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Cosa ne è stato dell’antologia steampunk

Antologia SteampunkEra il lontano 2010, e su Baionette Librarie il Duca lanciava il suo concorso di racconti a tema Steampunk. Le regole del concorso erano molto semplici:

Lunghezza dei racconti: tra le 2.000 e le 7.500 parole.
Tipo di racconto: Steampunk Tecnologico con o senza Fantasy.
Vincolo Conigliesco: nel racconto deve essere presente almeno un coniglio, non necessariamente in un ruolo importante e non necessariamente un coniglio in carne ed ossa. Trovate voi il modo di integrare l’elemento conigliesco nella storia. Non ci vuole niente, con un minimo di fantasia.

Scrivere steampunk non è affatto facile. Oltre a una passione per la cultura e l’estetica del Lungo XIX secolo, c’è un sacco di lavoro di documentazione da fare. Insomma, poteva risolversi in una mezza cagata, come tanti altri concorsi letterari di allora e di oggi – cough cough, Ucronie Impure, cough cough, Deinos. Invece andò discretamente bene. Arrivarono una trentina di racconti (senza contare i fuori concorso), che il Duca pubblicò gratuitamente così com’erano, senza editing, nella sua Raccolta dei Racconti Steampunk. Si andava dal “cavatemi gli occhi” al “ficcina con qualche speranza di diventare un giorno, con tanto impegno, qualcosa di decente” al racconto fatto bene.
Alla fine furono stabiliti quattro finalisti: L1L0, Piloti e Nobiltà, La Maschera di Bali e Il Colosso di Colorado Springs. Altri due racconti avevano la possibilità di entrare nella rosa, ma furono ritirati perché i rispettivi autori non riuscirono – o non trovarono il tempo – di editarli: Lunasil (dello stesso autore di Piloti e Nobiltà) e Photophantastes (di Alessandro Forlani, un nome che forse avete già sentito in questo blog: Forlani ha partecipato, infatti, a una gran quantità di altri concorsi, tra cui Ucronie Impure di Girola, e Deinos e Hydropunk di Giobblin). Tra i finalisti, comunque, gli unici ad avere davvero qualche possibilità di vittoria, per la qualità della scrittura, erano L1L0 e Piloti e Nobiltà. E alla fine, infatti, la spuntò proprio L1L0.

 

Steampunk useless junk

No Walter, non sei l’unico.

Poi per un paio d’anni non accadde più nulla. Il Duca cominciò a lavorare a un’antologia che raccogliesse i lavori migliori, editandoli ancora fino a raggiungere un livello soddisfacente, e sperando di riuscire a pubblicarla nel corso del 2012. Anch’io, che all’epoca avevo da poco aperto Tapirullanza, feci una piccola segnalazione della cosa. Ma per un motivo o per un altro, non se ne fece niente. Fino alla settimana scorsa.
Lo scorso 4 Maggio, il Duca ha pubblicato su Vaporteppa la nuova versione del racconto vincitore del concorso, L1L0: potete leggere qui l’annuncio su Baionette Librarie o andare direttamente alla scheda di Vaporteppa. Essendo lungo solo 5600 parole (una ventina di pagine circa), il racconto è distribuito gratuitamente. Pubblicare il vincitore del vecchio concorso a tema steampunk mi sembra un ottimo modo di inaugurare gli inediti italiani della collana. Non entrerò più di tanto nei dettagli del racconto nell’articolo di oggi – ma vediamo brevemente di che si tratta.

L1L0
Un bollitore con tre cervelli di scimmia, il muso allungato da coniglio, due camini dietro la testa che sembrano delle orecchie e una personalità costruita sul Witz, l’umorismo fatalista ebraico: questo è l’automa L1L0. Ma è anche una macchina per uccidere. Il suo scopo? Salvare la figlia del suo creatore da una caserma militare prima che sia troppo tardi.
L1L0 è un racconto d’azione di quegli ignoranti: poca filosofia, tante scazzottate tra robot, umorismo becero e ritmo rapido. Tutta la storia è raccontata in prima persona dall’automa, e questo è sicuramente l’aspetto più interessante del racconto: com’è vedere il mondo attraverso gli occhi di un buffo robot senziente meccanico attivato per la prima volta? Non troverete rivoluzioni concettuali o idee che vi tengano svegli la notte, e il canovaccio della trama è di quelli collaudati mille volte; ma è insolito quanto basta e si legge con divertimento. Inoltre, i paragrafi sono inframezzati da alcuni disegni dell’autore proprio carini (e sempre dell’autore è anche l’illustrazione di copertina!). Dateci un’occhiata.

L1L0

La copertina di L1L0

E gli altri racconti?
La pubblicazione di L1L0 è solo la punta dell’iceberg: dal cilindro di Vaporteppa, il Duca sembra stare tirando fuori ad uno ad uno gli altri finalisti del concorso steampunk. Nel corso di maggio dovrebbe uscire la nuova versione di La Maschera di Bali – racconto che non mi era piaciuto granché ai tempi dell’antologia, ma che potrebbe essere migliorato sotto i ferri del Duca. Next in line ci sarà poi Piloti e Nobiltà. La cosa mi fa particolarmente felice: non solo era il mio preferito, ma già come si presentava ai tempi del concorso era forse l’unico racconto che si sarebbe potuto pubblicare in un’antologia seria, di quelle a pagamento, senza sembrare fuori posto. Voglio vedere come questi due anni lo abbiano ulteriormente migliorato.
Un quarto racconto, dice il Duca nell’articolo, potrebbe invece uscire a pagamento: segno, immagino, che supererà il tetto delle 7500 parole minime stabilite da Vaporteppa per le pubblicazioni non gratuite. Non so di quale dei finalisti si tratti. Personalmente spero in Lunasil: lo ricordo come un racconto promettente, e l’autore è lo stesso di Piloti e Nobiltà, quindi ci sono buone speranze che venga qualcosa di figo. Ma sarei felice anche se, prima o poi, fuori dal cilindro rispuntasse RabbiT – un racconto folle scritto come un’inedito d’annunziano, e poi finito come “speciale fuori concorso” nella raccolta. Inizialmente era previsto che il racconto, anch’esso scritto da Forlani, finisse nell’antologia steampunk del 2012. Se Forlani e il Duca sono rimasti in contatto in questo lasso di tempo, potrebbe esserci un futuro per questo racconto. E del resto Forlani ha dimostrato che, quando vuole, sa lavorare bene: il suo Tlaloc verrà era il migliore tra i racconti di Ucronie Impure.

Non è ancora finita.
Alla gara steampunk del 2010 aveva partecipato anche un racconto intitolato Caligo. Era arrivato come fuori concorso, e quindi era rimasto fuori dalla prima raccolta di racconti pubblicata dal Duca: ergo non ho mai potuto leggerlo. Nei tre anni trascorsi da quella prima versione, il racconto è diventato un romanzo, e se tutto andrà bene dovrebbe uscire a giugno. Sarà il primo romanzo italiano pubblicato da Vaporteppa.
Ma la notizia più interessante è un’altra. L’autore è Angra (al secolo Alessandro Scalzo), che già aveva scritto anni addietro e poi autopubblicato, sotto la supervisione editoriale di Gamberetta, il romanzo Marstenheim. Ho già dedicato un articolo a Marstenheim agli albori del blog; a tutt’oggi, rimane il miglior autopubblicato italiano che abbia mai letto, nonché uno dei pochi ad aver ricevuto una valutazione positiva. Quindi sono molto curioso di mettere le mani sulla sua nuova fatica.

Motoruota

Una motoruota. Potrebbe avere a che fare col romanzo.

Dopo un inizio con Swanwick, insomma, Vaporteppa si sta decisamente orientando verso gli inediti italiani. Questa è un’ottima cosa: in fondo i romanzi anglosassoni posso sempre leggermeli in lingua originale, mentre questi sono roba nuova. E se gli aspiranti scrittori italiani vedranno che con Vaporteppa, con un po’ di olio di gomito, si guadagna visibilità e magari anche qualche soldino, forse ci sarà più gente in futuro disposta a sbattersi per imparare a scrivere bene, invece di cantare la morale del “non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace”.
Caligo a parte – trattandosi di un romanzo – non mi dispiacerebbe in futuro, una volta che saranno tutti usciti, mettere insieme i vari racconti a tema steampunk e farci un articolo di commento. Sarebbe un bel modo per chiudere questa parentesi steampunk durata quattro anni.

Bonus Track: The Alchemist / The Executioness

The AlchemistAutore: Paolo Bacigalupi
Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / Sword & Sorcery
Tipo: Novella

Anno: 2011
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 90

Difficoltà in inglese: **

 

The ExecutionessAutore: Tobias S. Buckell
Titolo italiano: –
Genere: Fantasy / Sword & Sorcery
Tipo: Novella

Anno: 2011
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 100

Difficoltà in inglese: **

A chiunque sia scoperto a usare la magia, sarà tagliata la testa sulla pubblica piazza: così ha deciso il Sindaco di Khaim. Ma non è una pena troppo dura, perché in gioco è la sopravvivenza stessa della città. Ogni volta che viene lanciato un incantesimo, da qualche parte nasce un rovo. E i rovi crescono, soffocano le piante, i campi, le case; e pungersi con le loro spine significa cadere in un sonno che può portare alla morte. E per quanto li tagli, sempre ricrescono. Così è caduto il grande impero di Jhandpara, un tempo governato da potentissimi maghi simili a dei: stretto nell’abbraccio mortale dei rovi. Ora i rovi circondano Khaim. Eppure i suoi abitanti, nel cuore della notte o nel segreto delle loro cantine, continuano a lanciare magie per i propri scopi privati: e i rovi continuano a crescere.
Tana è la figlia del boia. Il mestiere di suo padre è la principale fonte di sostentamento della famiglia. Ma ormai suo padre è vecchio, e malato, e non riesce più a sollevare quell’ascia così pesante. Così, quando la chiamata arriva, Tana non può fare altro che indossare quel cappuccio che nasconde il volto, fingersi suo padre e diventare lei stessa boia. Ancora non sa che, quello stesso giorno, tutto a Khaim sta per cambiare – e la vita della sua famiglia sarà sconvolta per sempre.
Jaoz è un alchimista. Un tempo uno dei più facoltosi e ricercati orafi di Khaim, da più di dieci anni si è messo in testa di salvare la sua città e trovare un metodo alchemico per distruggere i rovi una volta per tutte. Ma tutti i suoi tentativi sono falliti. Oppresso dai debiti e dalla malattia della figlioletta Jiala, sa di non avere più molto tempo a disposizione, e metterà tutte le sue energie in un ultimo, disperato tentativo. Quello che non sa, è che anche se riuscisse, la sua scoperta potrebbe essere utilizzata in modi che non immagina…

