse. Ma ancora oggi, a guardare quegli scogli squadrati, sotto quel cielo greve, pesante, con i pioppi che schizzano verso l’alto, con quell’atmosfera di immobilità, entro in agitazione. L’immagine mi ha così colpito che per diverso tempo mi sono gingillato con l’idea di scriverci sopra un romanzo o un racconto; e non è escluso che tenti di farlo in futuro. Col tempo ho imparato a preferire la terza versione del dipinto – più pulita, più fantasy, più animata, più piacevole alla vista – ma ancora oggi credo che sia la prima versione a entrare più in risonanza col nostro inconscio.

L'isola dei morti

La prima e la terza versione de L’isola dei morti.

Del resto, non sono l’unico. L’isola dei morti fu uno dei dipinti più popolari nei primi decenni del Novecento, suggestionando scrittori, artisti, gente normale. Pare che lo stesso Hitler fosse un grande estimatore dell’opera. Nel corso del secolo diverse opere letterarie sono state ispirate da questa location; anche Roger Zelazny ha ceduto al suo fascino, scrivendo nel 1969 il romanzo Isle of the Dead (che purtroppo non ho letto; ma lo farò, giuro).
Ma il quadro più inquietante che abbia mai visto l’ho scoperto grazie a Ballard, che lo citava a più riprese nel suo La mostra delle atrocità. Parlo di L’occhio del silenzio di Max Ernst. Perché così inquietante? Non saprei, né mi aspetto che abbia lo stesso effetto su altre persone… Il bello di queste immagini è che possono ispirare un’atmosfera e una storia diversa a ciascuno di noi.

L'occhio del silenzio

L’occhio del silenzio.

Per questo vi consiglio di aggiungere il blog di Alan M. Clark al vostro feed reader. Perché non provare, una volta a settimana, a fare anche voi gli esercizi di dilatazione?
Per parte mia, aggiungerò questo articolo alla sezione “Risorse”, perché possiate raggiungerlo facilmente anche tra mesi.

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(1) Cito testualmente, dalla stessa pagina del blog di Clark:

Sometimes I think of my imagination as a muscle that when exercised regularly will perform better and better. […] There are two kinds of exercises for it; those that condition it to flex and those that condition it to relax. The flexing type involves things like developing technique and learning about composition that help me to shape ideas. The relaxing types are more meditative exercises that help me to get out of my own way so that the curious, exploring, giddy child artist within can try new things, take risks, and hopefully offer up creations that are fresh and unselfconscious.Torna su

L’amaro destino del free-roaming investigativo

Cole PhelpsLa settimana scorsa io e Siobhàn abbiamo finalmente finito L.A. Noire. C’è voluto un anno. Il che riassume alla perfezione il bene e il male di questo gioco: continuamente mollato, l’abbiamo anche continuamente ripigliato in mano perché dovevamo sapere come andava a finire.

Ci troviamo nella Los Angeles di fine anni ’40. Una Los Angeles in cui i veterani della Seconda Guerra Mondiale faticano a reintegrarsi, la corruzione viaggia a tutti i livelli – dal municipio alla polizia al mercato immobiliare – la mafia ebrea controlla il narcotraffico, le radio mandano tutto il giorno orribili canzonette, radiodrammi e l’occasionale buon pezzo jazz, e giovani donne di belle speranze arrivano a vagonate per tentare la strada del successo a Hollywood.
Cole Phelps è uno di quelli che ce l’ha fatta. Tornato dal fronte a Okinawa con una medaglia al valore sul petto, è entrato nel LAPD, la polizia di Los Angeles. Di qui in poi il controllo passa al videogiocatore: dopo alcuni brevi livelli tutorial da poliziotto di pattuglia, Phelps diventa investigatore e il gioco vero e proprio comincia. E mentre noi facciamo far carriera al nostro protagonista, piano piano si disegna sullo sfondo una trama di ampio respiro – una storia che mette insieme il passato al fronte di Phelphs e il destino che lo attende nel mondo corrotto della polizia e della pubblica amministrazione di Los Angeles.


Il tema principale del gioco.

L.A. Noire vuole coniugare i meccanismi di un gioco investigativo con quelli del free-roaming alla GTA. La città è esplorabile liberamente, a piedi o in macchina; si può usare la propria, ma si può anche fermare un’auto per strada e, facendo leva sul potere del distintivo (polizia! Ci serve la sua macchina!), portargliela via – il tasto è persino lo stesso che in GTA.
Al contempo, tutta l’azione di gioco si svolge all’interno dei Casi: è stato commesso un delitto e bisogna trovare il colpevole. Generalmente ogni caso segue questo canovaccio: arriva in centrale la comunicazione del delitto, per esempio che è stato trovato qualcuno ammazzato; si va sulla scena del delitto; si raccolgono gli indizi; si va a interrogare parenti/amici/conoscenti o a visitare i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima; si stila una prima lista di imputati. L’investigazione continua con una serie di perquisizioni e interrogatori fino ad arrivare ad accusare un colpevole; a quel punto il Caso si chiude e viene assegnato un punteggio – da una a cinque stelle – in base alla bravura. Spesso i casi sono poi conditi da piccoli momenti d’azione: inseguimenti (a piedi o in macchina), risse, sparatorie.

Gli interrogatori sono di sicuro la parte meglio riuscita del gioco. Tutti i personaggi del gioco sono stati realizzati usando attori veri, e ricreando nel dettaglio la loro mimica facciale. I visi e le espressioni dei personaggi di L.A. Noire sono straordinari – credo i più realistici e vividi che abbia mai visto. …se la persona è sincera terrà gli occhi fissi, ma se sta mentendo o nascondendo delle informazioni, tradirà la sua malafede con tanti piccoli gesti: un tic nervoso alle labbra, lo sguardo che si abbassa, un movimento laterale della testa. Studiare l’imputato diventa essenziale. Se poi siamo in grado di dimostrare che sta mentendo, possiamo richiamare dal taccuino uno degli indizi che abbiamo rinvenuto nelle indagini e schiaffarglielo in faccia per indurlo a confessare.
Ma se un interrogatorio azzeccato regala parecchie soddisfazioni, non si può dire lo stesso del gioco nel suo complesso. Mano a mano che si va avanti nel gioco, ci si comincia a rendere conto che la libertà di L.A. Noire è più apparente che reale.
Faccio un esempio. Una volta avevo finito un caso con una sola stellina – la peggior valutazione possibile. Avevo mancato alcuni indizi, sbagliato qualche domanda, uno dei personaggi cruciali dell’indagine era finito ammazzato e un altro era scappato, e il mio boss mi aveva urlato dietro che mi rimandava a dirigere il traffico. Vabbé – il gioco continua. Nel post-game, ripeto il caso e questa volta lo faccio tutto giusto. Be’, la serie di eventi è assolutamente identica: la tipa viene ammazzata, il tipo se la squaglia. Ma questa volta il commissario è entusiasta e piglio 5 stelle. Morale: punteggio e discorso finale a parte, il caso si svolgeva nella stessa identica maniera, e con la stessa sequenza fissa di step a prescindere da come mi comportassi.

Cole Phelps

La libertà all’interno dei casi è minima. A volte non puoi abbandonare una scena se non hai trovato tutti gli indizi essenziali, o comunque il gioco trova qualche sgamuffo per farti arrivare comunque alla scena finale e farti trovare il colpevole. I casi che sviluppano la trama principale, poi (e specialmente nell’ultima parte del gioco), sono ancora più rigidi: che un interrogatorio riesca o fallisca, il giocatore entra in possesso dello stesso numero di informazioni, e sono poi eventi indipendenti dalle nostre azioni a pilotare l’indagine verso la sua conclusione.
Stesso dicasi per l’esplorazione libera di Los Angeles. Per carità, puoi andare dove vuoi – ma a fare che? Aldilà di un certo numero di sub-missioni (i “crimini per strada”, ciascuno dei quali è risolvibile in un paio di minuti è comprende in genere una rissa, un’inseguimento, una sparatoria o un pedinamento), non c’è assolutamente nulla da fare se non risolvere i casi. Nessun interno è visitabile se non per ragioni legate al Caso che si sta affrontando in quel momento. L’interattività è pari a zero; persino investire i pedoni è meno divertente che in GTA (e ha conseguenze molto meno gravi, sebbene tu sia un poliziotto!).
Questa rigidità di struttura fa emergere a sua volta una certa ripetitività nella struttura dei casi. Il capitolo della Omicidi, in cui si ha a che fare con un serial killer, ci mette di fronte a una serie di scene del crimine una uguale all’altra, e dopo un po’ subentra la noia. Si ha l’impressione di giocare fondamentalmente sempre allo stesso caso, e a un certo punto vien voglia di mollare il pad e non toccare il gioco per settimane o mesi.
Insomma, ti senti tradito: ma come, tutta questa libertà, e invece?