Ogni volta che viene castato un incantesimo, da qualche parte nel mondo un coniglietto muore sbocciano rovi mortali: questa è la premessa dell’ambientazione condivisa di The Alchemist e The Executioness, due novellas scritte rispettivamente da Paolo Bacigalupi e Tobias Buckell in questo progetto collaborativo orchestrato da Subterranean Press. Entrambe le storie prendono le mosse da due persone normali, due abitanti della città di Khaim – la figlia del boia e l’alchimista – quando la loro vita e quella dei loro cari viene completamente sconvolta. Nonostante qualche richiamo reciproco, i due libri sono del tutto indipendenti, e possono quindi essere letti in qualunque ordine si voglia.
Di solito sono scettico delle collaborazioni, e me ne tengo alla larga. Cosa mi ha fatto cambiare idea questa volta? Primo, la presenza di Bacigalupi, uno scrittore davvero bravo che ho amato per The Windup Girl (mentre non posso dire lo stesso di Buckell, un tizio ignoto che è famoso soprattutto per i suoi libri sul franchise di Halo); secondo, e più importante, questa ambientazione condivisa sembrava offrire una visione della magia diversa dal solito. Se molti autori di fantasy medievaleggiante cercano di limitare lo strapotere della magia circoscrivendone l’uso a pochi individui e poche occasioni, in The Alchemist e The Executioness la logica è quella opposta: proprio perché la magia è diffusa e alla portata di tutti, e quindi tutti ne abusano, la civiltà rischia di essere spazzata via.
Ai fini della mia ricerca sui sistemi magici, di cui vi ho parlato nello scorso articolo, in questa Bonus Track mi concentrerò in primo luogo sul modo in cui è concepita la magia e solo in seconda battuta sulla qualità complessiva dei romanzi.

Magic Bramble Creeper

Le infestazioni di rovi magici possono essere davvero terribili.

Uno sguardo approfondito
Abbiamo visto nello scorso articolo che la magia, pur avendo sempre un ruolo fondamentale per il worldbuilding (nelle storie in cui esiste), può avere diversi gradi di importanza per le storie particolari che andiamo a raccontare – per il destino dei nostri protagonisti e personaggi pov. Nel caso di queste due novellas, non soltanto la magia è il motore della storia – Tana è la figlia del boia incaricato di giustiziare chi viene scoperto a usare la magia, Jaoz ha dedicato alla sua vita a combattere i rovi magici – ma è anche il fulcro di un affascinante moral play. Lanciare magie è sbagliato, certo. Ma se tua figlia sta male? Se quando tossisce sputa sangue? Se fosse in pericolo di vita, e un piccolo incantesimo potesse regalarle mesi di vita, non sareste disposti a farlo, anche se questo dovesse significare che da qualche parte – nel cortile del vostro vicino, nei campi della città o persino in una contrada lontano – spunta qualche nuovo rovo?
E’ ciò che si chiede Jaoz in uno dei primi capitoli di The Alchemist, quando guarda la sua figlioletta peggiorare di giorno in giorno:

I avoided using magic for as long as possible, but Jiala’s cough worsened, digging deeper into her lungs. And it was only a small magic. Just enough spelling to keep her alive. To close the rents in her little lungs, and stop the blood from spackling her lips. Perhaps a sprig of bramble would sprout in some farmer’s field as a result, fertilized by the power released into the air, but really it was such a small magic, and Jiala’s need was too great to ignore.

Ricordate però cosa vi dicevano da piccoli, quando buttavate una cartaccia per terra? “Certo, quella carta non è niente, ma se tutti facessero così…”. E questa è proprio l’impasse che vivono gli abitanti di Khaim. Tutti sanno che non si può fare a meno della magia, ma che al tempo stesso non si può lasciare impunito chi sia scoperto a farlo. Dov’è il punto in cui bisogna sacrificare il bene individuale per quello comune? Chi ha ragione, e chi ha torto?

La magia è integrata in modo elegante nell’ambientazione. Mentre va alla sua prima esecuzione, Tana si imbatte in una sorta di pompieri al contrario: uomini del Sindaco che, vestiti di pelle da capo a piedi – per evitare di entrare in contatto con le letali spine dei rovi – vanno in giro bruciando le radici che ogni giorno spuntano nei giardini o nelle crepe della strada. Ma quando un rovo brucia, delle piccole sacche contenute nella corteccia esplodono, liberando piogge di nuovi semi che finiscono ovunque e presto germoglieranno nuovi rovi. Per questo i bambini di strada, e i poveri che non hanno più niente – e tra questi Jiala, la figlia di Jaoz – possono essere visti passare le giornate a prendere i semi e metterle in appositi sacchetti. Ogni cento semi raccolti, il comune darà loro una moneta di rame.
Ma questo continuo bruciare e raccogliere della povera gente è come il mito di Sisifo: una fatica inutile e frustrante. Perché ogni giorni i rovi rispuntano, più robusti e più ramificati di prima, resi più forti dalle tante piccole magie che, con l’odore speziato che liberano nell’aria, vengono lanciate ogni giorno nel buio delle cantine o in mezzo ai campi nelle notti senza luna. I rovi stessi sono mostrati con efficacia e suscitano angoscia: in un passaggio, Bacigalupi indugia sulle minuscole spine attaccate a ogni singolo ramo, spine vive che si contorcono come vermi, e sono pronte ad attaccartisi alla pelle al minimo contatto e a liberare il loro veleno mortale. Il risultato è uno strana mescolanza di atmosfere alla Jack Vance – con queste città dal sapore mediterraneo e rinascimentale, la magia alla portata di tutti, l’indulgere sulla vita urbana e dei mercanti piuttosto che sul mondo feudale – e di una sottile angoscia sovrannaturale.

Sleeping beauty hipster

Delle due storie, quella che davvero si focalizza sul funzionamento della magia (pur non scendendo mai troppo nel dettaglio) e lo scontro con i rovi è The Alchemist. The Executioness, purtroppo, dopo un inizio molto promettente, centrato sul senso di colpa della protagonista nell’essere costretta a uccidere persone per crimini che hanno compiuto senza avere altra scelta, prende una via completamente diversa – diventando una quest di vendetta abbastanza classica. Con la scusa di avere una protagonista femminile che si trova a maneggiare un’ascia, la novella di Buckell diventa una storia – anche interessante – sul ruolo delle donne nella guerra.
La figlia del boia è una donna forte, abituata nella vita a sporcarsi le mani, a sgozzare maiali e a non piangere mai, ma Buckell riesce a evitare di cadere nei cliché del genere: a differenza della Nihal della Troisi, Tana sa di non poter vincere in un normale scontro fisico con un uomo, e quindi fonderà le sue strategie sugli attacchi a sorpresa, sui bluff, sul costruirsi una reputazione sovrannaturale. Alcune battaglie, e soprattutto gli scontri campali, mi sono suonati un po’ inverosimili, ma non sono abbastanza esperto sull’argomento per giudicare, e in ogni caso questi momenti sono raccontati da Buckell con troppa fretta, e troppo poco mostrato, per poterli visualizzare bene. In ogni caso, pur non essendo priva di punti di interesse, la direzione presa da The Executioness la allontana dal tema centrale, ossia il moral play magico. Il problema dei rovi è presente ma distante, se ne parla molto ma lo si vede poco – in definitiva, mi pare un’occasione sprecata.

Più interessante è The Alchemist. In poche pagine riesce a mostrare con efficacia i rapporti tra i personaggi principali, e come questi siano determinati dalla lotta ai rovi: la disperazione dell’alchimista, costretto a vendere i suoi ultimi lussuosi mobili per finanziare un progetto che sembra sempre più votato al fallimento; il disprezzo di Pila, l’ultima delle sue serve, nel vederlo cadere ogni giorno di più nella povertà; il misto di affetto e rancore della piccola Jiala.
Bacigalupi è anche il migliore dei due nella prosa. Entrambe le storie sono scritte in prima persona col pov del protagonista – il che è un bene, considerate le dimensioni ridotte delle due novellas – ma se per Buckell questo diventa occasione (soprattutto nelle prime pagine) per una sfilza di infodump sull’ambientazione e il background dei suoi personaggi, Bacigalupi riesce a tenerli al minimo, e questi pochi a filtrarli in modo più naturale attraverso la voce del pov. Bacigalupi mostra molto di più, soprattutto nel mostrare il lancio di incantesimi o il funzionamento del suo balanthast alchemico, mentre Buckell si abbandona facilmente al raccontato e ai riassuntini di avvenimenti, specie nell’ultimo (e cruciale) capitolo. Anche nei momenti drammatici, lo stile del Jaoz di The Alchemist è venato di rassegnato umorismo, laddove tutto The Executioness è scritto in modo grave, serio, monocorde.
Purtroppo anche The Alchemist è ben lontano dalla perfezione. Pur essendo più focalizzato sul tema centrale dell’ambientazione, anche la storia di Jaoz prende nel tempo un’altra direzione – cosa succederebbe se la sua invenzione finisse nelle mani sbagliate? – e diventa una parabola sull’avidità umana, sull’ipocrisia e sui sogni (forse) spezzati. Tutta la sua storyline, inoltre, si fonda sul concetto di trovare una via d’uscita rispetto allo “scambio equivalente” tra magia e maledizione dei rovi: un meccanismo che by definition vanificherebbe il conflitto centrale della storia. Perché, Bacigalupi? Perché?

Nihal della Terra del Vento

The Executioness: still better than Nihal.

Questa collaborazione Buckell / Bacigalupi mi lascia dunque due sapori contrastanti in bocca. Da una parte, riescono nell’intento di creare un mondo vasto e credibile, che sembra molto più grande della singola storia raccontata e pare vivere di vita propria oltre le pagine. Dall’altro, in queste due storie non accade niente di memorabile, non ci sono personaggi particolarmente memorabili, un conceptual breakthrough o un’epicità di fondo; entrambe le storie sanno di incompiuto, di potenziale sprecato, di inconcludenza. Quasi come se queste due novellas fossero un teaser da esibire su Kickstarter: “guardate di cosa siamo capaci, se volete il resto finanziate il nostro progetto”. Peccato che i due libri siano stati pubblicati nel 2011, e non si sia più visto niente: il progetto sembra, per il momento, concluso così.
Stando così le cose, non si chiude nessuno dei due libri davvero soddisfatti. Benché costino poco, non mi sento di consigliare nessuna delle due come lettura di puro piacere. Possono, però, essere interessanti come fonte di idee. Il meccanismo della magia e i conflitti morali che genera è affascinante e reso molto bene, e soprattutto si apre a decine e decine di possibilità non sfruttate. In caso siate interessati, ovviamente il mio consiglio è di partire da The Alchemist, ed eventualmente – in caso rimaniate piacevolmente colpiti – provare anche The Executioness. Posso solo sperare che da questo worldbuilding nasca un giorno qualcosa di più corposo.

Dove si trovano?
Entrambe le novellas possono essere scaricate in lingua originale da Library Genesis (qui il link per il download diretto dell’ePub di The Alchemist, qui invece l’ePub di The Executioness): ringrazio Mikecas per questa informazione.
In alternativa, e se volete premiare gli autori, potete comprarli su Amazon – il prezzo è davvero da fame: 1,99 Euro sia per The Alchemist che per The Executioness. Esiste anche un’audio-book che raccoglie entrambe le storie, ma costa un’enormità e non ha veramente senso per noi italiani.

Full Metal Alchemist meme

Alchimia: non funziona proprio così.

Qualche estratto
Ho scelto un brano per ciascuna delle due novellas, in momenti di conflitto all’inizio delle rispettive storie. In The Executioness, vedremo la protagonista Tana, camuffata nella divisa di suo padre, alle prese con la sua prima esecuzione. L’estratto da The Alchemist ci mostrerà invece l’alchimista Jaoz nel momento in cui sarà costretto a fare la cosa che più odia al mondo: lanciare una magia per salvare la vita della figlia.

1.
 I let the axe fall.
It swung toward the vulnerable nape of the man’s neck as if the blade knew what it was doing.
And then the man shifted, ever so slightly.
I twisted the handle to compensate, just a twitch to guide the blade, and the curving edge of the axe buried itself in the man’s back at an angle on the right. It sank into shoulder meat and fetched up against bone with a sickening crunch.
It had all gone wrong.
Blood flew back up the handle, across my hands, and splattered against my leather apron.
The man screamed. He thrashed in the chains, a tortured animal, almost jerking the axe out of my blood-slippery hands.
“Gods, gods, gods,” I said, terrified and sick. I yanked the axe free. Blood gushed down the man’s back and he screamed even louder.
The crowd stared. Anonymous oval faces, hardly blinking.
I raised the axe quickly, and brought it right back down on him. It bit deep into his upper left arm, and I had to push against his body with my foot to lever it free. He screamed like a dying animal, and I was crying as I raised the axe yet again.
“Borzai will surely consider this before he sends you to your hall,” I said, my voice scratchy and loud inside the hood. I took a deep breath and counted to three.
I would not miss again. I would not torture this dying man any more.
I must imagine I am only chopping wood, I thought.
I let the axe fall once again. I let it guide itself, looking at where it needed to be at the end of the stroke.
The blade struck the man’s neck, cleaved right through it, and buried itself in the wooden platform below.
The screaming stopped.
My breath tasted of sick. I was panting, and terrified as the Mayor approached me. He leaned close, and I braced for some form of punishment for doing such a horrible thing.
“Well done!” the Mayor said. “Well done indeed. What a show, what a piece of butchery! The point has well been made!”

2.
Jiala and I sat in the corner of my workshop, amidst the blankets where she now slept near the fire, the only warm room I had left, and I used the scribbled notes from the book of Majister Arun to make magic.
His pen was clear, even if he was long gone to the Executioner’s axe. His ideas on vellum. His hand reaching across time. His past carrying into our future through the wonders of ink. Rosemary and pkana flower and licorice root, and the deep soothing cream of goat’s milk. Powdered together, the yellow pkana flower’s petals all crackling like fire as they touched the milk. Sending up a smoke of dreams.
And then with my ring finger, long missing all three gold rings of marriage, I touched the paste to Jiala’s forehead, between the thick dark hairs of her eyebrows. And then, pulling down her blouse, another at her sternum, at the center of her lungs. The pkana’s yellow mark pulsed on her skin, seeming wont to ignite.
As we worked this little magic, I imagined the great majisters of Jhandpara healing crowds from their arched balconies. It was said that people came for miles to be healed. They used the stuff of magic wildly, then.
“Papa, you mustn’t.” Jiala whispered. Another cough caught her, jerking her forward and reaching deep, squeezing her lungs as the strongman squeezes a pomegranate to watch red blood run between his fingers.
“Of course I must,” I answered. “Now be quiet.”
“They will catch you, though. The smell of it—”
“Shhhh.”
And then I read the ancient words of Majister Arun, sounding out the language that could never be recalled after it was spoken. Consonants burned my tongue as it tapped those words of power. The power of ancients. The dream of Jhandpara.
The sulphur smell of magic filled the room, and now round vowels of healing tumbled from my lips, spinning like pin wheels, finding their targets in the yellow paste of my fingerprints.
The magic burrowed into Jiala, and then it was gone. The pkana flower paste took on a greenish tinge as it was used up, and the room filled completely with the smoke of power unleashed. Astonishing power, all around, and only a little effort and a few words to bind it to us. Magic. The power to do anything. Destroy an empire, even.
I cracked open the shutters, and peered out onto the black cobbled streets. No one was outside, and I fanned the room quickly, clearing the stench of magic.
“Papa. What if they catch you?”
“They won’t.” I smiled. “This is a small magic. Not some great bridge-building project. Not even a spell of fertility. Your lungs hold small wounds. No one will ever know. And I will perfect the balanthast soon. And then no one will ever have to hold back with these small magics ever again. All will be well.”

Tabella riassuntiva

Il sistema magico è semplice ed elegante. Entrambe le storie tendono ad andare fuori tema.
Angoscioso moral play tra bene individuale e bene comune. Infodump e raccontato a pioggia, specie in The Executioness.
Ambientazione vasta, viva e coerente. Il progetto lascia un senso di incompiutezza.
Spunti interessanti ma niente di memorabile.

I Consigli del Lunedì #40: West of Eden

West of EdenAutore: Harry Harrison
Titolo italiano: L’era degli Yilanè
Genere: Science-Fantasy / Ucronia
Tipo: Romanzo

Anno: 1984
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 490 ca.

Difficoltà in inglese: ***

What was to come would be a clash such as this world had never seen.
A savage battle between two races who were united in only one thing; their absolute hatred of one for the other.

Da grande, Kerrick sarà un vero cacciatore come suo papà Amahast. Insieme agli altri cacciatori della tribù di cui Amahast è a capo, il piccolo Kerrick è sceso alle coste meridionali, dove fa caldo, per fare scorta di cibo per l’inverno. Finché un giorno sulla costa non approdano delle strane creature, con l’aspetto di rettili ma che camminano come uomini, a bordo di un’orribile nave senziente. Sono gli Yilané. E sono venuti a prendersi questa terra.
Per millenni gli Yilané hanno dominato incontrastati nel Vecchio Mondo, trincerati nelle loro gigantesche città bioingegnerizzate. Ma ora le cose stanno cambiando: è in arrivo una nuova Glaciazione, e la morsa del gelo rende inospitali le loro terre. L’ambiziosa Vainté è stata incaricata dalla signora di Inegban di viaggiare verso climi più caldi, nel Nuovo Mondo, e lì preparare una nuova città che possa accogliere gli Yilané del Vecchio quando il freddo sarà diventato intollerabile. Ma gli uomini non sono pronti a cedere la propria casa a quegli esseri repellenti venuti dal mare. Nel Nuovo Mondo sta per scatenarsi una guerra come questo pianeta non ne ha mai viste.

Quando ero piccolo anche a me, come a tutti quelli della mia generazione, piacevano da matti i dinosauri. Alle elementari inventavo e scrivevo storie su dinosauri umanoidi e intelligenti. Crescendo grazie al cielo ho smesso, ma in compenso non ho mai smesso di trovare affascinante la domanda: cosa sarebbe successo se i dinosauri non si fossero mai estinti, e se anzi avessero avuto a disposizione trecento milioni di anni di tempo per evolvere? I mammiferi superiori sarebbero mai nati, e ci sarebbe l’uomo? E se sì, come convivrebbero queste due specie intelligenti? West of Eden è una possibile risposta a queste domande.
Harry Harrison immagina un mondo alternativo in cui l’estinzione di massa al termine del Cretaceo non è mai avvenuta, e quindi i rettili, e non i mammiferi, hanno ereditato la Terra. Nel corso di centinaia di migliaia di anni, gli Yilané hanno costruito una civiltà avanzatissima da una sponda all’altra del continente eurasiatico, mentre una forma di essere umano ha visto la luce nelle Americhe. L’Oceano Atlantico ha tenuto le due specie divise per tutto questo tempo e ignare le une delle altre. Ora, per la prima volta, le due specie stanno per entrare in contatto – West of Eden racconta quello che succede dopo. Il romanzo ha conosciuto anche un breve momento di celebrità in Italia negli anni ’90, col nome “L’era degli Yilané” – molti trentenni di mia conoscenza lo venerano come un libro di culto – ma oggi sta cadendo nel dimenticatoio. E’ dunque mio preciso dovere riportare questa piccola perla alla vostra attenzione.

Raptor Jesus

E’ andata così. Circa.