Due free-roaming investigativi alternativi
Sperimentando i difetti di L.A. Noire, ho cominciato a chiedermi come potrebbe essere una versione riveduta e corretta. Mi sono venuti in mente due modelli possibili, di complessità crescente:

Modello investigatore privato
L’alternativa più semplice. Scegliendo come protagonista un investigatore privato, si bypassano tutti i problemi relativi alla routine lavorativa. Un Philip Marlowe non ha orari: lavora quando vuole; e così il giocatore. Alcune attività potrebbero essere svolte solo di notte (per esempio visitare un localino malfamato per raccogliere informazioni…), così da dare profondità al ciclo giorno-notte.
Il livello di libertà sarebbe quindi analogo a quello di un GTA, benché questa volta si lavori dalla parte della legge; rispetto a GTA, comunque, rimarrebbe un solido elemento investigativo fatto di perquisizioni, raccolta di indizi e interrogatori.

Modello investigatore di polizia
Con un protagonista regolarmente inserito nella polizia, si dovrebbe invece integrare il free-roaming investigativo con elementi di gioco gestionale. Il nostro personaggio dovrebbe alzarsi tutte le mattine per timbrare il cartellino. Le sue indagini dovrebbero seguire determinate procedure.
Suona noioso, ma in realtà apre un sacco di potenzialità interessanti. Prima fra tutte quella della carriera: in base al nostro talento nelle indagini, si potrà salire di grado e passare, per esempio, dalla Furti alla Omicidi. Gestiremmo, a tutti gli effetti, il destino professionale del nostro personaggio. Il gioco potrebbe essere a tempo, con un finale diverso (o anche un pacchetto di missioni-casi conclusivi e conseguente finale) a seconda del livello gerarchico e del prestigio che siamo riusciti a raggiungere. Una serie di fallimenti potrebbe condannarci a dirigere il traffico in eterno, e quindi a un prematuro bad ending. O, nel caso di una condotta sbagliata, potremmo addirittura finire destituiti o in carcere: game over.
La città rimarrebbe liberamente esplorabile e il ciclo giorno-notte continuerebbe a esserci, ma avremmo molta meno libertà e dovremmo gestire il nostro tempo con precisione e pianificazione. Il motore di gioco non ci impedirebbe di cazzeggiare fino alle undici del mattino invece che andare al lavoro o di investire passanti, ma poi dovremmo pagarne le conseguenze… Un’esperienza più simile all’L.A. Noire originale, ma senza tutti i paletti.

Attori in L.A. Noire

“Figata, eh?”

In entrambi i casi, un free-roaming investigativo onesto dovrebbe essere aperto nella risoluzione dei casi. Manchi una serie di indizi o non riesci a cavare informazioni dagli indagati? Caso fallito. Perdi troppo tempo, o segui la pista sbagliata, e intanto il colpevole prende l’aereo per Mosca e chi s’è visto s’è visto? Andrà meglio la prossima volta. Accusi un innocente? Farai fare una brutta figura al dipartimento e poi sono cazzi tuoi.
Al giocatore dev’essere data la possibilità di sbagliare (o di risolvere il caso in maniere differenti) perché possa sentirsi libero e diventare un bravo detective. Il suo personaggio deve avere un destino lavorativo diverso a seconda che azzecchi ogni caso o che sia un incapace. Il finale dev’essere aperto. Molti programmatori ormai si riempiono la bocca con il mantra che “Il giocatore deve sentire che le sue scelte sono reali / pesano / fanno la differenza”, ma la realtà è che in quasi tutti questi giochi questa libertà di scelta è posticcia.
Certo: un gioco realmente libero, con centinaia di biforcazioni e varianti, è esponenzialmente più costoso da realizzare. La solita triste storia.

Il destino del free-roaming investigativo
Il Team Bondi, la squadra dietro L.A. Noire, ha chiuso. E’ successo un anno fa.
La ragione non ha niente a che vedere col gioco (che pur essendo una roba insolita ha venduto bene) ma, a quanto sembra, con l’incapacità gestionale dei manager. Il franchise ora è nelle mani di Rockstar, che non esclude di poter lavorare in futuro ad un seguito ma non ha progetti nell’immediato 1.
La verità è che il futuro del genere investigativo è tutt’altro che rosea. Gli ultimi anni ci hanno mostrato che ormai i giochi più originali provengono da sviluppatori medio-piccoli, che ci spendono budget relativamente bassi e possono correre il rischio di un fallimento. Le grandi case sono invece intrappolate nello stesso meccanismo di Hollywood: hanno bisogno della certezza di un successo enorme per rientrare dei costi dei loro giochi giganteschi.

Ora: si può fare un Catherine o un Disgaea con budget modesti, ma non un L.A. Noire. Non un GTA investigativo. Un free-roaming investigativo fatto come Dio comanda richiede una barca di soldi. E chi è che si prende il rischio di fare un gioco complicato come i due modelli da me proposti sopra? Forse ancora ancora il primo – magari un futuro L.A. Noire 2 targato Rockstar sarà fatto proprio così, e si ispirerà più direttamente ai romanzi di Chandler – ma il secondo? Soprattutto: a chi interesserebbe un gioco del genere? Di sicuro a una nicchia di mercato troppo piccola per giustificare lo sforzo.
Non è strano che in letteratura si producono molte più idee strane, molte più storie assurde e poco rodate, che in altri medium. Ci vuole una sola persona e il costo è quello delle notti passate a scrivere invece che a guardare un film o dei libri su cui ci si è documentati. E’ per questo che alla fine, anche dopo aver giocato un casino ed essermi divertito, torno sempre ai libri.

Macchina sporca di sangue

“Poffarbacco, un bagagliaio.”

La materia di cui sono fatti i sogni
Sia come sia, di L.A. Noire ricorderò soprattutto l’atmosfera. Giocare a L.A. Noire significa vivere l’America degli anni ’40; nelle musiche alla radio, nelle facce e negli abiti della gente, nel loro modo di parlare, nei telefoni a disco che si trovano nelle case o appesi a pali sui cigli delle strade.
Mi sembra pure di aver imparato delle cose su quell’epoca. Per esempio che tutti gli uomini avevano tagli di capelli orribili, corti e appiccicati al cranio, e che se li tagliavano così per potersi mettere un cappello; e che del resto il cappello era una parte indispensabile dell’abbigliamento, perché se te lo togli o ti cade, con dei capelli del genere, sei inguardabile.
Ho anche imparato che non mi sarebbe piaciuto vivere in quell’epoca. E’ abitudine comune rimpiangere le epoche passate, dirsi “ah, se solo fossimo vissuti in quegli anni invece che in quest’epoca disgraziata…” – specie se parliamo di periodi di boom economico – magari mentre si guarda un vecchio film, un Il mistero del falco, un Viale del tramonto, o un Il grande sonno. L.A. Noire ti guarisce. Scopri che fondamentalmente esistevano due tipi di uomini: il duro, insensibile, strafottente, che si fa rispettare e possibilmente fa i soldi (e guadagna qualche punto bonus se picchia la moglie), e lo sfigato che non ce l’ha fatta. Pochissima varietà nei gusti, negli hobby, nell’abbigliamento. Il filosofo della domenica dice che la società moderna va verso l’omologazione, ma cazzo, vai a guardarti quegli anni: allora sì che gli uomini erano – o dovevano essere – tutti uguali. E quelle bretelle non si possono vedere.
Ah, e ovviamente dare a qualcuno del rosso era peggio che dargli del figlio di puttana. Brutti tempi, signora mia, brutti tempi.

Alla fine è corretto dire che L.A. Noire sia un gioco d’atmosfera ancor prima che un gioco investigativo. Molti recensori ci hanno marciato e, nel tentativo di mettere in ombra le pecche del gioco, ne hanno parlato come di un “film interattivo”. Da infilare nella stessa categoria di un Heavy Rain, insomma: ogni tanto pigli il pad in mano, ma fondamentalmente ti guardi un’esperienza non tua.
A me non pare un complimento, e mi auguro che giochi futuri – se mai ce ne saranno – cambino strada. Ma di sicuro L.A. Noire offre una delle esperienze più affascinanti, e una delle storie più adulte che mi sia mai capitato di giocare. Finalmente un gioco anglosassone in cui i cattivi non sono i Massoni, non sono i Templari, non sono il Nuovo Ordine Mondiale “hahahaha, esistiamo da minimo 800 anni e abbiamo fatto cadere le Torri Gemelle”. Non è un gioco dove alla fine tutti i cattivi sono morti o dietro le sbarre, e i buoni in trionfo; perde solo chi non è riuscito a pararsi il culo abbastanza, e non è che un uomo solo possa eliminare definitivamente la corruzione di un’intera città. L.A. Noire è uno slow-burning, ma quando comincia a bruciare si passa sopra la ripetitività delle missioni per scoprire come va a finire. Gli ultimi quattro-cinque Casi ce li siamo fatti in apnea. E l’alienista Harlan Fontaine è un fiQo.
Se vi capita provatelo, e ditemi se non è un gioco curioso.

(1) Ecco le parole testuali, fonte questa FAQ sul sito della Rockstar:

While there won’t be any more DLC or additional content for the current release of L.A. Noire (we’re all too busy working on Max Payne 3, GTAV and other games to come), don’t count out the possibility of a new game in the L.A. Noire franchise in the future. We simply have not decided anything. We’re all very pleased with how that game turned out and are considering what the future may hold for L.A. Noire as a series. We don’t always rush to make sequels, but that does not mean we won’t get to them eventually – see Max and Red Dead for evidence of that – we have so many games we want to make and the issue is always one of bandwidth and timing.

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I Consigli del Lunedì #28: The Windup Girl

The Windup GirlAutore: Paolo Bacigalupi
Titolo italiano: –
Genere: Science Fiction / Social SF / Distopia / Politico / Biopunk
Tipo: Romanzo

Anno: 2009
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 361

Difficoltà in inglese: ***

In un XXIII secolo povero e decadente, vittima di una serie di virus artificiali andati fuori controllo, che hanno decimato il genere umano e spazzato via la gran parte della flora, il Regno di Thai lotta per la sopravvivenza. L’innalzamento delle acque ha spazzato via molte delle antiche megalopoli, e Bangkok, capitale del regno, è sopravvissuta solo grazie ad un miracolo ingegneristico: una barriera circolare alta duecento piedi che impedisce all’acqua di entrare. Assediata dall’oceano e dalle calorie companies, multinazionali della bioingegneria che ricreano organismi del passato per poi brevettarli e rivenderli, Bangkok deve la sua sopravvivenza alla custodia segreta di una ricca banca di sementi – su cui ora gli stranieri vogliono mettere le mani.
Ma ora la ripresa economica rischia di travolgere l’isolazionismo thailandese. In una Bangkok dagli equilibri politici sempre più fragili, si muovono quattro personaggi: Anderson Lake, calorie man in missione segreta per trovare la banca dei semi e far penetrare la sua compagnia nel paese; Hock Seng, profugo cinese che ha perso tutto e con la determinazione di tornare in alto; Jaidee, capitano del potente Ministero dell’Ambiente, ex campione di muay thai e flagello dei contrabbandieri; ed Emiko, la ragazza caricata a molla, abbandonata dal suo padrone giapponese e costretta a servire in uno strip club e a sopportare ogni sevizia. Chi resterà in piedi attraverso gli sconvolgimenti che stanno per abbattersi sulla città?

La prima volta che sentii parlare di The Windup Girl, e del fatto che aveva vinto il Premio Hugo nel 2009, mi dissi: “No! Non è possibile! Un italiano?”. E infatti non era possibile: Bacigalupi è un americano dalla testa ai piedi, nato e cresciuto nell’insulso stato del Colorado. Non sono il primo blogger italiano a recensire il romanzo di Baciglupi – per esempio, Mr. Giobblin ne ha parlato quasi un anno fa. Ma quando un romanzo è veramente bello (e poco conosciuto qui da noi), è giusto pubblicizzarlo; e poi, spero di dire qualcosa in più oltre a quanto è già stato detto.
The Windup Girl è un raro esempio del sottogenere Biopunk, un cugino più giovane del Cyberpunk in cui il fulcro dell’innovazione tecnologica non è più il cyberspazio né la robotica, ma l’ingegneria genetica. Si sintetizzano nuove piante e animali in laboratorio, e si modifica il genoma umano per creare delle nostre varianti – i windup. The Windup Girl è anche un romanzo corale, in cui si alternano le avventure (e i pov) di quattro (…cinque?) personaggi diversi. E’ un’opera prima molto ambiziosa. Ce l’avrà fatta?

Bob-omb

La nuova razza che soppianterà la specie umana?

Uno sguardo approfondito
The Windup Girl mette a nudo sia i pregi che i difetti del romanzo corale. La scelta di alternare i punti di vista di quattro personaggi diversi può essere inizialmente spaesante e anti-immersivo, e in effetti nelle prime 50-60 pagine il ritmo del romanzo è piuttosto blando. Man mano che si procede nella lettura, però, le vite dei quattro personaggi cominciano a intrecciarsi – il lettore comincia a parteggiare per l’uno o per l’altro, a chiedersi chi la spunterà e chi farà una brutta fine, e insomma, mettere giù il libro diventa sempre più difficile. Superato il primo quarto, il romanzo decolla.
Molti premi attendono lo scrittore che sappia sfruttare il potenziale del romanzo corale. I livelli di conflitto si moltiplicano: si prova empatia per personaggi che hanno interessi e obiettivi diversi, e che spesso tenteranno di farsi la pelle a vicenda.
Prendiamo Anderson, il protagonista: è il primo pov del romanzo, il personaggio attraverso cui esploriamo per la prima volta Bangkok. Difficile non identificarsi in lui e appassionarci alla sua missione, provare dolore e sconforto ogni volta che un nuovo ostacolo si frappone tra lui e il segreto della banca dati, e una punta di entusiasmo per ogni piccolo successo; ma al contempo, la parte più critica di noi ci ricorda che Anderson è uno stronzo, interessato solo a far penetrare la sua compagnia nell’economia thailandese e disposto a fare terra bruciata di qualsiasi ostacolo. E per la cronaca, le calorie companies sono veramente delle merde: una volta sintetizzate o acquisite nuove piante, le brevettano per vietare la libera distribuzione, dopodiché vendono ai governi sementi a tempo che diventano sterili dopo X raccolti e devono essere comprate di nuovo (delle specie di sementi con DRM!). I nostri giudizi morali sono ulteriormente complicati dal fatto che un altro dei personaggi-pov, il capitano Jaidee, è il più agguerrito avversario delle calorie company e di Anderson – e nel corso del romanzo farà di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote.

Attraverso gli occhi dei quattro personaggi-pov, possiamo vedere sfaccettature diverse della città, ed esplorare gli stessi macroconflitti da punti di vista diversi. Attraverso Anderson vediamo le fabbriche di molle a torsione, la difficile accoglienza che i farang stranieri hanno nel regno, il quartiere dei calorie men dove si passa il tempo a bere e a maledire gli apatici thai. Col punto di vista di Hock Seng viviamo la miseria dei profughi, i più fortunati dei quali – come lui – vivono in cubicoli di lamiera, mentre le masse di immigrati malesi stanno rinchiuse nei piani alti dei grattacieli abbandonati e senza energia elettrica. Attraverso Jaidee e il tenente Kayla entriamo nelle vastità labirintiche, ma sulla via del degrado, del Ministero dell’Ambiente, mentre con Emiko visitiamo il mondo notturno dei night club, dove gli uomini più irreprensibili, che in pubblico condannano le ragazze a molla come un’aberrazione contronatura, si abbandonano a nuove perversioni. E il mondo di Bangkok appare incredibilmente vivo e tridimensionale.

Semi

Semi: godeteveli prima che diventino sterili. E ovviamente non potete prestarli in giro: sarebbe la morte della bioingegneria creativa.