Uno sguardo approfondito
West of Eden è la storia di uno ‘scontro di civiltà’. E per raccontare al meglio questo scontro, Harrison fa una scelta interessante: prende come protagonisti un essere umano e una Yilané, alternando le vicende dell’uno e dell’altra, e quindi i punti di vista dell’una e dell’altra specie. Da una parte il piccolo Kerrick, che viene catturato dagli Yilané all’inizio del romanzo e condotto nella loro nuova colonia come prigioniero e oggetto di studio; dall’altro Vainté, la governatrice in carica della nuova colonia, con sulle spalle il compito di far crescere la città e sterminare la potenziale minaccia degli umani nativi.
Il risultato, è un’ambientazione e un’atmosfera che hanno pochi eguali nella narrativa fantastica. Sulle fondamenta di un romanzo ‘preistorico’, con protagoniste piccole tribù nomadi che si muovono tra giungle e pianure, sul tipo della saga Earth’s Children di Jean Auel o di The Inheritors di Golding, si innesta il mondo tecnologico degli Yilané, con tutte le sue storie di ambizione, gerarchia sociale, lotte politiche intestine, manipolazioni di DNA. Storie di caccia da una parte, discussioni di urbanistica dall’altra. E a questo si aggiunge il sapore tutto particolare dell’inversione: nel mondo di Harrison, noi uomini siamo la civiltà arretrata, i nativi americani di turno; la specie avanzata sono le lucertole.

Parlando di Kerrick e Vainté ho detto semplicemente “protagonisti” e non “personaggi pov”, ahimè, per una ragione: a Harrison sembra sfuggire completamente – e non solo qui, ma in tutti i suoi romanzo – il concetto di ‘punto di vista’. In West of Eden, la telecamera vive di vita propria e si sposta di luogo in luogo, di testa in testa ogni poche pagine. Il principio è: chiunque sia nel raggio visivo o mentale dell’attuale pov, potrebbe diventare in qualsiasi momento il nuovo pov. Abbiamo quindi le tipiche scene da mal di mare in cui si fa fatica a capire chi stia pensando o vedendo cosa perché la telecamera passa da un personaggio all’altro senza fissarsi a lungo su nessuno.
Abbondano naturalmente i pov usa-e-getta, usati per poche scene o anche una sola volta, in contesti in cui i normali punti di vista di tre o quattro personaggi chiave sarebbero stati sufficienti. Certe scelte sono particolarmente esilaranti nella loro inutilità, come il pov che a un certo punto va per poche righe su una tigre dai denti a sciabola (!), giusto il tempo di far guardare alla suddetta tigre un altro personaggio (umano) e poi passare la telecamera al personaggio suddetto. O ancora, nella seconda metà del libro, all’inizio di un capitolo, viene introdotto il pov di un ragazzino della tribù, con tutto il suo vissuto di sogni, paure, aspirazioni personali, solo per fargli fare una piccola scoperta che porta avanti la trama. Il ragazzino, inutile dirlo, non apparirà più nelle restanti centocinquanta pagine di romanzo.

Tigre dai denti a sciabol

“Mi sembra… mi sembra di vedere… un personaggio-pov!”

Non ci sono dubbi che a tenere la telecamera in mano per tutto il libro sia il Narratore Onnisciente. A volte la sua presenza si fa addirittura (e inutilmente) esplicita, con commenti su cose di cui il pov del momento non potrebbe mai rendersi conto. Ecco per esempio un passaggio con protagonista Kerrick: “If he had been of an introspective turn of mind, he might have compared the movement of the Yilané in their city to that of the ants in their own cities beneath the ground”. Ma nel caso non fossimo del tutto convinti che questo non è il pov di Kerrick, poco oltre l’autore ci tiene a toglierci ogni dubbio: “Not an exact analogy, but a close one that he never even considered”. Grazie, Harry, di questa preziosa precisazione.
La conseguenza di questa gestione criminale del pov è la solita che ormai conosciamo bene: il distacco del lettore. Entrare negli occhi e nella testa di tutti questi personaggi è come non entrare nella testa di nessuno, e infatti leggendo West of Eden sembra di essere un uccello che guarda dall’alto quello che succede, senza farsi coinvolgere. Le emozioni e i pensieri dei personaggi ci vengono continuamente raccontati, anche se quando vuole Harrison sa farli gesticolare in modo efficace. I dialoghi indiretti abbondano, così come i riassuntini di giorni e mesi di avvenimenti. Anche momenti cruciali come le battaglie campali tra le due specie finiscono per essere raccontate succintamente e senza interesse, come in questo passaggio di troisiana mestizia:

The slaughter was terrible, far worse than that of the day before. The hunters fired and fired and screamed with joy as they did. The Yilanè above them were brought down, the corpses of their towering mounts falling and slithering into the deadly chaos below.
[…] Twice more they ambushed the murgu. Twice more trapped them, killed them, disarmed them. And fled. The sun was dropping towards the horizon then as they stumbled up the trail.

Ma questo è il modo in cui Flaubert descriveva le battaglie campali nel suo Salammbò. Da allora alla pubblicazione di West of Eden sono passati quasi centocinquant’anni: non è concepibile che non ci sia stato un progresso.

Dinosauri che minimizzano

Consoliamoci con un’altra presa per il culo dei dinosauri.

Il distacco del lettore è una delle cose peggiori che possa accadere in un romanzo. Il lettore si sente meno coinvolto, si annoia e si distrae più facilmente, e può finire col ritenere la lettura del libro una perdita di tempo. E se questo è già un problema in un romanzo ambientato ai giorni nostri, figurarsi in un setting esotico come quello di West of Eden, in cui il lettore deve spendere più energie (a livello di immaginazione, sforzo intellettuale, emotivo) per immergersi.
Se sto raccontando la storia di Mario, neolaureato in lettere che studia per il concorso pubblico da insegnante, posso anche scrivere alla cazzo di cane, e ugualmente il lettore non farà fatica a mettersi nei suoi panni, e a gioire e soffrire con lui (circa). Ma nel romanzo di Harrison non c’è niente di familiare. Da una parte abbiamo i Tanu che, pur essendo innegabilmente esseri umani, sono però cacciatori-raccoglitori preistorici, con cui non condividiamo molto né come habitat, né come cultura, né come sogni. Dall’altra, abbiamo creature completamente aliene, rettili umanoidi con un modo di pensare, parlare e vivere che non ha molto a che vedere col nostro. Solo una gestione impeccabile del punto di vista e del mostrato potrebbe riuscire a farci percepire come *nostri* i sogni e le paure di queste due specie. Harrison non si pone neanche il problema, e il risultato è che si rimane abbastanza freddi anche quando vediamo i poveri umani massacrati a dozzine.

Il che è un peccato, perché nei personaggi principali di West of Eden c’era molto potenziale. Prendiamo Vainté, la leader degli Yilané coloni. Vainté è caratterizzata da una grande intelligenza, un’ambizione sfrenata e un odio viscerale per tutto ciò che si frappone fra lei e i suoi obiettivi. Da una parte, Vainté sta costruendo la città di Alpe’Asak per il bene della sua gente, per dare il suo contributo al futuro degli Yilané; ma dall’altro, odia il pensiero che un giorno, quando tutti gli abitanti del Vecchio Mondo si saranno spostati nel Nuovo, la governatrice della lontana Inegban la spodesterà e prenderà il posto di comando che le spetta. Per tutto il romanzo, Vainté lavorerà per perseguire il suo doppio obiettivo: far prosperare la città – e quindi ricevere i plausi di Inegban – ma preparare il terreno per non perdere il posto quando il trasferimento sarà effettivo. Al tempo stesso, Vainté prova un disprezzo sconfinato per i disgustosi “ustuzou” – così gli Yilané chiamano i mammiferi – ma una certa ambivalenza e un senso di protezione verso Kerrick, l’umano che ha imparato i costumi e il modo di fare della sua gente. Tutti questi livelli di conflitto (interiore, verso la sua gente, verso gli umani) fanno di Vainté un personaggio assai complesso e interessante.
Anche in Kerrick c’è grande potenziale. E’ l’umano che viene allevato dai rettili; che a mano a mano che impara il linguaggio e la mentalità degli Yilané, perde il ricordo della sua vita da Tanu. Il dramma di Kerrick è quello di non avere più un’identità, non sapere più che cos’è, e quindi non avere più un posto nel mondo. E poi ci sono i personaggi secondari, come Stallan, la spietata comandante dei cacciatori Yilané, che ha giurato alla sua gente che non si fermerà fino a che non avrà estirpato fino all’ultimo essere umano dalla faccia della terra; o Enge, sorella di nidiata di Vainté e Yilané ribelle, che con alcuni compagni ha fondato una religione della non violenza ed è per questo caduta in disgrazia. Tutti questi personaggi, per fortuna, sono sufficientemente interessanti da sopperire alla povertà della prosa di Harrison.

Rettiliani

Giusto giusto… quella dei rettili intelligenti che governano il mondo è solo un’ucronia, no? No?

Ma la cosa più bella di West of Eden è certamente l’ambientazione. Con gli Yilané, Harrison è riuscito a creare una razza davvero aliena. Gli Yilané, per cominciare, non sanno mentire. Il loro linguaggio non è semplicemente un movimento delle corde vocali: ogni parola è fatta anche di movimenti (della testa, delle braccia, del collo) e del tingersi di alcune parti del corpo di certi colori, cosicché ogni conversazione è una danza. Parlare significa esprimere a voce alta ciò che si sta pensando in quel momento, cosicché non si può dire una bugia; l’unico modo che gli Yilané conoscono per celare i propri pensieri, è stare perfettamente immobile e guardare fisso. Se si muovessero, i loro movimenti tradirebbero i loro pensieri e il loro stato d’animo. In conseguenza di ciò, quella degli Yilané è una società estremamente conformista e conservatrice; i cambiamenti sono visti con fastidio e scetticismo; il bene della società prevale sempre su quello del singolo.
Ancora: a causa di questa natura ‘collettivista’, il singolo Yilané non può vivere al di fuori della società. Chi, per un crimine o una mancanza, viene esiliato dalla città, viene stroncato da infarto per lo shock o muore d’inedia pochi giorni dopo. Ancora: poiché nella loro specie sono i maschi a covare le uova, quella Yilané è una società femminista. Solo le femmine della specie godono di pieni diritti, possono muoversi liberamente per la città e rivestire posizioni di comando; gli uomini, creature grasse e torpide, vengono tenuti chiusi in degli harem per proteggerli dai pericoli esterni. Ancora: gli Yilané hanno sviluppato un’avanzatissima tecnologia della manipolazione genetica, ma non usano il fuoco. Di conseguenza, tutti i loro congegni (dall’architettura delle città ai mezzi di trasporto alle armi) sono creature vive e manipolate per servire a uno scopo, mentre non sono capaci di lavorare i metalli. Questo fa sì che la loro tecnologia sia un misto di avanzatissimo – la loro civiltà non conosce malattie perché le hanno debellate tutte a suon di eugenetica – e obsoleto – i loro eserciti ricordano quelli della nostra prima età moderna.