In The Windup Girl si respira la stessa atmosfera dei romanzi coloniali di Conrad, Kipling, Orwell, condita da un tocco fantascientifico. I mercati rionali all’ombra dei grattacieli abbandonati, che da un giorno all’altro possono essere invasi da nuovi frutti di cui nessuno ha mai sentito parlare; i megadonti, enormi elefanti che trasportano merci per le strade della città e fanno girare perni giganteschi nelle fabbriche di molle supertorcenti; l’ostilità passiva dei nativi verso gli stranieri, che si manifesta nell’apatia, nell’inefficienza, in mille piccoli sabotaggi, e nello strapotere dei sindacati coordinati dal Signore dello Sterco; la venerazione dei thai per la gerarchia e i loro complicati rituali di sottomissione e di umiliazione.
Ora, io non so niente della cultura thai, e non so quanto questo ritratto di una Thailandia del XXIII sia verosimile. Ciononostante, l’affresco di Bacigalupi è incredibilmente convincente; si ha l’impressione di una civiltà simile e al tempo stesso aliena a quella occidentale, intrisa di quel confucianesimo che fa tanto Estremo Oriente. Questo tra l’altro dovrebbe infilare una patata in bocca a quei geni che portano alle estreme conseguenze la massima “scrivi di ciò che sai” e affermano che si possa parlare solo della propria terra e della propria cultura 1.
Certo, Bacigalupi a volte esagera. Per esempio nell’abuso di termini stranieri. Anche questo è un tratto preso dai maestri del romanzo coloniale – molti romanzi di Conrad sono punteggiati di termini come farang o rajah – ed è utile a dare un tocco esotico all’ambientazione. Ma poi Bacigalupi se ne esce con periodi come questi:

All around her, clotheslines draped with rustling pha sin and trousers rustle in the sea breeze. The sun is sinking, glistening from the tip of wats and chedi. The water of the khlongs and the Chao Praya glistens.

OMG! Datti una calmata!
Ma per fortuna questi eccessi sono rari.

Se la Bangkok di Bacigalupi è così immersiva, comunque, il merito sta anche in un’ottima gestione del mostrato. Tutto è sempre filtrato attraverso il personaggio-pov del momento, il narratore onnisciente non si inserisce mai; e ogni capitolo ha un unico pov, così da evitare confusione. Gli infodump, che pure non mancano, sono resi più digeribili perché introdotti come pensieri o flashback dei personaggi. Questo non impedisce che, soprattutto all’inizio, ci si senta un po’ spaesati e soffocati dalla mole di informazioni, e che a volte gli infodump appaiano innaturali; ma il risultato finale rimane più che buono. Soprattutto si evita di cadere nell’eccesso opposto, quello del primo Swanwick: un lettore completamente spaesato perché continuamente privato di informazioni.

Thaitanic

The Windup Girl presenta anche uno degli intrighi politici più realistici e intelligenti che abbia mai letto. La storia è sempre la stessa, e sembra echeggiare le simpatiche avventure coloniali di Gran Bretagna e Stati Uniti nella Cina dell’Ottocento: da una parte, le calorie companies del Midwest Compact vogliono imporre al Regno di Thai una piena libertà di commercio; dall’altra, il governo thailandese sa di essere scampato alla rovina che ha travolto l’Asia proprio grazie alla loro politica isolazionista. Ma le cose sono più complicate di così: un governo non è mai compatto, e ciascuna corrente tenta di fare i propri interessi e imporsi sull’altra…
Lo scenario politico è quantomai complicato, e nel primo quarto del libro seguire il filo dei complotti è piuttosto faticoso. Bacigalupi cade nel solito, facile errore di introdurre le fazioni politiche prima come nomi volanti e solo successivamente come volti ben riconoscibili. Ma a differenza di quanto accadeva in The Difference Engine, queste fazioni a un certo punto prendono corpo, e di lì in poi le cose si fanno veramente appassionanti. Le forze economiche di scala globale, i complotti politici locali, la forza di singoli uomini forti capitati nel posto giusto al momento giusto: Bacigalupi tiene conto di tutto, e il risultato è spettacolare. C’è anche spazio per qualche plot twist, e qualche azione straordinaria che difficilmente potrebbe accadere nel nostro mondo prosaico; ma il tutto inserito in una cornice di estrema credibilità.

E il sense of wonder fantascientifico? C’è anche quello, benché in misura ridotta. Nei romanzi di Bacigalupi gli elementi fantastici sono tenuti al minimo e subordinati a un’ambientazione che pare quasi mainstream, il che è un’ottima scelta, considerata la sua attenzione al realismo e quanta carne al fuoco ci sia. In ogni caso, la ragazza a molla del titolo regala diverse piccole sorprese nel corso del romanzo – alcune più telefonate, altre meno. Nonché diversi spunti affascinanti sulla selezione darwiniana e sul futuro evolutivo della nostra specie.
La tecnologia della Bangkok del XXIII secolo, però, mi suscita qualche perplessità. E dato che non sono il solo, preferisco far parlare il blogger Vanamonde, che ha studiato ingegneria e sicuramente ci capisce più di me. Cito dalla sua recensione:

La principale critica che muovo a The Windup Girl è di natura tecnologica. Per quanto il mondo evocato dal romanzo sia coerente e affascinante, l’ingegnere che è in me ha diverse obiezioni. Per cominciare, in caso di esaurimento del petrolio mi aspetterei un fortissimo incremento nell’utilizzo di fonti rinnovabili di energia. In particolare, un Paese costiero e tropicale come la Thailandia potrebbe sfruttare con grande efficienza il solare, l’eolico, le maree o il gradiente di salinità. Nulla di tutto ciò avviene nel romanzo, dove si utilizzano centrali termoelettriche a carbone dove indispensabile, e per il resto ci si arrangia con energia di origine umana o animale. Si gira una manovella persino per far funzionare una radiolina portatile, roba che anche oggigiorno potrebbe funzionare a energia solare. Una simile assenza di energie alternative è inspiegabile, tanto più che il livello tecnologico è rimasto elevato, e si vedono numerosi esempi di nuovi materiali.
Anche l’utilizzo di energia animale all’interno della produzione industriale (in particolare con l’uso di elefanti geneticamente modificati, detti megodonti) fa molto colore, ma sfugge alle regole della logica. Un elefante “funziona” a biomassa. Per quanto possa essere efficiente, la stessa biomassa che gli si dà come foraggio potrebbe essere trasformata in alcool e usata per far funzionare un motore, che occupa meno spazio di un elefante, non deve riposare, non sporca, non si ammala, richiede meno supervisione umana, e probabilmente ha anche un rendimento migliore in termini di sfruttamento delle calorie.
Del tutto assurdo poi è il fatto che l’energia venga immagazzinata sotto forma meccanica, torcendo molle ad altissima resistenza: chi ha disinventato dinamo, alternatore, accumulatore, batteria e motore elettrico?
Insomma, l’impressione è che Bacigalupi nel creare il suo mondo si sia fatto guidare più dal potenziale simbolico delle situazioni (ogni cosa appare “caricata a molla”, inclusa la ragazza artificiale che è il fulcro della vicenda) che non da un’analisi scientificamente ed economicamente solida. Il che, per un romanzo che tratta un tema così attuale come la scarsità di energia, a me pare un difetto non da poco.

Auto a molla

Ehm, NO.

Detto questo, The Windup Girl rimane a mio avviso un capolavoro. Per ritmo, per complessità dei personaggi, per la ricchezza dell’ambientazione, per il realismo della storia, per ambiguità morale. Bangkok è una città sporca, carica di ingiustizia, di doppiezza e di opportunismo; e nessun personaggio, neanche i più teoricamente “puri”, ne uscirà pulito. E il finale è uno spettacolo.
Ci sarebbero così tante altre cose da dire – ma mi fermo qui, che sennò Dunseny dice che spoilero tutto. Non so se The Windup Girl diventerà un classico della fantascienza, ma dovrebbe diventarlo. Se lo merita. In ogni caso, è diventato uno dei miei romanzi preferiti, schizzando dritto alla tredicesima posizione!

Su Bacigalupi
Paolo Bacigalupi è entrato molto di recente nel panorama fantascientifico americano – ad eccezione dei suoi racconti, che vanno indietro fino al 1999, il suo primo romanzo è del 2009 – ma da allora sta sfornando un libro all’anno. Oltre a The Windup Girl, ne ho letti altri due:
Ship Breaker Ship Breaker, ambientato sulle coste di una Louisiana devastata e impoverita, racconta la storia delle ciurme di braccianti che si guadagnano da vivere smontando i pezzi delle petroliere arenate sulla spiaggia. I protagonisti sono un gruppo di ragazzini che penetrano nei piccoli pertugi delle navi per saccheggiare filo di rame e per conto dei grandi; ma la loro vita d’inferno cambierà quando, in seguito a una tempesta, si imbatteranno nel relitto di un ricco clipper. Il libro è targato come Young Adult, ma di sicuro è uno degli YA più crudi, cinici e onesti in cui mi sia mai imbattuto. Anche qui, l’elemento fantascientifico è molto contenuto.
The Alchemist The Alchemist è una novella fantasy ambientata in un mondo in cui, ogni volta che si casta una magia, da qualche parte nascono rovi indistruttibili. Gran parte del mondo conosciuto è stato inghiottito dai rovi, e ora la magia è bandita; ma gli incantesimi sono troppo utili per la gente, che continua a usarli di nascosto, e i rovi continuano a moltiplicarsi. E quando un alchimista trova un metodo per distruggerli, i signori della città decideranno di piegare la sua scoperta ai loro fini… Il mondo di The Alchemist avrebbe un ottimo potenziale, ma Bacigalupi ci scrive sopra una novella un po’ insipida, scritta così così e coi ritmi sbagliati. Puzza di commercialata, dato che è uscito in coppia con un’altra novellaThe Executioness di Tobias Buckell – con la stessa ambientazione e la stessa premessa di base.
In futuro leggerò sicuramente altro di Bacigalupi – a partire da Pump Six and Other Stories, antologia che raccoglie tutti i racconti da lui scritti fino al 2008. Un po’ mi stuzzica anche Drowned Cities, il suo ultimo romanzo; è un altro Young Adult, ma visto il buon lavoro fatto con Ship Breaker

Dove si trovano?
Su Bookfinder si trovano, in epub e pdf, tutti i libri di Bacigalupi, con l’eccezione di The Alchemist e del recente Drowned Cities; su Library Genesis si trova anche The Alchemist. Ad oggi non mi risulta che alcuno dei suoi libri sia mai stato tradotto in italiano, quindi a chi non sa l’inglese ciccia.

Chi devo ringraziare?
Le prime curiosità verso The Windup Girl mi sono venute grazie alla lettura incrociata della recensione di Mr. Giobblin e di quella di Vanamonde. Ma questi articoli, da soli, non sarebbero bastati a fugare tutti i miei dubbi. Il merito principale va invece a Siobhàn, che ha letto il libro prima di me e mi ha assicurato che mi sarebbe piaciuto un botto. Be’, aveva ragione! ^-^

Bangkok

Qualche estratto
Per il primo estratto, non potevo esimermi dallo scegliere la presentazione della città di Bangkok attraverso gli occhi gelidi di Anderson Lake. Il secondo estratto è preso dalla prima apparizione di Emiko, ed è una breve panoramica del personaggio e delle sue quotidiane esibizioni al night club di Raleigh. Per sapere come vanno a finire le sue sexy disavventure, pigliatevi il libro!

1.
The cigarette’s burning tip reaches Anderson’s fingers. He lets it fall into traffic. Rubs his singed thumb and index finger as Lao Gu pedals on through the clogged streets. Bangkok, City of Divine Beings, slides past.
Saffron-robed monks stroll along the sidewalks under the shade of black umbrellas. Children run in clusters, shoving and swarming, laughing and calling out to one another on their way to monastery schools. Street vendors extend arms draped with garlands of marigolds for temple offerings and hold up glinting amulets of revered monks to protect against everything from infertility to scabis mold. Food carts smoke and hiss with the scents of frying oil and fermented fish while around the ankles of their customers, the flicker-shimmer shapes of cheshires twine, yowling and hoping for scraps.
Overhead, the towers of Bangkok’s old Expansion loom, robed in vines and mold, windows long ago blown out, great bones picked clean. Without air conditioning or elevators to make them habitable, they stand and blister in the sun. The black smoke of illegal dung fires wafts from their pores, marking where Malayan refugees hurriedly scald chapatis and boil kopi before the white shirts can storm the sweltering heights and beat them for their infringements.
In the center of the traffic lanes, northern refugees from the coal war prostrate themselves with hands upstretched, exquisitely polite in postures of need. Cycles and rickshaws and megodont wagons flow past them, parting like a river around boulders. The cauliflower growths of fa’ gan fringe scar the beggars’ noses and mouths. Betel nut stains blacken their teeth. Anderson reaches into his pocket and tosses cash at their feet, nodding slightly at their wais of thanks as he glides past.
A short while later, the whitewashed walls and alleys of the farang manufacturing district come into view. Warehouses and factories all packed together along with the scent of salt and rotting fish. Vendors scab along the alley lengths with bits of tarping and blankets spread above to protect them from the hammer blast of the sun. Just beyond, the dike and lock system of King Rama XII’s seawall looms, holding back the weight of the blue ocean.
It’s difficult not to always be aware of those high walls and the pressure of the water beyond. Difficult to think of the City of Divine Beings as anything other than a disaster waiting to happen. But the Thais are stubborn and have fought to keep their revered city of Krung Thep from drowning. With coal-burning pumps and leveed labor and a deep faith in the visionary leadership of their Chakri Dynasty, they have so far kept at bay that thing which has swallowed New York and Rangoon, Mumbai and New Orleans.

2.
Emiko traces her fingers through the wetness of bar rings. Warm beers sit and sweat wet slick rings, as slick as girls and men, as slick as her skin when she oils it to shine, to be soft like butter when a man touches her. As soft as skin can be, and perhaps more so, because even if her physical movements are all stutter-stop flash-bulb strange, her skin is more than perfect. Even with her augmented vision she barely spies the pores of her flesh. So small. So delicate. So optimal. But made for Nippon and a rich man’s climate control, not for here. Here, she is too hot and sweats too little.
[…] Kannika grabs her by the hair.
Emiko gasps at the sudden attack. She searches for help but none of the other patrons are interested in her. They are watching the girls on stage. Emiko’s peers are servicing the guests, plying them with Khmer whiskey and pressing their bottoms to their laps and running their hands over the men’s chests. And anyway, they have no love for her. Even the good-hearted ones—the ones with jaidee, who somehow manage to care for a windup like herself—will not step in.
Raleigh is talking with another gaijin, smiling and laughing with the man, but his ancient eyes are on Emiko, watching for what she will do.
Kannika yanks her hair again. “Bai!”
Emiko obeys, climbing down from her bar stool and tottering in her windup way toward the circle stage. The men all laugh and point at the Japanese windup and her broken unnatural steps. A freak of nature transplanted from her native habitat, trained from birth to duck her head and bow.
Emiko tries to distance herself from what is about to happen. She is trained to be clinical about such things. The crèche in which she was created and trained had no illusions about the many uses a New Person might be put to, even a refined one. New People serve and do not question. She moves toward the stage with the careful steps of a fine courtesan, stylized and deliberate movements, refined over decades to accommodate her genetic heritage, to emphasize her beauty and her difference. But it is wasted on the crowd. All they see are stutter-stop motions. A joke. An alien toy. A windup.
They have her strip off her clothes.
Kannika flicks water onto her oiled skin. Emiko glistens with water jewels. Her nipples harden. The glow worms twist and writhe overhead, sending out phosphorescent mating light. The men laugh at her. Kannika slaps her hip and makes her bow. Slaps her ass hard enough to burn, tells her to bow lower, to make obeisance to these small men who imagine themselves to be the vanguard of some new Expansion.
The men laugh and wave and point and order more whiskey. Raleigh grins from his place in the corner, the fond elder uncle, happy to teach these newcomers—these small corporate men and women high on fantasies of multinational profiteering—the ways of the old world. Kannika motions that Emiko should kneel.
A black-bearded gaijin with the deep tan of a clipper ship sailor watches from inches away. Emiko meets the man’s eyes. He stares intently, as if he is examining an insect under a magnifying class: fascinated, and yet also repulsed. She has the urge to snap at him, to try to force him to look at her, to see her instead of simply evaluating her as a piece of genetic trash. But instead she bows and knocks her head against the teak stage in subservience while Kannika speaks in Thai and tells them Emiko’s life story. That she was once a rich Japanese plaything. That she is theirs now: a toy for them to play with, to break even.
And then she grabs Emiko’s hair and yanks her up. Emiko gasps as her body arches. She catches a glimpse of the bearded man staring in surprise at the sudden violent gesture, at her abasement. A flash of the crowd. The ceiling with its glow worm cages. Kannika drags her further back, bending her like willow, forcing her to thrust her breasts out to the crowd, to arch further still, to spread her thighs as she struggles not to topple sideways. Her head touches the teak of the stage. Her body forms a perfect arc. Kannika says something and the crowd laughs. The pain in Emiko’s back and neck is extreme. She can feel the crowd’s eyes on her, a physical thing, molesting her. She is utterly exposed.
Liquid gushes over her.
She tries to rise, but Kannika presses her down and dumps more beer in her face. Emiko gags and splutters, drowning. Finally Kannika releases her and Emiko jerks upright, coughing. Liquid foams down her chin, spills down her neck and breasts, trickles to her crotch.
Everyone is laughing.