Altrettanto affascinante e ben riuscito è il modo in cui Harrison fa interagire tra loro le due specie – che poi sarebbe il perno del romanzo. Da un lato, Harrison evita di cadere nella morale buonista del “siamo tutti fratelli, perché non possiamo appianare le nostre divergenze e trovare un ragionevole compromesso”, a cui tanti scrittori – anche rispettatissimi, come la LeGuin – hanno ceduto. Dall’altro, adottando il punto di vista di entrambe le specie, non finiamo neanche nell’infantile sciovinismo alla Heinlein, stile: “questi bastardi stanno minacciando i nostri diritti costituzionali! Prendiamoli a calci nel culo fino all’estinzione, hell yeah!!”. Harrison lo pone, invece, quasi come un problema scientifico: come possono due specie del tutto ignare l’una dell’altra che si incontrano all’improvviso, e che non riconoscono l’altro come proprio simile ma come una bestia mostruosa, a trovare un’intesa? A provare gli uni per gli altri qualcosa di diverso da diffidenza, disgusto, odio, desiderio di distruzione totale?
Risposta: non possono. Le due specie sono troppo, troppo diverse per capirsi, o anche solo avviare una trattativa. Gli Yilané, abituati a essere l’unica specie intelligente, si trovano davanti questi primitivi impellicciati che vanno a caccia e grugniscono: pensano di avere davanti degli animali, e gli animali si cacciano, non ci si discute. All’inizio, la reciproca ostilità è data dalla repulsione istintuale per quell’altro che è al tempo stesso simile e diverso: si muovono come noi ma non sono come noi (qualcosa di molto simile, mi sembra, al concetto di uncanny valley della robotica). Nel tempo, questa ostilità assume connotati più razionali: le due specie combattono per lo stesso obiettivo, il possesso di quelle terre di cui entrambi hanno bisogno per sopravvivere. Sono costretti dalle circostanze a combattere.

Uncanny Valley

Diagramma della uncanny valley. Chissà dove si potrebbe collocare uno Yilané.

Se l’approccio di Harrison mi piace tanto, è anche perché sposa le mie convinzioni di determinista alla Jared Diamond. Gli uomini (e le lucertole umanoidi, in questo caso!) possiedono certamente il libero arbitrio, ma le loro possibilità di movimento sono determinate dall’ambiente in cui vivono. Nel romanzo di Harrison, il motore della storia è la Glaciazione che sta arrivando, e che costringerà le due specie a spostarsi e a convergere nello stesso posto.1
Ad un certo punto della storia, attraverso il punto di vista di un cacciatore Tanu, sentiamo sulla nostra pelle la sua disperazione nel realizzare che non c’è più scampo: a nord li attende il gelo perenne e la morte di fame; a ovest non c’è spazio, perché è tutto occupato dalle altre tribù umane, che si spartiscono i territori di caccia; a sud non si può, perché nel mondo di Harrison in cui i dinosauri non si sono mai estinti, le calde fasce equatoriali sono il territorio dei grandi rettili; e a est sono arrivati gli Yilané. Quanti popoli della storia reale – penso per esempio all’età delle Grandi Migrazioni in Europa, alla fine dell’antichità – devono aver provato queste stesse sensazioni, quando infine si decisero a scendere e premere alle mura dell’Impero Romano pur sapendo i rischi a cui andavano incontro?

Il romanzo si sviluppa dunque secondo le tappe di questo conflitto, dal primo contatto, alle prime schermaglie, fino alla guerra totale. In un romanzo così corposo – quasi cinquecento pagine – è un bene che ci sia questo elemento costante a dare direzione alla storia; permette all’autore di non divagare troppo, e al contempo rassicura il lettore che si sta andando a parare da qualche parte. Unito allo spazio ‘claustrofobico’ del romanzo – quel tocco di terra per cui Tanu e Yilané se le danno di santa ragione – dà un centro di gravità alla storia.
Peccato che, anche come architetto di trame, Harrison lasci molto a desiderare. Proprio nell’ultima parte del romanzo, il romanzo divaga dal tema del conflitto tra le due specie, introduce nuovi elementi e nuove sottotrame, parte un po’ per la tangente. Poi torna in carreggiata, ma un po’ della magia iniziale è persa. Il finale appare brusco e improvvisato, e ben poco appagante dopo tutto l’investimento emotivo sui personaggi principali e le cinquecento pagine di build-up. E quindi si chiude il libro con la sensazione di aver letto una storia geniale, sì, ma un po’ incompiuta.

Turok

Se non altro, West of Eden è scientificamente più credibile di Turok.

West of Eden è uno degli esempi più compiuti di commistione tra il fantasy e la fantascienza. La civiltà e la tecnologia degli Yilané sono una pura fantasia senza fondamento, ma Harrison cerca di renderli il più plausibili e attinenti possibili alle leggi fisiche come le conosciamo. Soprattutto, la mentalità che pervade il romanzo, nel descrivere le dinamiche dei gruppi e nel tratteggiare le caratteristiche ambientali di questo mondo, è scientifica e fattuale.
Ucronia, speculazione più fantastica che scientifica, storia di “contatto”, romanzo di guerra, excursus antropologico: West of Eden è tutto questo. Certo, a causa della prosa mongoloide di Harrison solletica la testa più che il cuore; e viene a volte da pensare: “Cristo, non potevano fargli fare il layout generale della trama e dei personaggi e poi commissionare la stesura a un altro più capace?”. Ma rimane comunque un grande romanzo, per l’incredibile ambizione e per l’immaginazione folle. Consigliato? Se avete sufficiente tempo libero, sì. Leggetevi i primi due capitoli, e decidete da voi se siete abbastanza presi da andare avanti.

Dove si trova?
In lingua originale, West of Eden si può scaricare senza problemi sia su BookFinder che su Library Genesis; in entrambi i casi è disponibile solo il formato pdf. Per la versione italiana, cercate “L’era degli Yilané” su Emule.

Su Harry Harrison
Anche negli Stati Uniti, Harrison è sempre stato considerato uno scrittore di serie B, un autore da “addetti ai lavori”. Conosciuto quand’era in vita soprattutto per le sue opere di fantascienza umoristica – la serie di The Stainless Steel Rat, il romanzo breve The Technicolor Time Machine – oggi viene ricordato per le sue poche opere ‘serie’. Oltre a West of Eden, ho letto altri due dei suoi romanzi:
Make Room! Make Room! Make Room! Make Room! (Largo! Largo!) è la risposta alla domanda: “cosa succederebbe se la popolazione mondiale crescesse in modo talmente incontrollato da far crollare la società così come la conosciamo?”. In una New York in cui la gente vive in miseria ammucchiata sulle strade e nelle palazzine diroccate, si intrecciano le vite di tre persone normali: un poliziotto, una ex prostituta e un ragazzino che ha ammazzato la persona sbagliata. Pur azzoppato dall’uso del narratore onnisciente e da problemi strutturali, è un romanzo che ti rapisce. Senti sulla pelle tutta la merda che quotidianamente viene schiaffata addosso ai personaggi. Un piccolo capolavoro su cui scriverò prima o poi un Consiglio; ma la lettura è sconsigliata quando si è depressi.
A Transatlantic Tunnel, Hurrah!A Transatlantic Tunnel, Hurrah! (noto anche con il titolo di Tunnel Through the Deeps) è un romanzo proto-steampunk ambientato in un mondo in cui gli Stati Uniti hanno perso la Guerra d’Indipendenza e l’Impero Britannico governa sulle due sponde dell’Atlantico. L’umanità si appresta a costruire l’opera più grande di tutti i tempi: un tunnel ferroviario sotterraneo che passa sotto l’oceano da un capo all’altro, collegando Londra e New York; ma l’ingegnere Augustine Washington, a capo del progetto, dovrà vedersela con infiniti problemi tecnici, un rivale invidioso,misteriosi sabotatori e una melodrammatica storia d’amore. Il romanzo è una sorta di Hard SF steampunk, tutta incentrata sul funzionamento della tecnologia di questo strano mondo e sul problem solving della costruzione del tunnel; personaggi e trama sono piatti come carta velina, e poco più che una scusa per imbastire speculazioni tecniche. Un libro per super-nerd col pallino per lo steampunk (un decennio prima che il genere nascesse!).
Spinto dal successo del libro originale, Harrison ha scritto anche due seguiti di West of Eden: Winter in Eden e Return to Eden. Come sapete però non sono un amante dei sequel; e ciò che il mondo di Eden aveva da dire, l’ha già detto nel primo romanzo. Non penso valga la pena di leggere i seguiti.

Qualche estratto
Dato che il romanzo è enorme, ho scelto la bellezza di tre estratti. Consiglio a tutti di leggere almeno il primo: cronologicamente è quello più avanti di tutti, ma sintetizza bene il tema centrale del romanzo. Il cacciatore Ulfadan, al confine tra la foresta e la terra dei “murgu” (i lucertoloni giganteschi che infestano le pianure tropicali), riflette sul destino dei Tanu, chiusi da tutti i lati da pericoli troppo grandi e condannati all’estinzione se non faranno qualcosa.
Il secondo brano, tratto dal primo capitolo, mostra il primo incontro tra Tanu e Yilané, ed è uno dei momenti più felici e “mostrati” della prosa di Harrison. All’opposto, il terzo brano – preso dal secondo capitolo – è un esempio di Harrison al suo peggio: telecamera neutra che mostra una serie di strane creature al servizio degli Yilané. Di per sé la scena – che è la prima esibizione della tecnologia genetica yilané del romanzo – sarebbe molto affascinante, ma è parecchio confusionaria dato che Harrison non la aggancia ad alcun personaggio-pov.