Tabella riassuntiva

Serratissima trama politica vista da quattro diversi punti di vista. All’inizio è un po’ spaesante.
Bangkok è una città viva e pulsante, che odora di confucianesimo! La tecnologia a molla è poco credibile.
Cinismo e ambiguità morale a go-go.
Emiko è tanto carina!

(1) Ancora poco tempo fa, certuni di questi geni affermavano che gli scrittori italiani dovrebbero scrivere di più dell’Italia e del folklore italiano, e/o ispirarsi ai generi italiani di maggior successo come il poliziesco; allora sì che gli italiani avrebbero finalmente successo! Ah, dannati esterofili!Torna su

I Consigli del Lunedì #27: The Blue World

The Blue WorldAutore: Jack Vance
Titolo italiano: Pianeta d’acqua
Genere: Science-Fantasy / Avventura
Tipo: Romanzo

Anno: 1966
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 190 ca.

Difficoltà in inglese: **

Sono passate dodici generazioni da quando una nave spaziale terrestre è precipitata sul pianeta. Un pianeta povero di metalli e privo di terraferma, le cui infinite distese d’acqua sono spezzate solamente da piccoli arcipelaghi di giunchi, ninfee ed altre piante. I terrestri hanno dovuto adattarsi al nuovo ambiente, costruendo case e villaggi sulle ninfee, e creando barriere e reti sottomarine con i giunchi per intrappolare le spugne commestibili. Ma la loro non è un’esistenza libera. Le acque del pianeta sono infestate dai kragen1, violente creature simili a calamari ma con un’intelligenza quasi umana. Per avere protezione dai kragen, si sono sottomessi a uno di loro, fornendogli quote sempre maggiori di cibo – ma a furia di essere viziato King Kragen è diventato gigantesco, sempre più vorace e più aggressivo.
Sklar Hast non ci sta. Sklar è stato addestrato come assistente Hoodwink del suo villaggio, ossia come manovratore delle complicate torri di comunicazione che permettono di inviare messaggi a lunga distanza e comunicare con gli altri villaggi. Grazie alla sua abilità, Sklar poteva aspirare a sostituire presto il vecchio maestro di gilda, ma ora ha gettato il suo futuro alle ortiche mettendosi contro King Kragen. Perché andare contro il kragen significa andare contro la tradizione; contro il sindaco e contro la gilda dei sacerdoti, l’unico canale comunicativo tra gli esseri umani e le bestie marine. E significa mettere in gioco non solo la propria vita, ma anche quella dei propri cari, perché King Kragen è vendicativo, e la sua ira si abbatterà su coloro che osano sfidarlo. Chi pagherà per le scelte di Sklar? E chi vincerà nella lotta tra uomo e bestia?

Non c’è dubbio che Jack Vance sia un autore di seconda fascia. Oltre ad avere una prosa di qualità che nella migliore delle ipotesi possiamo dire mediocre, raramente le sue idee e i temi centrali delle sue storie hanno quella genialità o fascino che le rendono memorabili. Ciononostante, Vance è un’autore generalmente facile e leggero da leggere, senza essere stupido, e quando sono scazzato non mi dispiace prendere in mano una delle sue novellas o dei suoi romanzi brevi. Tra quelli che ho letto, The Blue World è sicuramente il migliore.
The Blue World è infatti un affascinante what if ambientale: come farebbero degli esseri umani, completamente tagliati fuori dal resto della loro specie, a sopravvivere in un pianeta quasi completamente ricoperto d’acqua? E che assetto prenderebbe la loro società? Visto che si sta avvicinando la scadenza del concorso Hydropunk di Giobblin, mi piace l’idea di dedicare un ultimo articolo all’argomento “mondi sommersi”. Chissà che qualche ritardatario non trovi proprio qui le suggestioni che stava cercando, o qualche piccola idea per dare il tocco finale al suo racconto.

Liberate il kraken!

Uno sguardo approfondito
Basta leggere poche righe per farsi un’idea dell’incompetenza tecnica di Vance. Il quadro dell’anti-immersività è completo: tanto per cominciare il narratore onnisciente, che alla maniera di un prosatore dell’Ottocento parte da una panoramica generale del mondo d’acqua per poi andare progressivamente a stringere, prima sul villaggio dei personaggi principali, Tranque Float, quindi sulla gilda degli Hoodwink e infine sul protagonista. E a braccetto con l’onnisciente, come in genere accade, troviamo l’abuso di infodump e raccontato.
Vance infatti non si fa problemi a spendere pagine e pagine per raccontarci in modo statico e astratto come funziona la vita sulle ninfee del pianeta d’acqua. E se un romanzo ben scritto dovrebbe essere una successione di scene mostrate, collegate al limite da brevi intermezzi raccontati, qui le proporzioni sono invertite: solo nei momenti climatici (e nemmeno sempre!) Vance si degna di abbassare la telecamera a livello dei suoi personaggi e mostrare la scena, mentre il grosso del romanzo è costituito da grossi riassuntoni raccontati.
Il raccontato naturalmente investe anche la caratterizzazione dei personaggi, appiattendola. Ogni nuovo personaggio è introdotto con la spiegazione di chi sia e cosa faccia, e in genere è accompagnato da una serie di aggettivi che lo descrivono. Ecco per esempio com’è presentato il protagonista:

A relatively young man, Sklar Hast had achieved his status by the simplest and most uncomplicated policy imaginable: With great tenacity he strove for excellence and sought to instill the same standards into the apprentices. He was a positive and direct man, without any great affability, knowing nothing of malice or guile and little of tact or patience. The apprentices resented his brusqueness but respected him; Zander Rohan considered him overpragmatic and deficient in reverence for his betters — which was to say, himself. Sklar Hast cared nothing one way or the other.

Altra conseguenza inevitabile di questo stile è che ci viene detto cosa pensare di ognuno dei personaggi; il lettore non può farsi un’idea propria, perché tutto è filtrato dal punto di vista assoluto dell’Autore. Il che è un peccato, dato che alcuni dei comprimari avevano caratteristiche che potevano renderli personaggi molto interessanti: il maestro Hoodwink Zander Rohan, che pur essendo una brava persona teme per la propria età e non riesce ad accettare di essere sostituito nella guida della gilda; sua figlia Meril, che fa da contraltare al pragmatismo del protagonista con il suo desiderio di riscoprire le radici del loro popolo e combatte una lotta solitaria per la conoscenza; il sacerdote Semm Voiderveg, garante della tradizione e del mantenimento di buoni rapporti con King Kragen.

Seline, sempre allegra e curiosa; Naomi, vivace ma equilibrata; e Sklar Hast, diretto e concreto, era considerato troppo pragmatico e irrispettoso.

Il raccontato diminuisce di molto anche il potenziale di conflitto della storia. E dire che The Blue World si presterebbe ad essere un romanzo denso di ambiguità morale e domande spinose. Sklar Hast, come molti protagonisti vanciani, non è un paladino della giustizia; è una persona pragmatica e razionale, i cui obiettivi personali possono collateralmente essere di beneficio per l’intera comunità. Forse: perché nel tentativo di liberare la sua gente dal kragen, Sklar li sta di fatto mettendo in pericolo. La posizione dei tradizionalisti, o almeno, di alcune sue frange – meglio continuare a pagare l’obolo e guadagnare un po’ meno piuttosto che rischiare tutto e perdere tutto – non è così insensata. Spesso la liceità delle azioni di Sklar e del suo programma rivoluzionario appare ambiguo.
Se la storia fosse “mostrata”, ogni lettore potrebbe farsi la propria idea e prendere posizione: hanno ragione i rivoluzionari o i tradizionalisti? O c’è una terza via? Invece Vance ci dice, di fatto, cosa pensare. Quando Sklar pensa male di qualcuno, potete star certi che ha ragione e che quel qualcuno è un cattivo. L’intera struttura del romanzo sembra tesa a dividere in modo manicheo i “buoni” dai “cattivi”: da una parte i pragmatici e i coraggiosi, dall’altra i pavidi, gli illusi, e i farabutti. Assenti anche conflitti interiori: Sklar avrà occasionalmente qualche dubbio o esitazione (molto di rado), ma in generale i personaggi viaggiano come treni, monolitici nelle proprie idee.