1.
But the sammad must eat. Yet the food they searched and hunted for was growing scarcer and scarcer. The world was changing and Ulfadan did not know why. The alladjex told them that ever since Ermanpadar had shaped Tanu from the mud of the river bed the world had been the same. In the winter they went to the mountains where the snow lay deep and the deer were easy to kill. When the snow melted in the spring they followed the fast streams down to the river, and sometimes to the sea, where fish leaped in the water and good things grew in the earth. Never too far south though, for only murgu and death waited there. But the mountains and the dark northern forests had always provided everything that they had needed.
This was no longer true. With the mountains now wrapped in endless winter, the herds of deer depleted, the snow in the forests lying late into the spring, their timeless sources of food were no more. They were eating now, there were fish enough in the river at this season. They had been joined at their river camp by sammad Kellimans; this happened every year. It was a time to meet and talk, for the young men to find women. There was little of this now for although there was enough fish to eat there was not enough to preserve for the winter. And without this supply of food very few of them would see the spring.
There was no way out of the trap. To the west and east other sammads waited, as hungry as his and Kellimans’. Murgu to the south, ice to the north – and they were trapped between them. No way out. Ulfadan’s head was bursting with this problem that had no solution. In agony he wailed aloud like a trapped animal, then turned and made his way back to the sammad.

2.
They became aware that someone was standing under a nearby tree, also looking out over the bay. Another hunter perhaps. Amahast had opened his mouth to call out when the figure stepped forward into the sunlight. The words froze in his throat; every muscle in his body locked hard.
No hunter, no man, not this. Man-shaped but repellently different in every way.
The creature was hairless and naked, with a colored crest that ran across the top of its head and down its spine. It was bright in the sunlight, obscenely marked with a skin that was scaled and multicolored.
A marag. Smaller than the giants in the jungle, but a marag nevertheless. Like all of its kind it was motionless at rest, as though carved from stone. Then it turned its head to one side, a series of small jerking motions, until they could see its round and expressionless eye, the massive out-thrust jaw. They stood, as motionless as murgu themselves, gripping their spears tightly, unseen, for the creature had not turned far enough to notice their silent forms among the trees.
Amahast waited until its gaze went back to the ocean before he moved. Gliding forward without a sound, raising his spear. He had reached the edge of the trees before the beast heard him or sensed his approach. It snapped its head about, stared directly into his face.
The hunter plunged the stone head of his spear into one lidless eye, through the eye and deep into the brain behind. It shuddered once, a spasm that shook its entire body, then fell heavily. Dead before it hit the ground. Amahast had the spear pulled free even before that, had spun about and raked his gaze across the slope and the beach beyond. There were no more of the creatures nearby.
Kerrick joined his father, standing beside him in silence as they looked down upon the corpse.
It was a crude and disgusting parody of human form. Red blood was still seeping from the socket of the destroyed eye, while the other stared blankly up at them, its pupil a black, vertical slit. There was no nose; just flapped openings where a nose should have been. Its massive jaw had dropped open in the agony of sudden death to reveal white rows of sharp and pointed teeth.
“What is it?” Kerrick asked, almost choking on the words.
“I don’t know. A marag of some kind. A small one, I have never seen its like before.”
“It stood, it walked, like it was human, Tanu. A marag, father, but it has hands like ours.”
“Not like ours. Count. One, two, three fingers and a thumb. No, it has only two fingers —and two thumbs.”
Amahast’s lips were drawn back from his teeth as he stared down at the thing. Its legs were short and bowed, the feet flat, the toes claw-tipped. It had a stumpy tail. Now it lay curled in death, one arm beneath its body.

3.
The enteesenat cut through the waves with rhythmic motions of their great, paddle-like flippers. One of them raised its head from the ocean, water streaming higher and higher on its long neck, turning and looking backward. Only when it caught sight of the great form low in the water behind them did it drop beneath the surface once again.
There was a school of squid ahead—the other enteesenat was clicking with loud excitement, Now the massive lengths of their tails thrashed and they tore through the water, gigantic and unstoppable, their mouths gaping wide. Into the midst of the school.
Spurting out jets of water the squid fled in all directions. Most would escape behind the clouds of black dye they expelled, but many of them were snapped up by the plate- ridged jaws, caught and swallowed whole. This continued until the sea was empty again, the survivors scattered and distant. Sated, the great creatures turned about and paddled slowly back the way they had come.
Ahead of them an even larger form moved through the ocean, water surging across its back and bubbling about the great dorsal fin of the uruketo. As they neared it the enteesenat dived and turned to match its steady motion through the sea, swimming beside it close to the length of its armored beak. It must have seen them, one eye moved slowly, following their course, the blackness of the pupil framed by its bony ring. Recognition slowly penetrated the creature’s dim brain and the beak began to open, then gaped wide.
One after another they swam to the wide open mouth and pushed their heads into the cave-like opening. Once in position they regurgitated the recently caught squid. Only when their stomachs were empty did they pull back and spin about with a sideways movement of their flippers. Behind them the jaws closed as slowly as they had opened and the massive bulk of the uruketo moved steadily on its way.
Although most of the creature’s massive body was below the surface, the uruketo’s dorsal fin projected above its back, rising up above the waves. The flattened top was dried and leathery, spotted with white excrement where sea birds had perched, scarred as well where they had torn the tough hide with their sharp bills. One of these birds was dropping down towards the top of the fin now, hanging from its great white wings, webbed feet extended. It squawked suddenly, flapping as it moved off, startled by the long gash that had appeared in the top of the fin. This gap widened, then extended the length of the entire fin, a great opening in the living flesh that widened further still and emitted a puff of stale air.
The opening gaped, wider and wider, until there was more than enough room for the Yilanè to emerge. It was the second officer, in charge of this watch.

Tabella riassuntiva

Immagina cosa sarebbe successo se i rettili avessero ereditato la terra! Ignora le più basilari regole di gestione del pov.
Gli Yilané sono creature realmente aliene. Difficoltà a immergersi nei personaggi e nei loro drammi.           .
Interazione drammatica e realistica tra le due specie. Si ammoscia nell’ultima parte.
Protagonisti complessi e conflittuali.


(1) Sarebbe ragionevole pensare che è assurdo che una civiltà avanzata come quella Yilané non abbia ancora colonizzato i quattro angoli del globo. Anch’io, all’inizio, la credevo un’ingenuità dell’autore. In realtà, Harrison l’ha pensata bene.
Primo: gli Yilané, in quanto animali a sangue freddo, soffrono il gelo ancor più che gli uomini. Di conseguenza, non si sono mai avventurati ai poli del pianeta, né, sembra, nelle aree più settentrionali delle fasce temperate. Ed è proprio qui che vivono gli esseri umani. In un mondo in cui i grandi rettili non si sono mai estinti, infatti, pare che la maggior parte dei mammiferi abbia trovato la propria nicchia ecologica negli unici luoghi non raggiungibili dai rettili.
Secondo: per costituzione – sia biologica che culturale – gli Yilané sono, come già avevo accennato, ostili al cambiamento. Non hanno la stessa spinta di curiosità degli esseri umani (se non in singoli individui isolati), e il loro bisogno fisico di stare in armonia con la comunità fa sì che non ci siano molte spinte verso l’esterno. Di conseguenza, gli Yilané sono stati perfettamente felici di vivere chiusi nelle proprie super-città al calduccio senza alcun desiderio di uscire a esplorare il resto del pianeta, finché non sono stati costretti da necessità contingenti – la Glaciazione, appunto.Torna su

Gli Dei di Mosca su Vaporteppa

Gli Dei di MoscaGli Dei di Mosca, traduzione italiana di Dancing with Bears di Michael Swanwick, è uscito ieri per la collana Vaporteppa del Duchino. Potete leggere la notizia sul sito di Vaporteppa.
L’e-book si può acquistare su Ultima Books (in ePub o mobi, il formato proprietario del kindle), su Amazon (solo mobi) e sulle altre librerie online collegate a Stealth. Il costo è di 4,99 Euro: un prezzo assolutamente abbordabile, considerando che l’e-book di un romanzo come Zombies and Shit di Mellick in lingua originale – più corto di un cinquanta pagine buone, e senza i costi di traduzione sul groppone – viene messo su Amazon a 5,95 Euro, un Euro in più. Personalmente, credo che aspetterò la versione cartacea che uscirà tra un paio di settimane: avendo già letto il romanzo in lingua originale, la cosa che mi interessa di più è – narcisisticamente – poter esporre Gli Dei di Mosca nella mia polverosa libreria.

Ho già scritto nel precedente articolo di come trovi questa de Gli Dei di Mosca una scelta azzeccata per inaugurare la narrativa di Vaporteppa. Ecco il commento il Duchino in proposito:

Scegliere un romanzo di Swanwick ha significato sottoporsi a costi molto maggiori rispetto a un romanzo italiano. Non lo abbiamo fatto perché speriamo di guadagnare “di più” (anche se evitare di andare in passivo non ci farebbe schifo), ma perché questo titolo rappresenta bene quel tono un po’ cialtrone e quelle ambientazioni vagamente ottocentesche che vorrei vedere nelle future opere di Vaporteppa.
In più Swanwick è un autore, come ricordato pochi giorni fa anche sul blog di Urania (che ringrazio per aver messo in eBook Ossa della Terra), che NON ha la giusta diffusione e il giusto riconoscimento in Italia. Solo alcuni dei suoi romanzi sono stati tradotti e questo, il meno fantastico/fantascientifico, non lasciava presagire speranze di apparire dopo quasi tre anni dalla pubblicazione originale… o lo portavamo noi o chissà quando sarebbe apparso!

Insomma, il Duca ha fatto ciò che avevo sempre chiesto e desiderato da quando esiste Tapirullanza: che gli editori italiani la smettessero di importare solo (o quasi) merda e aprissero gli occhi anche a quei tanti piccoli capolavori o romanzi curiosi – benché di nicchia – che facevano capolino nel mare di melma della narrativa. Oggi è successo. Capite quindi che è anche nel mio interesse che Vaporteppa viva e prosperi negli anni a venire: perché altri e altri bei romanzi ancora vengano portati in Italia o nascano, ancora meglio, in italiano.
La sorpresa più grande, però, doveva ancora arrivare. Come sapete seguo regolarmente Flogging Babel, il blog di Michael Swanwick. E cosa mi spunta fuori sul feed ieri sera, se non proprio questo breve articolo dell’illustrissimo che commenta la copertina del romanzo?

This is, I believe, the best version of Surplus to date. Check out that expression!  His marks don’t normally get to see this aspect of him. And this is the first attempt to capture the likeness of Aubrey Darger I’ve ever seen. Artist Manuel Preitano captures, I believe, the quintessential Britishness of him.

Quale soddisfazione migliore ci potrebbe essere delle lodi personali dell’autore?

OK, time to move on: Gli Dei di Mosca è uscito. Ora posso solo sperare che il catalogo si arricchisca nelle settimane e mesi a venire con nuovi titoli, magari anche di inediti italiani.
Nel frattempo, come combattere la noia? Che domande. Con il Goat Simulator!


Trailer ufficiale di Goat Simulator.

Bonus Track: Black Easter / The Day After Judgement

Black EasterAutore: James Blish
Titolo italiano: Pasqua nera
Genere: Horror / Apocalyptic Fantasy
Tipo: Romanzo

Anno: 1968
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 176

Difficoltà in inglese: **

 

Autore: James BlishThe Days After Judgement
Titolo italiano: L’apocalisse e dopo
Genere: Horror / Post-Apocalyptic Fantasy
Tipo: Romanzo

Anno: 1971
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Pagine: 172

Difficoltà in inglese: ***

“I have never seen [a novel] which dealt with what real sorcery actually had to be like if it existed, although all the grimoires are explicit about the matter. Whatever other merits this book may have, it neither romanticizes magic nor treats it as a game.”

Theron Ware è uno degli ultimi grandi maghi neri della nostra epoca. Isolato dal mondo nel suo palazzo di Positano, si mantiene vendendo le sue capacità a facoltosi clienti. Ma capisce subito che qualcosa di nuovo è nell’aria quando alla sua porta si presenta Mr. Baines, mercante d’armi in giacca e cravatta, con la richiesta di far uccidere con discrezione il Governatore della California. Baines lo sta solo mettendo alla prova: vuole capire quali siano i reali poteri di Ware prima di metterlo a parte del suo vero, ambiziosissimo progetto.
Ma il loro incontro non è passato inosservato. Dalle pendici di Monte Albano, dove vive in ritiro perenne l’ultimo ordine monastico di maghi bianchi, Padre Domenico si prepara, col beneplacito dei suoi confratelli, a partire alla volta di Positano. Il Patto sancito nella notte dei tempi tra maghi bianchi e neri proibisce ai monaci di interferire in alcun modo con i rituali, ma Padre Domenico intende assistere con i propri occhi all’evocazione. I presagi dicono infatti che è dalla nascita di Theron Ware che gli Inferi attendono il suo incontro con Baines, e che la sciagura che si sta preparando è tale che non se n’è mai vista una uguale nella storia del mondo…

Il Consiglio di settimana scorsa era dedicato a un’apocalisse del tutto possibile e a una speculazione fantascientifica su ciò che avrebbe potuto realisticamente succedere dopo. Con i due brevi romanzi di Blish, invece, entriamo in pieno territorio Fantasy. Cosa succederebbe, se la magia nera contenuta nei grimori medievali fosse reale, e se davvero un mago bene addestrato potesse evocare demoni e legarli a sé con un contratto? E se trasportassimo quest’arte occulta nel moderno mondo degli affari? Nelle mie letture sono sempre alla ricerca di modi nuovi di interpretare la “magia” e i sistemi magici, e la concezione prettamente malvagia e demoniaca che troviamo in questi due libri, unita all’ambientazione moderna, è una variante insolita nel panorama della narrativa Fantasy contemporanea.
Le due opere di Blish sono, di fatto, un unico romanzo in due parti, e andrebbero lette di fila. Black Easter ci racconta cosa succede quando un potente uomo d’affari dall’ambizione smodata incontra l’ultimo grande mago nero della nostra epoca. The Day After Judgement inizia nel momento esatto in cui il primo finisce, e si concentra sulle conseguenze delle azioni compiute dai protagonisti nel primo libro.1 In seguito i due romanzi sono stati anche raccolti, in lingua inglese, nell’omnibus The Devil’s Day.

Mago nero Yugioh

Il mago nero dei romanzi di Blish potrebbe non corrispondere.

Uno sguardo approfondito
C’è qualcosa di affascinante nell’architettura narrativa chiamata crogiolo: un numero limitato di personaggi si trovano, più o meno per costrizione, a vivere a stretto contatto in un ambiente chiuso. Questa situazione di ‘contatto obbligato’ crea tutta una rete di rapporti e microconflitti tra i personaggi, col doppio scopo di approfondire ciascuno di essi e mantenere un continuo livello di tensione. È questo il modo in cui è strutturato Black Easter, in cui il limitato cast di personaggi converge verso il palazzo di Positano dove i rituali oscuri dovranno essere celebrati.
E mentre il romanzo procede, con un crescente lento ma costante, verso lo svelamento finale del piano perverso che Baines vuole mettere in atto con l’aiuto delle arti oscure di Ware, l’attenzione del lettore è impegnata dal fitto interplay dei personaggi e dalle loro sottotrame. Abbiamo per esempio il conflitto interiore di Padre Domenico, combattuto tra la necessità di rispettare il Patto e non intervenire – se lo rompesse, i monaci dell’ordine non sarebbero più protetti dagli attacchi dei demoni – e l’odio per la propria impotenza, oltre al suo domandarsi perché Dio permetta tutto questo (insomma, il solito problema del male cristiano); o quello del Dr. Hess, lo scienziato al servizio di Baines da questi chiamato per studiare le tecniche di Ware, ma che è un ateo e uno scettico, e non può risolversi a credere che le arti oscure siano reali; o quello di Jack Ginsberg, il segretario di Baines, uomo gelido e riservato ma debole, che vive per ottenere la stima del suo capo e degli altri, e che sarebbe disposto ad apprendere la magia di Ware per soddisfare le sue passioni private, non importa quale sia il prezzo. E infine, il conflitto dello stesso Theron Ware, tra il suo amore per la conoscenza, il suo desiderio di spingere sempre oltre l’audacia dei suoi rituali, e il terrore che portando a termine il disegno di Baines farà qualcosa di irreparabile per il genere umano.2

Il fascino di tutti questi livelli di conflitto è amplificato dalla totale ambiguità morale dell’ambientazione. Non ci sono personaggi davvero positivi, nei due romanzi di Blish, ciascuno è mosso dalle sue ambizioni personali o dal basso ventre; anche i monaci di Monte Albano, che dovrebbero incarnare i ‘buoni’, sono un tipo molto particolare di buoni, considerando che sono costretti a una quasi totale inazione. La stessa magia, in quanto legata ai demoni della tradizione cristiana, è intrinsecamente intrisa di crudeltà e piccole meschinità, è disgustosa nei rituali ed essenzialmente votata a fare del male.
Altra scelta interessante, nei due libri non c’è un vero protagonista. La storia è raccontata in terza persona, con tipico pov-a-cazzo che passa da un personaggio all’altro di capitolo in capitolo, senza preferenze particolari per l’uno o per l’altro, non di rado scivolando nell’onnisciente. Benché si possa dire che Theron Ware e Baines siano i motori della storia e quindi i personaggi principali, il segretario Jack Ginsberg appare sotto i riflettori per almeno altrettanto tempo. Inoltre il punto di vista scende raramente nella testa dei personaggi, assumendo per lo più il ruolo della telecamera neutra. Sta quindi al lettore scegliere in quali punti di vista identificarsi maggiormente, a chi dare ragione, per chi parteggiare.

Clavicula Salomonis

Pentacolo maggiore della Clavicula Salomonis. Diffidate dalle imitazioni.

Il principale motivo di interesse dei romanzi di Blish è però il modo in cui viene rappresentata la magia. Da una parte, abbiamo un’interpretazione fedele della metodologia dei grimori (che Blish deve aver studiato nel dettaglio, dall’Ars Magna di Raimondo Lullo alla Clavicula Salomonis): le gerarchie di marchesi e principi e presidenti dell’Inferno, le procedure estenuanti e senza un’apparente logica da seguire alla lettera, invocazioni di decine di nomi demoniaci (rigorosamente in maiuscolo) come SATAN MEKRATRIG o LUCIFUGE ROFOCALE, l’obbligo di fare certe cose in certi giorni e a certe ore rivolti verso certi punti cardinali, i sacrifici, gli oggetti rituali da forgiare e incantare personalmente. E i demoni appaiono fin troppo reali e pericolosi: un singolo passo falso durante un rituale di evocazione, e la creatura evocata potrebbe dilaniarci e divorarci vivi.
Al tempo stesso, è bello vedere una simile ritualità calata ai tempi nostri, in mezzo a uomini d’affari e scienziati scettici. L’arte di Theron Ware è un corpo di discipline oggettivo, che chiunque con la giusta dedizione e i nervi saldi potrebbe apprendere, e che potrebbe persino essere paragonata al metodo scientifico (benché parta da premesse opposte). Uno dei passaggi più interessanti di Black Easter è proprio quando Ware mostra il suo ‘laboratorio’ al Dr. Hess, e si lancia in una discussione su affinità e divergenze tra la magia nera e l’approccio scientifico.

Purtroppo, il fascino dell’opera scema quando il conflitto assume proporzioni cosmiche, e si passa dai piccoli e meschini drammi umani ai massimi sistemi della religione cristiana. Il problema principale dei romanzi di Blish – come già avevo mostrato in questo articolo dedicato, tra gli altri, a A Case of Conscience – è sempre stata la costruzione della trama, che si perde a metà strada e non riesce a costruire un finale solido.
Anche Black Easter e The Day After Judgement non fanno eccezione: in entrambi i casi, il climax narrativo culmina in un finale certamente epico, ma tronco, e si ha la sensazione che Blish non sapesse più cosa dire. L’ambizioso affresco morale si risolve in una tesi abbastanza generica e cinica sulla natura umana, sulla sua ambizione e sui suoi bassi istinti. L’epilogo miltoniano di The Day After Judgement potrà forse regalare un orgasmo agli amanti dell’epica cristologica rinascimentale, ma è poco soddisfacente per la maggior parte di noi lettori di narrativa di genere.