La prima cosa che riscatta The Blue World è il fascino dell’ambientazione. Vance si è seriamente chiesto come potrebbe sopravvivere una civiltà terrestre in un mondo così povero di risorse. Sul pianeta d’acqua, tutto può diventare una risorsa. Quando qualcuno muore, il suo scheletro viene pulito e le sue ossa utilizzate per i fini più diversi: per foggiare coltelli, lance e frecce, o strumenti più innocui come pettini. I giunchi più resistenti vengono utilizzati per edificare le torri di comunicazione, un’invenzione particolarmente affascinante.
In cima a pilastri alti dai venti ai trenta metri, una cupola ospita il maestro hoodwink e i suoi assistenti, che manovrano attraverso lunghi bastoni fissati alla torre due pannelli divisi in nove quadrati più piccoli. I pannelli sono dotati di lampade, e attraverso delle corde gli hoodwink possono alzare o abbassare scuri che aprono e chiudono i nove riquadri: in questo modo a ogni istante i due pannelli, come semafori di segnalazione, possono lanciare tutta una serie di messaggi a seconda di quali scuri sono aperti e quali chiusi. L’apprendista hoodwink impiega anni a imparare e approfondire il linguaggio dei pannelli.
Nonostante la tecnologia primitiva, i villaggi del pianeta d’acqua possono così comunicare tra loro a grande distanza.
E questo non è che l’inizio. Per combattere il kragen, i rivoluzionari avranno bisogno di nuovi strumenti e nuova tecnologia, ma come ricavare, per esempio, grosse quantità di ferro, in un mondo d’acqua e giunchi? Be’, a sentire Vance una soluzione c’è – ed è assurda e geniale al tempo stesso. Non voglio rovinarvi il divertimento: andatevele a leggere.

Linguaggio semaforico

La magia del linguaggio semaforico.

Carina anche la società disegnata da Vance. Oltre a una serie di casate principali, la gente del pianeta d’acqua è divisa in caste a seconda del mestiere d’appartenenza. Queste gilde sono organizzate in un modo che ricorda le corporazioni medievali: ogni villaggio ha un capogilda nella figura del maestro, l’anziano nonché il più esperto praticante del proprio mestiere; ogni maestro si sceglie una serie di apprendisti e assistenti, uno dei quali lo sostituirà quando sarà diventato troppo anziano per continuare. La mobilità è ridotta: generalmente, il figlio di un mercante o di un hoodwink farà lo stesso mestiere del padre.
Divertenti i nomi che Vance ha scelto per la maggior parte delle caste: la gilda dei Truffatori ha il monopolio della pesca, mentre i tintori appartengono spesso alla casta dei Peculatori; le Canaglie sovrintendono la costruzione delle barriere per catturare le spugne, mentre i Ladri costruiscono le torri degli Hoodwink. La cosa ha anche un senso e, benché molte ‘rivelazioni’ siano abbastanza telefonate, è bello seguire la graduale scoperta, da parte dei protagonisti, dell’origine delle colonie del pianeta d’acqua.

Inoltre bisogna ammettere che, pur con tutti i suoi difetti, la scrittura di Vance ha un pregio: il ritmo. The Blue World non si perde in pretese di letterarietà, come il suo collega della settimana scorsa; la trama è lineare e diretta, e non c’è posto per alcunché che non muova la storia o le relazioni tra i personaggi. I dialoghi, benché privi dell’istrionismo comico di altre opere di Vance – mancanza dovuta in parte alla serietà del protagonista e del tema centrale del romanzo – sono vivaci. Gli avvenimenti si succedono a ritmo rapido, e l’intero romanzo si può tranquillamente leggere in due-tre giorni. Gli scontri tra i piccoli abitanti del pianeta d’acqua e l’apparentemente invincibile King Kragen sono sinceramente affascinanti, e pieni di tensione; le ‘soluzioni’ trovate dai rivoluzionari per combattere la bestia sono sempre sensate, e il lettore non si sente mai tradito. Tutto questo – fatti salvi i difetti sopra elencati – rende The Blue World un buon romanzo d’avventura.
Insomma, siamo lontani dal capolavoro, ma il romanzo di Vance resta una lettura piacevole e intelligente. Lo penalizzano una scrittura anti-immersiva, la mancanza di ambiguità morale, le occasioni di conflitto sprecate e l’eccessiva linearità della trama; ma i contenuti sono interessanti. In particolare, Jack Vance ha un vantaggio su una scrittrice assai blasonata da noi, Ursula K. LeGuin: pur giocando sullo stesso terreno – lo science-fantasy dal taglio etnografico – Vance è più vivace e più fantasioso della LeGuin, ed è privo del fastidioso afflato didattico di quest’ultima. Gli amanti della LeGuin potrebbero sentirsi a casa con un romanzo di Vance, e in particolare con questo The Blue World.
La lettura è consigliata in particolare a chi partecipi o voglia partecipare al concorso Hydropunk.

Vance VS LeGuin

“A noi due, Ursula.”

Dove si trova?
Purtroppo, The Blue World non si trova né su Bookfinder né su Library Genesis; Dago mi conferma però che si può recuperare sul canale #books di irchighway, tramite mIRC. In alternativa, si può comprare su Amazon: ci sono due edizioni kindle differenti, quella della Gollancz a 6,49 Euro e quella di una certa Spatterlight Press a 4,78 Euro. Non so dire se quella che costa di meno sia formattata altrettanto bene.
Quanto a un’edizione italiana: esistere esiste, ma sul Mulo non l’ho trovata.

Su Jack Vance
Oltre alle Tales of the Dying Earth, la gargantuesca raccolta di romanzi e racconti sulla Terra morente di cui ho parlato lo scorso Marzo nel Consiglio #15, nel corso di quest’anno ho letto tutta una serie di romanzi science-fantasy autoconclusivi di Vance. Il giudizio globale non è molto positivo, e va dal “bleah” al “meh” con qualche occasionale punta di “carino”.
I libri di Vance sono il solito compendio di incompetenza tecnica, dalle paginate di riassuntoni raccontati alle valanghe di infodump (a volte messi in nota!), dal narratore onnisciente ai personaggi di cartone. E dire che potenzialmente molte delle sue storie avrebbero anche le premesse per essere fighe (e qualche volta queste potenzialità sono ciò che li salvano). Ma vediamoli più nel dettaglio:
The Languages of Pao The Languages of Pao (I linguaggi di Pao) è un romanzo d’avventura e intrighi politici. L’idea centrale del libro, ispirata alla teoria antropologica di Sapir-Whorf, sarebbe che il linguaggio di un popolo influenza pesantemente il modo in cui questo vede la realtà, e che attraverso la modificazione di questo linguaggio, anche i suoi rapporti con essa cambieranno. Per spodestare dal trono di Pao l’usurpatore Bustamonte, Lord Palafox tenterà di addestrare i remissivi abitanti del pianeta alla rivolta, insegnando a gruppi di essi diversi tipi di linguaggi specializzati in varie direzioni (il linguaggio dei guerrieri, quello dei tecnici, quello degli strateghi). L’idea sarebbe anche interessante, ma lo stile è talmente raccontato e osceno da non convincere. I continui colpi di scena, i personaggi inconsistenti e l’incapacità di gestire le scene della storia fanno completamente deragliare il romanzo.
The Dragon Masters The Dragon Masters è una breve novella ambientata su un pianeta arretrato, roccioso e povero di risorse. La società è divisa in un manipolo di clan che si combattono con l’ausilio di “draghi”, creature bioingegnerizzate in vari modi e semi-intelligenti. Ciclicamente, il pianeta viene attaccato da invasori stellari che è sempre più difficile respingere, e il capoclan Joan Banbeck teme che il ciclo sia lì lì per ricominciare… Una storia con poche pretese e raccontata male, ma alcune rivelazioni sulla natura dei draghi e dell’esercito degli alieni invasori sono interessanti. Mediocre.
The Last Castle The Last Castle è una novella tragicomica su una Terra spopolata del remoto futuro. I pochi terrestri rimasti si sono arroccati in castelli e conducono una vita da aristocratici decadenti, serviti dagli ottusi Meks. Ma quando i Meks si ribelleranno senza apparente motivo e cominceranno ad abbattere uno ad uno i castelli, i gentiluomini non sapranno più cosa fare e precipiteranno nel panico e nell’autonegazione. La storia sarebbe anche divertente, se non fosse scritta così male (sembra quasi il riassunto di un romanzo, invece che un romanzo!), e alcuni scambi sono molto divertenti, ma si tratta di un’altra novella con poche pretese.
Emphyrio Emphyrio è un bildungsroman d’avventura, in cui un giovane figlio di artigiano del pianeta Halma – Ghyl Tarvoke – si imbarcherà in un viaggio per conoscere l’universo, vivere una vita piena e, an passant, sventare un complotto distopico. Halma è infatti un pianeta di eguali, in cui vige una sorta di capitalismo di stato: la maggior parte della popolazione è costituita da piccoli artigiani autonomi, il cui unico datore di lavoro sono le corporazioni governative e che ricevono lo stipendio in base alla qualità dei loro prodotti. Un grande inganno viene perpetrato alle spalle di questi artigiani, ma loro non lo sanno, perché attraverso un’ideologia di modestia e umiltà il governo limita i loro movimenti e li forza a non lasciare il pianeta. L’ambientazione sarebbe anche interessante, ma lo stile clueless e la piattezza di molti personaggi ne fanno un romanzo mediocre.
Nota curiosa: benché questi romanzi non facciano parte di un ciclo, teoricamente potrebbero anche appartenere tutti (compreso The Blue World) a un universo condiviso! Infatti nessuno dei romanzi sembra contraddire gli altri, e ognuno è ambientato su un pianeta diverso.