James Blish

“Blah, blah, ho letto Milton, non sono mica uno di quegli scrittori di fantascienza ‘gnoranti che leggete di solito”

A questo senso di incompiutezza si aggiunge la generale sciatteria stilistica tipica della narrativa fantastica di quegli anni. Anche se all’occorrenza Blish sa come far muovere e gesticolare i suoi personaggi per trasmettere le loro emozioni, troppo spesso si abbandona per pigrizia a raccontare il loro stato d’animo. L’abuso del tell diventa particolarmente opprimente negli infodump, che Blish utilizza di continuo e in modo goffissimo per spiegarci la sua ambientazione e i suoi personaggi, a volte andando avanti per righe e righe. Ecco ad esempio come, all’inizio del primissimo capitolo, l’autore ci introduce a Monte Albano e ai suoi monaci:

Demons were not welcome visitors on Monte Albano, where the magic practiced was mostly of the kind called Transcendental, aimed at pursuit of a more perfect mystical union with God and His two revelations, the Scriptures and the World. But occasionally, Ceremonial magic – an applied rather than a pure art, seeking certain immediate advantages – was practiced also, and in the course of that the White Monks sometimes called down a demiurge, and, even more rarely, raised up one of the Fallen.

Unito alla gestione sbarellata del pov, il risultato è terribile. Data la brevità dei due romanzi, Blish avrebbe certamente potuto spendere qualche capitolo in più per presentare il suo mondo in modo più immersivo e naturale.

Come romanzi, Black Easter e The Day After Judgement sono un parziale fallimento. La storia parte forte e cresce bene; i personaggi sono suggestivi, l’atmosfera affascinante e atipica; ma tutto questo build-up non porta da nessuna parte e il lettore finisce col sentirsi tradito. Di conseguenza, non mi sentirei di consigliare tout-court quest’opera in due parti.
L’opera di Blish merita tuttavia di essere ricordata per almeno due ragioni:
1. Per aver ripreso i canoni della magia evocativa medievale e averla trasportata ai giorni nostri. Questo stesso connubio sarà ripreso con risultati più felici dalla serie di JRPG Shin Megami Tensei, a cui dedicherò un articolo a breve.
2. Per l’atmosfera cupa, di sovrannaturalità e morte, che ha saputo ricucire attorno al concetto di “magia”. Nel Fantasy contemporaneo, la magia è ormai diventata perlopiù qualcosa di mondano, abituale, piacevole; nei romanzi di Blish torna ad essere – come un tempo doveva essere percepita da chi ci credeva – come qualcosa di terribile, che può ucciderti per un istante di distrazione o dannarti l’anima per l’eternità, qualcosa di alieno, qualcosa con cui è meglio non avere a che fare perché “i mortali non sono nati per servirsene”.
L’aspirante scrittore di fantasy dovrebbe fare tesoro di queste ispirazioni quando progetterà il suo personalissimo sistema magico.

Decarabia

Il demone Decarabia secondo Shin Megami Tensei. Awwww ma che carino!

Dove si trovano
In lingua originale, Black Easter si può scaricare sia su Library Genesis che su BookFinder in formato pdf, mentre The Day After Judgement si trova solamente su BookFinder in formato .rar.

Qualche estratto
Volendo evitare spoiler troppo in là nella storia, entrambi i brani che seguono sono presi da Black Easter. Il primo estratto è tratto dal primo incontro fra Mr. Baines e Theron Ware, e stabilisce le basi della magia nera e del loro rapporto d’affari; il secondo è invece preso da una delle sedute di evocazione, quando il gruppo tenta di evocare il demone MARCHOSIAS perché provochi la morte di un innocente.

1.
The magician said, “No, I can’t help you to persuade a woman. Should you want her raped, I can arrange that. If you want to rape her yourself, I can arrange that, too, with more difficulty-possibly more than you’d have to exert on your own hook. But I can’t supply you with any philters or formulae. My specialty is crimes of violence. Chiefly, murder.”
Baines shot a sidelong glance at his special assistant, Jack Ginsberg, who as usual wore no expression whatsoever and had not a crease out of true. It was nice to be able to trust someone. Baines said, “You’re very frank. “
“I try to leave as little mystery as possible,” Theron Ware – Baines knew that was indeed his real name – said promptly. “From the client’s point of view; black magic is a body of technique, like engineering. The more he knows about it, the easier I find it makes coming to an agreement.”
“No trade secrets? Arcane lore, and so on?”
“Some-mostly the products of my own research, and very few of them of any real importance to you. The main scholium of magic is ‘arcane’ only because most people don’t know what books to read or where to find them. Given those books-and sometimes, somebody to translate them for you-you could learn almost everything important that I know in a year. To make something of the material, of course, you’d have to have the talent, since magic is also an art. With books and the gift, you could become a magician-either you are or you aren’t, there are no bad magicians, any more than there is such a thing as a bad mathematician-in about twenty years. If it didn’t kill you first, of course, in some equivalent of a laboratory accident. It takes that long, give or take a few years, to develop the skills involved. I don’t mean to say you wouldn’t find it formidable, but the age of secrecy is past. And really the old codes were rather simpleminded, much easier to read than, say, musical notation. If they weren’t, well, computers could break them in a hurry.”
Most of these generalities were familiar stuff to Baines, as Ware doubtless knew. Baines suspected the magician of offering them in order to allow time for himself to be studied by the client. […]
“Of course, it’s also faster if my clients are equally frank with me.”
“I should think you’d know all about me by now,” Baines said.
“Oh, Dun and Bradstreet,” Ware said, “newspaper morgues, and of course the grapevine – I have all that, naturally. But I’ll still need to ask some questions.”
“Why not read my mind?”
“Because it’s more work than it’s worth. I mean your excellent mind no disrespect, Mr. Baines. But one thing you must understand is that magic is hard work. I don’t use it out of laziness, I am not a lazy man, but by the same token I do take the easier ways of getting what I want if easier ways are available.”
“You’ve lost me.”
“An example, then. All magic – I repeat, all magic, with no exceptions whatsoever-depends upon the control of demons. By demons I mean specifically fallen angels. No lesser class can do a thing for you. Now, I know one such whose earthly form includes a long tongue. You may find the notion comic.”
“Not exactly.”
“Let that pass for now. In any event, this is also a great prince and president, whose apparition would cost me three days of work and two weeks of subsequent exhaustion. Shall I call him up to lick stamps for me?”
“I see the point.”

Marchosias

Una delle tante raffigurazioni di Marchosias, marchese infernale, secondo l’Ars Goetia.

2.
 Ware reappeared, carrying a sword. He entered the circle, closed it with the point of the sword, and proceeded to the central square, where he lay the sword across the toes of his white shoes; then he drew the wand from his belt and unwrapped it, laying the red silk cloth across his shoulders.
“From now on,” he said, in a normal, even voice, “no one is to move.” From somewhere inside his vestments he produced a small crucible, which he set at his feet before the recumbent sword. Small blue flames promptly began to rise from the bowl, and Ware cast incense into it.
He said: “Holocaust. Holocaust. Holocaust.” The flames in the brazier rose slightly.
“We are to call upon MARCHOSIAS, a great marquis of the Descending Hierarchy,” Ware said in the same conversational voice. “Before he fell, he belonged to the Order of Dominations among the angels, and thinks to return to the Seven Thrones after twelve hundred years. His virtue is that he gives true answers. Stand fast, all.”
With a sudden motion, Ware thrust the end of his rod into the surging flames of the brazier. At once the air of the hall rang with a long, frightful chain of woeful howls. Above the bestial clamor, Ware shouted:
“I adjure thee, great MARCHOSIAS, as the agent of the Emperor LUCIFER, and of his beloved son LUCIFUGE ROFOCALE, by the power of the pact I have with thee, and by the Names ADONAY, ELIOM, JEHOVAM, TAGLA, MATHON, ALMOUZIN, ARIOS, PITHONA, AGOTS, SYLPHAE, TABOTS, SALAMANDRAE, GNOMUS, TERRAE, COELIS, GODENS, AQUA, and by the whole hierarchy of superior intelligences who shall constrain thee against thy will, venite, venite, submiritillor MARCHOSIAS!”
The noise rose higher, and a green steam began to come off the brazier. It smelt like someone was burning hart’s horn and fish gall. But there was no other answer. His face white and cruel, Ware rasped over the tumult:
“I adjure thee, MARCHOSIAS, by the pact, and by the Names, appear instanter” He plunged the rod a second time into the flames. The room screamed; but still there was no apparition.
“Now I adjure thee, LUCIFUGE ROFOCALE, whom I command, as the agent of the Lord and Emperor of Lords, send me thy messenger MARCHOSIAS, forcing him to forsake his hiding place, wheresoever it may be, and warning thee–” The rod went back in the fire. Instantly, the palazzo rocked as though the earth had moved under it.
“Stand fast” Ware said hoarsely. Something Else said.
HUSH, I AM HERE. WHAT DOEST THOU SEEK OF ME? WHY DOEST THOU DISTURB MY REPOSE? LET MY FATHER REST, AND HOLD THY ROD.

Tabella riassuntiva

La magia dei grimori medievali trasportata ai giorni nostri! Scrittura sciatta e gestione approssimativa del pov.
Personaggi complessi e in conflitto tra loro. Finali inconcludenti.
Buona gestione del crescendo verso il climax finale.


(1) Inizialmente Blish aveva concepito solo il primo libro, ma il finale aperto il discreto successo di Black Easter spinse gli editori a commissionargli la continuazione. The Day After Judgement fu pubblicato tre anni dopo il primo libro.Torna su


(2) Questa struttura a ‘crogiolo’ purtroppo si rompe in The Day After Judgement, che infatti non riesce ad essere affascinante e tensivo quanto il primo libro. I personaggi sopravvissuti si separano, e ognuno (assieme alle new entries del secondo romanzo) persegue la propria quest personale per conto proprio.Torna su