Qualche estratto
Il primo estratto è preso dalle prime pagine del romanzo, ed è un lungo infodump sul funzionamento delle torri di comunicazione e sulla casta degli Hoodwink che le fa funzionare; incidentalmente, mostra anche lo stile onnisciente e statico di Vance, e come dal campo lungo della storia della gilda il narratore vada a stringere sul protagonista. Il secondo invece mostra una scena d’azione, ossia il primo scontro aperto tra Sklar e King Kragen.

1.
Another caste, the Larceners, constructed the towers, which customarily stood sixty to ninety feet high at the center of the float, directly above the primary stalk of the sea-plant. There were usually four legs of woven or laminated withe, which passed through holes in the pad to join a stout stalk twenty or thirty feet below the surface. At the top of the tower was a cupola, with walls of split withe, a roof of varnished and laminated pad-skin. Yardarms extending to either side supported lattices, each carrying nine lamps arranged in a square, together with the hoods and trip-mechanisms. Within the cupola, windows afforded a view across the water to the neighboring floats — a distance as much as the two miles between Green Lamp and Adelvine, or as little as the quarter-mile between Leumar and Populous Equity.
The Master Hoodwink sat at a panel. At his left hand were nine tap-rods, cross-coupled to lamp-hoods on the lattice to his right. Similarly the tap-rods at his right hand controlled the hoods to his left. By this means the configurations he formed and those he received, from his point of view, were of identical aspect and caused him no confusion. During the daytime the lamps were not lit and white targets served the same function. The hoodwink set his configuration with quick strokes of right and left hands, kicked the release, which there-upon flicked the hoods, or shutters, at the respective lamps or targets. Each configuration signified a word; the mastery of a lexicon and a sometimes remarkable dexterity were the Master Hoodwink’s stock in trade. All could send at speeds almost that of speech; all knew at least five thousand, and some six, seven, eight, or even nine thousand configurations. The folk of the floats could in varying degrees read the configurations, which were also employed in the keeping of the archives (against the vehement protests of the Scriveners), and in various other communications, public announcements, and messages.
On Tranque Float, at the extreme east of the group, the Master Hoodwink was one Zander Rohan, a rigorous and exacting old man with a mastery of over seven thousand configurations. His first assistant, Sklar Hast, had well over five thousand configurations at his disposal; precisely how many more he had never publicized.

Chi ha liberato il kraken?

2.
Sklar Hast pointed. “The vile beast of the sea plunders us. I say we should kill it, and all other kragen who seek to devour our sponges!”
Semm Voiderveg emitted a high-pitched croak. “Are you insane? Someone, pour water on this maniac hoodwink, who has too long focused his eyes on flashing lights!”
In the lagoon the kragen tore voraciously at the choicest Belrod sponges, and the Belrods emitted a series of anguished hoots.
“I say, kill the beast!” cried Sklar Hast. “The king despoils us; must we likewise feed all the kragen of the ocean?”
“Kill the beast!” echoed the younger Belrods.
Semm Voiderveg gesticulated in vast excitement, but Poe Belrod shoved him roughly aside. “Quiet, let us listen to the hoodwink. How could we the kragen? Is it possible?”
“No!” cried Semm Voiderveg. “Of course it is not possible! Nor is it wise or proper! What of our covenant with King Kragen?”
“King Kragen be damned!” cried Poe Belrod roughly. “Let us hear the hoodwink. Come then: do you have any method in mind by which the kragen can be destroyed?”
Sklar Hast looked dubiously through the dark toward the great black hulk. “I think yes. A method that requires the strength of many men.”
Poe Belrod waved his hand toward those who had come to watch the kragen. “Here they stand.”
“Come,” said Sklar Hast. He […] led the way to a pile of poles stacked for the construction of a new storehouse. Each pole, fabricated from withes laid lengthwise and bound in glue, was twenty feet long by eight inches in diameter and combined great strength with lightness. Sklar Hast selected a pole even flicker — the ridge beam. “Pull this pole forth, lay it on trestle!”
While this was being accomplished, he looked about and signaled Rudolf Snyder, a Ninth, though a man no older than himself of the long-lived Incendiary Caste, which now monopolized the preparation of fiber, the laying of rope and plaits. “I need two hundred feet of hawser, stout enough to lift the kragen. If there is none of this, then we must double or redouble smaller rope to the same effect.”
Rudolf Snyder took four men to help him and brought rope from the warehouse.
Sklar Hast worked with great energy, rigging the pole in accordance with his plans. “Now lift! Carry all to the edge of the pad!”
Excited by his urgency, the men shouldered the pole, carried it close to the lagoon, and at Sklar Hast’s direction set it down with one end resting on the hard fiber of a rib. The other end, to which two lengths of hawser were tied, rested on a trestle and almost overhung the water. “Now,” said Sklar Hast, “now we kill the kragen.” He made a noose at the end of a hawser, advanced toward the kragen, which watched him through the rear-pointing eyes of its turret. Sklar Hast moved slowly, so as not to alarm the creature, which continued to pluck sponges with a contemptuous disregard.
Sklar Hast approached the edge of the pad. “Come, beast!” he called. “Ocean brute! Come closer. Come.” He bent, splashed water at the kragen. Provoked, it surged toward him. Sklar Hast waited, and just before it swung its vane, he tossed the noose over its turret. He signaled his men. “Now!” They heaved on the line, dragged the thrashing kragen through the water. Sklar Hast guided the line to the end of the pole. The kragen surged suddenly forward; in the confusion and the dark the men heaving on the rope fell backward. Sklar Hast seized the slack and, dodging a murderous slash of the kragen’s fore-vane, flung a hitch around the end of the pole, he danced back. “Now!” he called. “Pull, pull! Both lines! The beast is as good as dead!”

Tabella riassuntiva

Una colonia terrestre che deve reinventarsi in un pianeta d’acqua. Narratore onnisciente e prosa anti-immersiva.
Ritmo vivace e plot-oriented, senza deragliamenti. Personaggi di cartone.
Tante piccole trovate geniali. Morale prescritta dall’alto e occasioni di conflitto mancate.

(1) Così nel testo. Non so se si tratti di una variante attestata del più noto “kraken”, o se si tratti di un’invenzione di Jack Vance; fatto sta che i mostri marini di The Blue World si chiamano “kragen” e non “kraken”.Torna su